Archivi categoria: Curtosi Marilisa

Libero come un uomo

di Maria Elisabetta Curtosi


“La libertà non è star sopra un albero

non è neanche il volo di un moscone

la libertà non è uno spazio libero

libertà è partecipazione.

 

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

 

Come l’uomo più evoluto

che si innalza con la propria intelligenza

e che sfida la natura

con la forza incontrastata della scienza

con addosso l’entusiasmo

di spaziare senza limiti nel cosmo

e convinto che la forza del pensiero

sia la sola libertà.”

 

Quasi quarant’anni orsono, così cantava il signor G, per gli amici estimatori delle sue note, ed era solo il 1973. C’è da dolersene se canticchiandola magari rabbrividiamo? Magari con questo repentino arrivo d’autunno per l’aria fresca questo è normale.

O magari invece viene da porsi qualche domanda, tra un “ddl” e l’altro, non siamo tanto sicuri che la nostra libertà sia veramente protetta e preservata, quasi come fosse la foca monaca dei caraibi ormai in via d’estinzione. La Natura è equilibrio e l’uomo non fa altro che metterlo in serissimo pericolo.

E per questo possiamo permetterci di dubitare di essere liberi per natura. Magari dobbiamo sottometterci al fato come  il “pius” Enea o chissà abbiamo la fortuna di essere noi gli artefici: homo faber fortunae suae.

Io so questo: che chi pretende la libertà, poi non sa cosa farsene. Dixit Pasolini.

 

 

Share

Leggenda ebraica

di Maria Elisabetta Curtosi

Una leggenda ebraica narra che Seth, colto da nostalgia mentre guidava il suo gregge sui monti della palestina, abbia implorato Dio di liberarlo dal tempo e dallo spazio per consentirgli di parlare con la madre e la sorella lontane. Ebbe immediatamente risposta: gli apparve un angelo che teneva una tavola sulla quale erano segni incomprensibili per lui. <<Impara a conoscere le barriere del tempo e dello spazio>>. Erano l’atto di nascita del giornalismo, della necessità, cioè, dell’uomo di dare e di avere notizie.

Share

L’ AUTUNNO CALDO CHE CI ASPETTA: La riflessione controcorrente sulla scuola

di Maria Elisabetta Curtosi

Le ultime statistiche dell’Istat sul livello culturale del Paese spiegano in maniera incontrovertibile quali sono alcuni veri problemi degli italiani.

Secondo questi dati, l’Italia è in fondo alla classifica dei 27 paesi europei per scolarizzazione, rendimento scolastico, investimenti nella pubblica istruzione, consumi culturali delle famiglie, conoscenza delle lingue straniere, ma anche della lingua italiana.

A rivelarlo è una ricerca condotta dall’Osservatorio sui diritti dei minori.

La responsabilità è soprattutto della politica . “ Una sintomatologia preoccupante – dichiarava tempo addietro Antonio Marziale-  presidente dell’Osservatorio, perché la scuola dà segni di stanchezza in una epoca che vede una ascesa senza precedenti della devianza minorile e ciò è grave. L’istituzione scolastica più della famiglia dovrebbe fungere da riformatore di una coscienza psicosociale equilibrata e sana e invece tocca fare i conti con insegnanti con la testa altrove”.

Questi dati certificano che il sistema scolastico italiano è fallimentare. Vogliamo discutere di chi sia la colpa, se dei pessimi ministri, degli insegnanti o degli studenti, dei sindacati, dei comuni, dei dirigenti scolastici?

Noi siamo controcorrente .

Cerchiamo di spiegare perché.

Per quanto riguarda il livello generale di salute della scuola  è un a dato di fatto inconfutabile che la scuola funziona solo sulla carta, insomma tanta demagogia, solo demagogia con il risultato che la partita è persa dai docenti, studenti e famiglie.

Riflessione piuttosto amara?  Niente affatto! La scuola  è davvero malata ed ha bisogno di un vero medico.

Quello di cui non ha bisogno sono le parole, parole, le tante parole; intanto il bullismo nella scuola spadroneggia ed il vuoto di potere è oramai una voragine. Le cronache quotidiane sono vere e amare. Si è voluta una scuola c.d. “ progressista”, avanzata, aperta tanto da fargli perdere i veri connotati: il sostantivo sacrificato agli aggettivi.

Occorre invece selezione, indirizzo, valutazioni serie, meritocrazia.

A tirare il freno a mano poi  ci sono anche le significative debolezze degli assetti organizzativi e le carenze di risorse materiali ed immateriali  disponibili oltre ad una  certa mentalità dirigenziale bigotta e codina.  A dirlo, oltre che il sondaggio dell’Osservatorio sui diritti dei minori, sono anche  i docenti e gli alunni  ed i dati sconfortanti in termini di efficacia, efficienza e trasparente attività di questo settore. Il punto più critico è la gestione del personale, insufficiente e con pochi mezzi e senza un programma di formazione. Il personale effettivamente in servizio ha subito un decremento di diverse unità e molti di quelli che “ eroicamente” fanno il proprio dovere sono devono sopportare delle ingiustizie.

Vi è anche una forte mancanza di interesse, in particolare dei giovani, alla conoscenza per esempio dell’arte per suscitare davvero interesse, senso di responsabilità nei confronti del patrimonio culturale o magari per iniziative di promozione e di informazione semplicemente e puramente perché è un terreno questo che la scuola non ha preparato. Si dovrebbe almeno sapere se è forte la voglia dei genitori e degli studenti  di partecipare alle decisioni che interessano la vita della scuola  a condizione che   non predomina nessun diritto di veto, ma la possibilità di vedere dove si va, insomma di giocare a carte scoperte.

E’ venuto il tempo che i cittadini si prendano cura in prima persona del destino delle scuole dei propri figli. Ma i cittadini lo considerano davvero un problema. Stando ai dati non è avvertito dalla opinione pubblica neppure fra i primi problemi, quella della istruzione.

Occorre informare preventivamente ed a consuntivo il discente sia nella valutazione che sugli obiettivi della struttura, oltre evidentemente a quelli istituzionali assegnati.  Un quadro di obiettivi ed impegni credibili, benchè diluiti nel tempo se necessario. Occorre chiarezza sull’assetto strategico. Qualcuno dovrà dire loro se sono una parte della ”azienda” scuola (che brutta parola!) che partecipa attivamente alle scelte  per il miglioramento degli alunni  o una semplice parte sussidiaria, inserita in un contesto e basta infine i soldi della produttività  per i piani di lavoro. Vi sono poi “disagi” atavici che sono quelli di non riuscire a lasciarsi alle spalle un passato di politici ingombranti che hanno fatto di tutto per non farla camminare con le proprie gambe. Occorre ancora pensare alle  cineteche e servono  infine nuove assunzioni e forti e massicce riqualificazioni del personale .

