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Un decennio senza Bettino

Occorre ancora “una radicale ristrutturazione del sistema politico italiano in conformità con il modello delle grandi democrazie europee”

di Filippo Curtosi

garofano
il Garofano, simbolo del PSI

Il 19 gennaio ricorre il decimo anniversario della morte di Bettino Craxi in Tunisia, ad Hammamet. Per il mio amico Giuliano Ferrara Craxi “è stato un uomo di stato, un uomo politico enorme, leale, morto in esilio secondo la volontà farisaica dei suoi nemici. Un socialista autonomista, scrive Ferrara sul Foglio, cresciuto alla scuola disordinata e generosa di Pietro Nenni”. Insomma secondo il Direttore del Foglio e amico del leader del vecchio Psi, questi ha rappresentato come dire il genio tattico, il Socialismo garibaldino con una visione liberale. Nel 1989 in occasione del 45 congresso nazionale socialista, Bettino Craxi pubblicò l’introduzione di un volume “I socialisti verso il 2000” nella quale dichiarò che occorreva “una radicale ristrutturazione del sistema politico italiano in conformità con il modello delle grandi democrazie europee, dove i partiti socialisti sono la forza trainante dello schieramento riformatore”.

Quelle di Craxi erano affermazioni che oggi, a distanza di quasi 20 anni abbiamo trovato prima sulla bocca di Prodi (che fu ministro dell’Industria di un governo guidato dall’esule di Hammamet) da D’Alema ed anche da Fini e da Achille Occhetto, l’ultimo segretario del Pci, autore della svolta della” Bolognina”. Dice Occhetto nell’intervista alla Stampa del 6 gennaio scorso: “All’inizio della sua segreteria Craxi svolse un’azione positiva contro i rischi di consociativismo tra l’allora partito comunista e la democrazia cristiana tendente a porre le basi per una politica di alternativa, e li, poi fu colpa del Pci che non seppe cogliere quel momento felice della sua azione (…) dopo la svolta della Bolognina andai da Bettino. Gli chiesi, visto che c’erano molte tensioni se si potesse tentare di ricostruire intorno alle nostre famiglie l’unità. Gli proposi, di fare insieme opposizione. Lui mi rispose che,certo,sarebbe stata una cosa buona,ma che se andava fuori anche un solo giorno i suoi lo avrebbero fatto fuori”. Manca poco più di una settimana al decennale della morte di Bettino. Il suo oppositore più irriducibile fu Eugenio Scalari, il fondatore de “la Repubblica” di cui chi scrive è fedele lettore da sempre e che quando il segretario del vecchio Psi era l’uomo più potente d’Italia ha avuto il coraggio di criticarlo in maniera pesante e pubblica con una serie di interventi che vanno dal 1983 al 1992 ed apparsi sull’Avanti e che il direttore del giornale socialista Antonio Ghirelli pubblicava regolarmente con lo peseudonimo di Pannaconi provincia di Catanzaro. In questi giorni leggo tra le vecchie carte alcuni editoriali di Eugenio Scalari di quel periodo: “Berlinguer lo attacca come se fosse il pericolo pubblico numero uno e lui non gli risponde…Con Forlani adotta un atteggiamento di massima freddezza…Sull’aborto rintuzza Papa Wojtyla (..) Nell’anticomunismo del Psi non c’è assolutamente nulla d’illegittimo…Le tesi di Craxi testimoniano solide letture a cominciare da Proudon. Un uomo politico ed uno statista insieme. C’è ne pochi in circolazione (…) Craxi ha avuto un tono calmo,un timbro alto,un approccio non rissoso (…). Questo prima del 1993. Dopo,un po’ per calcolo un po’ per essersi trovato un nuovo padrone lo stesso Scalari tuonava: “Vergogna, assolto Craxi (…) Il latitante di Hammamet, e da ultimo gli insulti di Giorgo Bocca prima socialista pure lui assieme a tanti altri e poi scappato. Ma torniamo al congresso socialista dell’89. Gli altri passaggi dell’introduzione: “Il Psi deve assolvere al suo compito di forza riformatrice moderna, consapevole delle esigenze di stabilità e governabilità di una società avanzata, sensibile alle istanze nuove che vengono dalla società stessa al fine di favorire e salvaguardare l’ambiente, per favorire la distensione e sviluppare la cultura della pace, per fare dell’Italia un paese in cui siano ridotte le disuguaglianze sociali, la giustizia sia giusta, i servizi efficienti, le opportunità di impiego eque e coerenti con le capacità dei singoli”. Era quello il congresso che doveva consacrare alcuni valori come la meritocrazia, l’equità, la giustizia sociale.

Il segretario del Psi aveva un piano però che era a mio avviso molto precario in quanto poi alla fine presupponeva la conquista del potere in ogni angolo del paese e la riductio ad unum e cioè della riduzione totale e fatale a sé, alla sua persona ed a tutti quei craxisini imperanti per l’Italia e soprattutto in Calabria: una sorta di associazione di fedeli, una sorta di oligarchia regionale, provinciale che al primato della politica amavano il potere per il potere. Il diritto della forza e non la forza del diritto. Turatiano, Nenniano, anticomunista. Fu prima di diventare segretario del Psi nel 1976, vice di Giacomo Mancini e Francesco De Martino poi. Riesce ad imporre per la prima volta un socialista al Quirinale: Sandro Pertini. Per il tempo fu uno scandalo l’elezione del vecchio partigiano socialista. Fu in quel tempo che fece scomparire la falce ed il martello su libro e sole nascente con il garofano rosso. Craxi fu il primo socialista a diventare primo ministro in Italia.

Se oggi si può devolvere l’8 per mille e delle offerte deducibili per il clero lo si deve a lui: il 18 febbraio di 20 anni fa firma la revisione del Concordato tra lo Stato Italiano e la Santa Sede. Poi venne Sigonella, il Caf, il Referendum, Mani Pulite e la morte in esilio.

Oggi, di fronte a ripensamenti, dialettica, separazioni, insomma di fronte ad uno scheggiarsi e proporsi di spezzoni dell’ex Partito Socialista,ci sono dei compagni che lavorano da molto tempo per la riunificazione della diaspora socialista. Di positivo, c’è il fatto che la questione socialista è evidentemente sentita. Questo significa che è anche avvertita anche da altre forze politiche. Non può essere elusa.

I tanti gruppi socialisti che hanno una storia, una cultura, un linguaggio politico: quello degli anni Ottanta che cambiarono l’Italia, la fecero più libera, innovarono linguaggio ed idee anche se l’ideologia comunista e il doroteismo democristiano tiravano il freno, le oligarchie si mettevano di traverso. Poi vennero i soldi, il muro di Berlino e una certa politica . Riformisti contro rivoluzionari per professione: il risultato è sotto gli occhi di tutti. Oggi gli ex Pci affermano che “avevano ragione loro.. Vedo i socialisti frantumati in un pulviscolo di partitelli, di Club, di Associazioni in lotta tra loro. Si fanno e disfanno patti, si stipulano e si capovolgono alleanze, ci si scambia giuramenti, li si viola, ci si scanna: in pratica tutti vorrebbero comandare. Alla fine la partita è persa per tutti o quasi perché le forze si equivalgono e nessuno poi conta granché.

L’ambizioso progetto che ricreava un soggetto che copriva l’area socialista non può non fare i conti con tutta la sinistra, compreso i Democrat o quello che di questo partito resterà. La cultura socialista è una sorta di protettorato culturale e i socialisti sanno che la politica quella con la P maiuscola è Cultura. Ci vuole un nuovo progetto? Si, un nuovo progetto che si fondi sui valori della tradizione del socialismo italiano in una società, quella odierna, che cambia continuamente. Senza i socialisti questo non è possibile. Esiste quindi ancora una questione socialista? Certamente. Ormai le risposte che vengono date alla questione socialista si stanno chiarendo. Chi può negare per esempio che dal punto di vista dell’evoluzione della cultura socialista le tesi che furono sviluppate nel vecchio Partito Socialista, in particolare da Martelli restano valide ancora oggi. Certo dopo la scomparsa del Psi e dell’area laica i socialisti si sono ritirati nel loro privato o si sono sparsi da tutte le parti ed hanno finito per non contare realmente nulla. Occorre ricominciare a legare il filo rosso, avviare la rifondazione socialista, ricomporre la diaspora, ricostruire un’area di dibattito e di riflessione.

Per questo era nata, l’Associazione “Socialismo è Libertà”, che non è un partito e non è incompatibile con l’appartenenza agli attuali partiti della sinistra. In Calabria questo è ancora più importante ed uomini del calibro di Casalinuovo, Zito, Sandro Principe, Zavettieri, Olivo, Mancini ed altri rappresentano la storia del socialismo calabrese per aver inciso fortemente con una azione socialista che ha lasciato i segni più profondi ancora oggi. Oggi i problemi soprattutto economici e sociali sono più acuti ed il centro destra non è stato capace di offrire una prospettiva di sviluppo. La Calabria però possiede le forze vive, politiche, sindacali, intellettuali ed imprenditoriali e soprattutto giovanili per misurarsi con le sfide del terzo millennio. Per questo La Rosa Nel Pugno voleva avviare con tutte le forze un confronto per costruire insieme una prospettiva di crescita culturale, civile ed economica per la Calabria e per l’Italia. Certo servono alcune cose.

Primo: occorre disarticolare questo bipolarismo. Secondo: il riformismo è socialista ed è Italiano o non è: il PSI ha inventato il riformismo. Terzo: occorre andare verso la Terza Repubblica:

Occorre, infine, ridefinire il proprio ruolo, che sia un ruolo appunto riformista e socialista e che possa incidere nei processi in atto. E’ necessario però che i valori riformisti continuano a permeare la società civile ed essere elemento portante nella costruzione della Nuova Europa: oggi, c’è una forte richiesta d’autentico riformismo che resta ancora inevasa.

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Salvemini, bastian contrario e sincero democratico. Solo Commemorazione?

Meglio arruolare e mobilitare: Emergenza democrazia in Italia? Il Processo farsa di Anna Politkovskaya.
di Filippo Curtosi

Gaetano Salvemini - Wiki

La figura di Gaetano Salvemini, nel cinquantenario della sua scomparsa viene restituita alla luce grazie ad un saggio di Gaetano Quagliarello (Gaetano Salvemini, il Mulino, Bologna 2007,pp 313) che ripercorre in modo organico l’intero arco della sua esistenza dal 1873 al 1975, soffermandosi su temi di scottante attualità come la morte della patria e sulla partitocrazia. Salvemini, dopo l’uscita dal Partito socialista,all’indomani della prima guerra mondiale ed in particolare di fronte al delitto Matteotti che inquieta Salvemini tanto che diventa uno dei principali propagandisti dell’antifascismo in campo internazionale e per questo fortemente osteggiato da Mussolini. Il fascismo nella lettura salveminiana non è visto come reazione al pericolo di una rivoluzione bolscevica che, come afferma lo stesso Salvemini non è mai esistito se non come” forma di agitazioni e disordini senza scopo provocati da una sinistra massimalista e inconcludente”. Il fascismo assume nella lettura dello storico pugliese i connotati di un fenomeno antiparlamentare. Antifascista de anticomunista tanto e vero che accostava fascismo italiano e comunismo sovietico e fu proprio Gaetano Salvemini a far da guastafeste nel “ Congresso internazionale antifascista degli scrittori per la difesa della cultura” che si svolge a Parigi nel 1935, presieduto da Gide e Malraux ed è li che denuncia il caso dell’arresto di Victor Serge per” trozkismo”. “Esiste una polizia segreta sovietica come la Gestapo e come l’Ovra che tiene prigioniero un intellettuale come Serge”. Scoppia il finimondo e tutta l’intellettualità è costretta a chiedere la liberazione di Serge. Togliatti nel 1945 lo ricorderà come “ un provocatore trozkista che deve la vita alla campagna di stampa borghese per la sua liberazione dalla Lubianka aizzata da Gaetano Salvemini”.

