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Viva la patrimoniale

Già nel 1952 qualcuno scriveva che il libero mercato, la libera concorrenza e la stessa libertà di accesso al mercato sono “condizioni permanentemente a rischio”, che vanno create e mantenute da “apposite regole, il cui rispetto deve essere garantito da organi pubblici dotati di poteri penetranti di vigilanza e di sanzione”.

Il Governo presieduto dal Professor Mario Monti si appresta a somministrare la cura all’Italia e, tra i provvedimenti allo studio, c’è il ritorno dell’Ici forse anche per le prime case e conglobata all’imposta municipale unica. Certo, con questi chiari di luna e la crisi economica che incalza, chi potrebbe dirsi contrario a far pagare l’obolo anche ai grandi patrimoni immobiliari esentati da Berlusconi? Nel paese dei grandi evasori, in cui si stima che le imposte sfuggite al fisco siano attorno ai 180 miliardi l’anno, l’anomalia grave rimane però la differenza tra quanto viene tassato il reddito proveniente dalle rendite finanziarie dei grossi capitali e quanto, invece, viene tassato il reddito di chi lavora ed investe il proprio capitale per intraprendere un’iniziativa economica. Un capitalismo che permette questo è un capitalismo inquinato. Oggi, oltre a mancare effettive autorità di vigilanza che garantiscano la libera concorrenza e cricche di ogni genere possono farla da padroni, abbiamo una grossa distorsione di fondo che rallenta la nascita e la crescita di nuove imprese. Ovviamente nessuno penserebbe di tassare ulteriormente i piccoli patrimoni sotto, ad esempio, una data soglia che qui potremmo quantificare in 500.000 euro e che rappresenterebbe la quota di coloro che, lavorando una vita, hanno messo da parte la propria liquidazione. Ma le rendite finanziarie derivanti dagli interessi percepiti sui grandi capitali, magari già “scudati”, e tenuti in banca solo per ricavarne legittimo interesse, queste dovrebbero essere tassate assai di più rispetto al reddito proveniente dal lavoro o da impresa. Invece in Italia accade l’esatto contrario: chi possiede un patrimonio, ad esempio, di una decina di milioni di euro, con un tasso minimo d’interesse del 2%, guadagnerà in un anno 200.000 euro d’interessi sui quali pagherà soltanto il 12%. Se lo stesso guadagno di 200.000 euro, lo stesso signore lo facesse invece investendo il suo denaro in un’impresa e, magari, assumendo qualche dipendente, la tassazione complessiva sarebbe attorno al 40%. E’ paradossale: in queste condizioni, in una società così organizzata, chi penserebbe ad affrontare il rischio d’impresa se tenendo tutto in una banca e stando lautamente con la pancia al sole può essere tassato molto meno sui propri guadagni? Ecco perché parlare di patrimoniale sulle rendite dei grandi capitali potrebbe avere il senso non solo di sacrificio chiesto a chi ha di più, ma anche il senso di un provvedimento per il rilancio dell’economia e dell’imprenditorialità nel nostro Paese.

 

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La “Questione meridionale”: dalle origini al dibattito contemporaneo

I partiti dell’Italia contemporanea non possono ignorare che senza l’unità nazionale, senza il potenziale non solo economico ma anche umano di tutte le regioni messe assieme (nessuna esclusa!) l’integrazione del Paese all’Europa sarebbe monca.

di Antonio Carvello (*)

Della nascita di una “Questione meridionale” propriamente detta si può parlare a partire dall’integrazione delle province meridionali nello stato unitario nel 1860-61: infatti, già all’inizio delle annessioni, nel momento cioè in cui da Torino ci si sforzava di liquidare mediante l’intervento regio l’ipoteca politica della dittatura di Garibaldi, Cavour ebbe a rettificare i propri orientamenti ottimistici ed a prendere drammatica coscienza dell’esistenza di una profonda frattura fra le “due Italie”, di un distacco misurabile non solo quantitativamente, ma anche in termini sociali e morali. Alla luce delle difficoltà crescenti, il Cavour reputò forse più conveniente anteporre alle ragioni dell’autonomismo e il decentramento amministrativo quelle che persuadevano a rinsaldare un forte sistema accentratore in senso decisamente unitario. Anzi, é da dire che le preoccupazioni politiche suscitate dalla questione del Mezzogiorno influenzarono strettamente tutto il dibattito successivo sulla forma politica-amministrativa da dare al nuovo stato.

Negli anni seguenti al 1861, in assenza di una politica governativa diversa da quella storicamente intrapresa – mentre si saldava l’alleanza tra borghesia industriale del nord e grande proprietà terriera del sud, che escludeva la risoluzione in termini socialmente nuovi della questione contadina – l’iniziativa dell’opera di propaganda e di denuncia non spettò alla democrazia radicale, alla quale in pratica rimase estranea la sostanza politica del problema, ma a pochi intellettuali conservatori, ma illuministicamente riluttanti a chiudere gli occhi sui problemi che la bruciante realtà meridionale (brigantaggio, fame di terra da coltivare, arretratezza economica complessiva, agricoltura arcaica clientelismo diffuso, ecc .) proponeva.