E’ mia convinzione che, comunque vada la riforma della scuola, i docenti e i discenti italiani abbiano già perso. Che la riforma della scuola non sia uno scherzo lo hanno dimostrato le manifestazioni di piazza e le resistenze interne della categoria che vogliono vedere armonizzate le loro prestazioni, sapendo che all’interno di questa categoria esistono stratificazioni, sacche di privilegio. Nel xx secolo la scolarizzazione di massa è stato un obiettivo politico- sociale di grande rilevanza, ma forse si è perso la sfida della qualità perché la organizzazione e la natura della scuola è rimasta la stessa. Non nascondo la mia antipatia per la riforma dell’ex ministro Moratti e per la Gelmini, ma ha ragione Ernesto Galli Della Loggia quando dice dalle pagine del “ Corriere”  che <<sotto accusa sono i dirigenti locali di destra o di sinistra(..) sotto accusa sono gli intellettuali  meridionali con il loro assordante silenzio…che invece di portare avanti istanze di critica e di cambiamento, rimangono vittime del loro silenzio>>.

In un certo senso Galli Della Loggia  a proposito di politiche scolastiche del Sud sottolinea un vecchio vizio degli intellettuali del Sud e cioè quello “sulle condizioni del  a fingere una normalità da cui invece è sempre più lontano”. “ Protesta perbenistico-sciovinista” la definisce l’editorialista del “ Corriere”. Ed ha ragione.

Lo studio o meglio il sistema studio  è impegno, sacrificio, rigore, rispetto di regole. Non basta dire autonomia, valutazione qualitativa dei risultati quando in certe classi sono in trenta ed in altre solo in sette! Occorre modernizzare i sistemi formativi, aprire le scuole calabresi a tutti quegli ambiti culturali che devono essere presenti nel sistema degli studi.

Infine, ai fini dell’innalzamento della qualità delle nostre scuole, la possibilità di selezionare gli insegnanti in un Piano dell’offerta formativa che corrisponda all’istituto oltre che una retribuzione anche differenziata in base al merito ed alla qualità e quantità di lavoro. Ogni periodo storico ha la propria e la scuola calabrese, la scuola vibonese  è lo specchio della società odierna: come una bella addormentata non si sa quando si risveglierà per scoprire le proprie risorse e capacità che non sono seconde a nessuno in Italia.

C’è da dolersene? Da scandalizzare? Si quando vedo ragazzi e ragazze che  non hanno diritto alla casa dello studente o al borsa di studio solo perché i propri genitori lavoratori dipendenti o pensionati che pagano le tasse regolarmente vengono penalizzati rispetto a chi dichiara falsamente.

 

Finchè non avremo diviso equamente le risorse non solo del mondo ma del nostro Paese non vi sarà giustizia e senza giustizia, scriveva Willy Brandt, non vi è pace e senza pace non vi sarà libertà in nessuna parte del mondo.

 

Maria Elisabetta Curtosi

Share

Le regole del consumismo

di Maria Elisabetta Curtosi

E’ evidente che siamo giunti a un punto di svolta nella “guerra economica” mondiale, almeno per quanto rigurada la sostenibilità.

Fresca è la notizia che le aziende diventano sempre più “responsabili”, infatti da un po’ di tempo sentiamo parlare di corporate social responsability (Csr) appunto. Ovvero le piccole e medie imprese  non dovranno  essere solo ossessionati dalla ricerca di profitti in tempi sempre più brevi, spinti dal capitale finzanziario e che finiscono per rispondere sempre meno a domande sociali reali  e sempre più ubbidiscono ai propri imperativi di crescita infinita ma dovranno considerare l’impatto sociale e ambientale; sarà un’importante responsabilità.

Nel 2011 il 68% delle imprese prevede di aumentare i propri investimenti in sostenibilità in quanto si considera imprescindibile il legame tra i risultati economici e l’impegno per quest’ultima. Inoltre l’ Adnkronos ci informa che <<Da un’indagine svolta su 200 aziende, dall’Economist Intelligence Unit e commissionata da Enel, l’87% dei manager ritiene che la responsabilità sociale di un’azienda rappresenterà un fattore ancora più importante e strategico nei prossimi tre anni.>>

Siamo in un momento storico in cui il consumismo è alla base della nostra vita sociale, ne detta le regole. Ma ancor più chiaro e fulmineo  risulta l’intervento del Professore di Storia Contemporanea dell’Università La Sapienza, Piero Bevilacqua a delineare un processo sempre più allarmante:  << Si continua a seguire una logica di accumulazione in una fase storica dello sviluppo capitalistico in cui occorrerebbe attivare una logica della distribuzione: distribuzione di risorse, di beni, di lavoro, di cultura. Si continua a seguire una logica dell’accrescimento quando la possibilità di migliorare le nostre condizioni di vita è palesemente legata a una logica della diminuzione: meno ore di lavoro, meno merci, meno dissipazione di risorse naturali e di energia, meno consumo, meno velocità, meno fretta >>.

Share

Le favole sono il vero della vita

di Maria Elisabetta Curtosi
Le favole sono fatte così. Una mattina ti svegli e dici: “Era solo una favola”.Sorridi di te. Ma nel profondo non sorridi affatto. Sai bene che le favole sono l’unica verità della vita. Antoine de Saint – Euxupéry ha alle spalle una lunga strada nei cieli, molti incidenti aerei, molte pagine scritte e sa che il potere della favola è infinito, la fiaba deve continuare non può essere che così.
“Chi sei?” domandò il piccolo principe, “sei molto carino…”
“Sono una volpe”, disse la volpe.
“Vieni a giocare con me”, le propose il piccolo principe, sono cosi’ triste…”
“Non posso giocare con te”, disse la volpe, “non sono addomestica”.
“Ah! scusa”, fece il piccolo principe.
Ma dopo un momento di riflessione soggiunse:
“Che cosa vuol dire <addomesticare>?
“E’ una cosa da molto dimenticata. Vuol dire <creare dei legami>…”
“Creare dei legami?”
“Certo”, disse la volpe. “Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo”.
“se tu mi addomestichi, la mia vita sarà illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiu’ in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me e’ inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo e’ triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che e’ dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano…”
La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe:
“Per favore… addomesticami”, disse.
“Volentieri”, disse il piccolo principe, “ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose”.
“Non ci conoscono che le cose che si addomesticano”, disse la volpe.
“Che cosa bisogna fare?” domandò il piccolo principe.
“Bisogna essere molto pazienti”, rispose la volpe. “In principio tu ti sederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò’ con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più’ vicino…”
Il piccolo principe ritornò’ l’indomani.
“Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora”, disse la volpe.
“Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò’ il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore… Ci vogliono i riti”.
Così il piccolo principe addomesticò la volpe.
E quando l’ora della partenza fu vicina:
“Ah!” disse la volpe, “… piangerò'”.
“La colpa e’ tua”, disse il piccolo principe, “io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…”
“E’ vero”, disse la volpe.
“Ma piangerai!” disse il piccolo principe.
“E’ certo”, disse la volpe.
“Ma allora che ci guadagni?”
“Ci guadagno”, disse la volpe, “il colore del grano”.

