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La logica della seduzione

di Maria Elisabetta Curtosi

“Nella storia dell’antica Roma, l’esempio piu’ sorprendente di una seductio politico-militare e’ connessa al rituale religioso dell’evocatio”. Mentre le popolazioni semite (Assiri, Babilonesi, Ebrei) combattevano insieme i nemici e i loro dei, i romani concepivano le divinità del nemico come separabili dalle citta’ e dalle popolazioni cui erano connesse. I semiti quindi pensavano alla guerra come qualcosa di totale, che coinvolgeva anche gli dei, i Romani ritenevano di non poter conquistare una citta’, se non dopo avere sedotto, o con termine tecnico, appunto evocato la divinita’ che la tutelava. Questa veniva perciò invitata ad abbandonare la sua residenza e a trasferirsi a Roma, dove riceveva in cambio l’erezione di un tempio e l’organizzazione di un culto”.  – Così scriveva Mario Perniola, ne “La società dei simulacri”, Cappelli 1983 – Inoltre “la condizione indispensabile della riuscita della evocatio è il fatto che la città e il dio fossero designati col loro vero nome. Questo rituale, il cui significato e’ insieme militare, politico, culturale e religioso, si muove in una prospettiva opposta a quella della metafisica occidentale, la cui linea e’ espressa per esempio da Mosè: parlando dei nemici d’Israele, Mosè infatti ordina di votarli allo sterminio, di non fare con essi alleanza, ne’ loro grazia, di demolire i loro altari, spezzare le loro tele, tagliare i loro pali sacri, bruciare nel fuoco i loro idoli.  Mentre gli Ebrei così votano alla distruzione ciò che è loro estraneo, i Romani se ne appropriano: secondo l’evocatio romana la conquista è impossibile se non si assimila il patrimonio spirituale e culturale del nemico, che deve essere oggetto di rispetto e di culto; anzi condizione della sconfitta del nemico è il fatto che egli sia separato dalla propria radice culturale e religiosa, che sia privato della sua identità: egli puo’ cosi’ entrare nella logica della seduzione (…).
Gli dei sedotti non perdono nulla della loro dignità: essi vengono a Roma non come prigionieri, ma con la loro volontà. Il muto annuire della statua era infatti considerato come una condizione del trasporto, che doveva essere effettuato da giovani. La costruzione di un tempio, generalmente sull’Aventino, garantiva loro un’adeguata sistemazione. L’evocatio è il contrario della prevaricazione: Roma non porta i propri dei nella città nemica, ma fa loro spazio nel suo ambito. Stabilisce così con le città vinte un rapporto di seduzione che si trasmette successivamente agli abitatori di queste: essa diventa così la nuova patria, il nuovo centro di attrazione delle popolazioni soggettate. Non un ‘Vaterland’, basato sulla devozione, ma un Kinerland, basato sulla seduzione.”

 

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La rivoluzione di Fra Tommaso Campanella, figura curiosa che tende tranelli agli studiosi

Della tolleranza e della fraternità fra gli uomini. Campanella ci appartiene; appartiene a tutti quelli che hanno conosciuto la violazione del proprio mondo, la corruzione, il dispotismo, la violenza

di Maria Elisabetta Curtosi

Tommaso Camapanella
Tommaso Campanella

Nella prefazione al volume di Mario Moretti “La rivoluzione di Fra Tommaso Campanella”, pubblicato da Veutro Editore, nella ‘Collana della crudeltà e della violenza’ diretta da Rafael Alberti e Maria Teresa Leon, collana, precisa l’editore, “dedicata a Bertrand Russel come al simbolo più luminoso della sempre più folta schiera di filosofi, scienziati, letterati e uomini civili che lottano per un mondo pacifico e per il rispetto umano” Miguel Angel Asurias scrive: “L’anno scorso, di passaggio a Roma con mia moglie, siamo andati insieme al fraterno amico Rafael Alberti in un teatrino di Piazza Navona e il Tevere, dove rappresentavano un ‘Processo a Giordano Bruno’. La sorpresa è stata piacevole; l’occasione inaspettata. L’antitesi tirannia–libertà aveva qui la ferma e dolorosa angoscia dei grandi fatti corali, e il messaggio filtrato dai documenti autentici della vicenda di Giordano Bruno era presentato in un contesto che aveva l’impressionante, inconfondibile sapore della verità. Abbiamo voluto conoscere l’autore, Mario Moretti. Ci ha parlato della sua idea di un teatro-storia dove nulla sia affidato al caso o alla fantasia, ma dove il documento sia rivissuto e ricreato in una gamma di possibilità che va dal vero al verosimile, dal plausibile all’attendibile. Ho avuto l’impressione che il Moretti stia esplorando un terreno verminoso per estrarre dal brulichio immondo la pepita della verità”.

La lettura de ‘La rivoluzione di fra Tommaso Campanella’ me lo ha confermato.

Anche qui l’aggancio con la realtà risulta straziante: il dolore della storia si dilata, sorvola le epoche, le scavalca, arriva fino a noi. Leggi e ti accorgi di masticare e masticare la verità, come un pezzo di canna dalla polpa bianca. Alla fine hai la bocca amarognola, ti viene da sputare, perché la verità non è mai dolce.