Il professore di Molfetta ha consegnato ai promessi sposi del Partito democratico, dice Ugo Finetti una eredità culturale che però giorno dopo giorno è sempre più vuota nel desolante deserto ideale che fa da scenario alla costruzione del nuovo soggetto politico.Siamo cresciuti negli ardori rivoluzionari giovanili e riformisti poi ed abbiamo assistito al governo di una sinistra che ha scambiato i principi in cambio di qualcosa di indecifrabile. Dovrebbero, tutti i politici vibonesi, fare proprie le frasi di Bobbio quando dice che “molte delle promesse della democrazia sono ancora promesse da marinaio”.
Norberto Bobbio nel 1975 in un bellissimo saggio dal titolo” Salvemini e la democrazia” scriveva:” Per comprendere appieno il rapporto tra Salvemini e la democrazia, non è sufficiente riferirsi all’esempio di un impegno durato tutta una vita intera e culminato nella ventennale battaglia contro il fascismo: occorre rileggere con attenzione i suoi scritti, dove è possibile rintracciare una compiuta e perfetta teoria dello Stato democratico”.
Nel 1953 Bertrand Russel pubblicò una sorta di abbecedario politico intitolato” L’alfabeto del buon cittadino e Compendio di storia del mondo( a uso delle scuole elementari di Marte). A partire dalla prima definizione( Asino: quello che pensi tu”), il premio Nobel per la letteratura disprezzava l’arroganza, l’assoluto, il dogmatico. il fanatismo. La definizione di Virtù:” sottomissione al governo” e all’opposto quella di Assurdo” Sgradito alla polizia”. O quella di Libertà” Il diritto di obbedire alla polizia”. E che dire della definizione di Saggezza” le opinioni dei nostri avi”. Per non parlare della definizione di Sacro, la cui definizione russelliana è” sostenuto per secoli da schiere di pazzi”. O di Cristiano, definito” contrario ai Vangeli”. Per non parlare di Bolscevico” chiunque abbia opinioni che non condivido”. Per tornare a Salvemini che sicuramente apparteneva a un’altra categoria di intellettuali cosi rilevava a proposito dell’essere italiani:” Quando parlano gli Italiani colti, mi capita spesso di non capire. Salvemini non deve essere colto, perché quello che dice lo capisco e, quello che pensa lo penserei anch’io”.” Il linguaggio storico e politico, scrive infatti Salvemini, attraversando tempi e ambienti culturali diversi, si è caricato con termini polivalenti, i quali debbono essere definiti, se non si vuole perdere tempo discutendo di equivoci”. Liberalismo,democrazia, socialismo scrive Sergio Bucchi, sono i termini principali del lessico Salveminiano e prima ancora sono i termini fondamentali del linguaggio politico del secolo decimonono, “il più intelligente, il più umano, il più decoroso dei secoli”. Le tappe essenziali del più grande movimento di emancipazione mai realizzatosi nella storia che ebbe il suo punto d’avvio nella rivoluzione francese. Se il liberalismo si identifica in origine con la battaglia per i diritti personali e la conquista delle istituzioni parlamentari contro i privilegi feudali e i regimi dispotici, la democrazia ne è una estensione, in quanto “ ammissione di tutti i cittadini all’uso delle istituzioni liberali”, il riconoscimento per tutti, senza distinzioni di sorta di tutte le libertà personali e politiche. “Un regime libero può non essere un regime democratico, ma un regime democratico deve essere un regime libero”. In questo senso,continua Bucchi, il “metodo della libertà” costituisce la via imprescindibile di ogni rinnovamento politico o sociale. E metodo della libertà e regole della democrazia non possono non essere alla base anche di ogni tentativo di conquistare quel tanto che è possibile di giustizia sociale. La realizzazione della giustizia contro ogni forma di sfruttamento e di oppressione è parte integrante non meno delle libere istituzioni, dell’ideale democratico. Istituzioni democratiche e giustizia sociale stanno tra di loro in un rapporto inscindibile di mezzo a fine,al di fuori delle istituzioni non è possibile nessuna realizzazione.
A proposito di democrazia, la casa editrice Bollati-Boringhieri ha ristampato una raccolta di memorie, lettere e saggi del grande storico Liberale e Socialista, Gaetano Salvemini. Proprio cinquant’anni anni fa moriva negli Usa lo storico pugliese. Era nato nel 1873 a Molfetta, Salvemini, precursore del liberal socialismo. Studioso della questione meridionale e maestro dei fratelli Rosselli è stato oppositore del regime fascista, aveva criticato aspramente Giolitti, accusò i rivoluzionari come Prezzolino e Godetti di disprezzare la democrazia: un sistema imperfetto ma da salvaguardare. Annotava nel 1923 sul suo diario: “E’ moda, oggi, in Italia, fra gli uomini che si immaginano di essere “rivoluzionari” disprezzare la democrazia quanto e non più che facciano fascisti, nazionalisti, sognatori di gerarchie e di aristocrazie rigide e chiuse. E questo disprezzo, che sindacalisti, repubblicani, socialisti, anarchici e anche uomini come Prezzolino, Godetti, eccetera, dimostrano per la democrazia è documento della in cultura politica (…) che è la malattia fondamentale dei “democratici italiani e non italiani”. Parole attualissime perché anche oggi ci sono plutocrazie, gerarchie, oligarchie che dicono a parole di combattere i regimi ma che poi nei fatti deridono le istituzioni democratiche. La democrazia, agita le masse, dirige i suoi partiti nella lotta politica; nasce, cresce, s’indebolisce, si ammala, corre il rischio di morire, o addirittura muore, come farebbe una persona in carne ed ossa. Queste parole, realistiche e lungimiranti esprimono la convinzione che dietro quella parola c’è un processo di trasformazione, segnato da conquiste e da crisi forti.
Sensibile al liberalismo di sinistra di Mill e alle tesi del laburismo inglese, Salvemini ripropone l’idea del equal liberty, coniugando le ragioni dell’autonomia dell’individuo con quella della giustizia sociale.
“La libertà economica non significa nulla per chi deve guadagnarsi da vivere, che sia un lavoratore manuale che un intellettuale. Se con sicurezza intendiamo un livello di vita minimo e l’uguaglianza di opportunità, dobbiamo ammettere che le istituzioni della democrazia politica del giorno d’oggi non la garantiscono a tutti. Eppure la sicurezza deve essere alla portata di tutti se si vuole salvare la democrazia politica dal naufragio”. Attualissimo nella nostra società caratterizzata dal rischio, dalla precarietà e dall’incertezza.
In uno dei suoi ultimi scritti del 1957 dava atto dell’operato della Democrazia Cristiana di De Gasperi: “Debbo riconoscere che i democratici cristiani mi lasciano protestare, mentre prevedo che i comunisti mi taglierebbero la lingua fin dal primo giorno…il giorno in cui fosse certo che Togliatti e Nenni hanno abbandonato sinceramente ogni intenzione totalitaria starei con Nenni e Togliatti. Non volendo cadere dalla padelle nella brace sono costretto a preferire la democrazia-democrazia-democrazia di De Gasperi, alla democrazia di Togliatti”.
Oggi in Europa ed in Italia e soprattutto dalle nostre parti occorre lottare per la giustizia sociale e la libertà da ogni tipo di miseria. Le modalità della morte prima e del processo poi di Anna Politkovskaya è un chiaro esempio che esiste ed è reale una emergenza democrazia. Anna lavorava dal 1999 alla “Nuova Gazzetta” “Novaja Gazeta” per la quale aveva realizzato diversi reportage sul conflitto in Cecenia. I radicali da quelle parti hanno avuto i loro morti,non scordiamocelo mai: l’inviato di Radio Radicale Antonio Russo, torturato a Tiblisi, in Geogia; prima era toccato ad Andrea Tamburi, responsabile dei Radicali a Mosca. Le violazioni dei diritti umani sono evidenti e la società civile si deve mobilitare. “Abolire la Miseria della Calabria” lo fa perché intende contribuire a destabilizzare il sistema per rendere impossibile al potere, alla nomenklatura di destra e di sinistra di continuare a reprimere la libertà di espressione. Il dato è solo politico. Per la Calabria ci vuole una rivoluzione copernicana che non può fare certo Loiero o chi verrà dopo. Per fare questo, in Calabria ed in Italia bisogna lavorare per recuperare le tesi che furono di Gaetano Salvemini che restano ancora valide oggi. Non ci si dimentica di una esperienza socialista, libertaria, liberale e radicale, legata ai temi dello stato di diritto, delle libertà individuali, delle soggettività a partire da quella dei lavoratori. Questa è la strada maestra e la strategia dei prossimi anni e la sola via è quella di costruire un Partito democratico anche con lo spirito radicale, liberale, libertario e socialista. Pannella ci ha provato 40 anni fa e non ci è riuscito, Craxi subito dopo ed ha pure fallito. Solo così il Partito democratico che verrà sarebbe davvero tale a avrebbe l’adesione post mortem anche di Gaetano Salvemini, e modestamente anche la nostra.

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Campanella vero riformatore anche per la Chiesa. Intervista a Germana Ernst

La razionalità ha valore universale.

Il carcere è una metafora fortissima in Campanella … che consente di apprezzare e far capire veramente che cos’è la libertà


di Filippo Curtosi e Giuseppe Candido

Germana Ernst, ordinaria di Storia della filosofia presso l’Università Roma Tre, lo scorso 3 dicembre 2009 è intervenuta al convegno “Calabria, Italia, Europa – Immagini della Cultura del Rinascimento” organizzato dalla Provincia di Vibo Valentia in collaborazione col Sistema Bibliotecario Vibonese e dal Comune di Francica. La professoressa Ernst, che è intervenuta sull’autobiografia di Tommaso Campanella e su “Natura, profezia e politica nelle poesie di Campanella”, oltre ad essere un’insigne filosofa il cui parere rappresenta “giurisprudenza”, è una persona semplice che da sempre “ama” Tommaso Campanella e la Calabria. Filippo Curtosi, il nostro direttore responsabile, l’ha intervistata a margine del convegno proprio sull’eretico penitente e ostinato Tommaso Campanella che pagò col carcere la libertà del suo pensiero, sulla poesia e sull’attualità della politica di Campanella.

Al Carcere

Poesia filosofica di Tommaso Campanella

Come va al centro ogni cosa pensante

dalla circonferenza, e come ancora

in bocca al mostro che poi la devora,

donnola incorre timente e scherzante;

così di gran scienza ognuno amante,

che audace passa alla morta gora

al mar del vero, di cui s’innamora,

nel nostro ospizio alfin ferma le piante.

Ch’altri l’appella antro di Polifemo,

palazzo altri d’Atlante, e chi di Creta

il laberinto, e chi l’Inferno estremo

(che qui non val favor, saper, né pietà),

io ti so dir; del resto, tutto tremo,

ch’è rocca sacra a tirannia segreta.

E’ Chiaro

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“Germana Ernst, insigne letterata e filosofa che ama Tommaso Campanella da sempre e quindi ama anche la Calabria”

D: Senta Professoressa, Tommaso Campanella eretico impenitente e ostinato che col carcere pagò la libertà di pensiero? Una sorta di ….bile della libertà o che cosa?

R: Non penso che Campanella condividesse questo giudizio di essere un “eretico”. Era un riformatore e riteneva totalmente legittimo, lecito, proporre delle soluzioni di riforma anche proprio all’interno della chiesa stessa, proponendo dei nuovi orizzonti totalmente compatibili con l’ortodossia. Lui non avvertiva se stesso come eretico o in contrasto, o in conflitto, con un cristianesimo inteso in un senso corretto.

D: Qualcuno dice, però, che Tommaso Campanella e Giordano Bruno sono stati perseguitati dall’inquisizione “Romana”. Lei che ne pensa?

R: Si si. Entrambi hanno subito le persecuzioni, però i loro nomi sono stati spesso abbinati però sono due figure molto diverse e, se per Bruno posso condividere l’opinione effettivamente di un conflitto di fondo (con la Chiesa ndr), non è questo il caso di Campanella che è stato perseguitato per varie ragioni e, soprattutto, per il suo forte accento su una prospettiva naturale, razionale, una dimensione naturale e razionale del tutto compatibile, non in conflitto, col cristianesimo.

D: Essere, conoscere e volere. Dipende tutto da queste forze, come dire, primordiali?

R: Campanella prospetta una visione, appunto, di pracsimalità, come lui li chiama. La realtà è essenziata da queste precsimalità che sono il potere, il sapere e l’amore, in varie proporzioni secondo, appunto, le varie prospettive. E lui rilegge l’intera realtà alla luce di questa dimensione metafisica primalitaria.

D: “La Città del Sole” … Un manifesto comunista o una proiezione di una città ideale?

R: E’ senz’altro una città ideale. La rilettura ch’è stata fatta in seguito con visione comunistica, direi comunitaria piuttosto che comunistica che è una cosa un po’ diversa, ed è una prospettiva di una città ideale fondata sull’amore comune che è, come dice Campanella, in conflitto con l’amore egoistico del singolo individuo che, invece, deve raccordarsi con l’amore comune della collettività.

D: Quali sono, secondo lei, i caratteri “calabresi” di Tommaso Campanella?

R: Forse io non conosco abbastanza bene la Calabria. Tommaso Campanella la conosceva senz’altro molto bene nei suoi difetti, nei suoi pregi e, come ho avuto occasione di dire molte altre volte, lui, pur non avendola fruita, essendo vissuto lontano dopo gli eventi della fallita congiura, tornerà con il suo pensiero molto spesso ai suoi paesi di origine, con molto affetto e con molto dolore nel vedere questo contrasto fra la bellezza naturale, la fertilità della terra, dei ritratti caratteriali generosi degli abitanti, e un pessimo governo che l’aveva ridotta in condizioni miserevoli.

D: Un po’ come oggi?

R: Allora c’era più il pretesto che faceva parte di un vice reame di Napoli governato dagli Spagnoli per cui era sottomessa ad un potere “straniero”. Forse, in questa nostra epoca, vi sono meno motivi e, tutto sommato, però attutisce come Campanella avesse capito, già allora profondamente, i poteri della Calabria e avesse prospettato tutte le risoluzioni che però sembra che non siano state prese.

D: Qual’è la modernità di Tommaso Campanella?

R: Campanella è sorprendentemente moderno in molte posizioni. Anche nel prospettare una visione fortemente unitaria dei problemi. Lui si rende perfettamente conto che, i problemi dell’umanità sono di tutti e che l’umanità è una sola. Tutti gli uomini sono figli di uno stesso Dio e per cui sono assolutamente accomunati da problemi comuni che si devono risolvere in modo comune e cercando di trovare delle soluzioni senza conflitti, scontri e guerre tra di loro ma, in nome di soluzioni in accordo, in nome di principi superiori di razionalità, di principi che si ispirano alla ragione e alla natura, che sono, secondo lui, comuni all’intera umanità.

D: Quali sarebbero, allora, i nuovi demoni per Campanella?

R: Per Campanella i nuovi demoni sono collegati, quelli che si oppongono a questa visione razionale, in quanto la razionalità ha valore universale e invece vi sono tutti i pseudo valori che separano, dividono e mettono in conflitto gli uomini. E cioè quelle passioni rovinose legate al possesso di beni materiali, e tutta una serie di passioni rovinose che, veramente, favoriscono l’amore egoistico anziché l’amore comune.

D: Quanto c’è di anti Macchiavelli in Tommaso Campanella?

R: Campanella, in giovinezza, conosce molto bene Macchiavelli e tanta di applicare i suoi “Principi” molto spesso radicati all’interno di un contesto cattolico. Questa è l’operazione, diciamo “giovanile”, prima della congiura e prima di una profonda crisi del suo pensiero. Ma dopo, è profondamente anti Macchiavellico proprio nella concezione della religione. Campanella si oppone e contrasta molto fortemente l’idea di una religione come abile ritrovato dei principi e dei sacerdoti, per ingannare e governare i popoli, per mantenere il proprio potere. Ed è convinto, invece, del principio di una religione naturale che è implicito di tutto il suo orizzonte culturale.

D: Qualcuno sostiene che Campanella sia convinto che la più grande azione magica dell’Uomo è dare leggi. La religione è il rapporto magico. E’ così anche secondo Germana Ernst?

R: Si. Dare leggi è il più grande atto di magia perché attinge, bisogna conoscere, l’animo umano. E il vincolo degli animi, secondo Campanella, è più forte. Un vincolo da cui dipendono anche il vincolo dei corpi e il vincolo dei beni di fortuna. Conoscere e vincolare gli animi, vincolare le incredenze e le incredenze vere naturalmente, è il più grande atto di magia. Anche le religioni false son degli atti di magia perché attingono agli animi. Naturalmente Campanella auspica che gli animi siano vincolati da una religione vera. E la religione vera è quella, appunto, che si ispira a principi razionai naturali.

D: L’Umanesimo di Tommaso Campanella?

R: L’Umanesimo, come ho detto anche prima, non individualistico ma di un uomo che riconosce questi valori di universalità dell’umanità e che riconosce, anche in tutti gli esseri umani e cerca, fa in modo, di migliorare la condizione dell’Uomo sulla terra adeguandolo appunto a dei principi universali di convivenza.

D: Campanella ha fatto degli studi sulla tarantella e sulla taranta. Lei cosa ci può dire?

R: Probabilmente lui ha avuto un’esperienza diretta vedendo questi contadini pugliesi e studiando il fenomeno. Da qui, appunto, è molto interessato proprio perché assiste a questa specie di metamorfosi. Lui è molto interessato alle morsicature della rabbia, la morsicatura dei cani rabbiosi, e intrappolati. Perché sembra che il loro temperamento fisico sia stato alterato da una specie di vera e propria metamorfosi di un veleno inoculato che li ha come trasformati. Per cui studia anche questi fenomeni e queste danze sfrenate, questo bisogno di danzare, da un punto di vista naturalistico e si chiede perché. Queste danze sono spiegate perché (gli avvelenati ndr) hanno bisogno di sudare, di far certi movimenti, anche per espellere tutto questo veleno che li ha inquinati e recuperare la loro fisionomia originaria.

D: Cosa che del resto fanno altri studiosi come Ernesto De Martino e Luigi Maria Lombardi Satriani. E quindi aveva visto prima …

R: Si si, lui aveva visto prima e poi questo è stato un argomento che ha interessato molto gli uomini del Rinascimento. Un fenomeno che è poi stato studiato anche da altri studiosi.

D: Lei, quale massima studiosa di Tommaso Campanella a livello europeo quale viene considerata, cosa ama di più di Tommaso Campanella? La cosa che “la fa morire”?

R: Le poesie. Perché sono veramente, straordinariamente, intense, originali, esaltanti, che esprimono in maniera efficace dei contenuti filosofici in poesia. Un aspetto totalmente insolito per la tradizione letteraria e poetica italiana che è invece basata di più sul lirismo, sull’individualismo, sull’espressione di sentimenti personali. Mentre nessuno ha osato cimentarsi con la poesia filosofica in tempi moderni, se non Campanella che, non a caso, vede come suo grande precursore e compagno di questa impresa il solo Dante che è il vero poeta italiano proprio per i suoi contenuti filosofici di verità, non di velleità.