 

Share

Rinvenimento del simulacro di Nostra Signora della Lettera

di  Maria Elisabetta Curtosi

Prima che Messina, all’inizio del mese di giugno 1783, venisse colpita da un violento terremoto in cui “caddero i monumenti cittadini, furono distrutti palazzi e chiese” la scultura di N. S. della Lettera, oggi in possesso della chiesa di S. Giacomo di Corte, a santa Margherita Ligure, era esposta “a comune venerazione, sulla calata, o  molo, nel porto”, della città siciliana in una nicchia, sopra la porta maggiore della Dogana ma a causa del crollo dell’edificio doganale quel sacro simulacro, rotolato in mare, nel giro di una quindicina di giorni, sospinto dalle correnti, finì con l’approssimarsi allo specchi d’acque, antistante la Chiesa di Corte, dal quale poi fu estratto da  alcuni pescatori genovesi.

E che la scultura, venerata nella parrocchia di San Giacomo  -fedele immagine della statua custodita nell’antico omonimo Santuario messinese-  sia proprio quella,  un tempo , collocata sul dirupo edificio doganale, è stato confermato, sotto giuramento, da otto messinesi, inviati nella chiesa di San Giacomo, affinché della stessa, effettuassero l’ufficiale ricognizione. E, ciò permesso ecco quello che, in merito, si legge nel Libro d’ Introito ed Esito, dal 1768 al 1806, compilato a cura della fabbrica della Chiesa di S. Giacomo ed, in essa, attualmente conservato, sotto la data del:

23 Giugno 1783

Esito in £ 13.2 pagate al Sign. Prevosto per altrettante da esso spese

 Per atto rogato a 22 corrente per la miracolosa immagine di Nostra Sig.ra della Sacra Lettera stata ritrovata a 20 corrente da quattro uomini della Darsina di Genova col suo gosso vicino al piccolo seno della Torretta, poi si novo da flutti del mare gettata nell’acque, e correndo contro la corrente verso la spiaggia di Corte molto più di quello, che non faceva detto gosso, sebbene avesse sei remi, fu presa vicino al secco e poi portata da Giacomo Antonio Palmieri, ed Antonio Maria Costa nell‘oratorio di Sant Erasmo come due Massari della chiesa; indi il Sign. Evangelista Gregorio Prevosto di S. Giacomo avisato da fanciulli venne e ne fece con giubilo il trasporto nella chiesa parochiale , et indi detti uomini della Darsinia ne fecero la donazione allo Sign.ri Massari.*

E poiché il 27 luglio 1783 , la statua della n. s della lettera – il cui appellativo è ovviamente derivato da quella missiva che, secondo la tradizione, la Vergine Maria “l’anno del nostro figlio 42, cinque di luglio, luna 17°, feria 5°, da Gerusalemme” avrebbe indirizzato ai messinesi – venne esposta alla venerazione dei fedeli residenti a corte, n’ebbe origine un’annuale ricorrenza che finì  con l ‘assumere, gradualmente, un rilievo sempre maggiore fino a diventare la principale e più importante festività della Parrocchia di San Giacomo. Dato poi, che, entusiasmo  e devozione, attorno a tale evento, andarono prodigiosamente moltiplicandosi, sconfinando, in tema di risonanza, nell’ambito parrocchiale, il Sommo Pontefice leone XIII, con suo Breve del 5 maggio 1883, delegava l arcivescovo di Genova, Mons. salvatore Magnasco, a procedere, in data 27 luglio dello stesso anno, all’incoronazione dell’immagine di N.S. della Lettera, il cui culto – dalla fine del XVIII  sec. – si era ormai, stabilmente inserito nella vita religiosa della nobile Borgata di Corte.

Da quel lontano anno, oggi, è trascorso un altro secolo e poiché in cosi significativo periodo di tempo offre sempre l’occasione di redigere, se non dei veri bilanci, almeno delle sintesi storiche, ci proponiamo di illustrare quanto frattanto gli abitanti della dinamica popolazione di questa Parrocchia, con grande tenacia, con fede e soprattutto con tanto amore, hanno saputo realizzare per cercare di accrescere – mediante l attuazione di invidiabili programmi di opere d’arte e abbellimenti vari- la dignità ed il decoro della loro gloriosissima Collegiata.

(*Davide Roscelli “ la Collegiata di San Giacomo di Corte” in S. Margherita Ligure)

Share

Il giorno dell’Ascensione

di Maria Elisabetta Curtosi

Il recupero e la valorizzazione della storia di una comunità deve costituire un obiettivo irrinunciabile per qualunque comunità che voglia privilegiare il rapporto dialettico passato-presente al fine di guardare al futuro con maggiore  consapevolezza.