La straordinaria esperienza di Campanella ha la vivacità, la corposità, la tropicalità della vita. Moretti espone i suoi documenti come foglie di tabacco: li allarga, li mette ad essiccare al sole, poi li “trincia” nella forma teatrale. Il risultato è immediato: Campanella ci appartiene; appartiene a tutti quelli che hanno conosciuto la violazione del proprio mondo, la corruzione, il dispotismo, la violenza”.

Mai come oggi”, chiosano Rafael Alberti e Maria Teresa Leon, “l’umanità ha avvertito il bisogno di riesaminare con occhio critico e privo di indulgenza la storia di cui è stata ed è protagonista. All’ingenua fiducia con la quale aveva creduto nella possibilità del proprio rettilineo progresso, sembra ora determinata a sostituire la ferma decisione di analizzare le cause di tante tragiche esperienze, dalle guerre ai campi di sterminio, al genocidio. L’umanità sembra aver preso atto che una gran parte della sua storia è stata scritta all’insegna della ‘violenza e della crudeltà’. Non vi è niente di fatale in tutto ciò. All’origine di entrambe vi è il cieco egoismo, l’ostinata determinazione di difendere il privilegio, l’abuso del potere contro ogni diritto, che genera reazioni di cui è spesso difficile constatare la tragica necessità”.

L’ambizione di “Abolire la Miseria della Calabria”, Rivista Nonviolenta, va nella stessa direzione della “Collana della crudeltà e della violenza” diretta da Rafael Alberti e Maria Teresa Leon, e cioè di contribuire a restaurare attraverso la conoscenza delle cause della crudeltà e della violenza, la fiducia nella capacità’ dell’uomo di scrivere la storia della tolleranza e della fraternità fra gli uomini.

Poche opere del Seicento hanno sollevato copiosi studi e appassionate discussioni come quella di fra Tommaso Campanella. Dagli scrittori e storici contemporanei a Campanella come G.Voet (Disputationese selectae,1648) che definiva “Ateo e libertino il filosofo di Silo”, o il cattolico M. Mersenne che mette il pensatore calabrese in compagnia degli atei, mentre il laico De Sanctis sostiene la tesi di un neo–guelfismo campanelliano.

Tortura del palo

 

 

 

 

Dagli storici politici della fine del secolo decimo nono che videro nella ‘Civitas solis’ e negli Aforismi politici le tavole precorritrici del comunismo, agli storici della filosofia che nel ‘De Sensu Rerum’ o nel ‘De Investigatione’ videro il precursore di Cartesio e dell’idealismo, il problema campanelliano è come si vede appassionante.

In tempi romantici il saio del domenicano di Stilo prese posto accanto alla tragica ombra di Giordano Bruno e alla figura gigantesca di Galileo: martiri della loro idea, propugnatori della libertà di pensiero e della verità scientifica contro la menzogna dogmatica, essi furono i simboli, gli argomenti polemici di tutte le battaglie anticlericali. In realtà il posto del domenicano di Stilo era in quella Accademia cosentina fondata da Bernardino Telesio. Campanella quindi continuatore di Telesio, una sorta di reincarnazione. Ma come sosteneva Alberto Consiglio sulle pagine de “L’Italia Letteraria” non v’è pensiero vivo che non subisca revisioni, non c’è verità che in un secondo tempo non appaia meno pura, meno sicura.

Un saggio di B.Croce ‘Il comunismo di Tommaso Campanella in materialismo storico ed economia marxistica’ del 1895 fa giustizia del Campanella anticipatore degli scrittori politici, negando alla Città del sole ogni valore sia come documento storico sia come indizio sociale. Già l’Amabile aveva compiuto una revisione totale dei giudizi correnti e dei luoghi comuni diffusi sul frate di Stilo. Tra l’altro s’era potuto stabilire che la congiura per la quale Campanella fu arrestato e per quasi un trentennio tenuto tra il letto dei tormenti e l’oscurità della segreta, era stata effettivamente ordita. “Avevano torto i romantici ad accendersi retoricamente”, continua il Consiglio, “di sdegno per la tirannide dei viceré e la spietata giustizia dei preti: il dominio spagnolo nelle Calabrie corse in effetti un bel pericolo e una bella avventura avrebbe avuto il suo compimento se i domenicani, i vescovi, i preti, i contadini calabresi che giuravano per fra Tommaso, avessero, in alleanza coi Turchi del bassa Cicala, stabilita la Città del sole sugli Appennini di Calabria”.

Ora pare che la valutazione negativa della filosofia campanelliana deve a sua volta subire una revisione. Né è stato un segno lo studio di de Mattei che tentava di rivalutare la politica campanelliana dimostrandola di spiriti machiavellici, inserendo la figura del domenicano in quell’atmosfera del segretario fiorentino.

Nel suo studio, ‘La filosofia politica di Tommaso Campanella’ (Bari, Laterza, 1930) Paolo Treves, analizza con occhi molto sereni il pensiero politico del domenicano con uno sforzo di grande equilibrio, sobrio e chiaro: i giudizi sono dosati con cura, la documentazione è abbondante e la scelta delle citazioni sempre acuta ed opportuna.