Primo di tutti fu Pasquale Villari: la sua descrizione della miseria delle plebi contadine e di quelle che affollavano, cenciose e senza mestiere, i “bassi“ dellex capitale (Napoli) infestata dalla camorra, della situazione intollerabile esistente nel latifondo siciliano, delle dimensioni del brigantaggio, procedeva col ripensamento critico delle basi sociali che erano all’origine di quei fenomeni patologici, insieme con l’appello ai ceti dominanti di tramutarsi nel nome del buongoverno, in classe effettivamente dirigente. Analogo spirito riformatore e moralismo filantropico é presente in Sonnino e Franchetti, i quali condussero avanti un discorso polemico che aveva alla base le splendide inchieste sulle condizioni delle province napoletane (1875) e della Sicilia 1876). Anche l’espansionismo coloniale era dal Sonnino giudicato come un canale di sfogo della miseria dei contadini del sud ed il campo per un pacifico svolgimento del loro lavoro in territori aperti alla civilizzazione. La linea del Villari venne altresì continuata da Giustino Fortunato, anche se sul finire del secolo, tuttavia, il Fortunato non nascose la cocente delusione patita per il venir meno di un sogno che aveva alimentato le speranze degli anni precedenti: quella di uno Stato che si facesse centro e motore attivi di rinnovamento materiale e morale nel Sud e nell’Italia intera.

Di fronte all’approfondirsi della frattura fra nord e sud – così come veniva documentata con dovizia di cifre e di fatti da Francesco Saverio Nitti nella opera capitale “Nord e Sud“ (1900) – Fortunato abbandonò gli ideali protezionistici del “socialismo di stato“ e si convertì decisamente al liberismo, convinto addirittura che 1o Stato col suo malgoverno riuscisse d’ostacolo alle sole energie individuali che avrebbero potuto operare per la rinascita del sud. Nel Nitti, al contrario, le speranze riposte nell’industrializzazione si accentuarono nella misura in cui egli pensava che le possibilità di trasformazione sciale dipendessero non soltanto da quella che egli chiamava la “ricostituzione del territorio“, ma anche dall’inserimento della regione nell’area capitalistica settentrionale ed europea, dove Napoli doveva fungere da “polo“ industrializzato propulsore per l’intero Mezzogiorno.

A differenza del Nitti, che fu sempre rigidamente unitario al pari di Fortunato, difese le ragioni di una soluzione federalistica del problema meridionale il repubblicano Napoleone Colajanmi, anche se rimase al di qua del meridionalismo borghese per quel suo privilegiare la riforma dello spirito pubblico quale pressuposto imprescindibile di un effettivo mutamento di rotta nel Sud, anziché far derivare abusi e discriminazioni dalla struttura sociale italiana quale si era storicamente formata con l’unita.

Filippo Turati
Filippo Turati

 

 

 

 

Toccò ai meridionalisti d’ispirazione socialista portare il dibattito su un piano squisitamente politico e svolgere talune conseguenze: con Ettore Ciccotti, al quale stette a cuore illuminare il rapporto che poteva intercorrere tra movimento socialista e questione del sud e che a tal fine operò polemicamente all’interno e fuori del PSI perché questi assumesse coscienza dei compiti che gli spettavano; poi, e soprattutto, con Gaetano Salvemini che quella polemica condusse con vigore ancora maggiore. Ma mentre il Ciccotti, pur sottolineando l’importanza dell’educazione per la coscienza di classe fra i contadini meridionali, ne considerò sempre la funzione politica subordinata al movimento organizzato del nord, Salvemini attaccò a fondo i compromessi palesi od occulti raggiunti, nel quadro del sistema giolittiano, dal partito socialista con la borghesia settentrionale, a spese del proletariato contadino. Per questo, ed a più riprese, Salvemini si scontrò con la linea riformista di Turati. Accantona e, anche se mai abiurato, il federalismo alla Cattaneo degli anni della milizia giovanile, Salvemini si batté dopo il ‘900 perché al centro del suo programma il PSI ponesse il suffragio universale ed una politica doganale antiprotezionistica, strumenti rispettivamente della rinascita politica ed economica del Sud. Convinto, infine, che il suo partito fosse incapace di fare propri quelle due parole d’ordine, uscito dal partito, fondò un proprio periodico per difendere le sue idee, “L’Unità”.

Guido Dorso, che nel 1914-15 si era accostato all’interventismo di Mussolini supponendo che l’evento “rivoluzionario” della guerra avrebbe infranto le fratture conservatrici del Mezzogiorno, nel suo volume “La rivoluzione meridionale“ (1925) ritenne non poco della lezione di Salvemini, battendo maggiorante l’accento sulle implicazioni interessanti tutto quanto il paese ove si fosse fatto del sud “la base della rivoluzione italiana”.

Un nuovo meridionalismo elaborò Antonio Gramsci: più che negli scritti giovanili ed in quelli del periodo ordinovista, Gramsci giunse allo sue conclusioni più maturo in un saggio rimasto incompiuto e steso nell’ottobre 1926, pochi giorni prima di essere arrestato, “Alcuni temi della questione meridionale”. In quest’opera la concezione leninista dell’alleanza fra operai e contadini, si saldava con la riflessione sui “nodi” principali della lotta politica fra democratici e moderati, sulla egemonia di questi ultimi consolidatasi, poi, storicamente, nella creazione di un “blocco storico” conservatore che nel “blocco agrario intellettualedi estrazione meridionale aveva il suo perno fondamentale. Sempre il sud offerse al maggiore meridionalista cattolico, il sacerdote di Caltagiorone Luigi Sturzo, fondatore anche del partito popolare,l e occasioni politiche per unificare, com’è stato osservato, i fili sparsi del suo pensiero e per elaborare i punti programmatici che ne sorressero la battaglia politica dal tempo della democrazia cristiana di Romolo Murri fino alla “leadership“ nel partito popolare: la richiesta della proporzionale, del decentramento regionale, la lotta per la rottura del latifondo in favore della piccola proprietà si affiancarono in lui a quella contro il trasformismo ed il clientelismo cui lo stato liberale aveva consentito di prosperare e di trovare alleati fra il clerico-moderati, soprattutto nel Sud.