La ruralità, strettamente legata e connessa da vincoli primordiali, da queste parte vuol dire identità culturale e quindi cultura popolare proprio di un mondo che non c’è più, ma che i semplici richiamano alla storia, alle leggende ed alle tradizioni,alle  costumanze cristiane che si innestano con quelle pagane che durano ancora e che vede mescolarsi il sacro con il profano, il pagano antico con l’elemento cristiano venuto dopo tanto come era nelle usanze e tradizioni sacre greche. Era uso da parte dei coloni della Magna Grecia commemorare all’entrata della primavera l’ascensione di Proserpina dall’inferno che si purificava bagnandosi nelle acque del mare e pare di rivivere quei tempi antichi quando da Pannaconi si vedono discendere nelle prime ore del giorno  dell’Ascensione e comunque prima del sorgere del sole ,verso la località “ Scrugli” o “ Maghija” sulla spiaggia di Safò  le donne pannaconote. Dopo aver percorso  tutto quel territorio, che da Pannaconi porta a “ Scrugli”,che dista in linea d’aria un paio di chilometri e dove ancora si possono ammirare vaste zone coltivate ad agrumi, olivi e piante di cereali e dove la natura, le luci, il buio, l’arcobaleno, la natura ,  i fiori dei capperi, le foglie di  liquirizia, sembrano  diversi, fuori dal tempo e dal mondo; un posto dove l’estate dura di più degli altri posti perché il mare che è a quattro passi è senza dubbio “il più bello del mondo “, come lo defini sir William Hamilton, vulcanologo e diplomatico, in occasione del terribile terremoto del 1783, che appunto distrusse il vecchio abitato di Pannaconi; rimane   la Villa Romana come viene comunemente chiamata per fare da guardia nel cinquecento  a difesa dei Saraceni, dei barbareschi.  Da qui si può vedere nelle giornate limpide lo scoglio d’Ulisse, Punta Safò, Santa Irene, Scoglio della Catena dove si avventurarono i cercatori di oro forse attratti dal colore della rena che ha ancora oggi il colore che si avvicina all’oro.  Sono  solo donne,quasi tutte anziane avvolte talune  ancora nei “ Jippuni” neri, allo spuntare del sole arrivano sulla spiaggia cantando e recitando preghiere e si bagnano i piedi nelle acque marine continuando a cantare e recitare preghiere invocando lo Spirito Santo per dare forza e salute.” Grolia a Vui, Patreternu,grolia a Vui, figghiolo divinu, grolia a Vui Spiritu Santu, comu a Vui sempi sarà, grolia pi tutta l’eternità”. Dietro il golfo di Pizzo il sole è quasi alto e le donne ancora nell’acqua si prendono per mano formando una lunga catena umana . Canti, suoni, colori, odori e poesia accompagnano la devozione dell’ascesa di Gesù al Cielo nella ricorrenza dell’Ascensione. Difficile risalire storicamente alla composizione dei canti che si tramandano di generazione in generazione, come non è impresa da poco raccogliere e tutelarne la memoria affinchè non si disperda l’ingente patrimonio dei sentimenti popolari. Il mare, le piccole cose, il sogno, la natura, la vita, la morte, la gioia, l’amore e la donna. Un minuto all’alba per un rapporto all’infinito. Dalle lontane colline sboccia la luna e il mare e lo Stromboli splendono di là, ma la terra è piena di “ scandalari” colore oro, profumi di ginestra ed i colori rosso accesi dei papaveri fanno da scenari ad una sorta   di “ rito di passaggio”.  Il sentiero del silenzio è pieno di rumori: quelli che non siamo più abituati ad ascoltare, dallo stormir di fronde degli alberi di ulivo secolari al cinguettio di fringuelli, con gli alberi di fichi e di mele selvatiche su cui arrampicarsi d’estate per cogliere i dolci frutti, e con i merli a fare compagnia, insieme al battere a martello dei picchi fino al rumore del mare racchiuso in una vecchia conchiglia. Le vecchie donne raccolgono sui sentieri, sulla strada del ritorno “ l’erba dell’Ascensione” una pianta succulenta che viene messa al capezzale del letto per quaranta giorni e cioè per il tempo della fioritura. Mentre ne percorri il sentiero l’unica voce che senti è la voce umana di Gustina, la donna più anziana,si risale sulla collina  ed ogni fermata mette poi a disposizione dei camminatori silenziosi e ci si trova a star bene con qualcuno anche senza parlare e capisci che quelle sono le persone giuste. Da piccolo mi piaceva andare perché c’era tutto quel silenzio . Se fiorisce è indice di salute, in caso contrario è da attendersi giorni nefasti . Dimenticavo di evidenziare che questa erba deve essere raccolta in un luogo che lo sguardo esclude la vista del mare ed al pellegrino laico,  il sentiero del silenzio lascia due possibilità: si può scegliere il percorso breve ( 35 minuti, senza contare quelli dedicati ad eventuali riflessioni) e con salite alla portata anche dei polmoni di un fumatore . O quello lungo che di minuti ne richiede almeno 55, pendii mozzafiato e panorami degli dell’Infinito leopardiano.  Il tutto, dalle 4 di mattino allo spuntare del sole.

E dunque, perché non riscoprirla,lungo u due- tre chilometri che costituiscono il percorso  dell’”Ascensione”, partendo proprio dai resti della Villa romana, con un viaggio “ al rallentatore” per conoscere la cultura, il territorio, le persone, a ritmi lenti, fermandosi qua e là per osservare il verde fitto dei limoneti ai lati della strada, le greggi di pecore al pascolo, le rovine di vecchie “ pinnate” e costruzioni padronali che emergono tra gli arbusti sempre verdi e le perenni gramigne, l’eco della parrata pannaconota di Gustina e le altre donne e lo scenario spettacolare del golfo di Santa Venere e quello di Pizzo.  Da queste parte Cicerone era di casa quando veniva a trovare il suo amico Sicca. Qui nessuno suona il clacson, nessuno va di corsa. Ma ciò che rende magico il percorso è un originale sole con il volto umano e lunghi raggi gemmati, quello dell’Ascensione, appunto.”  A Santa Venere, ov’io sono,  mi riposo del mio lungo viaggio”, cosi diceva Cicerone.

Share

Dante nel cinema

di Maria Elisabetta Curtosi

Nell’ambito dell’approfondimento dell’analisi del sistema dell’ intertestualità dantesca nel cinema Rino Caputo,  professore ordinario di Letteratura Italiana  Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma “Tor Vergata evidenza la divulgazione prorompente di Dante nell’orizzonte multimediale, attraverso la informatizzazione multimediale.

Il fenomeno quale Digital Dante ha avuto una grande diffusione in questi anni, numerosi sono i siti on-line di qualità ad esempio Dante On Line che è un progetto della Cassa di Risparmio di Firenze che mette in linea , tra l’altro, alcuni manoscritti della Commedia.

Inoltre, l’Università di Princeton propone il Princeton Dante Project, che unisce gli approcci tradizionali allo studio della Commedia con la multimedialità. La facilità di reperire documenti oggi è semplicemente più evidente oggi rispetto a anni fa. Ricostruire e classificare un testo con criterio.

Andrea Cortellessa è un critico letterario italiano, storico della letteratura e professore associato all’Università Roma Tre presso il DAMS, dove insegna Letterature Comparate e Storia della Critica ed ha proposto una lettura critica dei canti I – VIII dell’ Inferno di Dante attraverso una video-lezione.

Il culto di dante – continua Caputo – si è trasferito dai padri fondatori che vedevano la commedia come la Bibbia ad un eccesso di ermeneutica teologia. Ad esempio Eliot (900) diceva che Dante è << easy to read >>, arriva più direttamente di Shakespeare, inoltre, senza la nostra tradizione illustre non ci sarebbe modernità di Dante. Più avanti Caputo cita anche  Foscolo (800) : << dante tenzona, Petrarca sona>>. Per sottolineare la grande energia che trasmette Dante nelle sue opere. Dal Nord America ci fu un eccesso di teologizzazione.

Amilcare Iannucci, studioso di Dante, direttore del centro di studi umanistici dell’Università di Toronto ha affrontato, in uno dei suoi ultimi volumi, il tema  di Dante e Hollywood.