D: Lei sarebbe andata su di un’isola deserta con un uomo come Tommaso Campanella?

R: Questa è una domanda molto personale, molto imbarazzante. No comment (… Sorride).

D: Ai calabresi e alla Calabria, di cui lei ormai è concittadina per il conferimento onorario di cui la Città di Stilo le ha fatto omaggio, cosa direbbe per portare avanti quel messaggio di Tommaso Campanella?

R: Si calabrese d’adozione. Una cittadinanza onoraria di cui sono molto orgogliosa. Ai calabresi direi di avere più fiducia in se stessi e di imparare, veramente, la pazienza della costruzione. Io sono di origini milanesi e quindi quanto di più lontano, a prima vista, dalla calabresità. Ma amo molto il meridione e amo molto alcuni calabresi. Però, della Calabria in particolare, mi dispiace una certa resistenza ad una fiducia di una costruzione giorno per giorno. Cioè, bisogna capire che per fare qualche cosa per la società e per se stessi, bisogna imparare veramente ad avere fiducia e a costruire, ma con molta pazienza, quotidianamente giorno per giorno.

D: Davvero l’ultima domanda. Ad una studentessa che vorrebbe fare una tesi su Tommaso Campanella, cosa consiglierebbe?

R: Di tesi su Tommaso Campanella se ne fanno tantissime, fin troppe forse. Più che ripetere ciò che è stato detto, direi di impegnarsi seriamente a leggere, a capire, tutti i testi di Campanella, lasciando perdere magari le tante letture inutili o puramente estrinseche, che potrebbero mettere sotto una buona guisa, che potrebbero guidare a fare qualcosa di utile, per far conoscere di più e meglio questo pensiero smisurato che non è solo “La Città del Sole” ma che si dirama in moltissimi aspetti, in moltissimi rivoli.

D: Fra qualche attimo relazionerà sulle poesie di Tommaso Campanella. Qualche anticipazione?

R: Visto la giornata molto fitta non voglio rubare molto spazio agli altri relatori, mi limiterò a leggere qualche poesia, a commentarle, a leggerle, a gustarle e capirle insieme al pubblico.

D: Quale Poesia le piace di Campanella, in particolare?

R: Una che s’intitola “Al Carcere”. Perché, secondo me, il carcere è una metafora fortissima in Campanella. Cioè la poesia ha anche questa capacità simbolica, per cui il carcere, che è un’essenza di vita per Campanella che ha vissuto così a lungo in carcere, in verità è una metafora potente della vita umana. Ed è la metafora che consente di apprezzare e far capire veramente che cos’è la libertà.

D: Marco Pannella, l’altra sera, ha citato questa poesia ed ha parlato pure di lei. Lei cosa pensa di Marco Pannella?

R: Davvero (Ride ed è imbarazzata)? Marco Pannella è una persona che ha fatto molte battaglie che, a volte, si possono condividere, nobili ed assolutamente degne di rispetto.

D: Ringraziamo la Professoressa Ernst. Arrivederci

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Il nuovo numero di Abolire la miseria

Periodico nonviolento di storia, arte, cultura e politica laica liberale calabrese

Care amiche e cari amici di Abolire

Abbiamo chiuso ieri, 18 dicembre, alle ore 23.00, il nuovo numero che, in queste ore, è in stampa. Piombo su carta dunque e, ancora per questo numero unico del 2009, sarà distribuito ai nostri sostenitori e, in copia omaggio, con tiratura di 10.000 copie, nelle cinque città calabresi capoluoghi di provincia, nella provincia di Catanzaro a Lamezia Terme, a Soverato e nei principali comuni della fascia ionica catanzarese. Registrato presso il Tribunale di Catanzaro col n°1 il 9 gennaio 2007, Abolire la miseria della Calabria giunge dunque al suo terzo anno di esistenza. Sia pur con pubblicazioni sporadiche, in relazione alla scarsità di fondi, e con vicissitudini ingrate, siamo ancora qui. Completamente rinnovato nei contenuti e, parzialmente nella grafica, Abolire la miseria della Calabria si propone, quale organo d’informazione dell’associazione di volontariato culturale “Non Mollare”, il fine di promuovere la diffusione della storia e della cultura della nostra regione per aumentare il livello di consapevolezza e di coscienza critica, attraverso la collaborazione volontaria degli autori, cui va uno specifico ringraziamento. Siamo cambiati assumendo la dizione di “Periodico nonviolento di storia, arte, cultura e politica laica e liberale calabrese” perché crediamo che, nel periodo che viviamo, che il nostro Paese sta vivendo, di cambiamento ci sia una forte necessità, soprattutto in Calabria, ma crediamo pure che, la rivoluzione necessaria e urgente, debba essere nonviolenta e di tipo culturale.

Abolire la miseria, abolire la povertà degli strati più in difficoltà della popolazione, nazionale e mondiale, è sempre di più cosa urgente e di straordinaria attualità. In Calabria, per farlo, abbiamo bisogno di riappropriarci della nostra storia perché conoscere cosa si è stati significa comprendere meglio ciò che si è e ciò che è l’altro.

L’associazione “Non Mollare” per questi motivi intende promuovere il recupero delle tradizioni popolari e della cultura calabrese attraverso azioni formative, informative ed editoriali anche multimediali, volte ad ampliare la conoscenza e la diffusione delle ricchezze della nostra regione in Calabria, in Italia e nel Mondo. Cercheremo di pubblicare una collana di studi di livello scientifico e che attingono all’ordine culturale del nostro territorio calabrese, con l’intento di riproporre editorialmente le zone meno esplorate del patrimonio culturale calabrese e, allo stesso tempo, affrontare argomenti e aspetti inediti della storia non solo locale. Rivolgendoci ai migranti e, nello specifico, al migrante calabrese, in realtà il progetto culturale che abbiamo in mente prevede il recupero e la valorizzazione editoriale delle tradizioni popolari calabresi e non calabresi, dei migranti di oggi e di ieri, come strumento “politico” in grado di promuovere l’integrazione delle identità culturali di un popolo e quindi di tutti i popoli. Nello specifico il progetto di “Integrazione delle diversità col recupero della cultura e delle tradizioni popolari calabresi” prevede studi, ricerche, pubblicazioni anche multimediali e/o web supportate, l’organizzazione di convegni, seminari di studio, manifestazioni volte alla pro- mozione, qualificazione e sviluppo delle seguenti tematiche:

a) Il teatro popolare in Calabria; b) Il brigantaggio nel decennio francese; c) Emigranti ed immigrazione: il caso dei libertari calabresi; d) Un secolo di stampa vibonese: antologia funzionale delle prin- cipali testate calabresi dagli inizi dell’ottocento agli inizi del novecento; e) Saggi su medicina popolare, usanze e credenze. Prevediamo la stampa di specifiche pubblicazioni, la loro diffusione anche medi- ante internet e la prosecuzione della stampa del bollettino dell’associazione “Non Mollare”, Abolire la miseria della Calabria, (con periodicità trimestrale). Pertanto, nel porgere il nostro sincero augurio per un Buon 2010, vi chiediamo di sostenerci. Abbonandovi o versando un piccolo contributo.

In quest’ottica, anche l’attività editoriale di Abolire la miseria della Calabria si adegua divenendo organo e strumento di informazione e ricerca storico-culturale per la nostra regione. Uno strumento partecipativo cui potranno unirsi altri collaboratori volontari.

Abolire la miseria della Calabria

Anno III Numero Unico



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Su e giù per Monteleone

di Filippo Curtosi

caffé minerva in Monteleone Calabro, oggi Vibo Valentia
caffé minerva in Monteleone Calabro, oggi Vibo Valentia

Il giovane professore Ausonio Dobelli, mandato ad insegnare nel regio liceo di Monteleone di Calabria dove insegnava pure Luigi Bruzzano direttore della rivista di letteratura popolare “La Calabria”, scrisse una lettera ad un suo amico di Milano, per fargli sapere alcune usanze osservate nei paeselli calabresi e che Luigi Bruzzano, appassionato di tradizioni popolari della Calabria, pubblicò sulla sua Rivista di letteratura popolare. Con un linguaggio un po’ arcaico e forse per questo ancor più bella e trattandosi di una lettera che ci riguarda; che riguarda la vita popolare calabrese di un tempo, una lettera che come un affresco dipinge il paesaggio colorito della nostra terra, dell’abito locale, delle feste, crediamo anche noi sia quantomai opportuno pubblicarla sul nostro periodico a distanza di oltre centodieci anni.

Filippo Curtosi

Monteleone Calabro, 2-12-1899

Caro Edoardo,

…. E davvero, oltre alla radiosa lucidezza del cielo e del mare – azzurro sorridente nell’immenso sole – oltre alle vedute mirabili che l’altopiano ci affaccia ne’ pianori e ne’ poggi folti delle morbide selve degli ulivi, e ci apre nei lenti valloni rivestiti di orti e vigne e frutteti, di quanti altri spettacoli belli o nuovi l’osservatore più superficiale pasce la mia curiosità!

Nell’ultima mia, parlando degli usi comuni, m’impegnai pure di offrirti il disegno colorito dell’abito locale e degli abbigliamenti; in questa cercherò di radunare brevemente e disporre in quadretti (di quale efficacia poi?) le memorie di alcuni episodi, che mi occorsero nelle frequenti passeggiate.

M’è presente ancora, pallido, come traverso a un velo sottile, un incontro triste, di mattina.

La nebbia, tenuissima, vestiva del suo chiarore biancastro le nubi e le distese campagne alte ai fianchi dello stradale, che io, ravvolto accuratamente nel mantello umidiccio, ripercorrevo verso la città; da lungi si svelavano a amano a mano le due file dei tronchi neri e le informi oscurità delle fronde. Ad un tratto mi apparsero lontano delle bianchezze esigue, in moto vivace; poscia, in un ciaramellìo confuso che tremava nella fumana immota, vidi avvicinarsi, disposti in processione, due file di bimbi scalzi, ricoperti di un sottil camice bianco, chiacchieroni ed allegri; dietro loro, colla croce e l’aspersorio due sacerdoti precedevano un feretro breve poggiato sulle spalle di contadini, seguito da poche donne raccolte. Nulla, che non fosse comune, nel povero cofanetto nero distinto dalle linee gialle agli orli superiori degradanti in lunghezza sino al sommo, ove si drizzava un’argentea figurina alata dalle membra grassocce; ma ai lati della piccola bara quattro donne involte nell’ammasso dei loro cenci venivan portando sul capo le anfore funerarie: alla brace salivano le volute lente dell’incenso votivo.

Qualche altra volta già avevo udito le prefiche vocianti le loro nenie dietro al lungo velo della chioma, o bisticciarsi al ritorno dal campo santo, pei pochi soldi guadagnati di fresco, ma veramente solenne m’apparve allora l’ufficio silenzioso, cinto nel pallore ampio del cielo, al quale le bocche dall’urne esalavano la prece pallida dell’incenso.

Giunto a casa, non potei soffermarmi tra le pareti malinconiche, e , terminato appena il pranzo, con un buono amico discesi a un paesello vicino.

Vanite le nebbie, sorrideva nell’azzurro la dolcezza maliosa dell’auro pomeriggio autunnale, entrava a fiotti nelle viuzze la luce magnifica, disegnando nitidamente delle povere case e dei verdi alberelli diritti in ghirlanda nella piazzola. D’innanzi alla casa comunale s’agitava allegramente una frotta di ragazzi mal coperti da brandelli di giacche e di calzoni, in attesa dei confetti e degli sposi; noi, invitati gentilmente dal sindaco, salimmo in aula, ci affacciammo alla finestra. E alla svolta della via principale, ci apparve il breve corteo: un’iride.

Una decina di ragazze strette ai fianchi della sposa, seguite da poche donne e da tre o quattro contadini attornianti lo sposo s’avvicinavano lentamente: questo era il tutto, ma quale infinita varietà di tinte negli abiti adorni della festeggiata, e in quelli delle giovani amiche! I corsetti del color dell’indaco e della rosa, allacciati dinanzi da fettucce verdi, gialle, rosse, cilestrine, lasciavano trasparire agli orli superiori i ricami delle camicie candidissimi sui colli e sui polsi abbronzati; al basso confine delle strette maniche giravano due larghi e corti nastri, vermiglio l’uno e verde l’altro; lunghi orecchini d’oro pendevano ai lati delle larghe facce rotonde, e si aggiravano sui seni poderosi due o tre catenelle variamente intrecciate; le gonne, vergognose del solo azzurro (però di gradazioni infinite) o delle lunghe strisce grigie, si nascondevano sotto a grembiuli, ciascuno de’ quali era una festa, una miriade di tinte e sfumature: qua rosso, la turchino, più giù rosato, violaceo e che so io; lucevano a terra le scarpe, testimonio rarissimo di festa, gialle tutte e a bottoni, nuovissime alla sposa. Salirono, e dietro loro, in meraviglioso contrasto, le madri sotto la usuale tovaglia sporca, nel solito arruffio delle vesti stracciate, sui larghi piedi neri, ed i padri pure scalzi, colle camicie brune aperte sui petti bruni; più dietro e dovunque si strinse nella stanza la frotta seminuda e schifosetta dei ragazzi e delle bimbe, ammirando. Quindi, come la sposa ebbe ad occhi bassi buttato al sindaco il suo si , e questi lesse d’un fiato i precetti legali, lo sposo, tratta rapidamente di tasca la mano, gettò sull’ampio registro aperto sul tavolo un cartoccio di confetti gonfio, gualcito e sudicio; uno dei testimoni lo imitò, e la compagnia si sciolse in parte nella piazzetta, dove i fanciulli si rotolavano per terra vociando nella caccia di dolci, che piovevano dalle nostre mani aperte sul davanzale.

Pochi giorni dopo, mi fu dato di contemplare la sagra annuale dello stesso villaggio; nella processione confusa e sonora (alta saliva la laude a S. Nicola: lu grandissimu santu – che è celebratu pe tuttu lu mundu) avanzava il venerabile simulacro poggiato sopra un piedistallo di legno e su quattro spalle robuste. E vicino al santo era incastrata nel piedistallo stesso una pentola lignea, da cui parea stessero uscendo quattro rozze figure di bimbi ignudi: il miracolo maggiore del patrono, la salvazione stupenda degli innocenti immersi nel liquido bollente dalla ferina mano del padre. Avanzava l’immagine benigna nella via principale, e la lunga teoria de’ camici bianchi e de’ camici rossi cogli stendardi e le candele precedeva lentamente; dai volti rugosi, dai capelli secchi attorno alle vene sporgenti scendevano colle barbe grigie e biancastre i cordoni variopinti, terminanti in nodi, in fiocchi, in pennelli di mille colori; dietro al santo passavano mimetizzandosi le ragazze strette nell’abito festivo, sotto le tovaglie nuove bianche e ricamate agli orli, o di seta nera per alcun lutto recente, quali ben calzate, quali scalze, quali colle scarpe gialle luccicanti sulla pelle oscura del piede; quindi venivano le donne un po’ meno sucide del solito, e gli uomini nei brevi giubbetti e nei più brevi calzoni di velluto nero-azzurrino, colle mutande ancheggianti dal ginocchio sino a terra. Ma negli sbocchi numerosi dei vicoletti le compagne sostavano, solo l’effige benedetta varcava ogni mucchio di letame suino, ogni larga fossa di fango e d’immondizia, lustrato ogni angolo del paese, e da ogni angolo uscivano donne colle offerte esigue della povertà, sbucavano uomini scamiciati, curvi sotto sacchi di granturco, saltavan fuori ragazzi quasi nudi, quasi neri, con ceste di frutta sul capo: tutti attorniavano il santo, entravano confusamente nella processione.