Tortura dei cavicchi

Figura stranamente ambigua, si può giurare che sia un veggente, un’accesa anima di profeta e subito dopo dubitare che sia un impostore o un pazzo. Fu questo il caso dei rappresentanti dei viceré e del clero che istruirono il suo processo ed ebbero a concludere per la sua pazzia, a proposito della congiura calabrese, salvo a ritenerlo colpevole ed eretico in materia di fede. Fu ancora il caso di coloro che denunziarono i plagi del Campanella ed espressero dai suoi testi massime e concetti del Botero e del Gucciardini. Il Treves si sforza di dimostrare l’originalità del pensiero campanelliano, tratto di nuovo dalle ombre del medioevo e messo in a meno macchievellismo il pensiero del primo Seicento senza addirittura risalire sul piedistallo del vaticinatore. Tra coloro che vogliono ridurre a mero machiavellismo il pensieri campanelliano e coloro che fermandosi alle innumerevoli e spietate invettive fulminanti di fra Tommaso contro il segretario fiorentino, lo definiscono l’anti-macchiavelli. Il Treves elegge una felice posizione mediana: Campanella inconsapevolmente avrebbe preso dal Macchiavelli la ragione di stato, l’etica esteriore del ‘fine giustifica i mezzi’.

In realtà egli risentiva i cattivi influssi del secolo e su di un medesimo piano si trovano i politici laici del genere di Macchiavelli i gesuiti e Campanella che tenacissimamente avversava ambedue le tendenze. Il frate di Stilo non aveva affatto coscienza di questo suo machiavellismo: egli credeva, in effetti, che, permutati i fini dello Stato nei fini della Chiesa, e quindi in quelli di Dio, fosse capovolto il contenuto etico della politica. Rifatta, dunque la distinzione tra Macchivelli e machiavellismo, del quale furono eccellenti campioni proprio gli scrittori della Controriforma che osteggiavano la politica laica del fiorentino, l’opposizione tra lo ‘stilese’ e il gran segretario appare evidente e sostanziale. Nel primo si elaborava un concetto teocratico universalistico dello Stato che, in gran parte era pur sempre il pensiero tradizionale dei politici formatosi nell’orbita della scolastica: supremo ed universale potere del pontefice; potere esecutivo nell’imperatore, primo suddito del pontefice, collettività ferramente sottomessa ai principi etici della verità rivelata, estrema subordinazione dell’individuo ai fini religiosi della società.

Che aveva a che fare questa concezione nella quale entravano tumultuosamente in concorso tutte le disparate letture di fra Tommaso ,la tradizione scolastica e l’esperienza monastica, col pensiero veramente innovatore e moderno di Nicolò Macchiavelli?

Perché veramente nel ‘Principe’ si svolge il concetto di Stato da quello di individuo e si libera l’attività economica dalla subordinazione religiosa.

Ed è contro questa sostanza che si eleva, pieno di rampogne il frate di Stilo: tutta la vita egli lotterà contro gli scrittori che sommettono la religione agli interessi dello Stato, in favore di un impero utopistico sottomesso ai fini religiosi.

In effetti la dottrina del ‘Principe’ e la dottrina della ‘Città del sole’ e, meglio ancora, della ‘Monarchia di Spagna’ sono divise dall’abisso medesimo che divideva Riforma e Controriforma: il calvinismo in quel secolo, trovava nella predestinazione le ragioni religiose che davano valore e vigore alla vita terrena, mentre i mistici del cattolicesimo rinnovato ribadivano il concetto della valle di lacrime, dell’esilio terrestre. Tuttavia, benché rigidamente schierato tra le file del cattolicesimo il pensiero del frate di Stilo, inconsapevolmente tratto dal maturarsi dei tempi nuovi, tradisce concetti eterodossi, vivacemente innovatori, proprio quelli che lo hanno fatto definire profeta e anticipatore. Nel suo amore per la natura, per l’osservazione diretta, per il progresso e per il miglioramento delle condizioni di vita sociale, il Treves trova i documenti probatori di un’alta e luminosa originalità.

A proposito della bibliografia campanelliana, consultando un dizionario di scienze ecclesiastiche molto ortodosso, compilato dai gesuiti Richard e Girond, dove alla voce Campanella troviamo la “biografia di un dottore della chiesa”. Se si va invece nella ‘Istoria civile’ di Giannone troviamo un Campanella diavolo.

In realtà Campanella è un uomo d’azione, un rivoluzionario che fece suo il motto: “Propter Sion non tacevo”. Si scagliò contro pontefici e contro principi e contro ogni sorta di ingiustizie, per la libertà e la giustizia sociale.

Lo stesso De Sanctis, quando parla del civile impegno della poesia di campanella definisce lo scrittore calabrese “Tutto d’un pezzo e alla naturale ,veemente, rozzo, audace di pensiero e di parola, propenso a lasciare le discussioni astratte, le sottigliezze teologiche, malattia del tempo, e volgersi alla storia, alla geografia, allo studio del reale, per migliorare le condizioni sociali”.

Campanella filosofo naturalista.

Nell’anno 1589 Campanella esordisce, sulla scia di B.Telesio come filosofo e lo fa con ‘La Philosophia sensibus demonstrata’, lavoro fortemente polemico e anticonformista.

Nel 1591 compone in latino ‘Del senso delle cose e della magia. Tutte le cose sentono’:” tanta sciocchezza è negare il senso delle cose perché non hanno né occhi né bocca né orecchie, quanto negare il moto al vento perché non ha gambe, e il mangiare al fuoco perché non ha bocca ,il vedere a chi sta in campagna perché non ha finestre d’affacciarsi, e all’aquila perché non ha occhiali”.