<< L’influsso di Dante nel cinema risale all’inizio del Novecento e precisamente data 1911 il primo lungometraggio è un film basato sulla prima cantica della Divina Commedia cioè l’Inferno, è un film mediato dalle immagini di Gustave Dorrè. La  grandezza di Dante varca i confini che tempo e spazio riservano ai comuni mortali ce la sua arte e la sua ispirazione hanno influenzato gli animi di scrittori e poeti ma questi ritrovano vigore nel mezzo cinematografico e danno infinita e continua linfa creativa a registi e creatori di Hollywood.>>

Sono centinaia i film che in qualche modo sono stati ispirati, hanno preso spunto ed atmosfere dal lavoro di Dante alla pari di Shakespeare. Ma perche Dante attrae così tanto?

<< Dimensione visuale che è molto forte poiché crea un mondo parallelo che è molto simile al nostro, contiene tutto, storie drammatiche, personaggi appassionati dante è un testo produttivo che produce altri oggetti: film, poesia, architettura. Ed ecco rappresentate allegorie dantesche: le pene del contrappasso, figure chiave in molte sceneggiature di horror e thriller come Seven e anche comici come Bugiardo Bugiardo con Jim Carrey.

La discesa agli inferi intesa come discesa interiore e la figura di Lucifero interpretata al cinema da Al Pacino nel film L’avvocato del Diavolo. In Annibal troviamo non solo la Divina Commedia ma anche l’amore ossessivo della “Vita Nova”.

Hollywood ricambia il favore a Dante, testi impegnativi sui banchi di scuola e dell’università tornano infatti ad essere amati dagli studenti. L’aspetto audiovisivo è molto importante. Se loro vedono che c’è un vecchio testo che è ancora attuale che non è un testo morto ma un tsto che può essere ricreato non solo in letteratura ma anche nel cinema e nella televisione agli occhi dei giovani diventa più importante.>>

Il periodo muto annovera anche una Beatrice d’ispirazione dantesca (1919, regia Herbert Brenon) con la diva dell’epoca Francesca Bertini, e un horror americano, Dante’s Inferno del ’24, diretto da Henry Otto e scritto da Edmound Goulding, uno dei registi della Garbo, dove s’immagina che un avido e spietato uomo d’affari, giustiziato per aver spinto al suicidio una sua vittima, finisca agli inferi tormentato per l’eternità da demoni insaziabili. È solo il primo di una serie di titoli in cui lo sfondo “infernale” (il Purgatorio e il Paradiso attraggono poco, anzi per niente, la settima arte) serve da trait-d’union metafisico, metaforico e ammonitore con la contemporaneità, oppure da sfondo puramente fantasy: quest’ultimo è il caso del rutilante peplum Maciste all’inferno di Guido Brignone (1925), con il leggendario Bartolomeo Pagano.

Opera aperta, teatrale, pluringuistica, sperimentale, visionaria, realistica, dialogica, narrativa e multisemica, la Commedia sollecitò fino dalla sua apparizione metamorfosi in tutte le arti.

Il 1907 segna l’avvento del primo cortometraggio (10 min.) a soggetto dantesco “Francesca di Rimini” o “the Two Brothers” di William V. Ranous, prodotto negli USA dalla Vitagraph Company.

La nuova sensazionale tecnologia il  cinema, appunto, permise per la prima volta nella storia di narrare non più soltanto per verba o mediante la mera giustapposizione di icone statiche (si pensi all’effetto di “moviola” delle illustrazioni alla Commedia di Sandro Botticelli con la ripetizione delle posizioni multiple assunte via via dai viaggiatori Dante e Virgilio) ma con immagini finalmente in fluido movimento senza apparente soluzione di continuità.

In fondo, trasporre la Commedia di Dante in un film, passando cioè da parole scritte, immobili, disposti su una pagina ad un adattamento visivo, equivalente all’originale si può parlare di una forma di intertestualità o meglio di traduzione intersemiotica  in quanto passaggio da un dato medium espressivo ad un atro.

Agli albori della storia del cinema, che si caratterizza subito rispetto alle altre arti come prodotto industriale e di massa, ma che cerca ancora un suo specifico, alcune intraprendenti case di produzione di Milano, Torino, Roma e New York pensarono, e vinsero la scommessa che la Divina Commedia avrebbe potuto essere lo script perfetto per nobilitare la decima Musa ancora legata a forme di intrattenimento illusionistico e leggero da vaudeville e ad un pubblico popolare: Dante, con il suo indiscutibile valore letterario e civile ora elevato a ideologia patriottico e confessionale, avrebbe convinto una borghesia melomane e perbenista ad entrare in una “licenziosa” sala cinematografica Così, le vicende stesse dell’uomo Dante, le esiziali passioni di un manipolo di suoi grandi personaggi, il fantastico dei paesaggi oltremondani e la fisicità dei dannati si presentavano quali ottimi spunti cinematografici, tra l’altro già noti al pubblico per il tramite della temperie culturale romantica, preraffaellita e decadente.

Su tutto, indiscussa protagonista del cinema ad ispirazione dantesca, già celebrata da tele, sinfonie e pièces teatrali, Francesca, l’eroina romantica per eccellenza, la cui storia ha tutte le carte in regola per “funzionare” nel cinema poiché contiene in sé con il suo pathos caratteri di comedy, drama, thriller e sexy movie.

I primi approcci del cinema con Dante, certo, consistono di brevi scene in costume in cui si vedono, filmati in un interno, i più celebri personaggi “characters” danteschi che mimano con i gesti enfatici tipici del teatro dell’epoca le loro vicissitudini, con al termine una spasmodicamente lenta morte (gli abiti e gli arredi sono di gusto neogotico e dannunziano).

Tra il 1907 e il 1926 si collocano svariati adattamenti diretti della storia di Paolo e Francesca (a quello di Ranous seguirono quelli di Mario Marais [1908], Ugo Folena [1909] (con la grande Francesca Bertini), Stuart Blackton [1910], Eduardo D’Accurso [1917], Ubaldo Maria Del Colle [1919], Mario Volpe [1922], Aldo De Benedetti [1926] e vari anonimi), del Conte Ugolino (Giuseppe De Liguoro [1908], Giovanni Pastrone [1909]), di Pia de’ Tolomei (Mario Case- rini [1908], Gerolamo Lo Savio [1910], Giovanni Zannini [1921]).

Sorprendentemente, a distanza di quasi cento anni, un amalgama di questi stessi ingredienti (mangiamento del cuore nel primo sonetto della “Vita Nova” suicidio di Pier delle Vigne accusato di tradimento, e tecnofagia di Ugolino) è stato riproposto da Ridley Scott nel suo Hannibal nel 2001, ambientato a Firenze sull’onda del torbido caso giudiziario del “mostro”.