Nel secondo dopoguerra si pone un nuovo meridionalismo, meno polemico e più propositivo rispetto ai “mali” antichi e nuovi del Mezzogiorno, che ha i suoi maggiori esponenti in Emilio Serni, Rosario Villari, Giuseppe Galasso, Francesco Compagna, Manlio Rossi Doria, Pasquale Saraceno, Mario Alicata, Augusto Graziani, ecc; intellettuali e politici di diverso orientamento,c he hanno posto all’attenzione generale del paese il problema del Mezzogiorno come “questione nazionale“, nel senso cioè che sarebbe utopia parlare di uno sviluppo endogeno del Mezzogiorno, impensabile senza una politica d’orientamento e indirizzo da parte dello Stato di fronte a quelli che ancora oggi sono i problemi irrisolti del Sud: la mancanza d’industrie, un’agricoltura non competitiva, la cementificazione delle coste, la debolezza organica delle istituzioni, esplodere della criminalità organizzata, la crescente disoccupazione giovanile, l’assistenzialismo sempre più diffuso, ecc.

In questi ultimi tempi si va sempre più “appannando” la riflessione sui problemi del Mezzogiorno: una riflessione, quindi, per nulla comparabile, quanto ad intensità ed eco, ai dibattiti svoltisi negli anni ’50-60, quando ci si spinse ad affermare l’esistenza di un “pensiero” e di una “cultura” non solo meridionali, ma “meridionalisti”. Sembra ora, per diversi aspetti che i problemi della parte meridionale ed insulare del Paese non siano più sentiti come una “questione nazionale”, salvo che in poche dichiarazioni ufficiali, tanto inevitabili quanto spesso formali ed inutili.

Ad aprire la breccia in questa direzione, poco più di un anno fa, é stato il sen. Umberto Bossi, oggi leader incontrastato delle leghe del Nord: abile, spregiudicato, tanto incolto da raccogliere senza filtro gli umori dispersi della sua gente, ha fatto dell’antimeridionalismo una bandiera politica, ha raccolto consensi, è divenuto lo “spauracchio“ elettorale dei partiti tradizionali. Ma dopo la ricca e varia fioritura dei rozzi slogan di partenza, il fenomeno sta acquistando consistenza, la ricerca delle ragioni del successo delle leghe nordiste si sta ammantando di una “dignità” culturale: le filippiche quasi quotidiane di Giorgio Bocca – che traccia progressivamente il ritratto di un Mezzogiorno quasi irrecuperabile, vero “regno“ del male, ostaggio della criminalità organizzata e sempre più alimentato dall’assistenza statale – hanno aperto la strada a “diagnosi” meno impietose, meno totalizzanti e, per questo, più severe e pericolose.

La questione meridionale é soprattutto una questione dei meridionali” ha scritto in un editoriale sulla “Stampa” il filosofo Norberto Bobbio. Ma 1’affermazione dell’illustre studioso é stata raccolta ed interpretata al di là della sua valenza effettiva, dando il via ad analisi dure “Mentre le conseguenze del deficit pubblico – ha sottolineato Mario Pirani – sono vissute nelle regioni settentrionali come una minaccia crescente alla possibilità di concorrere alla pari all’integrazione comunitaria, nel Meridione il debito pubblico costituisce la base indispensabile del consenso e dello scambio politico”. Ed il sociologo Luciano Gallimo, riferendosi al Mezzogiorno, ha aggiunto: “Nessun paese europeo reca dentro di sé un nemico altrettanto pericoloso per tutti i progetti di sviluppo, di promozione sociale e culturale“. E Vittorio Feltri, direttore dell’“Europeo” ha avanzato “il sospetto che se i carabinieri nella provincia di Caltanissetta arrestassero tutti coloro che sono in combutta con le cosche e hanno violato il codice, la popolazione in libertà si dimezzerebbe” .

Le esemplificazioni potrebbero continuare, ma ciò che é importante rilevare é che, sulla spinta di questo “nordismo democratico”,  prendono consistenza, in teoria, le ipotesi di una “secessione” del Nord. Il suo profeta è il prof. Gianfranco Miglio, ordinario di scienze della politica alla “Cattolica” di Milano: “Per accelerare il processo di secessione non c'è affatto bisogno che la Lega Nord conquisti la maggioranza assoluta nelle prossime elezioni. È  sufficiente che ottenga la maggioranza relativa nelle regioni settentrionali. E questo mi sembra probabile”. 
E sulla scia di questa previsione disegna il “modello” di uno Stato Federale, con tre macro regioni (Nord, Centro e Sud), con poteri limitati di coordinamento per il governo centrale e con la conseguenza che a restare “aggrappati” alle Alpi (e all'Europa del '93) rimarrebbero solo i fratelli “separati” del Settentrione. Queste provocatorie proposte, arricchite di nuove sviluppi, il prof. Miglio ora le ripropone in un volume pubblicato da Laterza-Bari “Una Costituzione per i prossimi trent'anni. Intervista sulla terza Repubblica”, a cura di M. Staglieno, ove alle ipotesi di elezione popolare del primo ministro, di riduzione drastica dei poteri del Parlamento, di divisione delle funzioni tra i componenti delle assemblee rappresentative e quelle degli amministratori, di abbattimento dello stato sociale e l'applicazione integrale delle regole del mercato, sul versante istituzionale ribadisce la costituzione di tre macro regioni (la Padania, il Centro id il Sud), unite in uno Stato federale.