Ad una conoscenza sopraggiunta “addita” come la chiama il frate di Stilo c’è una conoscenza nascosta “abdita” che è innata ed immediata e costituisce la forma preventiva della esistenza delle altre.

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TUTTO E NULLA

di Maria Elisabetta Curtosi

 

I fanciulli trovano il tutto nel nulla, gli uomini il nulla nel tutto.

E’ affascinante osservare un bambino che gioca o fissa il suo sguardo su un particolare minimo della natura: egli conosce quella virtù che lo stupore, destinato ad atrofizzarsi quando si pianterà davanti a una playstation. La realtà più semplice si trasfigura ai suoi occhi in un microcosmo in cui egli è ospite e signore, proprio cme affermava Leopardi nella frase che ho desunto dal suo Zibaldone.

E’ il contrario di quello che accade a noi adulti: attraversiamo un mondo di meraviglie con l’indifferenza di un mercante che calcola solo costi e ricavi, rischi e vantaggi.

<<  Se non diventerete come i bambini, non entrerete nel Regno>>, aveva ammonito Cristo.  Come faceva Francesco d’Assisi, celebrato nel calendario il 4 ottobre.

<< Vedrete il mondo in un granello di sabbbia/ il firmamento in un fiore di campo,/ l’infinito nel cavo della mano/ e l’eternità in un ora. >> (William Blake)

 

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L’ATTUALITA’ DI GIUSEPPE MAZZINI SINDACALISTA SOCIALISTA A DISTANZA DI UN SECOLO E MEZZO

di Maria Elisabetta Curtosi

Mazzini, a ragione, viene considerato l’antesignano del sindacalismo nazionale, cioè parliamo di quel sindacalismo che non si esaurisca nella lotta di classe, poichè temeva che in Italia una guerra di classe avrebbe prodotto facilmente una reazione che avrebbe ritardato sia la conquista totale dell’indipendenza nazionale sia lo sviluppo economico del paese. Aveva osservato che la borghesia era diventata volubile, e l’appoggio più costante gli proveniva dagli operai, uno dei motivi che lo inducevano a denunciare la divisione provocata dal comunismo che si traduceva, a suo vedere, in un espediente illiberale e oppressivo con cui un gruppo di intellettuali intendeva impadronirsi del potere assoluto sull’intera comunità.

Per Mazzini il comunismo era una “falsa utopia” ed era certo che un giorno le classi lavoratrici si sarebbero visti riconoscere il loro ruolo di componenti primarie della società.

Della questione sociale si è interessato durante tutto il corso del suo “apostolato” che sostanzialmente consistette nell’elevazione morale del popolo perché esso partecipasse con piena coscienza dei suoi doveri e delle sue funzioni alla rivoluzione italiana cioè alla conquista dell’unità nazionale e dell’indipendenza politica fondata sulla sua emancipazione morale.

E questo problema fu cosi presente nel suo spirito che senti il bisogno di esprimerlo in una specie di testamento ideale, che alla vigilia della sua morte volle riassumere in una serie di articoli apparsi su “Roma del popolo” verso la fine del 1871 appunto sotto il titolo di “Questione sociale”.

Il modo fondamentale per Giuseppe Mazzini era < un miglioramento morale in noi stessi> considerato per lui <a capo di ogni mutamento di ogni grande impresa >.

E la base di questo miglioramento era per lui l’istruzione, intesa prima di tutto come educazione, come elemento morale, come risveglio di una illuminata coscienza dei doveri, come missione civile, rafforzata da istruzione professionale che affinasse le armi delle classi operaie nella loro battaglia quotidiana per il programma economico e sociale. Battaglia che, sull’odio classista predicato da Marx, deve prevalere l’amore poiché <un germe di comunione e di amore è più potente a pro di un popolo abbandonato, che non certo grida di rabbiosa vendetta >.

Per questo, egli postula il riordinamento del Lavoro e l’associazione come fondamento che garantisca il salario come basa del mondo economico futuro.

E’ l’invito all’associazione sindacale, all’affratellamento operaio, in cui gli scopi sociali ed economici s’innestano a quelli morali , educativi. La definizione sindacale non ha ancora corso, ma Mazzini ha una chiarezza sui quelli che saranno i futuri compiti del sindacato da fare invidia ai più moderni sindacalisti.

Quindi il sindacato ha una funzione educativa che dovrebbe essere ancora preminente e sarà ancora di più se supererà la fase classista in cui ristagna. In altre parole dovrà restare “la Scuola delle masse” da cui dovranno venir fuori i degni rappresentanti dei lavoratori assieme ai nuovi istituti rappresentativi come la Camera del Lavoro o Consiglio legislativo dell’Economia e del Lavoro l’attuale C.N.E.L. Già prevede l’istituzione della Magistratura del Lavoro cioè i “ consigli conciliativi, composti per metà da padroni per metà da operai, usciti tutti naturalmente dall’elezione e presieduti da un soggetto capace”.

Perché l’Apostolo sa perfettamente che << l’operaio, senza interesse alcuno materiale o morale nei risultati della produzione, non dà, in generale , e non quel tanto di lavoro necessario a rivendicargli il salario pattuito per cui ha dalla partecipazione sprone a produrre maggiormente e meglio>>.