Su questa produzione pionieristica degli anni Dieci spicca “L’inferno” diretto da Francesco Bertolini e Adolfo Padovan (con la collaborazione di Giuseppe de Liguoro ed Emilio Roncarolo), prodotto dalla Saffi-Comerio  nel 1911. Alla sua trionfale prima presso il Teatro Mercadante di Napoli il 2 Aprile 1911 (con ottime recensioni di Matilde Serao e di Antonio Labriola, che ne sottolineava l’utilità didattica) seguì una redditizia distribuzione anche all’estero grazie ad un nuovo sistema di Gustavo Lombardo che vendeva non le “pizze” contenenti le pellicole, ma i diritti sulle proiezioni in esclusiva per zone.

Si tratta del primo lungometraggio in Italia, e uno dei primi in assoluto (65 minuti, 1.400 metri di pellicola), che richiese ben due anni per la sua produzione, il che permise a Giuseppe Berardi e Arturo Busnengo della di plagiarlo mentre era in corso d’opera e di far uscire nelle sale il “proprio” pressoché identico ma ben più episodico Inferno (di 15 min.) nel Febbraio (con la differenza che Francesca è qui a seni nudi ma sono invece coperti i genitali degli uomini), cui tenne dietro un Purgatorio nell’anno successivo (mentre Giovanni Pettine realizzò un Paradiso).

Ma ad essere ricordato è soprattutto un nuovo Dante’s Inferno (uscito in Italia come La nave di Satana), stavolta sonoro (1935), a firma dell’americano Harry Lachman, protagonisti Spencer Tracy, Claire Trevor e la semiesordiente Rita Cansino (Hayworth), dove Tracy è l’ambizioso e privo di scrupoli gestore di una serie di attrazioni da luna-park che finiranno però immolate in un incendio purificatore e redentore.

L’Inferno di Bertolini e Padovan, diviso in 54scene (ne sopravvivono due copie leggermente diverse tra di loro, una restaurata dal British Film Institute e una conservata presso la Cineteca Nazionale di Roma) intervallate dalle didascalie con le citazioni dei versi e concluso con un’immagine del monumento di Dante a Trento (all’epoca ancora terra irredenta), è una trasposizione completa e letterale dell’Inferno di dante di Inferno di Dante di grande suggestione visiva (ispirata alle incisioni di Gustave Doré come pressoché tutti i film danteschi a venire), nella quale le scene di teatro riservate ai personaggi principali (Paolo e Francesca, Pier delle Vigne, Conte Ugolino) rivivono quali flashbacks incastonati nella diegesi complessiva.

Il grande successo fu dovuto anche ad un uso efficace della macchina da presa (il campo lunghissimo con i cerchi concentrici dei lussuriosi che volano e l’inquadratura dal basso di Farinata ne sono alcuni esempi) e dei primi effetti speciali (presi in prestito dal cinema fantascientifico di Georges Méliès): dai vecchi trucchi teatrali illusionistici delle funi (Beatrice che vola via), delle esplosioni fumanti (i ladri), dell’abito nero su fondo nero per simulare invisibilità (la testa tenuta in mano da Bertran de Born), fino alle tecniche di dissolvenza in entrata e in uscita (i ponti sospesi e i giganti) e di esposizione multipla (l’aureola luminescente e rotante di Beatrice, Dante e Virgilio fissi in un angolo dell’inquadratura mentre scorrono i paesaggi). Accanto a momenti di eleganza e di grazia, si riscontrano (almeno nelle copie sopravvissute) però anche errori di montaggio (la discesa su Gerione fuori posto) e omissioni (i sodomiti). Dagli anni Venti si cominciano a produrre anche mélangese e rielaborazioni: il nuovo medium ha ormai acquisito gli strumenti per raccontare (da cinema di illusione a cinema di narrazione),e non ha più bisogno di Dante per costruire interamente un film, se non per collegarlo ad altri temi, sentimentali o politici (si prenda Das Spiel mit dem Teufer dell’austriaco Paul Czinner [1920], La mirabile visionedi Luigi Sapelli [1921] (con il grande Gustavo Salvini), o Dante nella vita dei tempi suoi di Domenico Gaido [1922], che fonde riferimenti storici con la vita del poeta e la tragedia di Piccarda Donati carda Donati).  Su questa nuova linea di ibridazioni, sospeso tra superomismo e futurismo,  Maciste all’Inferno di Guido Brignone del 1926 (ripreso in chiave surrealmente comica nel Totò all’inferno di Camillo Mastrocinque [1955], ed in chiave camp – con ambientazione al tempo della caccia alle streghe – nel remake di Riccardo Freda [1962], autore anche di uno stilisticamente attardato Conte Ugolino [1949]).

In questo contesto melodrammatico (che pure stregò un giovanissimo Fellini per i suoi primi piani espressionistici e per lo charme di una formosa Proserpina in bikini) il re dell’Ade Plutone manda Barbariccia sulla terra per assoldare Maciste (il nuovo uomo fascista e virile, impersonato da Bartolomeo Pagano), ma invano; seduce allora un principe debosciato ed effemminato (il fragile ancien régime), che corrompe una ragazza. Per salvare il neonato, Maciste viene travolto all’Inferno, dove vige la regola che chi scambia un bacio con una donna viene lì trattenuto per sempre (ennesima rimodulazione del bacio fatale tra Paolo e Francesca). Maciste cede alle lusinghe di Proserpina, abbigliata come una dea egizia, e la bacia, per cui rimane incatenato come Prometeo ad una roccia, ma sarà alla fine salvato dalla preghiera in suo favore balbettata dall’infante nel giorno di Natale. Il film dispiega tutta una serie di reminiscenze dantesche (il nome Barbariccia, i diavoli crocifissi al terreno come Caifas o con la testa staccata come Bertran de Born ecc.), ma si tratta di un Inferno di soli eserciti di diavoli senza dannati, ibridato con l’Ade classico, e contrappuntato da invenzioni della modernità, quali grattacieli, aeroplani e perfino una sorta di televisore. A partire dalla fase “classica della produzione di Hollywood, i personaggi danteschi vengono disambientati in altri luoghi e tempi: così Henry Otto nel suo Dante’s Inferno nel 1924, così David Wark Griffith nel suo Drums of Love nel 1928 (che sposta in Sud America la storia di Paolo e Francesca), così Harry Lachmann nel suo Dante’s Inferno (1935, sonoro, con Spencer Tracy), che prende il nome dal theme park gestito da un avido capitalista che porta al suicidio il suo concorrente ma si pente leggendo l’episodio di Pier delle Vigne: il tipico puritanesimo americano porta questi registi ad interpretare Dante come un morality play che insegna a tornare sulla retta via (la parodia di quest’ottica, con un’allegra discesa in un Inferno fatto invece di jazz, coctkails, striptease e small talk che trasgredisce il taboo del Deconstructing Harry [Woody Allen, 1997]).