Una proposta che, più che giustificata da un approfondito e persuasivo approccio scientifico al problema, sembra condizionata dalla avversione del prof. Milglio ai guasti creati dalla partitocrazia; una “provocazione”, però, che si muove nella direzione contraria a quella di determinare una ripresa d’interesse e d’impegno tali da ricollocare la questione meridionale al centro del dibattito politico e culturale. E come se, durante li anni ’80, l’affermarsi – non solo a parole, ma anche negli indirizzi economici e nelle pratiche sociali – delle teorie liberiste, con il loro “corredo” di pensiero “debole”, “morte” delle ideologie, ecc. avesse fatto “rovinare” anche nelle coscienze e nella dimensione etico-politica la percezione del problema Mezzogiorno come una questione che – con la realtà drammatica dei suoi “ritardi” – interpella nel profondo la storia dell’Italia post-unitaria e la funzione di governo svolta alle classi dirigenti.

In questo senso non poco ha influito la constatazione del fallimento – oggi evidente in tutti i suoi aspetti – delle politiche d’intervento straordinario, condotte per un quarantennio nel Sud col fine di ridurre ledistanze” che lo separavano dalla parte più sviluppata del Paese. Ma le distanze sono cresciute, il divario si é approfondito e c’é chi non esita a ricordarci, quasi quotidianamente, che nel Mezzogiorno é in corso una preoccupante regressione civile, sociale ed economica: la disoccupazione nel 1988 ha raggiunto la punta del 21,6%, contro il 5% del Nord e non é solo la quantità del dato che impressiona, ma anche la sua “qualità” poiché il Sud ha il triste primato di essere la sola area di un’economia avanzata, quale quella italiana, in cui – com’é stato osservato – i disoccupati adulti e di lunga durata eguagliano quelli giovani. Nel Sud, e nella Calabria in particolare, sono poi in atto processi di vera e propria de-industrializzazione: mentre al Nord si ristruttura, nel Mezzogiorno si smantella con l’effetto di netta contrazione delle attività industriali. L’industrializzazione del Sud ed il maggiore impiego nel Mezzogiorno della sua forza-lavoro hanno rappresentato due “obiettivi” delle politiche dei governi repubblicani che sono stati, però, entrambi mancati.

E le prospettive che ora s’intravedono non sembrano migliori: si ripropone, ancora una volta ed in termini che non sono sostanzialmente cambiati, la vecchia contrapposizione fra politica dell’industrializzazione e politica delle e costruzioni, che nel secondo dopoguerra aveva trovato un punto di mediazione nella teoria di un intervento infrastrutturale che doveva consentire, e in tal senso ne costituiva una precondizione, 1’insediamento delle attività industriali. E molte analisi ritengono che oggi la linea che si viene affermando é di nuovo quella che, già all’epoca di F .S. Nitti, si chiamava delle “opere pubbliche“, delle costruzioni, degli interventi infrastrutturali: si tratta di realizzazioni viarie, di interventi nelle aree urbane, di infrastrutture idriche e fognarie, ecc. Ma almeno due fatti, sotto questo aspetto, vanno sottolineati: il primo é che gli investimenti per centri direzionali delle aree urbane (che dovrebbero rappresentare un indicatore di modernizzazione) spesso si traducono in operazioni di tipo immobiliare, che non hanno quasi nessun rapporto con la modernizzazione e l’industrializzazione (qualcuno s’è spinto ad affermare che nel Sud non vi sono città propriamente moderne, se é vero che la città moderna é definita dal fatto che incorpora una funzione fondamentale che é quella della produzione dei servizi per le imprese); il secondo é che i gruppi industriali meridionali sono prevalentemente attivi nel settore delle costruzioni e che, conseguentemente, 1’uso di capitale é di tipo speculativo”, volto cioè a conseguire rendimenti elevati e a breve termine.

È fuori discussione che il Mezzogiorno in questi ultimi 40 anni ha subìto processi di profonda trasformazione, ma in che senso? Sono cresciuti i consumi e sono diminuite l’occupazione e la produttività; si vive o si tende a vivere con uno “stile” di consumo – e anche con una relativa possibilità – simile a quello delle altre parti del Paese, ma non attraverso un’autonoma produzione di ricchezza: i trasferimenti di risorse hanno accresciuto i consumi ed i redditi, ma non la produzione l’occupazione ed il risultato che si constata oggi é questo: un Sud no povero, ma più “dipendente” o, come l’ha definita qualche studioso, “modernizzazione passiva” del Mezzogiorno.