E rivolgendosi alle classi emancipate le pone di fronte alle loro responsabilità << o con voi o contro di voi>> è un ammonimento vecchio di un secolo e mezzo ma ancora di un’attualità sorprendente.

Ma quel che oggi è preoccupante è che ciò oltre ad aver lasciato indifferenti quelle classi sociali a cui era direttamente rivolta, non è stata capita, nonostante un linguaggio esplicito e chiaro che aveva un solo obbiettivo: affermare la dignità e i diritti di tutti i lavoratori per fare diventare una nazione libera.

Dovrebbero i nostri governanti prendere esempio da loro, invece di lavorare per dividere l’Italia e il mondo del lavoro.

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Patriota, educatore e meridionalista: Umberto Zanotti-Bianco

 di Maria Elisabetta Curtosi

Zanotti Bianco storico e meridionalista che concepiva il problema politico come problema morale lontano da ogni moralistico bla bla ma una ricerca della eticità del vero impegno civile per il Sud ed in particolare per la Calabria. Un esempio resta il saggio “Martirio della scuola in Calabria” dove impegno civile ed etica sono un tutt’uno ed in questo senso Zanotti Bianco raccoglieva l’esempio del suo maestro di meridionalismo Gaetano Salvemini che aveva inculcato nel giovane amico la fiducia nella storia “fatta di piccoli sforzi, che accumulandosi fanno le grandi soluzioni”.  Salvemini e Zanotti Bianco si incontravano nella fondazione etica della politica ed era comune il convincimento che “nessun popolo che non valga moralmente riesce a farsi valere”. Questo convincimento durò per tutta la loro vita.  E’ superfluo aggiungere, oggi come allora l’attualità dell’insegnamento. In un libro pubblicato nel 2009 presso Rubbettino (Umberto Zanotti Bianco. Patriota, educatore, meridionalista: il suo progetto e il nostro tempo, pp.247, Euro 16), Sergio Zoppi ha dedicato una biografia ad una personalità complessa ed emblematica del novecento italiano che ha fatto dell’impegno sociale e civile a favore del Sud una vera e propria missione.

Zanotti  Bianco e Salvemini si videro per la prima volta  a Gennaio del 1909,dopo il terribile terremoto del 1908 che sconvolse Messina e mezza Calabria. Fra quei volontari c’era Zanotti Bianco poco più che ventenne,mentre Salvemini in quel disastro aveva perduto  la moglie e i cinque figli e si aggirava tra le macerie alla disperata ricerca di Ugo, il figlio più piccolo d cui non si era trovato il corpo. Si trovava in compagnia dell’amico Giovanni Malvezzi e di Giovanni Gallarati Scotti in una esperienza drammatica che doveva segnare per sempre la sua vita consacrandolo ad un’opera di apostolato per il Sud Italia non più abbandonata. I due si incontrarono nel 1910 a Roma per fondare l’Associazione nazionale per gli interessi morali ed economici del Mezzogiorno (ANIMI) della quale facevano parte uomini come Giustino Fortunato, Pasquale Villari, Giuseppe Lombardo Radice, Tommaso Vallari Scotti e Antonio Fogazzaro. Salvemini – scriveva Zanotti a Fogazzaro “si è mostrato fautore entusiasta”, e più tardi comunicava a Giustino Fortunato che “un gruppo di giovani e di vecchi decideva di mettere su un’associazione pel mezzogiorno col fine immediato di concentrare gli sforzi intorno al problema della scuola e della istruzione e della emigrazione in provincia di Reggio Calabria. Gli uomini autorevoli danno l’ indirizzo e  i giovani sgobbano. Saremmo lieti e orgogliosi di averti tra di noi.  Oltre mezzo secolo fa lo stesso Zanotti Bianco rievocava l’incontro con la Calabria, la Magna Grecia, un incontro dettato da una precisa scelta di vita, una vera e propria missione: “Sarà tra poco mezzo secolo che percorro in tutti i  sensi le terre dell’antica Magna Grecia. Per quanto istintivamente attratto da ogni testimonianza artistica e dal fascino delle ricerche archeologiche, tuttavia la miseria ed i dolori di questa regione, ingigantiti dalla spaventosa tragedia del terremoto che prese nome da Reggio e Messina, occuparono nei primi anni di lavoro quaggiù tutta intera la mia vita (…) Fu Paolo Orsi, il grande, perseverante archeologo roveretano,che con la descrizione dello stato  miserando dei monumenti superstiti della Calabria, mi fece sentire il dovere della pietà per le creazioni d’arte del passato, silenziose educatrici degli spiriti nel futuro, e mi spinse a creare nel 1920, in quel desolato dopoguerra, la Società Magna Grecia”.   Paolo Orsi gli fece conoscere Carlo Felice Crispo, storico della civiltà magno-greca della Calabria ed in particolare di Vibo Valentia, già Hipponion. Conobbe anche il marchese Enrico Gagliardi. Diventò subito amicizia vera perché avevano in comune l’amore per il bello ed i valori della libertà e della onestà. Oltre a questi grandi vibonesi altre figure di primo piano aderirono alla Società:il prof. Eugenio Scalari, Pietro Tarallo, Mario Micalella, il conte Capialbi, Mario Cordopatri, Vincenzo Cremona, Leonardo  Donato ed altri.  Con il marchesino Gagliardi a bordo di una macchina cabrio visitarono tutti i monumenti di Monteleone, Pizzo, Mileto.   Giuliana Benzoni, stretta collaboratrice di Zanotti cosi lo descrive: “Esile, dagli occhi cerulei, con biondi capelli da agnellino che adornavano una testa da cherubino, affascinante come una visione, spirituale come un santo, concreto come un banchiere, splende per bellezza fisica, passionalità, ardore:un tombeur de femmes eccezionale”.