(continua)

E la sagra di Piscopio? Ah veramente qui m’ invase una meraviglia grande. Una devozione illimitata avvince questo paese all’altare dell’arcangelo trionfatore, ogni madre impone ad uno almeno dei propri nati il nome di Michele; tutti, alla ricorrenza festiva, gareggiano nelle offerte, e con tanto ardore, quale mi trasparì nelle parole di uno de’ più miseri fra loro: << La festa costò 7000 lire, ma fu eclatante, e , del resto, dovessimo torci di bocca il pane, a S. Michele bisogna rendere onore >>. E furono davvero due giorni di bagliori e di giocondo frastuono.

Disceso al villaggio, nel nitido pomeriggio della vigilia, attraversata la doppia fila degli assiti pronti per le girandole e per glia altri fuochi artificiali, m’ apparve tra le prime case il ballonzolo dei cammelli. Lo zampognaro sonava a perdifiato; ne seguiva il tempo con salti e dondoli un uomo invisibile dietro a una gualdrappa di stracci, sotto una macchina commessa d’assi e di travicelli, che nella coperta di cartone colorito somigliava poco al corpo di un cavallo; questo era il primo cammello, e vicino a lui saltellava sfrenatamente il secondo: un ragazzotto robusto, serio in volto e grave, chiuso dal petto all’ingiù in un ordigno di legno e cenci simile al primo. Doveva forse rappresentare per la piccolezza e per la rapidità dei movimenti il baldo nato dall’animale maggiore, si che talora, a qualche frase più lenta e rotonda della zampogna, si permetteva di girare attorno al genitore; il quale, dal canto suo, spinto dall’affetto paterno s’apprestava talvolta, dondolando sempre, al piccino, e , separate da un tratto di spago le mascelle, fingeva di lambirlo. Ma allora questi d’un balzo s’allontanava , e riprendeva per conto suo il trotto e il volteggio fra le risa di tutti e gli urli e le provocazioni inascoltate dei bimbi dal calzone spaccato, delle bimbe involte nella camiciuola sporca. Levando gli occhi, sfilavano ai due lati della via i pali dritti per l’illuminazione, già tutti rivestiti in varia forma de’ bicchierini variopinti, e le bacheche colme di paste, di figurine dolci colorite, di candele corte e sottili; ma dove la contrada allargandosi concedeva appena lo spazio necessario, una grossa impalcatura di legno rotondeggiava cinta di verzura e di rami ornati di fronde e di lumicini: di qui doveano il domani allargarsi pel paese tutto pei campi agli accordi e i disaccordi delle musiche e delle fanfare.

Grosso, liscio, altissimo si drizzava l’albero della cuccagna.

Entrai nella chiesa, già pomposamente addobbata, in compagnia d’una giovenca grigia, che veniva a ringraziare in persona il santo per la guarigione: la trasse all’altare con una grossa corda il contadino, quindi, porta l’offerta votata, se ne andarono benedetti. Solo lucevano nell’ombra densa sette od otto candele assai lunghe e grosse nelle mani di alcune figure femminee, che, mi si disse, doveano per voto attardar digiune, inginocchiate nel banco, sino alla consumazione della cera. Occorrevano certo tutte le ore notturne; spaventato, sbirciai il gruppetto delle devote, ed ammirandole di tutto cuore, mi incamminai a lunghi passi verso il pranzetto che m’attendeva a Monteleone. E il domani ripercorsi la strada.

Le ore antimeridiane passarono lente e quasi chete, assorte nelle cerimonie in chiesa e nella aspettativa della processione; ma allorché questa simile ad una lunga iride, preceduta dalla musica, si stese e serpeggiò per le viuzze – di tra le fronde festive dense attorno ai pali la indorava il polverio luminoso dei raggi solari – la meraviglia, la commozione, l’ansia e la gioia dell’evento proruppero irresistibilmente nella gazzarra dei bimbi, nell’allegro vocio delle donne, nel gesticolare spensierato degli uomini, che si additavano a vicenda, con una certa ammirazione soddisfatta, la spada di S. Michele. E lampeggiando il sole nelle labbra d’argento, l’arcangelo adesso pareva sorridere lieto dei numerosi biglietti da una, da due, da cinque, da dieci e fin anche di venticinque lire, che dei fili quasi invisibili di rete, legavano all’arma vittoriosa ( a me sovveniva de’ pellegrinaggi, che pochi mesi fa ho visto giungere e allungarsi nelle vie della storica Empoli, alla venerazione di un crocifisso miracoloso, e rivedeva le croci vestite da carte-valuta o disegnate con monete d’argento, che si stagliavano alte fra i pellegrini ).

Dopo uscirono in piazza, ballando a suon di musica sino a sera, il gigante e la gigantessa: due macchine alte e grosse, mal ricoperte di vestiti in forma d’uomo e di donna, e comparve infine, fra le risate degli accorrenti, la tavola dei fantocci. La portava sul dorso, avanzando a suon di zampogna un villano nascosto dietro al sudicio panneggiamento che scendeva dall’orlo sino al suolo; le due marionette alte un cubito, vestite l’una da giovinotto, l’altra da sposa si rizzavano immote; ma, quando ad ogni bivio lo zampognaro e il piffero si piantavano fermi sulle gambe aperte, la tavola poggiava sui quattro piedi, il burattinaio sempre invisibile si sedeva per terra, e, tirando o allentando gli spaghi, faceva sgambettare la coppia innamorata. Il fantoccio virile muoveva le flaccide gambe, e danzando s’inginocchiava dinnanzi alla bella, quindi con gesti bruschi pareva volesse esprimerle l’intenso ardore del suo affetto; ella, pur ballando, dichiarava il volto ridente ed allargava le braccia, ma poi, ritrattale, col moto rigido della spinta in avanti lo respingeva. Egli nella danza rizzavasi e si volgean le spalle, ma poi ritornava all’assalto, e, fatto fatto più ardito da un’accoglienza migliore, alzata d’un tratto la mano, a scatti la muoveva carezzando su e giù per le forme femminili: e qui succedeva davvero la tragedia, giacché la bella, offesa nel pudore, rispondeva botta per carezza, calcitrando, ossia buttando innanzi una gamba ad intervalli regolari, fino a che il maschio, stanco di prenderne, rompeva ogni tempo, e si sfogava con una tempesta di schiaffi e di scappellotti all’addolorata sempre ridente. E dalle bocche di tutti intorno sgorgavan le risate sincere, irrefrenabili, sonore come una grande corrente di gioia, mentre agli orecchi ormai avvezzi batteva quasi inascoltato il monotono ronzare della zampogna instancata. Più innanzi verso la chiesa, si danzava qua e là: erano soltanto giovinotti, che a die a due guidati da un organetto, muovevano a scatti, a giri saltando o piroettando, le gambe cinte dal velluto azzurrino, e s’incurvavano, guardandosi curiosamente le flessioni del ginocchio e si giravano intorno; ad un tratto un terzo si frammetteva, e, levato il berretto, fissava uno dei primi, questi cessava immediatamente, e la coppia, rinnovata in parte proseguiva la gara. Le vecchie li ammiravano, le ragazze alla finestra fingevano di non guardarli, qualche nonno, toltosi di capo il berretto verdastro, lunghissimo, vi frugava sino al fondo, ne traeva il cartoccio del tabacco, caricava tranquillamente la pipa.

Alle cinque di sera la chiesa s’era quasi empita di gente per la cerimonia grande, ed io vi entrai in mezzo ad una compagnia d’ampli toraci e d’ottoni, che, per mio meglio, si fermarono in fondo. Meraviglioso spettacolo! L’umile chiesetta era scomparsa, travestita sfarzosamente da teatro. Dietro l’altare modesto scendeva dal soffitto un ampio e greve manto di color rosso cupo, tondeggiante nei molli seni, nelle spesse concavità, e s’aggirava ai lati del vano intero, appoggiandosi alle colonne, ove si raccoglieva in addobbi gonfi, a guisa di quinte. Innumerevoli candele disposte in tre file sull’altare e a’ suoi fianchi schiarivano i fiori e gli ornamenti nuovi, ma sul primo cornicione sporgente lungo tutte le pareti dell’aula all’altezza di quattro uomini correva una fitta linea di ceri, coi lucignoli congiunti da un filo impeciato di resina. Infiammato questo in vari punti, la luce percorse rapida il giro, e piovve copiosamente dall’alto sui corpi e sui volti accesi nel rosso cupo uniforme; non bastando, s’ apersero alcuni becchi di gas acetilene e il calore cominciò a farsi insopportabile. Chi può ritrarre l’orgoglio soddisfatto, che traspariva calmo, sicuro dalle faccie di quei poveri contadini ? E l’ammirazione ineffabile delle donne sporche e stracciate, a bocca larga, ad occhi fissi, mentre al gonfio seno scoperto succhiava l’ultimo bambolone ? Ed anche il bestiame minuto dei bimbi nudi e seminudi s’era chetato … ma ad un tratto scrosciano nell’ambiente sonoro le prime battute della marcia reale e sullo sfondo appaiono dei cartelloni quadrati, mossi in leggero dondolio da una corda maneggiata dietro l’addobbo. Sui quadrati si disegnano dei busti spaventosi: gli angeli ribelli, e degli ammassi oscuri: le nuvole; da entro le quinte si proietta su loro i riflesso infernale dei bengala vermigli, ed ecco nell’orrida scena apparire in cartone intagliato la figura dell’arcangelo irradiata da bengala azzurri, minacciosa, brandente la spada. Il cozzo antico si rinnova brevemente fra i suoni italiani, e i demoni si sbandano nella rotta confusa, colle nubi, mentre un secondo S. Michele, quieto, glorioso succede al primo, nello splendore aureo di Paradiso. E gli uomini e le donne e i ragazzi si agitano nell’ammirazione irrefrenata, la marcia reale invade ormai fiocamente la chiesa rumorosa, il frastuono e il calore mi spingono al di fuori: eccomi uscito, al buio, sotto la immensa pace del cielo tempestato di stelle. Proseguo.

La cuccagna è già vinta, le osterie riboccano di gente intenta alle salsicce, pochi uomini discorrono attorno ad una fanfara disposta sulla impalcatura della piazza maggiore. Ma allora corrono gli accenditori: in breve glia angoli più riposti s’aprono alla luce variopinta e la piazza fiammeggia; ecco apparire da lungi una carrozza, nella quale brillano i bottoni di un ufficiale dell’esercito, il messo comunale, acceso di zelo, rianima il patriottismo della fanfara, risuona la marcia reale, il paese si riversa nelle vie. Stordito prendo la via del ritorno, ma il transito è impossibile, troppo folta è la turba intesa ad ammirare i fuochi artificiali che drizzano al cielo due pirotecnici in gara.

E quando, spentosi l’ultimo razzo, spero di incamminarmi nella quiete, un’ondata di gente mi rapisce, mi trascina: è la fiaccolata in onore dell’angelo una lunga fila di giovani con torce fumigginose che corrono attossicando le vie sino alla chiesa; di là soltanto posso, se Dio vuole, dilungarmi nella campagna oscura, silenziosa … .

Ausonio Dobelli

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IL FOLK COME SCIENZA: “Credere in ciò che fu significa credere in ciò che si è”

di Filippo Curtosi e Giuseppe Candido

Luigi bruzzano
Luigi bruzzano

Luigi Bruzzano, Giuseppe Pitrè e Giuseppe Cocchiara: nasce l’Etnografia


Sotto la strana e diversa veste della fiaba si troverà adombrata la storia e la religione dei popoli e delle nazioni

La nascita dell’etnologia come scienza, la critica degli illuministi sull’idea di superstizione, il malinconico trasporto per la natura primitiva, la poesia degli umili ed in genere la problematica delle tradizioni popolari largamente intese è insieme la scienza e la coscienza dell’anima collettiva. Una sorta di enciclopedia piena di amore per il documento culturale e filologico questo rappresenta, secondo noi, “La Calabria”, Rivista di Letteratura Popolare” diretta da Luigi Bruzzano, uno dei maggiori demopsicologi italiani dell’Ottocento e stampata a Monteleone di Calabria (oggi Vibo Valentia) dal 1888 al 1902. La rivista del prof. Bruzzano contribuisce a creare l’odierno concetto di folklore che, per usare le parole di Antonio Gramsci, presuppone che non venga studiato come “elemento pittoresco” ma in veste di “una concezione del mondo e della vita, implicita in grande misura, di determinati strati (determinati nel tempo e nello spazio) della società, in contrapposizione (anch’essa per lo più implicita, meccanica, oggettiva) con le concezioni del mondo ufficiali (o, nel senso più largo, delle parti colte della società storicamente determinate) che si sono successe nello sviluppo storico”.

Lo storico, che volesse indagare l’origine e lo sviluppo del folklore italiano, indagarlo nel suo aspetto concreto e puro, dovrebbe usare un metodo semplice e considerarlo, per usare le parole del maggiore folclorista del secolo scorso, Giuseppe Cocchiara, “una somma di esperienze e di interpretazioni personali”. Nel suo libro “Storia del folclore in Europa”, Cocchiara, di scuola del Pitrè, sottolinea che: “se le tradizioni popolari vanno considerate come formazioni storiche, il problema fondamentale che, data la loro natura, esse pongono, è un problema di carattere storico. E il compito dello studioso delle tradizioni popolari è quello di vedere come esse si sono formate, perché si conservano, quali sono stati e quali sono i bisogni che ne determinano non solo la conservazione, ma quella continua e direi naturale rielaborazione, dov’è il segreto stesso della loro esistenza, che è un continuo morire per un eterno rivivere”.

Quindi lo studio etnografico del folklore non per compiere esercizi di paragoni tra varie culture egemoni e subalterne come dice Nadel o proporre l’esaltazione acritica della tradizione in se ma, piuttosto, per una necessità conoscitiva che serve, è necessaria, a riappropriarsi delle radici della nostra Storia.