È su questa base oggettiva che si fondano i processi di disgregazione e degenerazione della vita associata, che si manifestano in fenomeni come gli “incroci” fra politica ed affarismo, la gestione clientelare dei trasferimenti di risorse, il diffondersi della piaga della criminalità organizzata. Ed é tutto ciò che porta taluni a parlare di un “futuro senza speranza” per il Sud ed altri ancora di un Mezzogiorno che sia finalmente in grado di “sbrogliarsela” da solo, ci sembra superfluo sottolineare le insidie che si nascondono sotto la “nozione” di “sviluppo endogeno” del Sud, oggi riproposta dai leghisti del Nord: essa può essere utilizzata per nascondere il tentativo di abbandonare a se stesso il Mezzogiorno, di farne un’area periferica dell’europa sviluppata con un esclusivo ruolo di “mercato interno”. E se non si può non riconoscere il fallimento delle politiche di sviluppo assistito, tuttavia non si può accettare una posizione che chiede al mezzogiorno che…faccia da solo. Ad una prospettiva di marginalità, di cultura della povertà, di mero “galleggiamento”, bisogna contrapporre, ancora una volta, la tesi di un Mezzogiorno come grande questione nazionale che non può essere risolta se non con lo sforzo concorde di tutto il Paese.

Si tratta, soprattutto per lo Stato, di riconoscere i diritti dei più deboli in un “universo – come ha scritto un filosofo francese – regolato dalla legge del più forte”, di abbandonare le politiche di disimpegno, disinteresse e latitanza nei confronti delle contrade meridionali o, nel migliore dei casi, delle cosiddette “briciole”.

Ma quest’aggressione violenta al Mezzogiorno, questa corale campagna di stampa contro un Sud palla al piede dello sviluppo nazionale, “nasconde” logiche tanto di natura economica quanto di natura politica. A dare risposte alle prime, un economista di fama, Mariano D’Antonio, con questa spiegazione: “Ci sono atteggiamenti motivati che assumono a difesa dei loro interessi, i gruppi sociali più forti, che sono quelli del Centro-nord. Le grandi imprese che sovente invocano il criterio della libera competizione, non disdegnano mai di attingere ai sussidi pubblici (le vicende della ristrutturazione negli anni dal ’79 all’84 sono eloquenti. Oggi che l’economia italiana é chiamata alla grande prova del mercato unico europeo, bisogna ridurre sussidi e trasferimenti ai meridionali per riservarli a quelle porzioni forti del nostro sistema produttivo che devono competere con l’industria e la finanza più agguerrita d’Europa”. Accanto a questa, una spiegazione ancora più inquietante:

“Nell’opinione pubblica si é fatta strada la convinzione che il mercato ed il perseguimento del tornaconto personale siano l’unico collante della i nostra organizzazione sociale. Una filosofia collettiva, un nuovo darwinismo sociale che esclude un intervento pubblico correttivo del mercato, politiche di sostegno e di promozione dei più deboli. Chi é debole deve tutto il suo danno a se stesso e non può disturbare la marcia dei più forti…”.

Più incline a spiegazioni strettamente politiche Francesco Tagliamonte: “Ormai si é soggiogati dall’effetto-mafia e dall’effetto-Leghe. Il primo fa assumere per definitivo il giudizio secondo cui gli aiuti al Mezzogiorno alimentano il malaffare e la delinquenza organizzata. Il secondo attanaglia politici e parlamentari in una sorta di timor panico secondo cui, appoggiando le buoni ragioni del Sud, si perdono voti che vanno ad impinguare le leghe nordiste”. Classico il richiamo alla ragione di un autorevole storico e politico meridionale, Giuseppe Glasso, che ha ossevato: “Vogliamo, come dice Bocca, correre a turare le falle della nostra barca? Riacquistiamo pienamente coscienza della dimensione nazionale non solo del problema meridionale e delle sua attuali caratteristiche, ma anche del problema etico e sociale, da cui l’Italia è da alcuni anni afflitta. Dimensione nazionale significa strategia nazionale, alleanze nazionali, piattaforme nazionali, atteggiamenti e decisioni nazionali, il che é più che dubbio che, al Nord ed al Sud, si possa fare con le Leghe”. Durissimo, infine, il giudizio di un esperto di problemi istituzioni, quale Antonio Maccanico:

Quale credito può venire concretamente allo sforzo di integrarsi in Europa, se il Mezzogiorno viene considerato un peso da cui liberarsi? Potrebbe accadere che la tessa Italia sia considerata dall’Europa un peso di cui liberarsi, anche se alleggerita dall’amputazione del Mezzogiorno; o, meglio, proprio per questo”.

Ma c’é un’altra considerazione da fare: ed é che in questi ultimi tempi l’andamento decrescente della spesa statale al Sud é stata inversamente proporzionale alla virulenza con la quale si é sviluppata la campagna antimeridionalista.

Ma, per completare il quadro, all’antimeridionalismo dei leghisti bisogna anche aggiungere le polemiche del novembre scorso sul Risorgimento italiano, i grossolani argomenti di Vittorio Messori contro Mazzini e Garibaldi, le farneticanti “buotades” a proposito di una…Norimberga per i protagonisti dell’Unità d’Italia: tutti “segni”, questi, di quanto oggi il senso di appartenenza alla comunità nazionale appaia in crisi (anche tra chi non condivide gli argomenti dei leghisti!), per cui un autorevole storico come Franco Della Peruta ha potuto osservare che mai oggi “il patriottismo é un valore che facilmente cade in letargo”. Anche il presidente del CENSIS, Giuseppe De Rita, in un intervento sul “Corriera della Sera” (24.XI.990) ha sottolineato quanto nella realtà italiana contemporanea stia “diventando grande l’egoismo territoriale, cioè il rifiuto di assumere impegni che travalichino gl’interessi più stretti delle singole comunità locali”, avvertendo che “purtroppo é anche un egoismo destinato a crescere visto che si intreccia con l’attuale forte spinta a radicarsi sul territorio ed a fare localismo, anche politico” e che superare tale egoismo territoriale “é un impegno che non può essere rinviato di troppo tempo” poiché “La qualità della vita e la stessa civiltà di un popolo si sono sempre misurate nella capacità di mettere a frutto comune le risorse e le responsabilità” e sarebbe triste se non ci riuscissimo noi (italiani), ormai giunti ad uno stadio avanzato di sviluppo economico complessivo”.