 Zanotti Bianco era nato nel 1889 a Canea sull’isola di Creta, il padre console,la madre di origine scozzese, studi nel collegio Carlo Alberto di Moncalieri dai padri Barnabiti. Ammirava Mazzini e gli ideali del Risorgimento, Tolstoj e Romolo Murri.Allo scoppio della prima guerra mondiale,seguendo l’esempio di Gaetano Salvemini, si arruola volontario. Nel 1939 Achille Storace aveva protestato perché la sua associazione ANIMI era ancora in vita e quindi dimostrava che il fascismo non aveva risolto tutti i problemi del Sud. Zanotti chiede l’aiuto della principessa Maria Josè che assume l’alto patronato dell’associazione.Nel 1941 viene arrestato e inviato al confino vicino a Sorrento. Erede del cattolicesimo liberale. Partecipa in seguito alla lotta clandestina nelle file del partito liberale. Nel 44 assume la presidenza della Croce Rossa. Nel 1952 è nominato senatore a vita da Luigi Einaudi. Fonda assieme ad Elena Croce Italia Nostra. Muore a Roma nel 1963.

 

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CENSURA E LIBERTA’ DI STAMPA

di Marilisa Curtosi

È la stampa, bellezza, e tu non puoi farci niente

Testate stampa calabrese
Libertas e La Zanzara                                               Due testate della stampa calabrese

In questo periodo la domanda che frequentemente viene da porsi è se esiste la libertà di stampa in questo Paese che definiamo come “democratico”.

Possiamo veramente parlare di “parole in libertà” o è rimasto solo un logo della corrente del Futurismo?

In questo caso per non dare una semplice e “comoda” risposta è necessario prima di ogni altra cosa fare un passo indietro e ripercorrere brevemente la mappa storica della libertà di stampa e censura.

La libertà di stampa venne ufficialmente proclamata a Parigi con la DICHIARAZIONE DELL’UOMO E DEL CITTADINO il 26 Agosto 1789. Vi si stabiliva che << la libera comunicazione del pensiero e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo: ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo rispondere degli abusi nei casi determinati dalla legge>>

Come ben ricorda Mario Infelise, insegnante di Studi Storici, ne ”i libri proibiti” <l’immagine del rogo dei libri ha una lunga storia alle spalle e rappresenta con drammatica efficacia l’estrema conseguenza del conflittuale rapporto tra poteri organizzati e voci avvertite come dissidenti>. Uno dei più famosi è quello del 10 maggio 1933 , di fronte all’Università d iBerlino, dove bruciavano le opere degli autori liberali e democratici, perché doveva risultare chiaro che <la presa del potere nazista sulla Germania non si limitava alle istituzioni, ma doveva incidere in profondità sulle coscienza>.

La grande attualità del tema ha spesso reso difficile una corretta ricostruzione storiografica, in grado di prendere in considerazione le sue tante sfaccettature.

Trattare di censura continua e, con ogni probabilità, continuerà a sottintendere implicazioni politiche e religiose legate a ogni presente che rischiano spesso di proiettarsi al passato , deformandolo.

La storiografia democratica e liberale di matrice ottocentesca ha, ad esempio, a lungo rivolto uno sguardo carico di indignazione verso la censura ecclesiastica dei secoli scorsi, facendo proprie tutte le argomentazioni di chi allora era stato costretto a subirla. Non si è però mai curata di tener nel debito conto quali fossero le condizioni effettive dell’esercizio del potere e della circolazione delle informazioni. In compenso, certo recente revisionismo storiografico ha teso a minimizzare le conseguenze della svolta controriformistica sull’evoluzione intellettuale dei paesi cattolici.

Da una parte e dall’altra sono rimasti in ombra altri rilevanti effetti che il controllo sulla stampa dell’età moderna ha lasciato nella cultura europea.

Paradossalmente in certi casi proprio la repressione, suscitando la curiosità nei riguardi dei titoli proibiti, ha alimentato l’interesse e ne ha consentito la sopravvivenza. In altri ambiti la necessità di eludere la vigilanza ha condotto ad affinare lo stile e a coltivare l’ironia e le allusioni. Il fatto che spesso la repressione si sia manifestata in epoche lontane ha contribuito a destoricizzare il problema. Si pensi all’immagine del rogo dei libri, dall’età classica al nazismo e oltre. Forse la forza evocatrice di quei fuochi ha impedito di ragionare al di fuori di schemi ideologici e di collocare la questione della censura all’interno del tema più ampio della comunicazione e dei rapporti di questi con il potere. Uno dei rischi di restare legati a concetti che si ritiene immutabili è quello di stentare a percepire che non è possibile definire una volta per tutte il quadro entro la quale la libertà di espressione può essere esercitata poiché esso tende a configurarsi in maniera sempre nuova, a seconda dell’evolversi delle tecnologie dell’informazione, in funzione dei sistemi istituzionali e di esigenze di carattere sociale. Non esiste potere che possa permettersi di rimanere indifferente alle opinioni dei governati al punto di astenersi del tutto dal proposito di influire su di esse.