Dal dopoguerra in poi, il cinema guarderà spesso a Dante, ma solo per estrapolarne elementi molto specifici e circoscritti da incorporare ed incastonare, popolarizzandoli, entro un testo filmico con una sua propria autonomia, stante l’impossibilità di realizzare in toto un equipollente della Commedia (penosi i tentativi di resuscitare nella modernità i generi del muto quali le Pia de’ Tolomei di Esodo Pratelli [1941] e di Sergio Greco [1958], i Paolo e Francesca di Riccardo Matarazzo [1949] e di Gianni Vernuccio [1971]): lo stesso Fellini non andò oltre abbozzi di sceneggiatura di un suo Inferno, e dichiarò l’inadeguatezza di qualunque regista a tale compito.

Nonostante Mario Monicelli abbia scherzosamente dichiarato che la “Commedia all’Italiana” nasce proprio con Dante, manca a tutt’oggi una trasposizione completa della Commedia , e lo stesso Peter Greenaway, che ha realizzato nel 1989 il pur splendido A TV Dante (con la collaborazione dell’artista figurativo Tom Phillips) optando per il format della serie televisiva a puntate settimanali (trasmesse nel Regno Unito da Channel 4 a partire dall’episodio-pilota di Inferno V), non è di fatto riuscito ad andare oltre il Canto VIII dell’ Inferno (modesto il tentativo di prosecuzione di Raul Ruiz [ Inferno 9-14 , 1995] ambientato a Santiago).

Pur nel fallimento del progetto generale, il Dante per il piccolo schermo di Greenaway resta un capolavoro di stile, da collocare lungo una linea di sperimentazioni off e underground quali l’animazione Thirteen Cantos of Hell dello scultore inglese Peter King [1955, memore del Principe Achmed di Lotte Reiniger], il Pokol (’Inferno’) televisivo dell’ungherese András Rajnai [1974] dove Dante diviene metafora dello scrittore dissidente e censurato, lo Skärseld (‘Purgatorio’) dello svedese Michael Meschke e del turco Orhan Oguz [1975], la Comoedia in chiave punk e morfinica dell’italiano Bruno Pischiutta [1980] dove Dante è un eroinomane, il cortometraggio pittorico (6 min.) The Dante Quartet di Stan Brakhage [1987], il Paradiso: Dante’s Dream di David Simpson [1990], o la più recente animazione Dante’s Inferno dell’americano Sean Meredith [2007].

Naturalmente nei decenni successivi il testo dantesco è sottoposto anche ad esperimenti-monologhi di varia natura, come il corto di Rosa von Praunheim Samuel Beckett o il curioso Rosso dei Kaurismäki Brothers, sino alla miniserie inglese A TV Dante dell’89, che reca la firma collettiva di Tom Phillips, Raoul Ruiz ma soprattutto di Peter Greenaway, il carismatico, contorto, labirintico, multidisciplinare e spesso insopportabile autore de “I misteri del giardino di Compton House” e “Il ventre dell’architetto”. Il lavoro di Greenaway affronta i primi otto canti dell’Inferno in un caleidoscopio stilistico dove s’intersecano parti monologanti in primo piano, allegorie, numerologie, materiali d’archivio, eleganti nudi e riferimenti pittorici: i ruoli di Dante, Virgilio e Beatrice sono affidati rispettivamente a Bob Peck, John Gielgud e Joanna Whalley-Kilmer, e l’insieme rappresenta forse il più ambizioso (ancorché puntualmente fallito) tentativo di raccordare la fascinazione simbolistica del verso dantesco con l’infinito e inestricabile intrico di “segni” che popolano il morboso immaginario dell’autore inglese.

Il TV Dante di Greenaway è precorritore di Internet e dell’ ipertestualità , dove, accanto ad un uso spregiudicato e raffinato al tempo stesso del nudo, delle computer graphics, del cut-up(sono presenti vecchi spezzoni di film ed altri media ), della mera dizione poetica a riempire la scena (Virgilio è interpretato dall’attore shakespeariano Sir John Gielgud), della modalità di attualizzazione (la «selva oscura» del traffico metropolitano, il «greve truono» associato alla bomba atomica, gli scontri Guelfi-Ghibellini tradotti come scontri tra manifestanti e polizia, l’Inferno come campo di sterminio ecc.), appaiono sullo schermo dei pop-ups entro i quali esperti di specifiche aree (tra i quali il naturalista Peter Attemborough familiare agli spettatori) si avventurano per campionature nello spessore della polisemia dantesca, e dove la struttura dei collegamenti (i links appunto) non è celata, ma al contrario esibita secondo i dettami del postmoderno.

In definitiva, anche se manca una traduzione diretta dell’opera di Dante in video (se non, sorprendentemente, oggi in video-gioco, il Dante’s Inferno della Eagames – che fonde il mito di Orfeo ed Euridice ad un Dante-crociato e quantomai muscolare – ora proposto in versione cinematografica per la Universal Pictures ), quanto mai vari e diffusi sono i modi dei riusi e dei riciclaggi indiretti, soprattutto nel cinema d’autore, e centinaia sarebbero gli esempi di contatti più o meno profondi o significativi.

Si va dalla citazione di alcuni versi (la «lacrimetta» di Bonconte da Montefeltro nell’epigrafe di Accattone [Pasolini, 1961], la battuta frivola en passant «non rinnoviamo disperato dolor che il cor ci preme» del padre di Marcello che non vuole parlare della sua età ne La dolce vita [Fellini, 1960], il sarcasmo del «lasciate ogni speranza voi che entrate» rivolto ad una neoprostituta ancora in Accattone , il «vidi gente attuffata in uno sterco» recitato da un detenuto malato in Mamma Roma [Pasolini, 1962]), alla presenza di una riconoscibile effigie di Dante sulla scena ( Amarcord [Fellini, 1974]), alla paronomasia (il “Convegno dei Dentisti Dantisti” di Uccellacci e uccellini [Pasolini, 1966]), alla ripresa di specifiche e precipue strutture morali infernali (i “gironi” “delle manie” “della merda” e “del sangue” di Salò o le 120 giornate di Sodoma [Pasolini, 1975]) e purgatoriali (il serial-killer che uccide secondo la legge del contrappasso e l’ordinamento dei sette peccati capitali in Seven [capolavoro di David Fincher, 1997, con Brad Pitt e Morgan Freeman]), all’inserimento di raffigurazioni dell’aldilà ( Decameron [Pasolini, 1970]), al ricalco del rapporto attanziale Dante-Virgilio come rapporto pellegrino-guida nell’aldilà (così nel pastiche new-age cristiano-buddista What Dreams May Come [Vincent Ward, 1998]), alle libere modulazioni sul tema di Paolo e Francesca (l’ascolto della sinfonia Francesca da Rimini di Cajkovskij che fa sfiorare il delitto a un marito geloso in Unfaithfully Yours [Preston Sturges, 1948], la ri-lettura femminista della storia nel Francesca è mia di Robert Russo [1986, con Monica Vitti anche come collaboratrice alla stesura]).

