Archivi categoria: Curtosi Marilisa

Zanotti-Bianco in viaggio tra i monumenti della Calabria.

di Maria Elisabetta Curtosi

Oltre mezzo secolo fa lo stesso Zanotti Bianco rievocava l’incontro con la Calabria, la Magna Grecia, un incontro dettato da una precisa scelta di vita, una vera e propria missione: “Sarà tra poco mezzo secolo che percorro in tutti i  sensi le terre dell’antica Magna Grecia. Per quanto istintivamente attratto da ogni testimonianza artistica e dal fascino delle ricerche archeologiche, tuttavia la miseria ed i dolori di questa regione, ingigantiti dalla spaventosa tragedia del terremoto che prese nome da Reggio e Messina, occuparono nei primi anni di lavoro quaggiù tutta intera la mia vita(…) Fu Paolo Orsi, il grande, perseverante archeologo roveretano, che con la descrizione dello stato  miserando dei monumenti superstiti della Calabria, mi fece sentire il dovere della pietà per le creazioni d’arte del passato, silenziose educatrici degli spiriti nel futuro, e mi spinse a creare nel 1920, in quel desolato dopoguerra, la Società Magna Grecia”.  Paolo Orsi gli fece conoscere Carlo Felice Crispo, storico della civiltà magno-greca della Calabria ed in particolare di Vibo Valentia, già Hipponion. Conobbe anche il marchese Enrico Gagliardi. Diventò subito amicizia vera perché avevano in comune l’amore per il bello ed i valori della libertà e della onestà. Oltre a questi grandi vibonesi altre figure di primo piano aderirono alla Società: il prof.  Eugenio Scalari, Pietro Tarallo, Mario Micalella, il conte Capialbi, Mario Cordopatri, Vincenzo Cremona, Leonardo  Donato ed altri. Con il marchesino Gagliardi a bordo di una macchina cabrio visitarono tutti i monumenti di Monteleone, Pizzo, Mileto.  Giuliana Benzoni, stretta collaboratrice di Zanotti cosi lo descrive: “Esile, dagli occhi cerulei, con biondi capelli da agnellino che adornavano una testa da cherubino, affascinante come una visione, spirituale come un santo, concreto come un banchiere, splende per bellezza fisica, passionalità, ardore: un tombeur de femmes eccezionale”.

(1) Umberto Zanotti-Bianco era nato nel 1889 a Canea sull’isola di Creta, il padre console,la madre di origine scozzese, studi nel collegio Carlo Alberto di Moncalieri dai padri Barnabiti. Ammirava Mazzini e gli ideali del Risorgimento, Tolstoj e Romolo Murri. Allo scoppio della prima guerra mondiale,seguendo l’esempio di Gaetano Salvemini, si arruola volontario. Nel 1939 Achille Storace aveva protestato perché la sua associazione ANIMI era ancora in vita e quindi dimostrava che il fascismo non aveva risolto tutti i problemi del Sud. Zanotti chiede l’aiuto della principessa Maria Josè che assume l’alto patronato dell’associazione. Nel 1941 viene arrestato e inviato al confino vicino a Sorrento. Erede del Cattolicesimo Liberale. Partecipa in seguito alla lotta clandestina nelle file del partito liberale. Nel 44 assume la presidenza della Croce Rossa. Nel 1952 è nominato senatore a vita da Luigi Einaudi. Fonda assieme ad Elena Croce Italia Nostra. Muore a Roma nel 1963.