Gli interventi di Paolo Sarpi furono del resto in linea con questo principio. Egli era consapevole della funzione politica che la censura stava assumendo in quel periodo e con estrema lucidità, aveva chiarito che nessun potere poteva ormai disinteressarsi alle letture dei sudditi : << La materia dei libri- aveva scritto nel 1613- Par cosa di poco momento perché tutta di parole; ma da quelle parole vengono le opinioni del mondo che causano le parzialità, le sedizioni e finalmente le guerre. Sono parole sì , ma che in conseguenza tirano eserciti armati>>.

Dunque ritornando alla questione iniziale, risulta azzardato dire che in questo Paese la libertà di stampa è una questione strettamente legata al servizio del potere o del potente di turno?

Abolire la miseria Anno III n°9 (unico)
Abolire la miseria Anno III n°9 (unico)

Forse è meglio far rispondere ad uno dei più grandi attori di tutti i tempi che con queste parole Humphrey Bogart inchiodava il suo antagonista filmico alle proprie responsabilità civili e penali: “È la stampa, bellezza, e tu non puoi farci niente”; mentre il rumore delle rotative trionfava sugli strepiti dei corrotti nemici della libertà di stampa.

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“Fimmani e omani”.

di Maria Elisabetta Curtosi

Se verrà un giorno in cui smetteremo di chiederci se Vincenzo Ammirà, monteleonese, classe 1821, sia o no il più grande poeta calabrese,riconoscimento del quale l’interessato stesso non farebbe salti di gioia, vista anche l’amarezza con cui il poeta del Carmine-ex rione del paradiso terrestre vibonese che tanto decisivo nei suoi versi appare, oggi definitivamente deturpato da un progresso senza sviluppo. Fimmani, omini, natura, cultura e mondo: i temi della poesia ammiriana sono spesso risolvibili in tensioni irrisolvibili che hanno accompagnato lo scorrere dell’ultimo decennio dell’ 800 poetico esplorandone quella che sarebbe troppo facile definire una società profondamente corrotta. Le due leggendarie figure della poesia calabrese hanno plasmato con entusiasmo l’anima della gente, non solo in Calabria,ma la loro opera si è appannata, nel tempo. “L’atmosfera romantica che stupì il mondo della letteratura meridionale con le sensuali poesie si fa fatica a ritrovarla là dove la poesia è artificio, retorica, buona soprattutto nei salotti della domenica. La pratica diffusa oggi è una non celata forma di prostituzione che offenderebbe una come Cecia: qui da noi, e forse anche altrove, una signora desiderosa di occupare alacremente la propria vacanza  può comprare in un comune un incarico qualunque. La nostra coscienza è molto sporca”.

Quale dunque l’interesse di queste raccolte, a parte il gusto per lo scandalo.  Solo e semplicemente per amore della verità della conoscenza a tutto tondo come direbbe qualcuno ,nel senso che la conoscenza di qualcuno o di qualcosa non può nascondere o escludere nessuna parte di se o della sua opera.  Se vogliamo per davvero prendere le misure del Monteleonese Vincenzo Amnmirà e dell’apriglianese Domenico Piro alias Donnu Pantu, accanto ai versi sonori, cantabili, sfumati e sfuggenti, gioiosi e dilettevoli e rispettabili delle loro liriche note, si deve, appunto per amore di verità e di conoscenza.

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Cenacolo di libertà

di Maria Elisabetta Curtosi

Nel 1847 Vincenzo Ammirà si affiancò ai liberali sotto la guida di Raffaele Buccarelli, tra i quali troviamo Francesco Fiorentino, Luigi Bruzzano, Ottavio Ortona, Francesco Protetti, Giuseppe Augurusa (….) che ebbero su di lui una certa influenza ed in compagnia di questi amici  spesso trascorreva le serate e le notti . Cenacolo di libertà. L’agiografia e la critica che sino ad oggi si è occupata di Ammirà di Donnu Pantu risulta piuttosto caricaturale, di maniera, conformista e quindi falsata. A noi interessano soltanto in quanto ci servono come veicolo per arrivare a capire il perché di una certa produzione, che d’altra parte è presente in Italia e fuori da essa, lungo tutto il percorso della storia letteraria, anche se celata con sufficienza da testi cosiddetti ufficiali.

Tre anni dopo, nel mese di…. lo troviamo al seguito di Giuseppe Garibaldi fino a Soveria Mannelli.

Le lagnanze della “ cultura ufficiale” battono sui soliti argomenti: l’immoralità mostruosa del comportamento del poeta che poteva avere sulle persone la più funesta influenza e,il fatto che il poeta dicesse pane al pane e vino al vino come in uno dei suoi più celebri scritti la “ Ceceide” che canta la vita di una bella e dignitosa buttana di Tropea, frequentata non dai poveri cristi popolani,ma da gente di cultura e di alto lignaggio come il filosofo Pasquale Galluppi e  la “Rivigghiede” che rappresenta una sorte di orationes funebre sempre di una grande buttana, questa volta montaleonese, assaporata,gustata e molto gradita  dai signori altolocati del tempo.  A Francesco Mantella-Profumi, appartenente al nobile casato pannaconese , disse: “Da certi scritti, che non credevo vivessero tanto,  sembro diverso da quel che realmente sono, eppure quando scrivo i miei versi sono sempre mesto”.  Dunque Ammirà, come Donnu Pantu vivevano  una vita castigata, l’uno tutto dedito alla famiglia, l’altro faceva il “mastru missaru”.