In una lettera del novembre 1929 Raffaele Pettazzoni, già famoso ed affermato storico delle religioni, scriveva una lettera a Giuseppe Cocchiara che a lui si rivolgeva con l’appellativo di “Illustre maestro” chiedendo di “Parlargli come un padre può parlare ad un figlio…per rendermi degno di Lei, della sua stima e della sua fiducia. Ella deve acquistare quella cultura e quel metodo etnologico che in Italia dovrebbe farsi faticosamente da sé e che per lo studio del folklore è essenziale. Ella vedrà che per gli inglesi il folklore è essenzialmente etnologia: in Italia il folklore è sempre stato altra cosa e lo stesso Pitrè non ha realizzato completamente il concetto moderno di folklore in questo senso. Ella, dunque, sarà mi auguro, il pioniere di un nuovo indirizzo di studi folklorici in Italia, l’indirizzo “antropologico” cioè etnologico”. Giuseppe Cocchiara fu allievo del Pitrè e fu lui a riordinare, a partire dal 1935, le collezioni del museo etnografico siciliano intestato allo studioso, ispirandosi sempre al principio che “credere in ciò che fù significa credere in ciò che si è”. Per Cocchiara fu fondamentale il contatto con Pettazzoni che gli consigliò di recarsi in Inghilterra per un perfezionamento dove, lo stesso, andò a prendere lezioni da Robert Marett, esponente di una scuola antropologica sociale molto avanzata e sviluppata vista la necessità di acquisire conoscenze di antropologia applicata per la gestione delle colonie. Cocchiara in un primo momento ha poca simpatia per Pettazzoni e se ne capisce la ragione. Storico, letterato non meno che filologo, uomo di sapere sterminato in cui la quantità non va mai a detrimento della qualità e del gusto, Raffaele Pettezzoni, rappresenta per Cocchiara la negazione di tutto ciò che in qualche modo si rifà all’ipotesi del collettivo. La sua teoria sulla formazione delle “chansons de geste” che sarebbero state in origine leggende, “leggende locali, leggende di chiesa” e si sarebbero trasmesse oralmente dai monaci ai giullari che percorrevano i grandi itinerari sacri, le vie dei pellegrinaggi, dando così vita ad una tradizione colta e popolare insieme, ad una collaborazione tra strati inferiori e superiori della società, questa sua teoria è perfettamente antitetica allo studioso siculo. Ma dal carteggio che i due studiosi si scambiarono tra il 1928 ed il 1959 si rileva come l’allievo siciliano considerasse una “guida spirituale” Pettazzoni. “Dalle lettere, dice Eliana Calandra, direttore del museo Pitrè, emergono due persone diverse da quelle che apparivano in pubblico. Assai più affine e congeniale al Cocchiara fu il Pitrè e l’elemento tipico di questa rassomiglianza e la fiducia che entrambi nutrivano nella “naturale grandezza e poeticità del popolo”. “Fede nel popolo” è infatti intitolato il primo dei capitoli che sono dedicati al Pitrè nella “Storia del Folklore in Europa” e nel terzo sono riferite le seguenti parole dell’illustre studioso siciliano scritte nel suo “Studio critico sui canti popolari siciliani: La storia del popolo si è confusa con quella dei dominatori….della sua storia è voluta farsene una cosa stessa con la storia dei suoi governi, senza tenere presente che egli ha memorie ben diverse di quelle che così spesso gli si attribuiscono si dal lato delle sue istituzioni e si da quelli degli sforzi prepotenti da lui durati a sostegno dei suoi diritti. Il tempo di ricercare quelle memorie, di studiarle con pazienza, di fecondarle con amore è venuto anche per noi. Il filosofo, il legislatore, lo storico, che cercano di conoscere intero questo popolo, sentono oggi mai il bisogno di consultarlo nei suoi canti, nei suoi proverbi, nelle sue fiabe, non meno che nelle frasi, nei motto, nelle parole. Accanto alla parola sta sempre il suo significato, dietro il senso letterale viene il senso misto e l’allegorico: sotto la strana e diversa veste della fiaba si troverà adombrata la storia e la religione dei popoli e delle nazioni”. Il Pitrè il 16 ottobre 1888 scrive: “La Calabria” di Luigi Bruzzano è utile per conoscere i popoli dell’Italia meridionale, il bravo e dotto prof. Bruzzano ha fatto opera buona, voglia il cielo che i suoi sforzi vengono coronati dal buon successo che meritano perché fanno opera doppiamente utile alla filologia e alla etnografia”. Luigi Bruzzano allo studio del mondo classico trasmesso dal suocero Ferdinando Santacatarina, fine letterato, latinista di fama nazionale, aggiunge un nuovo ed umano “Umanesimo”: lo studio della civiltà del popolo calabrese, civiltà che viene da lontano, dalla natura primitiva, barbara e selvaggia del popolo calabro. I professorini da caffè, così chiamava il Bruzzano le persone di cultura ufficiale, abbagliati da una pseudo cultura umanista, “ebbero davanti ai loro occhi una splendida visione spiegando davanti al loro sguardo un campo di lavoro inesplorato”. Esploratore audace e intelligente Bruzzano fu pioniere indiscusso dello studio dell’etnografia. Crediamo che, l’aver riproposto un’ampia antologia di testi folklorici pubblicati dalla rivista di Letteratura Popolare “La Calabria” debba essere considerato piuttosto come sforzo conoscitivo volto al riappropriarsi della nostra Storia, della nostra lingua. Un patrimonio al quale, le giovani generazioni soprattutto ma non solo, dovrebbero avere accesso facilmente.

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Il Brigantaggio politico e i politici briganti

di Giuseppe Candido e Filippo Curtosi

Briganti
Briganti

Rileggendo la storia molto spesso ci si trova davanti a fatti, circostanze e situazioni che ricordano in maniera sorprendente quelli che oggi viviamo. Gli avvenimenti del 1799 e del 1806 che trovarono la loro conclusione nel 1815, aprirono un nuovo periodo nella storia della Calabria: il decennio francese e le persecuzioni del brigantaggio politico e sociale.

Presso la biblioteca comunale di Palmi sono conservate le carte della famiglia “Ajossa” tra le quali v’è un manifesto riguardante il periodo dell’occupazione francese nella Calabria Ultra e con il quale venivano pubblicate le taglie fissate sul capo di ben 859 briganti. Nome, Cognome e paese natale. Una lunga lista di ricercati che raffigura la mappa della ribellione nel territorio dove i calabresi si scannavano tra loro per sostenere, a seconda della posizione, i Francesi o i Borboni.

I fatti che caratterizzarono il trapasso dall’ancien regime allo stato moderno, evidenziano l’estrema violenza e virulenza dell’opposizione popolare al nuovo regime, che non effimera ma costante e valida, venne denominata per la prima volta dai francesi “brigantaggio”. Un nuovo regime dove la trilogia “legalite, liberté, fraternité” venne sostituita dagli alberi della libertà dai quali – come testimonia P. L. Cuirier – “s’impiccava facilmente e spesso”. La situazione in Calabria è particolare per le condizioni economico-sociali, per la vicinanza con la Sicilia, per il latifondo feudale e lo strapotere baronale. Questi fattori risultarono tutti decisivi per lo scaturire e il prolificarsi del brigantaggio. È noto anche ai non addetti ai lavori che, per primo il governo dei napoleonidi, abbia tentato di eliminare in Calabria il retaggio di un periodo medievale allora ancora vivo e presente, mettendo la nostra regione a contatto con le esperienze del mondo moderno. Ma per far questo in modo ineccepibile, bisognava se non risolvere, almeno tentare di risolvere i molteplici problemi esistenti, tra i quali il brigantaggio occupava una posizione primaria e considerevole. Gli sforzi furono notevoli, ma servirono a poco, poiché il periodo dell’occupazione fu troppo breve affinché i risultati si consolidassero e divenissero definitivi.

Della dominazione francese in Calabria, al rientro dei Borboni, restò soltanto un ricordo offuscato delle grandi riforme socio-istituzionali, e quello invece vivo e presente, delle violenze e delle prevaricazioni del periodo dell’occupazione e della feroce “repressione Manhes”.

In questo alternarsi di domini e avvicendarsi d’imprese guerresche, molto soffrirono e niente ottennero le masse contadine che furono sfruttate da tutti i protagonisti della lotta.

La Statistica murattiana” certifica lo stato di arretratezza socio economica, di degrado umano e civile, di primitività igienico sanitaria e di squallore ambientale.

I fattori primari del malcontento, la miseria e la fame di terra, perdurarono nonostante le riforme francesi, e propagandosi nel tempo pesarono sui calabresi finanche nel periodo post-unitario.

Intanto due sole remunerazioni per chi, preso dalla sete di giustizia e dall’insofferenza alle reiterate prepotenze, si ribellava: lo stigma di “brigate” e il conseguente annientamento da parte del potere istituzionalizzato.

L’entrata dei francesi in Calabria apportò grosse novità nel campo istituzionale che alimentarono le ostilità tra i vari partiti: mentre le classi degli aristocratici della borghesia e del piccolo artigianato si divisero tra patrioti e borbonici, le classi più misere, contadini, pastori, montanari etc. manifestarono una certa nostalgia per il regime borbonico; furono schieramenti non prettamente politici, fondati piuttosto sugli interessi, le ambizioni e le vendette personali. C’è chi sostiene che il brigante stesse con gli uni o con gli altri, altri sostengono invece che non stesse con i francesi né con i Borboni. Villari, nelle sue lettere sull’Italia Meridionale ed altri molti discorrendo del brigantaggio, vorrebbero trovarne le cause nella miseria, e nelle cattive condizioni del contadino. Ma sono smentiti dai fatti. Per Nicola Misasi (Cosenza 1850 – Roma 1923) nei suoi “Racconti Calabresi” edito nell’ottobre 2006 da Rubettino, il brigante fu allora “un prodotto spontaneo della vita calabrese”, … “di una natura forte e rigogliosa, la quale, diretta al bene, potrebbe essere capace di grandi delitti… Le donne incitavano i mariti, i fidanzati, i fratelli alla vendetta contro i francesi, gli sdolcinati maschi francesi”. Altro che repubblicani venuti a liberarci dalla schiavitù. Altro che “liberi, uguali e fratelli” dinnanzi alla legge come proclamato da loro. Secondo Misasi, e su questo concordiamo con lui, “Non è dunque la miseria soltanto che fa il brigante”. Se fosse vero il fatto che fu la miseria la causa principale del brigantaggio perché allora, si chiede Misasi, “la più parte dei briganti furono contadini agiati? Perché alcuni paesi ricchissimi, nei quali la proprietà è ben divisa, ove il contadino è retribuito più equamente che in altri siti, danno un buon contingente di briganti, ed altri paesi miserrimi, lungo un secolo, non ne contano neppure uno?”. Per comprendere meglio il fenomeno occorre soffermarci sul brigantaggio politico che “ci fu rimproverato del 1799, come un’onta, cui non bastò a lavare il sangue di mille e mille prodi calabresi, versato in cento battaglie e sui patiboli per la libertà d’Italia. … Ma io ho fede – continua Misasi – che quell’onta diverrà gloria per noi quando, diradate le nebbie, si studierà la storia delle nostre contrade col proposito di non arrestarsi alla superficie, ma di ficcar gli occhi in fondo per rintracciare il vero. Finora noi stessi ci gridammo barbari, lasciate che dica noi stessi ci gridammo popolo d’impotenti, rinnegando le nostre tradizioni, le nostre glorie, fummo paurosi di affermarci per quel che siamo e tendemmo supplicanti le braccia ad altri popoli per implorare da essi un raggio di luce e di civiltà. Colpa nostra se quei popoli ci trattarono da bambini e coi presero a scuola, non risparmiandoci le tiratine d’orecchio e le sculacciate, non leggendo o leggendo male la nostra storia; … Umili e sommessi aspettammo, e forse anche aspettiamo, di là il verbo rigeneratore, di là l’imbeccata del pensiero. Mutammo gli usi, i costumi, il linguaggio, financo il gusto, accettando nella nostra vita, nelle nostre case, nella nostra mensa tutto ciò che ci veniva dal di fuori …Tanta vigliacca condiscendenza ci fé credere, ed a ragione, popolo d’impotenti e di bambini”. Per tali motivi, prosegue Misasi, “il brigantaggio politico torna a gloria delle mie Calabrie”. Furono soprattutto i contadini a pagare le spese sia dell’eversione della feudalità sia l’accentramento delle terre nelle mani dei “galantuomini”. Essi furono ridotti alla condizione di semplici braccianti, “sottoposti alla soggezione di questi padroni che non solo non hanno mai fatto nulla per alleviare la miseria ed eliminare l’ignoranza, ma al contrario hanno fatto di tutto per tenerli schiavi ed asserviti”. Ed ancora oggi forse è così. Sicuramente non possiamo confondere il brigantaggio e il brigantaggio politico con l’attualità dei politici e dei “capimassa” briganti che avvelenano le nostre terre, le nostre acque e i nostri mari. Quello che la storia ci consente di leggere è che il brigantaggio fu un fenomeno spontaneo, naturale, un moto di ribellione alimentato dalla miseria ma diretto contro il “nuovo” come pure spontanea è quell’indignazione e quella voglia di ribellione contro il regime dei partiti che oggi, frequentemente, attraversa la società civile.

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Terremoto del 1908

di Filippo Curtosi

Raffigurazione dei danni del terremoto del 1908 su Le Petit Parisien
Raffigurazione dei danni del terremoto del 1908 su                    “Le Petit Parisien”

Quando il terremoto cancellò dalla faccia della terra Messina e mezza Calabria. Messina, 28 dicembre 1908, ore 5,20 e 5,25 del mattino: l’Apocalisse.
Cent’anni fa il terremoto fece 150 mila morti in Sicilia e Calabria e scatenò uno tsumani con onde fino a quindici metri.” Vidi una fascia rossa in cielo,verso il mare e come un lampo sullo Stromboli.Ho visto una trave di fuoco che correva sul mare”.Una delle tante testimonianze. Di intensità pari al 10° grado della scala Mercalli( che ne ha 12). Il sisma uccise 150 mila persone sulle due coste dello stretto. Messina fu completamente rasa al suolo, cosi come decine e decine di paesi calabresi: case, chiese, ospedali, strade, ferrovie. Cent’anni dopo i giornali dell’epoca restituiscono oggi la voce dei testimoni; i più importanti avevano brevi servizi provenienti da Palermo, Napoli, Catanzaro. A Napoli, il Giorno di Matilde Serao titolò: “Lo spaventoso terremoto in Calabria e tutta la Sicilia”. Il Mattino di Edoardo Scarfoglio: “La catastrofe di Messina: la città distrutta, migliaia di vittime”. Gaetano Salvemini, docente all’Università di Messina, perse la moglie, i 5 figli e una sorella. Fu l’unico sopravvissuto della sua famiglia. Raccontò la sua esperienza all’Avanti!” Ero in letto allorquando senti che tutto barcollava intorno a me e un rumore di sinistro che giungeva dal di fuori. In camicia, come ero, balzai dal letto e con uno slancio fui alla finestra per vedere cosa accadeva: Feci appena in tempo a spalancarla che la casa precipitò come un vortice, si inabissò, e tutto disparve in un nebbione denso, traversata come da rumori di valanga e da urla di gente che precipitando moriva”. Il quotidiano “Il Mattino”, raccolse il racconto del signor Manforte, telegrafista: “i muri erano sbattuti come foglie; da tutte le case e le finestre una grandine di tegole, di vasi, di parapetti, di davanzali, di cornicioni si abbatteva sulle strade con un frastuono altissimo… mi ricordo che vidi cadere le campane della cattedrale della Madonna della Lettera.
Il direttore dell’epoca della” Gazzetta di Messina”, Riccardo Vadalà : “nelle acque del porto galleggiava di tutto: cadaveri, carretti, mobili, carcasse d’animali, travi, botti, bastimenti affondati… tale era l’intensità della scossa e la violenza con cui le pareti venivano smosse e il sottosuolo si agitava, che non solo le pareti si piegavano come fogli di carta, ma io stesso, che quel mattino mi trovavo in redazione, mi senti sbalzare due o tre volte all’altezza di un metro dal pavimento. Uscito da sotto le macerie, tenendomi lungo il muro tentai di camminare per le strade. Il rumore delle case crollanti mi assordava… non vi era che un lungo, lugubre, immenso strillo da tutti i punti della città: Aiuto, Aiuto!
Tra i testimoni oculari dei soccorsi c’era anche lo scrittore Maksim Gor‘kij, che da Capri dove si trovava per cambiamento d’aria, apprese dalla lettura del Mattino della catastrofe calabro-sicula. Imbarcatosi fortunosamente e fortuitamente sul Duca degli Abruzzi, giunse a Messina insieme alle navi Francesi, Russe, Americane, Inglesi dirottate in soccorso. “Alle 5,20 la terra sussultò è l’incipit di ” Im zestorten Messina” nella traduzione di Fabio Mollica (Tra le macerie di Messina) introduzione di Nicola Aricò, Edizioni GMB Messina,2005). “Il mio primo spasimo durò quasi dieci secondi: i cigolii degli infissi e delle pareti, il tintinnio dei vetri, il fracasso delle scale che stavano crollando, spezzarono il sonno: la gente sbalzò in piedi percependo con tutto il corpo le scosse sismiche delle quali subito si prendeva coscienza, l’intelletto annichilito da una paura selvaggia. Alcuni correvano per le stanze cercando di fare luce nell’oscurità e di riunire i figli e la moglie, ma intorno a loro oscillavano i muri, cadevano i ripiani, le stoviglie, i quadri, gli specchi; si curvava il pavimento, mobili e tavoli sobbalzavano, mentre gli armadi movendosi per la stanza, si ribaltavano, tutto era animato dal panico, tutto, ostile agli uomini, minacciava morte. Come carta si laceravano soffitti, cadevano le stuccature, dappertutto crepitii, rovinare di pietre, sgretolarsi di muri, pianto di bambini, urla di paura, gemiti di dolore. Nessuno trovava l’uscita da questa tempesta che d’improvviso aveva reso la casa simile a un barcone, con la terra che oscillava sotto i piedi come onde del mare…”
Dopo che la terra tremò dal mare si alzò un’onda anomala alta quasi quindici metri che travolse macerie e persone.” Il mare improvvisamente si gonfiò alzandosi in un’enorme montagna ruggente dallo stretto e si rovesciò con cupo rombo furioso… un istante dopo la superficie agitata del mare apparve coperta di botti, d’imbarcazioni, di rottami, di battelli, di casse di petrolio, di frutta, d’agrumi e un nembo fittissimo copri la povera città di cui si elevavano acute strazianti urla invocanti soccorso”.
Anche il romanziere Giovanni Verga si adoperò fattivamente nella sua missione umanitaria e filantropica a soccorso dei profughi.
Scrive lo scrittore siciliano: “Mi sembra ancora di vederla quella figura sconvolta, uomo o donna non so: Rammento solo due occhi pazzi ed una bocca spalancata, enorme, urlando forse nel gridio generale, era anch’essa di un pallore cadaverico. Dibattevasi per farsi largo nella ressa dei profughi giunti colle prime corse, che si accavallavano sul balcone del municipio all’arrivo di altre barelle e di altri carrozzoni che portavano altri profughi ed altri gemiti. Ad un tratto vide, riconobbe qualcuno nella sfilata tragica… E l’altro, di laggiù vide lei sola in quel formicolio umano, udi, indovinò il nome…
D’altra parte, il terremoto non ha resocontisti istantanei. Furono in molti, personaggi noti e persone comuni a partire alla volta della Calabria e Sicilia per prestare il loro aiuto. L’Illustrazione Italiana mette in risalto la visita del sovrano Vittorio Emanuele III e consorte. Partirono la mattina del 30 dicembre a bordo della nave Slava. La regina approntò un ospedale dove furono ricoverate centinaia di superstiti, aiutò i terremotati diventando la sovrana più amata degli italiani. Il ” Corriere della Sera” manda la firma più autorevole, Luigi Barzini che raccoglie testimonianze dei contadini calabresi, in particolare dei paesi di Pannaconi, Triparni, Piscopio, Sant’Onofrio, Zammarò.
Cosi come il Kaiser di Prussia, Guglielmo II. Non mancarono, come sempre in questi casi, le ” visite” degli sciacalli.