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Storia ed etnologia

di Maria Elisabetta Curtosi

Nell’opera Le strutture elementari della parentela, Lévi-Strauss osserva che è necessario integrare lo studio su civiltà diverse dalla nostra con un approccio completamente diverso, come quello consentito dall’etnologia. Secondo Lévi-Strauss, la differenza fondamentale tra storia ed etnologia non è né di oggetto, né di scopo, né di metodo Esse hanno infatti lo stesso oggetto (la vita sociale), lo stesso scopo (una migliore comprensione dell’uomo) e un metodo in cui varia soltanto il dosaggio dei procedimenti di ricerca. Storia ed etnologia si distinguono soprattutto per la scelta delle prospettive complementari: la storia organizza i suoi dati in base alle espressioni coscienti, mentre l’etnologia lo fa in base alle condizioni inconscie delle vita sociale. Lévi-Strauss osserva che nella maggior parte dei popoli primitivi è molto difficile ottenere una giustificazione morale, o una giustificazione razionale di un’usanza o un’istituzione: anche quando si hanno delle risposte, esse hanno sempre il carattere di razionalizzazione. Le ragioni inconscie per cui si pratica un’usanza o si condivide una credenza, sono in genere assai lontane da quelle con cui il soggetto cerca di giustificarle. Secondo Lévi-Struss, gli studi etnologici e linguistici dimostrano che l’attività inconscia dell’uomo consiste nell’imporre forma a un contenuto, e queste forme sono fondamentalmente le stesse per tutti gli individui.

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L’ipocrisia in Italia

di Maria Elisabetta Curtosi

Riporto di seguito una delle tante lettere che scrisse Indro Monntanelli lettera al suo amico e collega Edmund Stevens (1953):

L’ipocrisia in Italia è dettata dal senso dell’«opportuno». È spicciola, pratica e utilitaria. Quando un italiano vuol cambiare partito, non fa un esame di coscienza; si limita a un calcolo di convenienza. Una cinquantina d’anni fa, a Capri, una ricca famiglia inglese si mise in testa di convertire gli abitanti al protestantesimo. E in un certo senso ci riuscì perché tutti i neofiti avevano diritto a mangiare gratis. Ma a un certo punto scoperse che ogni domenica andavano a confessarsi da un prete cattolico che aveva dato loro il permesso. Frattanto i missionari erano caduti completamente in miseria, perché i loro seguaci di fede ne avevano poca, ma di appetito molto. E allora furono gl’«ipocriti» che mantennero loro senza punto domandargli in cambio la conversione al cattolicismo.

No, una vera e propria ipocrisia in Italia non c’è; ma non c’è per la ragione molto semplice, e poco nobile, che gl’italiani non hanno un Ideale. Essi accettano sé stessi. Non si sforzano di essere diversi e migliori di ciò che sono. In America l’ipocrisia nasce da questo tentativo. La donna americana che, prima di fare l’amore con un uomo che non è suo marito, beve, un po’ per stimolare con l’alcol i suoi desideri, ma soprattutto per poter credere l’indomani di aver agito senza il controllo della coscienza, certo è un’ipocrita; ma lo è perché ha nell’animo un’idea di onestà e di pulizia da preservare contro le proprie debolezze. Ricordo la mia indignata sorpresa quando, all’indomani della mia prima esperienza erotica americana, mi vidi trattato con estrema freddezza dalla mia compagna che si rifiutò di parlarne. Ero furioso. Da buon italiano, mi sembrava offensivo e ignobile che una donna avesse dimenticato o provasse disgusto per una notte d’amore con me. E non riuscii a perdonarglielo.

(1) Indro Montanelli, (Fucecchio 1909 – Milano 2001) giornalista. Laureato in Legge e Scienze politiche, inviato speciale del “Corriere della Sera”, fondatore del “Giornale nuovo” nel 1974 e della “Voce” nel 1994, è tornato nel 1995 al “Corriere” come editorialista. Ha scritto migliaia di articoli e oltre cinquanta libri fra i quali ricordiamo: XX Battaglione eritreo, I cento giorni della Finlandia, Qui non riposano,Le stanze, L’Italia del Novecento (con Mario Cervi), La stecca del coro, L’Italia del Millennio (con Mario Cervi), Le nuove stanze.