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Questione meridionale, la storia del pane, la rivoluzione di Tommaso Campanella e uno speciale di 4 pagine sul terremoto in Calabria del 1905

Sono questi i contenuti dell’ultimo numero di Abolire la miseria della Calabria che, da oggi, uscirà solo in versione pdf e, a breve, completamente rinnovato nella grafica
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Nati per crederci liberi: il divinatore Tolstoj

di Maria Elisabetta Curtosi

Lev Nikolaevič Tolstoj

Il celebre autore russo Lev Tolstoj ancora una volta ci regala una delle sue più brillanti profezie. Si tratta di testo ritrovato, per nostra grande fortuna, da Roberto Coaloa che lo ha presentato a Gorizia nel corso di un festival, in cui Tolstoj riflette sugli aspetti politici e sociali di inizio Novecento auspicando una ‘rivoluzione’ basata su <<L’euguaglianza di tutti gli uomini e di una libertà autentica, quella proprio degli essere ragionevoli >>.

Una nuova visione del vivere e di comunione tra gli uomini.

 

Il testo è per noi tanto fondamentale quanto mai divinatorio. Da esso scaturisce, da un lato il momento storico a lui contemporaneo quindi la guerra del 1904 e la successiva rivoluzione del 1905, dall’altra possiamo ritrovare il nostro spirito di rinnovamento politico e sociale che è diventato necessità, l’urgenza di cambiare rotta, e quindi la nostra di ‘rivoluzione’; tutto ciò dopo che è trascorso poco più di un secolo soltanto.

Non è forse attuale l’epoca di Tolstoj dove << è sorto un inganno che ha riconfermato i popoli nella loro condizione servile . Ed esso si manifesta mediante un complesso sistema d’elezione, dove degli uomini eletti da un dato popolo, divengono delegati entro le varie istituzioni rappresentative, entro le quali eleggeranno a loro volta o senza alcun criterio dei candidati sconosciuti, o i propri rappresentanti secondo personali interessi; il popolo stesso sarà allora una delle cause del potere del governo, e pertanto, obbedendo ad esso, crederà in effetti di obbedire a se medesimo, supponendo di vivere quindi in un regime di libertà >>.

I governi sono ingannatori sottolinea lo scrittore e continua << Chiunque avrebbe potuto accorgersi che tutto ciò non era altro che un imbroglio, sia in teoria sia in pratica, giacché anche nel più democratico dei sistemi e anche laddove vige il suffragio universale, il popolo non può comunque esprimere la propria volontà. E non può esprimerla, in primo luogo, perché una simile volontà collettiva di tutt’un popolo, di molti milioni di persone, non esiste e non può esistere; in secondo luogo, perché, anche se esistesse tale volontà collettiva, una maggioranza di voti non potrebbe comunque esprimerla pienamente in alcun modo >>.

L’immoralità dei governanti, la decadenza atroce delle società cosiddette civile.

<< Questo inganno – anche a tacere del fatto che gli uomini eletti in tal modo, partecipando al governo del loro Paese, approvano leggi e governano il popolo non in vista di ciò che è bene per esso, ma lasciandosi guidare per lo più, unicamente, dall’intento di mantenere salda la propria posizione di privilegio e il proprio potere frammezzo alle lotte dei vari partiti, e per tacere altresì della depravazione che questo inganno diffonde tra il popolo mediante le menzogne, lo stordimento e le corruzioni che sono caratteristica costante dei periodi elettorali >>.

Queste parole risuonano come un tonfo spaventoso nel silenzio oramai assordante della nostra società dove il popolo presume di autogovernarsi in una selvaggia lotta tra partiti, degli intrighi, della sete di potere e dell’interesse personale e poco importa della volontà e dei desideri del popolo tutto. << Gli uomini si imbattono in questa trappola s’immaginano davvero d’obbedire a se stessi ogni volta che ascoltano il governo >> .

Questo è un popolo che si illude di essere libero << sono come uomini rinchiusi in carcere che s’immaginano di esseri liberi perché viene concesso loro il diritto il diritto di votare per l’elezione dei carcerieri delegati all’amministrazione interna dello stesso carcere >>.

Cosicché gli uomini immaginandosi di essere liberi, proprio a tale sforzo di immaginazione finiscono per non sapere nemmeno più in cosa consista l’autentica libertà. Questi individui, mentre credono di liberare se stessi, si condannano in realtà a divenire sempre più profondamente schiavi del loro governi.

In difinitiva è la forma del tolstojanesimo: non c’è altra “via d’uscita” o così o la rivoluzione e quindi la rovina “la fine di un mondo”. Ma si preoccupa Tolstoj di precisare il suo “rifiuto ad ogni violenza”, il “credo” che poi spingerà il giovane Gandhi nel 1909, a scrivere all’ormai famoso e anziano scrittore.

 

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