Si arriva così, distanziandosi sempre più dal testo, all’astuto marketing di titoli ad effetto, “danteschi” solo in apparenza (ben 23 titoli che iniziano con Inferno sono registrati nel di Paolo Mereghetti): è il caso dei disaster-movies a effetto A Towering Inferno (di Irwin Allen [1974] dove l’inferno del grattacielo in fiamme sembra presagire l’11 Settembre) e Dante’s Peak (di Roger Donaldson [1995] dove il ‘Picco di Dante’ è in effetti un vulcano realmente esistente sul territorio americano), della farsa psicotica A Divina Comédia del portoghese Manoel de Oliveira [1991], della serie televisiva americana di gay-horror sessualmente esplicito Dante’s Cove (di Michael Costanza [2005-2009] dove la ‘Insenatura di Dante’ è il nome di un’isola di turismo di élite), infine della commedia metropolitana Dante’s dell’americano Armand Mastroianni [2009], dove il nome del poeta e della sua opera diventano puri flatus vocis .

 

Share

L’ESERCIZIO ASCETICO VERSO LA LIBERTA’ MISTICA

DE TRISTITIA CHRISTI DI THOMAS MORE

di Maria Elisabetta Curtosi

Paura, preghiera, dolore fisico e sofferenza interiore. Siamo nel 1535 quando quel 6 luglio, dopo un lungo periodo di isolamento nelle carceri della Torre di Londra, Thomas More presto verrà decapitato. Conosciuto per le sue doti di politico rigoroso, colto umanista e pensatore, rimase alla storia per il suo capolavoro “Utopia”, ma fu anche un cristiano appassionato e fervido fedele.

A prova di ciò è importante citare il suo scritto “ De tristitia Christi” che nella traduzione in italiano è indicato come Gesù al Getsemani, in cui troviamo la Passio di Cristo, che agonizzante nell’orto degli ulivi, isolato dagli apostoli assonnati, supplichevole domanda al Padre << di allontanare il calice della sofferenza e della morte >>. Ma nella scena dell’arresto di Cristo il testo rimane incompiuto perché More viene allontanato dalla sua cella e gli vengono sottratti carta e inchiostro.

Così che la tristezza, il tradimento e la solitudine si fanno voci comuni di un solo grido di salvezza e consolazione sia per il Cristo, sia per l’integerrimo cancelliere del re tiranno d’Inghilterra Enrico VIII che vive gli stessi attimi nell’ultima fase della sua vita.

Un viaggio nella letteratura spirituale con grande accuratezza e acutezza è stato percorso da Mons. Gianfranco Ravasi che citando More propone un trittico che procede verso “il genio della mistica” Juan de la Cruz (Giovanni della Croce) e il suo scritto Salita al Monte Calvario dove predomina nell’oscurità del tema, <<l’eclisse della luce divina per cui l’anima procede in un gelido e drammatico cono d’ombra>>. Anche in quest’ opera incompiuta leggiamo la crisi dell’autore per un percorso troppo arduo nella contemplazione che porta ad una ascesa-ascesi di catarsi dello spirito e dei sensi -afferma Ravasi- che continua con un ultimo autore Jean-Joseph Surin che scrisse “Un Dio da gustare”, fu gesuita nel Seicento, afflitto da una grave malattia mentale e strane possessioni diaboliche nel monastero delle orsoline di Loudun di cui era cappellano, aveva grandi doti, non tanto nelle sue opere ma nel sua epistolario variegato e suggestivo, di intellettuale e mistico presto dimenticate per questi due eventi tragici.

Per questo Enzo Bolis offre un particolare ritratto di quest’autore definendolo un intelligente laico prematuramente scomparso; e Mino Bergamo lo indica come il più grande e dimenticato dei contemplativi seicenteschi, basta leggerlo una volta e non lo si abbandona più, proprio come una medicina efficace o un amico al quale chiedere consiglio.

Ravasi ne rimase particolarmente colpito e lo definì sotto un profilo << di raffinatezza letteraria che si coniuga con una teologia viva e intensa, l’esercizio ascetico sfocia nella gioiosa libertà mistica, il linguaggio spirituale illumina le vicende umane, l’esperienza interiore s’incrocia con la testimonianza operosa >> .

Concludiamo con uno tra i suoi eccezionali e razionali aforismi:

Che io possa avere la forza

Di cambiare le cose che possono cambiare,

che io possa avere la pazienza

di accettare le cose che non possono cambiare,

che io possa avere soprattutto l’intelligenza di saperle distinguere”

 

Share

Guerra economica mondiale: aziende sempre più “responsabili”

di Maria Elisabetta Curtosi

E’ evidente che siamo giunti a un punto di svolta nella “guerra economica” mondiale, almeno per quanto rigurada la sostenibilità.

Fresca è la notizia che le aziende diventano sempre più “responsabili”, infatti da un po’ di tempo sentiamo parlare di corporate social responsability (Csr) appunto. Ovvero le piccole e medie imprese  non dovranno  essere solo ossessionati dalla ricerca di profitti in tempi sempre più brevi, spinti dal capitale finzanziario e che finiscono per rispondere sempre meno a domande sociali reali  e sempre più ubbidiscono ai propri imperativi di crescita infinita ma dovranno considerare l’impatto sociale e ambientale; sarà un’importante responsabilità.

Nel 2011 il 68% delle imprese prevede di aumentare i propri investimenti in sostenibilità in quanto si considera imprescindibile il legame tra i risultati economici e l’impegno per quest’ultima. Inoltre l’ Adnkronos ci informa che <<Da un’indagine svolta su 200 aziende, dall’Economist Intelligence Unit e commissionata da Enel, l’87% dei manager ritiene che la responsabilità sociale di un’azienda rappresenterà un fattore ancora più importante e strategico nei prossimi tre anni.>>

Siamo in un momento storico in cui il consumismo è alla base della nostra vita sociale, ne detta le regole. Ma ancor più chiaro e fulmineo  risulta l’intervento del Professore di Storia Contemporanea dell’Università La Sapienza, Piero Bevilacqua a delineare un processo sempre più allarmante:  << Si continua a seguire una logica di accumulazione in una fase storica dello sviluppo capitalistico in cui occorrerebbe attivare una logica della distribuzione: distribuzione di risorse, di beni, di lavoro, di cultura. Si continua a seguire una logica dell’accrescimento quando la possibilità di migliorare le nostre condizioni di vita è palesemente legata a una logica della diminuzione: meno ore di lavoro, meno merci, meno dissipazione di risorse naturali e di energia, meno consumo, meno celocità, meno fretta>>.

 

Share