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Avvenimenti nel 1848.

di Maria Elisabetta Curtosi

Qualcuno ha affermato che il 3 luglio 1848 può essere considerato uno dei giorni più importanti per la nascita del giornalismo moderno: nacque, infatti, “Die Presse” fondata da August Zang a Vienna che aveva portato in prima pagina la pubblicità e al piede sempre in prima pagina veniva pubblicato un feuilleton così come viene usato ancora dai nostri quotidiani. Quindi oltre alle dichiarazioni di libertà e al dibattito sulle nuove idee socialiste ed umanitarie ciò che interessava era il tentativo di rendere più leggibile e discorsivo il giornale. Molte furono le difficoltà incontrate nel diffondere le discussioni che che fermentavano nei circoli più intelelttuali del tempo.

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UN GIORNO, DUE RICORDI PER NON DIMENTICARE: DON GALLO E PADRE PUGLISI.

di Maria Elisabetta Curtosi
Genova e Palermo due città di mare, apparentemente molto distinte e lontane geograficamente e culturamente parlando, in un solo giorno, sabato scorso per la precisione, si sono quanto mai avvicinate.
Il comune denominatore è stato un ricordo, o meglio due.
Don Gallo e padre Puglisi. Uno amatissimo e conosciuto dai giovani, soprattutto, l’altro dai bambini.
Il primo beatificato e acclamato dal popolo, l’altro beatificato dalla Chiesa.
Coincidenze, a volte, che rievocano il profumo della storia, laica e religiosa. Il fiume del ricordo porta via tante cose, tocca argini impetuosi, bollenti, mafia e droga con cui hanno combattuto molto i nostri due protagonisti dei diritti dei più deboli e non.
Dello scorso sabato a Genova si ricorderanno soprattutto i fischi della folla che si è riunita fuori la chiesa, almeno diecimila persone hanno partecipato al corteo funebre di don Andrea Gallo che dalla comunità di san Benedetto al Porto si è snodato fino alla chiesa del Carmine. I fischi della contestazione che come un lava bollente si è riversata contro la gerarchia e la dottrina cattolica, rappresentata sull’altare dal cardinale Bagnasco, che rischiando molto, ha pronunciato parole che sembrano diffondersi come scintille in una stanza piena di gas.
Ecco le anime di Don Gallo che lui sapeva far convivere, pur senza compromessi. Non un eretico, come da qualcuno è stato descritto, ma l’opposto, un cristiano allo stato puro, il padre degli ultimi e dimenticati dalla chiesa cosiddetta ufficiale.
Fanno male a pensare che ora in fondo se ne è andato un rompiscatole un “agitatore di poveri cristi” perché senza più quella mano d’aiuto che serviva ad arginare il fiume in piena del non-lavoro e della povertà, il fiume può straripare da un momento all’ altro, portando con sè tutto ciò che incontra.
Importante è, allora, che ci siano ancora persone come il “nostro Don” che stanno << non dalla parte di chi fa la storia, ma di chi la subisce>> (don Ciotti).
Di sicuro è difficile trovare esempi negli uomini di partito che sabato scorso nella chiesa del Carmine latitavano, salve rare eccezione che confermano la regola.
Ecco cosa serve, veramente, ad un paese in cui convivano santi laici che si sbattono in silenzio per i loro simili.
“L’Italia dei don Gallo e dei padri Puglisi che, porca miseria, devono morire per essere celebrati.”

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Storie di padri e massari.