Queste ed altre ragioni spiegano la ripresa d’interesse, soprattutto a livello di dibattito storiografico e culturale, al periodo storico che portò nel 1860 al processo di unificazione nazionale e a riconsiderare il problema della formazione di una coscienza unitaria nelle varie regioni italiane, col superamento di quelle “differenze” caratterizzanti gli Stati italiani pre-unitari. Per quanto concerne il nostro Mezzogiorno, tra il 1815-20 lo Stato borbonico sembrava il più avanzato d’Italia. Poi, nel periodo di Ferdinando II, la svolta accentratrice aliena definitivamente la Sicilia alla monarchia borbonica e crea difficoltà alla classe dirigente meridionale. Ci fu, quindi, una evoluzione diversa dei singoli Stati: del resto, già nei primi decenni dell’800 era tramontata definitivamente l’economia mediterranea e con la rivoluzione industriale, dagli anni ’50 dell’800 in poi, si avrà la preminenza dell’Europa centro-settentrionale. È allora che il Mezzogiorno comincia ad essere tagliato fuori dai circuiti più moderni della vita economica e sociale. Nel Mezzogiorno vige la convinzione di Ferdinando II per cui tra “acqua santa ed acqua salata” il regno non abbia nulla da temere e, quindi, non abbia bisogno di una evoluzione. Ma é intorno al 1840 che nei vari stati italiani comincia a porsi il problema della formazione di una coscienza unitaria: il momento chiave é legato al dibattito sulla necessità per l’Italia di raggiungere l’unità economica per metterla al passo con le grandi potenze europee in cui si sta compiendo la rivoluzione industriale. Allora non si pensa neanche che si possa abbattere le monarchie secolari esistenti in Italia: s’immagina piuttosto una federazione di Stati, una unità doganale, con la costruzione di una grande rete ferroviaria. Tra le “voci” più autorevoli in questo dibattito ci sono personaggi poco noti come il Serristori in Toscana e Ilarione Petitti in Piemonte, che preparano un clima culturale unitario su cui si salderanno elaborazioni come quelle di Vincenzo Gioberti sull’unità morale degli italiani. E c’é anche Ludovico Bianchini, che già in quegli anni difende gl’interessi del Mezzogiorno e ancor prima dell’unificazione gli sembra che non s’identifichino con quelli del Nord. Nell’Italia del 1859-60, poi, non mancarono momenti in cui sembrò che l’unità della penisola, con la distruzione dei vecchi Stati, avrebbe realizzato un’unità culturale, politica ed economica. Ma subito dopo la proclamazione del Regno le prime delusioni. Un deputato catanzarese della Sinistra, Bendetto Musolino, in un suo discorso agli elettori aveva così decritto la situazione all’indemani dell’unificazione:

Geograficamente parlando noi siamo quasi uniti: ma le nostre province non hanno tutte le stesse leggi, le stesse istituzioni, lo stesso organismo. Sicché, animati dalla stessa idea, sorretti dallo stesso desiderio, rassomigliamo agli atomi del caos primitivo che si agitano nel vuoto eterno senza aver trovato ancora la forza di coesione da divenire corpo omogeno e compatto” (1861) .

Naturalmente, oggi i problemi non si pongono più nella stessa maniera: anche dove esistono stati nazionali, sorgono forti tendenze separatiste come in Francia, Spagna, Jugoslavia. C’é l’esigenza di affermare le “piccole patrie”, potremmo dire. E anche in Italia, dove non c’è il peso della nazionalità, si pone questa questione per cui rinascono egoismi economici e sociali, torna l’impressione che una piccola comunità avanzata come quella lombarda possa meglio badare ai propri interessi distaccandosi da quelle meno avanzate come il Mezzogiorno. Ma si tratta di tendenze senza fondamento, né futuro storico poiché é sempre più difficile vivere in comunità ristrette, credere che il progresso risieda nelle nuove “divisioni” d’Italia (proposte da Bossi) piuttosto che nella riaffermazione della sua unità. Così, le varie prospettive neo-federaliste non hanno alcuno respiro, né possibilità di attuazione. Tutt’al più potrebbe aver senso parlare di un potenziamento delle autonomie regionali, peraltro già attuate da tempo con modalità che sembrano aver prodotto più danni che vantaggi.

Anche dopo il 1860 emersero molte forze “nemiche” dello Stato unitario: una certa resistenza dei cattolici, un’opposizione dei nostalgici delle monarchie cadute, un’opposizione del movimento socialista che non si riconosceva nello stato liberale. In definitiva, una gran difficoltà per l’esigua classe dirigente unitaria di farsi davvero classe dirigente di tutta la nazione. I partiti dell’Italia contemporanea non possono ignorare che senza l’unità nazionale, senza il potenziale non solo economico ma anche umano di tutte le regioni messe assieme (nessuna esclusa!) l’integrazione del Paese all’Europa sarebbe monca. E se c’è ancora qualcosa che rende preziosa la “lezione” dei meridionalisti (da Fortunato a Dorso, da Gramsci a Sturzo) é la loro convinzione che il problema del Sud non é un problema locale e settoriale non é una “questione” … straordinaria e territorialmente circoscritta, ma é un problema “centrale” d’indirizzo, di orientamento politico ed economico fondamentale dello Stato democratico e l’ambito entro cui la “questione” va risolta é quello della democrazia dei partiti.