(ndr) Sul terremoto del 1908 la rivista trimestrale Calabria Sconosciuta dedica un numero  monografico al tema,  uscita 119 (luglio – settembre 2008). Gli articoli sono molto interessanti e analizzano il disastro da  diversi punti di vista. Ricca la rassegna delle testimonianze e diverse le foto dell’epoca che documentano la tragedia più significativa della storia calabrese e siciliana.

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Io credo che Gesù sarebbe stato per l’eutanasia. Intervista a Vittorio De Seta

E sul caso Eluana Englaro cita Gesù : “Voglio misericordia e non sacrificio”. In Sardegna: “c’era la cabadora”

di Filippo Curtosi e Giuseppe Candido

22 novembre 2008 Intervista a Vittorio De Seta

.. Sono per l’autentica dottrina di Gesù. Però non credo che Gesù abbia mai espresso i concetti che son riassunti nel credo”. ..Gandhi è diventato Gandhi dopo aver letto “il Regno di dio è in noi” di Tolstoj. Con Pasolini ha in comune la formula “Sviluppo senza progresso”

di Filippo Curtosi e Giuseppe Candido

L’8 settembre 2008, in occasione del sessantesimo anniversario della dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo gira a Pentedattilo, in provincia di Reggio Calabria, il cortometraggio sull’articolo 23 della dichiarazione: “Articolo 23.Pentedàttilo” che sarà presentato il prossimo primo dicembre al Teatro Argentina in Roma.

Nato in Sicilia (Palermo, 1923) da nobile famiglia di origini calabresi, il maestro del film documentario italiano vive a Sellia Marina, in provincia di Catanzaro, dove cura le sue tenute. Dopo essersi iscritto alla facoltà di Architettura nel ”41 fu allievo ufficiale dell’Accademia Navale di Livorno. Dopo l’armistizio fu internato in Austria dai nazisti. Liberato nel ”45 ricomincia a studiare e inizia ad occuparsi di fotografia e di cinema. Nel ”53 collabora come aiuto regista ne “Le village magique” di Jean Paul Le Chanois e, sempre nello stesso anno, affianca Mario Chiari in un episodio di “Amori di mezzo secolo“. Il suo nome, nel dizionario del cinema dei registi mondiali dei tipi Enaudi, sta tra quelli di De Santis e De Sica. A partire dal ”54 sino al ”59 scrive e dirige una serie di documentari cortometraggi considerati oggi veri capolavori del cinema mondiale: Lu tempu di li pisci spata (1954 min 10′.04” ); Isole di fuoco (1954 min 09′.02” ); Surfarara (1955 min 09′.39”); Pasqua in Sicilia (1955 min 08′.12” ); Conrtadini del mare (1955 min 09′.24” ); Parabola d’oro (1955 min 09′.39” ); Pescherecci (1958 min 10′.02” ); Pastori di Orgosolo (1958 min 09′.54” ); Un giornoin Barbagia (1958 min 09′.27” ); I dimenticati (1959 min 16′.56” ). Straordinari documenti originariamente in Ferraniacolor e Cinemascope oggi digitalizzati e ripubblicati ne “Il mondo perduto” assieme a “La fatica delle Mani”,una raccolta di scritti su Vittorio De Seta a cura di Mario Capello che accompagna il dvd e in cui spiccano “La sabbia negli occhi” di Roberto Saviano, “su Banditi a Orgosolo” di Martin Scorsese, “una conversazione con Vittorio De Seta” di Goffredo Fofi, “Il metodo verghiano di De Seta” di Vincenzo Consolo, “De Seta: la Grande del documentario” di Alberto Farassino, “L’arcaico e la trasmissione della conoscenza” di Marco Maria Gazzano, “Un lungo viaggio verso il mondo perduto” di Gian Luca Farinelli. Nel ”61 De Seta esordisce col 35 mm nel lungometraggio con “Banditi a Orgosolo” ( Italia, 1961 – 98 min., 35 mm b/n). Seguono “Un uomo a metà” ( Italia, 1966 – 93 min., 35 mm, b/n) osteggiato dalla critica ma che ottenne riconoscimenti a Venezia e lodi da parte di Pierpaolo Pasolini e Moravia,  “L’invitata” ( Italia-Francia, 1969 – 90 min., 35 mm, col.); Diario di un maestro” ( Italia, 1973 – 270 min. 4 episodi , 16 mm, col.) evidenzia la problematica della scuola italiana e il vero scopo della scuola non finalizzata all’ottenimento di una promozione o di un diploma ma piuttosto come preparazione alla vita, la formazione del carattere e della personalità. Tutti temi ripresi in “Quando la scuola cambia” ( Italia, 1978 – 240 min. 4 episodi , 16 mm, col.) con cui De Seta, rispondendo a chi gli sottolineava  dopo l’uscita di Diario che quel maestro era finto e che non poteva attuarsi quel tipo di scuola, descrive quattro casi di scuola d’avanguardia, in Lombardia e in Puglia. Successivamente De Seta gira “La Sicilia rivisitata” ( Italia, 1980 – 207 min. 4 episodi , 16 mm, col.), “Hong Komg, la citta dei profughi” ( Italia, 1980 – 135 min. 3 episodi , 16 mm, col.), “Quando la scuola cambia” ( Italia, 1978 – 240 min. 4 episodi , 16 mm, col.), “Un carnevale per Venezia” ( Italia, 1983 – 56′ min., 16 mm, col.). Con “In Calabria” ( Italia, 1993 – 83′  min., 16 mm, col.) ritorna alle tradizioni, al racconto della realtà ancestrale in cui un paese, un villaggio erano una comunità. In “Lettera dal Sahara” ( Italia, 2004 – 123′ min., col.) De Seta racconta l’immigrazione nel mondo di oggi con la storia di Assan, un senegalese sbarcato a lampedusa e che, in meno di sei mesi, risale l’Italia passando per Napoli, Prato, Torino e cambiando ogni volta lavoro. E sul lavoro che nel settembre 2008, in occasione del sessantesimo anniversario della dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo, gira in provincia di Reggio Calabria un cortometraggio sull’articolo 23 della dichiarazione, il lavoro. “Articolo 23. Pentedàttilo” (Italia, 8 settembre 2008 – min. 05′ 49” , col) è un cortometraggio in cui immagini, musiche delle Calabrie ti accecano e raccontano. Pentedàttilo, a sud dell’Italia, è stato abbandonato dagli abitanti partiti in cerca del lavoro. Ma altri emigranti, ancora più poveri, arrivano a prenderne il posto.

Lo scorso 28 ottobre, Vittorio De Seta,  ha voluto farci l’onore di redigere la prefazione per “La Calabria”, una raccolta di canti sacri, leggende, canti popolari,tratti dall’omonima rivista di letteratura popolare edita in Monteleone, dal 1888 al 1902 e che gli scriventi stanno curando e stiamo per pubblicare.

Abbiamo pensato al maestro per la prefazione a questa  raccolta perché i documentari di De Seta, lodati dalla critica nazionale ed internazionale, non raccontano ma mostrano la realtà e ripercorrono, nel tempo che celebra il culto mediatico, il mondo perduto che fu non per esorcizzare o evadere la realtà ma per recuperare il senso delle cose dai segni, dai simboli ancora carichi di sacralità laica perché vere, umane.

Siamo andati a trovarlo in una giornata tempestosa, con il vento che piega la pioggia come le canne, per ringraziarlo della sua disponibilità e cogliendo l’occasione per fargli qualche domanda …..Antico e aspramente contemporaneo, la forza delle immagini dei cortometraggi che riescono a far parlare alberi, animali, vento,  mare, a tradurre in racconto il rumore, ora lieve ora travolgente della vita.

Lo incontriamo nella sua casa di Sellia Marina (CZ), facendo fatica a non distrarci dal nostro dialogo per guardare le sue cose,volti e corpi che diventano compagni di cammino.

D: Nella fase in cui si trovano oggi l’Italia e il mondo nella crisi globale, cosa è diventato oggi il lavoro?

R: Io ho fatto il lavoro manuale, sono stato due anni prigioniero. Una volta il lavoro in un certo senso era creativo .. perché il lavoro manuale è creativo. Uno fa un lavoro. vengono qui gli operai, una siepe, è finita e la vedi. Ma l’alienazione consiste nel fatto che ci sono degli operai in certe fabbriche meccaniche, che fanno dei pezzi che non sanno neanche che cosa sono, dove vanno. Se sono pezzi d’automobile o pezzi di un qualsiasi altro meccanismo. Perché ormai è fatto tutto per appalti. La fiat non è che produce, appalta tutte le parti. la cosa non può funzionare. Non fosse altro che per il fatto che per quattro milioni di anni si sapeva che cosa si faceva. Capito? La vita media poteva essere, che ne so, quarantacinque anni, mortalità infantile, gravidanze, ….figuriamoci, malaria, tubercolosi. Ci siamo liberati da questo, però si è perso un qualche altra cosa che era fondamentale. E che si sarebbe potuto mantenere.

D: Cosa ti piace di oggi?

R: Di oggi? E’ bellissimo voglio dire. Un trattore è una cosa bellissima, e non è che non si può usare. Non c’era bisogno di buttare tutto il resto. E’ un’incredibile imprevidenza da parte delle classi dirigenti. degli intellettuali. Nessuno ha dato l’allarme di questo. Che io sappia. salvo un americano: Torou, che a un certo punto ha detto che bisognava distruggere le macchine.

D: Finalmente hanno capito chi è Vittorio De Seta. In Italia, …

R: Adesso forse…, Saviano?

D: Guardando i cortometraggi di De Seta si ha la netta sensazione di conoscere il tempo nelle sue varie scansioni, di conoscere il vento, di vederlo, di assaporarlo, di sentirlo. Oggi è una giornata De Setiana.Abbiamo visto le canne piegate dal vento. Nel cinema di De Seta è la stessa cosa. I tuoi documentari ripropongono esperienze di vita. De Seta scandaglia il fondo delle cose e dell’animo umano della cultura popolare?

R: Si, in sostanza, la cultura contadina che è la cultura popolare, che era proprio la storia dell’uomo come evoluzione lenta, è stata buttata a mare. Io faccio sempre il paragone, forse ne ho già parlato. Insomma, si va sempre indietro. Già si parla dell’Umo da 4 milioni di anni. Io dico: 4 milioni di anni sono 42.000 secoli; 42.000 secoli sono come i metri della maratona. Sono 42.195 metri. Il progresso prende gli ultimi due metri. Nessuno parla mai di questo. Il nostro cervello si era sviluppato lentamente fino al 1827 quando è entrata in campo la locomotiva, tanto per stabilire una cosa. E li c’è stato un movimento. Un’accelerazione esponenziale. Per cui io sento che noi non facciamo più fronte. La vita è proprio cambiata. I documentari ripropongono quell’esperienza di vita che poteva avere un uomo siciliano di cinquant’anni fa. E quindi quella di sempre. Mi segue? E quindi gli odori, i sapori, i suoni. Tutto. Noi siamo stati privati di questo patrimonio, in cambio del progresso. Però a questo punto io dico che il frigo e questo telefonino (prendendo in mano il suo cellulare) l’abbiamo pagati troppo caro. (minuti 4′:20”.11)

D: Maestro, hai conosciuto Pasolini?  Com’ era Pasolini?

R: l’ho visto 4 5 volte in tutto. Intanto molto generoso, molto anche impulsivo, diretto. Lui, ad esempio, quando ho fatto un uomo a metà che è stato letteralmente linciato da una parte della critica ma che è andata in corto circuito a Venezia, e poi adesso sempre meglio capisco perché, lui è intervenuto. Ha parlato di cinema di poesia. Anche Moravia aveva fatto una buona critica. Però non è servito perché l’hanno massacrato passando pure notizie false. Quello che più ho di più lui (Pasolini ndr) è la formula “sviluppo senza progresso” . Tutto il resto per esempio, leggendo quegli articoli del Corriere della Sera, ecco, dovrei rileggerli. Ma non c’è mai tempo. Mi sono ricomprato il volume di Gramsci, non si fa più in tempo a seguire, a capire. (minuti 1′:23”.17)

D: Maestro, con Moravia che rapporto avevi? Com’era Moravia

R: No, Moravia era bravo, lui faceva la critica sull’espresso.

D: E’ venuto in Sardegna?