di Maria Elisabetta Curtosi

Le regioni che hanno contribuito in maniera più rilevante, tra il 1876 e il 1900 sono state il Veneto che ha fornito il più elevato contingente di emigrati, seguito dalla Campania, Sicilia e Calabria.  La vita umiliata di quegli anni aveva però un pathos che scendeva nelle cose, una sorta di tardo   crepuscolarismo in cui anche gli oggetti sembravano simboli esistenziali. Madri povere, bambini che lavoravano,che giocavano senza scarpe, padri che “ fatigavanu” dalla mattina alla sera, “ mbivenu” e “jestimavanu”. Vita difficile quella dei massari:  “Pecchi, pecchi sta vita, afflitta, amara, aiu zappu pemmu u moru o aiu u zappu pemmu u campu si chiedeva con i versi Pasquale Creazzo. La mattina di domenica e nelle feste ricordate però  sempre in chiesa: schegge, frammenti, documenti in bianco e nero. Si, gli zingari eravamo noi e gli emigranti italiani in America è in un certo senso la storia capovolta. Il Museo dell’Emigrazione di Franco Vallone, giornalista e scrittore calabrese o quello della Fondazione Cresci di Lucca, entrambi hanno avuto importanti riconoscimenti negli Stati Uniti, descrivono il percorso migratorio,non solo con le foto e le lettere ingiallite che ci parlano e ci fanno rivivere  una  sorta di  ricostruzione mentale di quelle scene: dal passaporto per l’estero,con tanto  di “ Avvertenze agli emigranti” stampate sul retro come certifica il biglietto da viaggio (terza classe, rilasciato dalla Navigazione generale italiana al “ passeggiere numero 074321) all’imbarco nella stazione marittima, il molo, le lacrime che non si asciugano con i “ maccaturi”  che profumano di sole, sudore  e sale  e poi il piroscafo, il dormitorio, i bagni,  il refettorio e la cella per i riottosi.

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Le donne al tempo dell’emigrazione in Calabria

di Maria Elisabetta Curtosi

I soldi che gli italiani dall’estero mandavano alle proprie famiglie rimaste in Italia furono una voce importante dell’economia . Oltre alle rimesse in denaro, gli italiani mandavano in patria un interminabile flusso di pacchi contenenti generi alimentari, oggetti vari, attrezzi, vestiario. Con le loro rimesse, spiega Rosario Manco “l’economia del paese se ne avvantaggiò forse più che con qualsiasi altra risorsa interna. Il miglioramento delle condizioni economiche influì positivamente sulle famiglie dei calabresi. Alcuni richiamarono le famiglie, altri tornarono ricchi.  Questo improvviso afflusso di danaro non creò soltanto nuovi ricchi, ma spesso anche drammi sociali come il fenomeno delle “vedove bianche”. Lo dimostrano due canti popolari:

“ I  mugghieri d’americani vannu a missa cu setti suttani.Vannu pregandu Domineddio: mandami sordi,marituma mio. Mo ca i sordi sugnu arrivati si li mangianu cu i nnamurati”.

“ Marituma è iutu a merica e no mi scrivi. Nun sacciu chi mancanza ci haiu fattu…ca di nu figghiu ‘nda trovatu quattro? Tu mancu na cartellina m’hai mandatu, arriva nu bastimentu illuminato e dintra ci porta u scornacchiatu,: bona venuta e bbivi e fai u curnuto. Cittu maritu miu, ca nu è nenti, ca li mandami a Napuli pe studenti”.

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Poesie di guerra

di Maria Elisabetta Curtosi

Quasi trecento anarchici calabresi tra la fine dell’’800 ed i primi anni del novecento furono costretti ad  emigrare in Argentina. Schedati come sovversivi li troviamo nel Casellario politico Centrale. Per restare nel circondario di Monteleone scorgiamo tra gli schedati, diffidati, ammoniti e confinati: Luigi Campisi da San Costantino Calabro, Carmine Barbara di Nicotera, Antonio Barbieri da Pizzo, Gaetano Colloca da Mileto, Fortunato Foti da Nicotera, Eugenio Iorfida da San Leo di Briatico, Alfonso Lo Gatto da Vibo Valentia, Sante Pagano da Calimera, Giuseppe Pagnotta da Filandari, Fortunato Stillitani da Filadelfia, Francesco Tutino da Rombiolo. Per non parlare dei leaders  anarchici, Francesco Barbieri da San Costantino di Briatico e Gaetano Pietropaolo da Sciconi di Briatico, i più noti.