(*) Antonio Carvello è docente di diritto dell’organizzazione pubblica economica e società presso l’Università degli Studi di Catanzaro “Magna Grecia”

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Addio mia bella spiaggia, addio

di Giuseppe Candido

Il governo ha dato il via libera a quello che gli ambientalisti definiscono senza remore una vera e propria “svendita delle spiagge italiane”. Con il decreto sviluppo varato in Consiglio dei ministri la scorsa settimana parte l’alienazione privata delle spiagge italiane che eliminerà ogni possibile concorrenza. Si passerà infatti da un regime di patrimonio pubblico dato in concessione ai privati ad un regime di monopolistico con concessioni che dureranno 90 anni. Agli operatori del settore balneare che sono felicissimi del provvedimento, in pratica, vengono regalati oltre tremila chilometri di spiagge italiane: il 50% del totale delle nostre coste.

Federalismo demaniale
Una delle tante spiagge italiane

E, ricordano ancora gli ambientalisti, il diritto di superficie porta con sé anche il diritto ad edificare le aree non ancora edificate. Ma le concessioni continueranno ad essere pagate la cifra irrisoria di 93 centesimi di euro per metro quadrato. «Uno stabilimento balneare di 10 mila metri quadrati pagherà molto meno di 1000 euro di affitto al mese, meno dell’affitto che si paga per un bi-locale a Roma e Milano», ha spiegato il presidente nazionale dei Verdi Angelo Bonelli al quotidiano ambientalista Terra. Ed aggiunge: «C’è solo da vergognarsi per come il governo stia svendendo questo patrimonio comune alle lobby». Una gestione del demanio marittimo che non ha uguali in nessun paese dell’Europa e del mondo.

Per questo motivo il Wwf ed il Fai hanno rivolto un appello al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, affinché valuti la costituzionalità dell’uso della decretazione d’urgenza per una norma che «modificando le leggi che regolano la concessione del demanio costiero, ha conseguenze che vanno bel oltre quanto si sta dichiarando». Le associazioni ambientaliste sostengono infatti, che il provvedimento contiene almeno due aspetti di assoluta gravità: «Il primo – spiegano nella nota congiunta – riguarda proprio l’emanazione di un dl per una materia che va a condizionare per quasi un secolo ambiti territoriali sottoposti a vincoli paesaggistici diretti, e in alcuni casi anche ambientali, come sono appunto tutti quelli costieri». Il secondo punto, sul quale pure l’Unione europea ha chiesto lumi, «riguarda lo stravolgimento sostanziale dell’istituto giuridico della concessione demaniale per come è previsto nel codice della navigazione che regolamenta anche l’occupazione dell’arenile».

In effetti è già dal gennaio del 2009 che l’Europa contesta al governo italiano di aver violato le direttive dell’Unione rinnovando per sei anni, senza opportune gare, tutte le concessioni degli arenili del nostro Paese. Come ha fatto notare al corrispondente da Bruxelles per La Stampa, il presidente della Commissione per il mercato interno dell’UE ha l’impressione che la norma varata col decreto sviluppo non sia in linea con le regole del mercato interno, in particolare con la direttiva Bolkenstein sui servizi del 2006 che prevederebbe una selezione trasparente dei concessionari, il divieto del rinnovo automatico senza aste in cui il gestore uscente sia sullo stesso piano degli altri e, particolare non di poco conto, che le concessioni “devono essere date per un tempo appropriato e limitato” che certo non si sposa coi 90 anni previsti dalle nuove norme.

Ed al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si rivolgono anche i Verdi presentando un dossier con il quale sono quantificate i metri cubi di cemento che rischiano di rovesciarsi sulle nostre coste. «10 milioni di metri cubi» avverte il presidente Angelo Bonelli.

Gli indiani d’America ricordavano ai loro figli che l’ambiente in cui vivevano era “un prestito” che loro avevano contratto con le future generazioni impegnandosi a lasciarlo migliore di come l’avevano trovato. Noi perseveriamo a considerarlo e a svenderlo come fosse un’eredità da saccheggiare e, casomai, lasciarne quel che resta. In tutto ciò, infatti, nessuno tiene in considerazione neanche lontanamente il fenomeno dell’erosione costiera. Fenomeno naturale sì, ma con forza aggravato dall’indiscriminato e non regolamentato prelievo di materiali inerti dagli alvei fluviali che sottrae metri di spiagge ogni anno. La Calabria, solo per fare un esempio, nel far west delle cave dove il prelievo dagli alvei è gratis, ha spiagge il cui tasso d’erosione supera il metro lineare di spiaggia all’anno. Con concessioni che dureranno per 90 anni potremmo paradossalmente avere, in Regioni con coste a rischio come la nostra, anche il “rischio” di dover risarcire quei titolari delle concessioni demaniali cui il mare avrà “rubato” la spiaggia.