R: No, lui dirigeva una rivista. “Nuovi argomenti” che, mi pare nel ’57 o ’58, ha pubblicato un’inchiesta di Franco Cragnetta che era un antropologo sociologo. F. Cragnetta aveva fatto “a Orgosolo” raccontando Orgosolo, raccontando la famosa disamistate a cavallo della guerra mondiale. Una faida interna al paese. E proponendo questo paese che era rimasto fuori dalla storia.

D: Lui era un’esistenzialista?

R: Moravia? I titoli, una noia. Io ripeto, non lo conosco bene. Non ho avuto il tempo. Io per esempio Purz non l’ho letto. Non ho fatto in tempo. Però qualche anno fa ho passato due anni a rileggere solo Tolstoj. Perché Tolstoj oltre ai romanzi ha scritto dei saggi morali bellissimi. Gandhi è diventato Gandhi dopo aver letto un libro di Tolstoj che si chiama “Il Regno di Dio è in noi“. Una frase che c’è nel vangelo.

D: Che rapporto ha con la fede De Seta?

R: Questo è molto complesso. Io non riesco a rinunciare alla ragione. Se la fede è rinuncia alla ragione allora non ho fede. Ho una grande devozione, come dire, un’ammirazione immensa per Gesù. Per l’autentica dottrina di Gesù. Però non credo che Gesù abbia mai espresso i concetti che son riassunti nel credo. Cioè questa revisione, questo abbandono totale. Questa deve essere roba…, Tolstoj l’ha approfondito in questo libro che ho ma ma è in inglese e non riesco a leggere. Si chiama Critica della teologia dogmatica. I discorsi diventano troppo lunghi. In sostanza, Tolstoj mi ha insegnato che al di la della versione chiesastica, diciamo, di Gesù, della dottrina di Gesù. Che si riassume nel credo, che è stata annunciata a Nicea nel 300 d.C.. Al di la di questo, la dottrina di Gesù è un’altra cosa, contrasta enormemente.

D: Tu innamorato di San Paolo?

R: Si, si. Ma soprattutto di Gesù perché è stato falsato. Forse non si poteva fare altro. San Paolo lo stesso. Cioè praticamente: Gesù è un profeta. Infatti Lui dice(va) sempre: “è stato detto occhio per occhio ma, Io vi dico …..”. Quindi Lui era venuto a cambiare. Quella frase che c’è nel vangelo: “Sono venuto soltanto a compiere”. Non è vero. Però … nel cristianesimo c’erano le sette giudeo cristiane che hanno mantenuto il vecchio testamento. Però fra il vecchi e il nuovo c’era un contrasto enorme.  (minuti 4′:18”.05)

D: Riesci ad esprimere questo nei tuoi lavori ? Che Gesù è stato falsato?

R: E no. Io volevo fare, ma non ce la farò. Insomma, non tutto il vangelo, un film su una parte del vangelo per cercare di spiegare. C’è un grosso equivoco di base. Cioè la dottrina di Gesù viene sempre espressa come un qualche cosa di meraviglioso ma astruso, inattuabile, metafisico. Mentre invece no. Tolstoj mi ha insegnato che è profondamente razionale. Quando Gesù dice quei paradossi, che sembrano paradossi, “ama il tuo nemico”. In realtà è giusto, è vero. E la gente lo sente tant’è vero che a questa dottrina la gente aderisce. Però poi è invalsa la consuetudine di dire: va bene, però questi sono sogni, la realtà è un altra. E quindi, per esempio, il Male. la chiesa riconosce il male, mentre invece Gesù non lo riconosceva. Oppure lo riconosceva come diminuzione di bene, ecco, non come entità autonoma.

D: San Paolo in un certo qual modo ha divinizzato….

R: San Paolo ha dovuto fondare una chiesa che è un istituto secolare. Che è uno Stato oggi, che ha una guardia svizzera, una guardia armata. Gesù diceva che – quando manda in giro i discepoli –  che non dovevano portarsi neanche i sandali di ricambio. Neanche la bisaccia, forse neanche il bastone. Insomma, è differente nei vari vangeli. Li (nella chiesa ndr) abbiamo il Vaticano con la cappella sistina …. (minuti 2′:00”.86)

D: Parlando di nuovo di chiesa, lei diceva, raffigurava nelle sue parole una contrapposizione tra religione e religiosità sentita dalle persone. Oggi questo tema la chiesa lo ripropone per il caso  Englaro, come fu per Piergiorgio Welby..

R: Nel Caso?

D: Eluana Englaro, quella ragazza …

R: Si, e quello non l’ho seguito per niente.

D: In buona sostanza la situazione è la stessa cosa di Piergiorgio Welby….

R: Cos’era la sacralità della vita?

D: La sacralità della vita difesa fino all’ultimo tant’è che adesso in pratica si propone una petizione al Parlamento europeo per cercare di annullare tre gradi di giudizio più una sentenza della Corte costituzionale che già si sono espresse a favore di Beppino e della famiglia Englaro nella richiesta di veder rispettata l’autodeterminazione.

R: Detto proprio in soldoni. La chiesa quando dice così tradisce. Perché Gesù, credo che nel vangelo è riportato tre o quattro volte, Lui dice: “voglio misericordia e non sacrificio”. E’ tutto li. Mantenerla in vita è un sacrificio. Per lei (Eluana ndr), per la famiglia, per tutto. Io credo che Gesù sarebbe stato per l’eutanasia. Perché è la cosa logica, è razionale. Non c’è niente di irrazionale, niente di astruso, niente di metafisico nella dottrina di ..(Gesù ndr). Se tutti facessimo così credo che vivremmo in pace meravigliosamente.

D: Nella cultura delle nostre tradizioni, come per il caso dell’aborto clandestino che c’era la figura delle mammane, esistevano delle figure simili per quanto riguarda l’aiutare a far soffrire meno nella morte?

R: In Sardegna c’era sicuro. C’era la cabadora, la cabadora  (deriva ndr) dallo spagnolo. Cioè, quando c’era qualcuno che era così, in difficoltà, e provvedeva lei. Quando la situazione era insostenibile. Quindi la saggezza popolare aveva trovato il rimedio. Perché è una questione di senso comune. Se uno accantona i pregiudizi, i principi. Umanamente una situazione così bisognerebbe intervenire, assumersi ….E’ facile dire la vita è sacra. Ma che cosa vuol dire? Abbiamo avuto i cappellani militari. La chiesa ha partecipato alle guerre.

D: Cos’è il senso di colpa per De Seta?

R: Il senso di colpa è che noi …noi veniamo dal male. Dal così detto male. Il mondo della natura si vede: c’è il male. Il mondo dei dinosauri era un mondo basato sulla violenza. Noi veniamo da la. Ce lo portiamo nell’inconscio. L’inconscio è ereditario.

D: Non c’è niente da fare insomma.

R: E si, l’uomo esprime questa contraddizione: si è instaurata, non so quando non so come, la coscienza morale però è rimasto questo ricordo ereditario del male dal quale usciamo. Mi segue?

(minuti 0′:58”.15)

D: Come liberarsi dal senso di colpa?

R: Capendo. Capendo il meccanismo. Per cui Gesù dice delle cose fondamentali. Una volta gli dicono: Tu che sei buono… E Lui (Gesù ndr) dice: “Io non sono buono, Dio è buono“. Lui si dichiarava Uomo. E poi perdona tutti: perdona l’adultera, perdona il partigiano, il brigante crocefisso vicino a Lui, perdona tutti. Lo accoglievano i pubblicani, che erano gli esattori delle imposte, quindi doppiamente spregevoli per il popolo. Perché percepivano le imposte per i Romani, che poi l’impero romano era un impero militare fiscale. Non c’era questa grandezza di Roma che si dice. S, perché facevano le strade ma in realtà spremevano sangue da tutti.

D: De Seta, come dice Scorsese, antropologo poeta?

R: A.. questo l’ha detto Scorsese? Va be questo riguarda i documentari. Si, ma perché io neanche me ne rendevo conto quando li ho fatti. Adesso, ha ragione (Scorsese ndr), c’è – come dire . un’interpretazione religiosa della vita. si sente nei documentari. Li avete visti adesso quelli restaurati? Perché una volta era così. C’era…., c’era la soggezione per il mistero. Cioè si riconosceva che c’era un qualcosa che non si può capire. La saggezza popolare questo lo aveva intuito. Mentre invece, oggi … E’ come la parabola dei vignaioli omicidi che c’è sempre nel vangelo. Quella è illuminante. Il padrone, cioè Dio, costruisce una vigna, la circonda di un muro, insomma, e poi la consegna a questi vignaioli. Poi quando manda a prendere l’affitto, manda i profeti, questi li maltrattano, qualche volta li uccidono. Allora Lui dice: manderò mio figlio almeno avranno rispetto di lui. Di questi temi, di queste cose non se ne parla mai. Il materialismo è questo. Si parla solo della pensione, l’ambiente. Cose sacro sante, per carità. Però questo e basta. S’è perso quel senso… quando si dice gli antichi, che poi noi giudichiamo spregevoli, ignoranti, arretrati, il popolo rozzo, violento. Ma quando mai! Avete visto i dimenticati?

Quello era e ancora in parte è. Quindi è tutto un inganno. E’ tutto un’impostura. Questo è il fatto.

D: Pensa di essere stato, in un certo senso, scomunicato per aver detto verità scomode?

R: Si, ma queste cose poi non le ho mai scritte. Però basterebbe riprendere Tolstoj. Non è che uno vuole fare chissà che. Non c’è questo assunto di originalità. …… Tolstoj a un certo punto ha finito di scrivere. Ha smesso di scrivere narrativa, romanzi. Perché la chiesa ortodossa l’ha scomunicato. E poi ancora oggi è all’indice. Nessuno ne parla. E’ una personalità, uno dei più grandi uomini del secondo millennio.

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Credo che Gesù sarebbe stato per l’eutanasia. Intervista a Vittorio De Seta

E sul caso Eluana Englaro cita Gesù : “Voglio misericordia e non sacrificio”. In Sardegna: “c’era la cabadora”

di Filippo Curtosi e Giuseppe Candido

22 novembre 2008 Intervista a Vittorio De Seta

.. Sono per l’autentica dottrina di Gesù. Però non credo che Gesù abbia mai espresso i concetti che son riassunti nel credo”. ..Gandhi è diventato Gandhi dopo aver letto “il Regno di dio è in noi” di Tolstoj. Con Pasolini ha in comune la formula “Sviluppo senza progresso”

di Filippo Curtosi e Giuseppe Candido

L’8 settembre 2008, in occasione del sessantesimo anniversario della dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo gira a Pentedattilo, in provincia di Reggio Calabria, il cortometraggio sull’articolo 23 della dichiarazione: “Articolo 23.Pentedàttilo” che sarà presentato il prossimo primo dicembre al Teatro Argentina in Roma.

Nato in Sicilia (Palermo, 1923) da nobile famiglia di origini calabresi, il maestro del film documentario italiano vive a Sellia Marina, in provincia di Catanzaro, dove cura le sue tenute. Dopo essersi iscritto alla facoltà di Architettura nel ”41 fu allievo ufficiale dell’Accademia Navale di Livorno. Dopo l’armistizio fu internato in Austria dai nazisti. Liberato nel ”45 ricomincia a studiare e inizia ad occuparsi di fotografia e di cinema. Nel ”53 collabora come aiuto regista ne “Le village magique” di Jean Paul Le Chanois e, sempre nello stesso anno, affianca Mario Chiari in un episodio di “Amori di mezzo secolo“. Il suo nome, nel dizionario del cinema dei registi mondiali dei tipi Enaudi, sta tra quelli di De Santis e De Sica. A partire dal ”54 sino al ”59 scrive e dirige una serie di documentari cortometraggi considerati oggi veri capolavori del cinema mondiale: Lu tempu di li pisci spata (1954 min 10′.04” ); Isole di fuoco (1954 min 09′.02” ); Surfarara (1955 min 09′.39”); Pasqua in Sicilia (1955 min 08′.12” ); Conrtadini del mare (1955 min 09′.24” ); Parabola d’oro (1955 min 09′.39” ); Pescherecci (1958 min 10′.02” ); Pastori di Orgosolo (1958 min 09′.54” ); Un giornoin Barbagia (1958 min 09′.27” ); I dimenticati (1959 min 16′.56” ). Straordinari documenti originariamente in Ferraniacolor e Cinemascope oggi digitalizzati e ripubblicati ne “Il mondo perduto” assieme a “La fatica delle Mani”,una raccolta di scritti su Vittorio De Seta a cura di Mario Capello che accompagna il dvd e in cui spiccano “La sabbia negli occhi” di Roberto Saviano, “su Banditi a Orgosolo” di Martin Scorsese, “una conversazione con Vittorio De Seta” di Goffredo Fofi, “Il metodo verghiano di De Seta” di Vincenzo Consolo, “De Seta: la Grande del documentario” di Alberto Farassino, “L’arcaico e la trasmissione della conoscenza” di Marco Maria Gazzano, “Un lungo viaggio verso il mondo perduto” di Gian Luca Farinelli. Nel ”61 De Seta esordisce col 35 mm nel lungometraggio con “Banditi a Orgosolo” ( Italia, 1961 – 98 min., 35 mm b/n). Seguono “Un uomo a metà” ( Italia, 1966 – 93 min., 35 mm, b/n) osteggiato dalla critica ma che ottenne riconoscimenti a Venezia e lodi da parte di Pierpaolo Pasolini e Moravia,  “L’invitata” ( Italia-Francia, 1969 – 90 min., 35 mm, col.); Diario di un maestro” ( Italia, 1973 – 270 min. 4 episodi , 16 mm, col.) evidenzia la problematica della scuola italiana e il vero scopo della scuola non finalizzata all’ottenimento di una promozione o di un diploma ma piuttosto come preparazione alla vita, la formazione del carattere e della personalità. Tutti temi ripresi in “Quando la scuola cambia” ( Italia, 1978 – 240 min. 4 episodi , 16 mm, col.) con cui De Seta, rispondendo a chi gli sottolineava  dopo l’uscita di Diario che quel maestro era finto e che non poteva attuarsi quel tipo di scuola, descrive quattro casi di scuola d’avanguardia, in Lombardia e in Puglia. Successivamente De Seta gira “La Sicilia rivisitata” ( Italia, 1980 – 207 min. 4 episodi , 16 mm, col.), “Hong Komg, la citta dei profughi” ( Italia, 1980 – 135 min. 3 episodi , 16 mm, col.), “Quando la scuola cambia” ( Italia, 1978 – 240 min. 4 episodi , 16 mm, col.), “Un carnevale per Venezia” ( Italia, 1983 – 56′ min., 16 mm, col.). Con “In Calabria” ( Italia, 1993 – 83′  min., 16 mm, col.) ritorna alle tradizioni, al racconto della realtà ancestrale in cui un paese, un villaggio erano una comunità. In “Lettera dal Sahara” ( Italia, 2004 – 123′ min., col.) De Seta racconta l’immigrazione nel mondo di oggi con la storia di Assan, un senegalese sbarcato a lampedusa e che, in meno di sei mesi, risale l’Italia passando per Napoli, Prato, Torino e cambiando ogni volta lavoro. E sul lavoro che nel settembre 2008, in occasione del sessantesimo anniversario della dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo, gira in provincia di Reggio Calabria un cortometraggio sull’articolo 23 della dichiarazione, il lavoro. “Articolo 23. Pentedàttilo” (Italia, 8 settembre 2008 – min. 05′ 49” , col) è un cortometraggio in cui immagini, musiche delle Calabrie ti accecano e raccontano. Pentedàttilo, a sud dell’Italia, è stato abbandonato dagli abitanti partiti in cerca del lavoro. Ma altri emigranti, ancora più poveri, arrivano a prenderne il posto.