Partivano, sapendo ch’era più facile morire, i soldati che partono per la guerra.  “Eccu che è fattu jurnu e l’alba è chiara e s’avvicina sta partenza scura. La navi ammenzu u mari si pripara, pi farti sta partenza amara e scura. Partu pi li diserti di l’Asmara, addurvi nesci u suli e no la luna. Sajiu mu moru nta sta terra amara,bejia, sugnu cu ttia statti sicura”.

“ O catrara dumani mi partu ca u Rre mi voli a Napuli pe forza e mi ci manda a guerra pe combattiri prega u celu ca mi dassa vivu. Bejia ti scrivu si trovu la carta si nno ti mandu ca currera ca posta, si no ti vijiu cchiu da casti parti mi parti e a rivederci nzinu a morti”.

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La miseria del Sud

di Maria Elisabetta Curtosi

Fra l’800 ed il 900 le condizioni in cui versava l’Italia, in particolar modo la Calabria, favorirono quello che per certi versi si può definire un esodo: le carestie periodiche, una pressione fiscale senza precedenti, la diffusione della disoccupazione erano fonte di perenne scontento. La miseria del Sud, persistente, netta, indiscutibile, immutabile e descritta da Carlo Levi in “ Cristo si è fermato ad Eboli”: “ Le case dei contadini sono tutte uguali, fatte di una sola stanza che serve da cucina, da camera da letto e quasi sempre anche da stalla per le bestie piccole, quando non c’è per quest’uso, vicino alla casa, un casotto che si chiama in dialetto, con parola greca , il catoico. Da una parte c’è il camino, su cui si fa da mangiare con pochi stecchi portati ogni giorno dai campi: i muri e il soffitto sono scuri per il fumo. La luce viene dalla porta. La stanza è quasi interamente riempita dall’enorme letto, assai più grande di un comune letto matrimoniale: nel letto deve dormire tutta la famiglia, il padre, la madre e tutti i figliuoli…sotto il letto stanno gli animali, per terra le bestie, sul letto gli uomini e nell’aria i lattanti. Io mi curvavo sul letto quando dovevo ascoltare un malato; col capo toccavo le culle appese, e tra le gambe mi passavano improvvisi maiali o le galline  spaventate ”. Per restare in Calabria il contadino non aveva fatto altro che combattere con un terreno duro, avaro,scarnificato, montano. In certe zone l’acqua mancava del tutto in altre piogge torrenziali, inondazioni e terremoti erano all’ordine del giorno. La malaria, il colera e l  “emigrazione forzata” facevano il resto.

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Emigrazione: uomini soli.

L’emigrazione è stata uno dei capitoli più importanti della nostra storia, infatti il primo ventennio del secolo scorso vide milioni di italiani attraversare l’ Oceano in cerca di fortuna negli Stati Uniti, Argentina e altri paesi del Sudamerica. Quale sia stato il contributo alla vita di questi paesi, nel bene e nel male, del fiume di italiani che sono sbarcati oltre oceano, più numerosi di qualsiasi invasione barbarica in Italia all’inizio del Medioevo è quasi impossibile da determinare. Gli emigrati dall’Italia erano, nella loro grande maggioranza, analfabeti o quasi analfabeti, zappaterra o operai non qualificati, spinti dal bisogno, assoldati da mercanti di mano d’opera. Naturalmente quando si parla di emigrati italiani ci si riferisce anche ai calabresi e cioè a quelle persone nati nella penisola, di razza italiana che  parlavano una derivazione linguistica italiana, che avevano un passaporto italiano ma che provenivano da villaggi sperduti della Sila, delle Serre o dall’Aspromonte dove il loro “ modus vivendi” non era stato modificato per secoli e che non avevano mai avuto contatto con altri popoli o regioni e comunque sia non avevano assolutamente risentito gli effetti dell’unità d’Italia. Erano rimasti ancora sotto il dominio di qualcuno. Perché emigrarono?  Molteplici le ragioni: le condizioni sociali, politiche ed economiche quelle che forniscono le migliori spiegazioni del fatto che degli uomini lascino la terra natia per andare a cercarsi una nuova patria.  Spesso emigravano uomini soli.

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