Lo scorso 28 ottobre, Vittorio De Seta,  ha voluto farci l’onore di redigere la prefazione per “La Calabria”, una raccolta di canti sacri, leggende, canti popolari,tratti dall’omonima rivista di letteratura popolare edita in Monteleone, dal 1888 al 1902 e che gli scriventi stanno curando e stiamo per pubblicare.

Abbiamo pensato al maestro per la prefazione a questa  raccolta perché i documentari di De Seta, lodati dalla critica nazionale ed internazionale, non raccontano ma mostrano la realtà e ripercorrono, nel tempo che celebra il culto mediatico, il mondo perduto che fu non per esorcizzare o evadere la realtà ma per recuperare il senso delle cose dai segni, dai simboli ancora carichi di sacralità laica perché vere, umane.

Siamo andati a trovarlo in una giornata tempestosa, con il vento che piega la pioggia come le canne, per ringraziarlo della sua disponibilità e cogliendo l’occasione per fargli qualche domanda …..Antico e aspramente contemporaneo, la forza delle immagini dei cortometraggi che riescono a far parlare alberi, animali, vento,  mare, a tradurre in racconto il rumore, ora lieve ora travolgente della vita.

Lo incontriamo nella sua casa di Sellia Marina (CZ), facendo fatica a non distrarci dal nostro dialogo per guardare le sue cose,volti e corpi che diventano compagni di cammino.

D: Nella fase in cui si trovano oggi l’Italia e il mondo nella crisi globale, cosa è diventato oggi il lavoro?

R: Io ho fatto il lavoro manuale, sono stato due anni prigioniero. Una volta il lavoro in un certo senso era creativo .. perché il lavoro manuale è creativo. Uno fa un lavoro. vengono qui gli operai, una siepe, è finita e la vedi. Ma l’alienazione consiste nel fatto che ci sono degli operai in certe fabbriche meccaniche, che fanno dei pezzi che non sanno neanche che cosa sono, dove vanno. Se sono pezzi d’automobile o pezzi di un qualsiasi altro meccanismo. Perché ormai è fatto tutto per appalti. La fiat non è che produce, appalta tutte le parti. la cosa non può funzionare. Non fosse altro che per il fatto che per quattro milioni di anni si sapeva che cosa si faceva. Capito? La vita media poteva essere, che ne so, quarantacinque anni, mortalità infantile, gravidanze, ….figuriamoci, malaria, tubercolosi. Ci siamo liberati da questo, però si è perso un qualche altra cosa che era fondamentale. E che si sarebbe potuto mantenere.

D: Cosa ti piace di oggi?

R: Di oggi? E’ bellissimo voglio dire. Un trattore è una cosa bellissima, e non è che non si può usare. Non c’era bisogno di buttare tutto il resto. E’ un’incredibile imprevidenza da parte delle classi dirigenti. degli intellettuali. Nessuno ha dato l’allarme di questo. Che io sappia. salvo un americano: Torou, che a un certo punto ha detto che bisognava distruggere le macchine.

D: Finalmente hanno capito chi è Vittorio De Seta. In Italia, …

R: Adesso forse…, Saviano?

D: Guardando i cortometraggi di De Seta si ha la netta sensazione di conoscere il tempo nelle sue varie scansioni, di conoscere il vento, di vederlo, di assaporarlo, di sentirlo. Oggi è una giornata De Setiana.Abbiamo visto le canne piegate dal vento. Nel cinema di De Seta è la stessa cosa. I tuoi documentari ripropongono esperienze di vita. De Seta scandaglia il fondo delle cose e dell’animo umano della cultura popolare?

R: Si, in sostanza, la cultura contadina che è la cultura popolare, che era proprio la storia dell’uomo come evoluzione lenta, è stata buttata a mare. Io faccio sempre il paragone, forse ne ho già parlato. Insomma, si va sempre indietro. Già si parla dell’Umo da 4 milioni di anni. Io dico: 4 milioni di anni sono 42.000 secoli; 42.000 secoli sono come i metri della maratona. Sono 42.195 metri. Il progresso prende gli ultimi due metri. Nessuno parla mai di questo. Il nostro cervello si era sviluppato lentamente fino al 1827 quando è entrata in campo la locomotiva, tanto per stabilire una cosa. E li c’è stato un movimento. Un’accelerazione esponenziale. Per cui io sento che noi non facciamo più fronte. La vita è proprio cambiata. I documentari ripropongono quell’esperienza di vita che poteva avere un uomo siciliano di cinquant’anni fa. E quindi quella di sempre. Mi segue? E quindi gli odori, i sapori, i suoni. Tutto. Noi siamo stati privati di questo patrimonio, in cambio del progresso. Però a questo punto io dico che il frigo e questo telefonino (prendendo in mano il suo cellulare) l’abbiamo pagati troppo caro. (minuti 4′:20”.11)

D: Maestro, hai conosciuto Pasolini?  Com’ era Pasolini?

R: l’ho visto 4 5 volte in tutto. Intanto molto generoso, molto anche impulsivo, diretto. Lui, ad esempio, quando ho fatto un uomo a metà che è stato letteralmente linciato da una parte della critica ma che è andata in corto circuito a Venezia, e poi adesso sempre meglio capisco perché, lui è intervenuto. Ha parlato di cinema di poesia. Anche Moravia aveva fatto una buona critica. Però non è servito perché l’hanno massacrato passando pure notizie false. Quello che più ho di più lui (Pasolini ndr) è la formula “sviluppo senza progresso” . Tutto il resto per esempio, leggendo quegli articoli del Corriere della Sera, ecco, dovrei rileggerli. Ma non c’è mai tempo. Mi sono ricomprato il volume di Gramsci, non si fa più in tempo a seguire, a capire. (minuti 1′:23”.17)

D: Maestro, con Moravia che rapporto avevi? Com’era Moravia

R: No, Moravia era bravo, lui faceva la critica sull’espresso.

D: E’ venuto in Sardegna?

R: No, lui dirigeva una rivista. “Nuovi argomenti” che, mi pare nel ’57 o ’58, ha pubblicato un’inchiesta di Franco Cragnetta che era un antropologo sociologo. F. Cragnetta aveva fatto “a Orgosolo” raccontando Orgosolo, raccontando la famosa disamistate a cavallo della guerra mondiale. Una faida interna al paese. E proponendo questo paese che era rimasto fuori dalla storia.

D: Lui era un’esistenzialista?

R: Moravia? I titoli, una noia. Io ripeto, non lo conosco bene. Non ho avuto il tempo. Io per esempio Purz non l’ho letto. Non ho fatto in tempo. Però qualche anno fa ho passato due anni a rileggere solo Tolstoj. Perché Tolstoj oltre ai romanzi ha scritto dei saggi morali bellissimi. Gandhi è diventato Gandhi dopo aver letto un libro di Tolstoj che si chiama “Il Regno di Dio è in noi“. Una frase che c’è nel vangelo.

D: Che rapporto ha con la fede De Seta?

R: Questo è molto complesso. Io non riesco a rinunciare alla ragione. Se la fede è rinuncia alla ragione allora non ho fede. Ho una grande devozione, come dire, un’ammirazione immensa per Gesù. Per l’autentica dottrina di Gesù. Però non credo che Gesù abbia mai espresso i concetti che son riassunti nel credo. Cioè questa revisione, questo abbandono totale. Questa deve essere roba…, Tolstoj l’ha approfondito in questo libro che ho ma ma è in inglese e non riesco a leggere. Si chiama Critica della teologia dogmatica. I discorsi diventano troppo lunghi. In sostanza, Tolstoj mi ha insegnato che al di la della versione chiesastica, diciamo, di Gesù, della dottrina di Gesù. Che si riassume nel credo, che è stata annunciata a Nicea nel 300 d.C.. Al di la di questo, la dottrina di Gesù è un’altra cosa, contrasta enormemente.

D: Tu innamorato di San Paolo?

R: Si, si. Ma soprattutto di Gesù perché è stato falsato. Forse non si poteva fare altro. San Paolo lo stesso. Cioè praticamente: Gesù è un profeta. Infatti Lui dice(va) sempre: “è stato detto occhio per occhio ma, Io vi dico …..”. Quindi Lui era venuto a cambiare. Quella frase che c’è nel vangelo: “Sono venuto soltanto a compiere”. Non è vero. Però … nel cristianesimo c’erano le sette giudeo cristiane che hanno mantenuto il vecchio testamento. Però fra il vecchi e il nuovo c’era un contrasto enorme.  (minuti 4′:18”.05)

D: Riesci ad esprimere questo nei tuoi lavori ? Che Gesù è stato falsato?

R: E no. Io volevo fare, ma non ce la farò. Insomma, non tutto il vangelo, un film su una parte del vangelo per cercare di spiegare. C’è un grosso equivoco di base. Cioè la dottrina di Gesù viene sempre espressa come un qualche cosa di meraviglioso ma astruso, inattuabile, metafisico. Mentre invece no. Tolstoj mi ha insegnato che è profondamente razionale. Quando Gesù dice quei paradossi, che sembrano paradossi, “ama il tuo nemico”. In realtà è giusto, è vero. E la gente lo sente tant’è vero che a questa dottrina la gente aderisce. Però poi è invalsa la consuetudine di dire: va bene, però questi sono sogni, la realtà è un altra. E quindi, per esempio, il Male. la chiesa riconosce il male, mentre invece Gesù non lo riconosceva. Oppure lo riconosceva come diminuzione di bene, ecco, non come entità autonoma.

D: San Paolo in un certo qual modo ha divinizzato….

R: San Paolo ha dovuto fondare una chiesa che è un istituto secolare. Che è uno Stato oggi, che ha una guardia svizzera, una guardia armata. Gesù diceva che – quando manda in giro i discepoli –  che non dovevano portarsi neanche i sandali di ricambio. Neanche la bisaccia, forse neanche il bastone. Insomma, è differente nei vari vangeli. Li (nella chiesa ndr) abbiamo il Vaticano con la cappella sistina …. (minuti 2′:00”.86)

D: Parlando di nuovo di chiesa, lei diceva, raffigurava nelle sue parole una contrapposizione tra religione e religiosità sentita dalle persone. Oggi questo tema la chiesa lo ripropone per il caso  Englaro, come fu per Piergiorgio Welby..

R: Nel Caso?

D: Eluana Englaro, quella ragazza …

R: Si, e quello non l’ho seguito per niente.

D: In buona sostanza la situazione è la stessa cosa di Piergiorgio Welby….

R: Cos’era la sacralità della vita?

D: La sacralità della vita difesa fino all’ultimo tant’è che adesso in pratica si propone una petizione al Parlamento europeo per cercare di annullare tre gradi di giudizio più una sentenza della Corte costituzionale che già si sono espresse a favore di Beppino e della famiglia Englaro nella richiesta di veder rispettata l’autodeterminazione.

R: Detto proprio in soldoni. La chiesa quando dice così tradisce. Perché Gesù, credo che nel vangelo è riportato tre o quattro volte, Lui dice: “voglio misericordia e non sacrificio”. E’ tutto li. Mantenerla in vita è un sacrificio. Per lei (Eluana ndr), per la famiglia, per tutto. Io credo che Gesù sarebbe stato per l’eutanasia. Perché è la cosa logica, è razionale. Non c’è niente di irrazionale, niente di astruso, niente di metafisico nella dottrina di ..(Gesù ndr). Se tutti facessimo così credo che vivremmo in pace meravigliosamente.

D: Nella cultura delle nostre tradizioni, come per il caso dell’aborto clandestino che c’era la figura delle mammane, esistevano delle figure simili per quanto riguarda l’aiutare a far soffrire meno nella morte?

R: In Sardegna c’era sicuro. C’era la cabadora, la cabadora  (deriva ndr) dallo spagnolo. Cioè, quando c’era qualcuno che era così, in difficoltà, e provvedeva lei. Quando la situazione era insostenibile. Quindi la saggezza popolare aveva trovato il rimedio. Perché è una questione di senso comune. Se uno accantona i pregiudizi, i principi. Umanamente una situazione così bisognerebbe intervenire, assumersi ….E’ facile dire la vita è sacra. Ma che cosa vuol dire? Abbiamo avuto i cappellani militari. La chiesa ha partecipato alle guerre.

D: Cos’è il senso di colpa per De Seta?

R: Il senso di colpa è che noi …noi veniamo dal male. Dal così detto male. Il mondo della natura si vede: c’è il male. Il mondo dei dinosauri era un mondo basato sulla violenza. Noi veniamo da la. Ce lo portiamo nell’inconscio. L’inconscio è ereditario.

D: Non c’è niente da fare insomma.

R: E si, l’uomo esprime questa contraddizione: si è instaurata, non so quando non so come, la coscienza morale però è rimasto questo ricordo ereditario del male dal quale usciamo. Mi segue?

(minuti 0′:58”.15)

D: Come liberarsi dal senso di colpa?

R: Capendo. Capendo il meccanismo. Per cui Gesù dice delle cose fondamentali. Una volta gli dicono: Tu che sei buono… E Lui (Gesù ndr) dice: “Io non sono buono, Dio è buono“. Lui si dichiarava Uomo. E poi perdona tutti: perdona l’adultera, perdona il partigiano, il brigante crocefisso vicino a Lui, perdona tutti. Lo accoglievano i pubblicani, che erano gli esattori delle imposte, quindi doppiamente spregevoli per il popolo. Perché percepivano le imposte per i Romani, che poi l’impero romano era un impero militare fiscale. Non c’era questa grandezza di Roma che si dice. S, perché facevano le strade ma in realtà spremevano sangue da tutti.

D: De Seta, come dice Scorsese, antropologo poeta?

R: A.. questo l’ha detto Scorsese? Va be questo riguarda i documentari. Si, ma perché io neanche me ne rendevo conto quando li ho fatti. Adesso, ha ragione (Scorsese ndr), c’è – come dire . un’interpretazione religiosa della vita. si sente nei documentari. Li avete visti adesso quelli restaurati? Perché una volta era così. C’era…., c’era la soggezione per il mistero. Cioè si riconosceva che c’era un qualcosa che non si può capire. La saggezza popolare questo lo aveva intuito. Mentre invece, oggi … E’ come la parabola dei vignaioli omicidi che c’è sempre nel vangelo. Quella è illuminante. Il padrone, cioè Dio, costruisce una vigna, la circonda di un muro, insomma, e poi la consegna a questi vignaioli. Poi quando manda a prendere l’affitto, manda i profeti, questi li maltrattano, qualche volta li uccidono. Allora Lui dice: manderò mio figlio almeno avranno rispetto di lui. Di questi temi, di queste cose non se ne parla mai. Il materialismo è questo. Si parla solo della pensione, l’ambiente. Cose sacro sante, per carità. Però questo e basta. S’è perso quel senso… quando si dice gli antichi, che poi noi giudichiamo spregevoli, ignoranti, arretrati, il popolo rozzo, violento. Ma quando mai! Avete visto i dimenticati?

Quello era e ancora in parte è. Quindi è tutto un inganno. E’ tutto un’impostura. Questo è il fatto.

D: Pensa di essere stato, in un certo senso, scomunicato per aver detto verità scomode?

R: Si, ma queste cose poi non le ho mai scritte. Però basterebbe riprendere Tolstoj. Non è che uno vuole fare chissà che. Non c’è questo assunto di originalità. …… Tolstoj a un certo punto ha finito di scrivere. Ha smesso di scrivere narrativa, romanzi. Perché la chiesa ortodossa l’ha scomunicato. E poi ancora oggi è all’indice. Nessuno ne parla. E’ una personalità, uno dei più grandi uomini del secondo millennio.

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