 

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Il dibattito sul nucleare non è sciacallaggio

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “Il Domani della Calabria” del 18 marzo 2011

A Tokyo la radioattività fa paura, 20 milioni di abitanti sono al centro dell’incubo nucleare. Mentre continuano le scosse di assestamento di quello ch’è stato un evento sismico tra i più disastrosi e quando è ancora aperta la profonda cicatrice lasciata dalla grande onda, le esplosioni nei reattori nucleari si susseguono. Il Giappone e il rischio di una catastrofe nucleare hanno riaperto il dibattito sullo sfruttamento di tale fonte d’energia non soltanto in Italia dove, tra l’altro, si voterà a breve (e di nuovo) un referendum. La discussione s’è riaperta negli Stati Uniti e, soprattutto, in Europa. In un editoriale del New York Times pubblicato col titolo “Le calamità multiple del Giappone” si spiega come, dopo i morti e gli sfollati per il terremoto e lo tsunami, le centinaia di migliaia di senza tetto, ora la paura è di un’altra catastrofe, quella nucleare, con l’ipotesi di conseguente contaminazione radioattiva. “La tragedia in corso in Giappone”, si precisa nell’editoriale, “deve spingere gli americani a rivedere i loro piani per gestire i disastri naturali e i potenziali incidenti nucleari. Abbiamo già visto quanto povere – prosegue l’editoriale – sono le nostre difese con l’uragano Katrina che ha distrutto New Orleans e quanto la follia industriale abbia arrecato in termini di danni con la perdita di petrolio nel golfo del Messico dello scorso anno. È triste, scrive ancora il N.Y.T., che queste calamità possano danneggiare in questo modo il Giappone, un paese tecnologicamente avanzato e che mette grande enfasi alla riduzione dei danni provocati dai disastri”. Anche i muri protettivi in mare si sono rilevati inadatti per proteggere dallo tsunami che ha trascinato via i sistemi di sicurezza che dovevano proteggere dal surriscaldamento e dalla fusione i reattori nucleari. “È troppo presto per comprendere la magnitudo di ciò che è accaduto ma per ora questi giorni di crisi in Giappone corrispondono al peggior incidente nucleare da Chernobyl nel 1986”. Le notizie allarmanti che raccontano un Giappone che rischia la fusione dei reattori colpiti con conseguenze sconosciute, catastrofiche probabilmente, si incrociano con le celebrazioni del 150° dell’Italia unita. Negli Stati Uniti è fondamentale riaprire il dibattito sugli standard di sicurezza mentre il paese, dopo decenni di stagnazione, sta per ampliare il proprio programma nucleare; 30 centrali in America sono come quelle oggi in crisi in Giappone e molte si trovano su faglie geologicamente attive e, poiché vicine alla costa, anche a rischio tsunami. Ma il dibattito sul nucleare si riapre anche al di qua dell’oceano. In Germania, ad esempio, il premier Angela Merkel ha decretato una moratoria sulla durata delle attività delle centrali atomiche e anche la Svizzera annuncia la sospensione delle procedure relative alle domande di autorizzazione per le nuove centrali nucleari. Persino in Francia la questione energetica è di nuovo al centro del dibattito nella “sinistra”, tra gli ecologisti e i socialisti, anche se il Presidente Nicolas Sarkozy, per la verità, ha escluso l’ipotesi d’uscita dal nucleare del suo Paese. Quindi non è sciacallaggio mediatico chiedersi se, al nostro Paese, che aveva abolito la scelta del nucleare con un referendum, convenga davvero il così detto “ritorno” al nucleare. Mentre tutto il mondo s’interroga sulla sicurezza delle centrali nucleari che hanno già in casa, mentre persino il ministro dell’Ambiente francese Nathalie Kosciusko-Morizet afferma con chiarezza che la situazione in Giappone “è molto grave” e che “il rischio di uno scenario da catastrofe non può essere scartato”, nel nostro Paese il governo tira dritto e in settimana, dopo la pausa celebrativa dei 150 anni, la Commissione Industria del Senato dovrebbe cominciare l’esame dell’atto relativo alla disciplina della localizzazione degli impianti nucleari in Italia. Senza farci condizionare dal “momento emozionale” e senza fare “sciacallaggio” vorremmo però far notare due aspetti di questa vicenda che, speriamo, facciano riflettere. Il primo è che il sisma registrato in Giappone la scorsa settimana è stato un evento di magnitudo di gran lunga superiore a quella massima risentita in passato in quell’area e che, avendo avuto l’epicentro nell’oceano a poca distanza dalla costa, ha provocato un’onda anomala enorme che si è subito abbattuta sulle località costiere dove, travolgendo villaggi e mettendo in crisi i reattori nucleari. Dunque non soltanto sappiamo oggi che i terremoti possono avere un’intensità superiore a quella del passato, quella che cioè viene definita come massima intensità risentita ed è utilizzata per il dimensionamento delle strutture, ma dovremmo chiederci pure se, anche nel nostro territorio, siano possibili degli tsunami che mettano in crisi eventuali centrali o depositi di scorie radioattive. Ad esempio, nel 1908 a Reggio e Messina, dopo che il grande terremoto aveva provocato lutti e distruzione fu l’onda dello tsunami a causare l’apocalisse vera. E se non si vuol riflettere per prudenza lo si faccia almeno per interesse. Siamo sicuri che l’uranio convenga davvero? Siamo sicuri, cioè, che l’atomo sia la strada giusta per risolvere la nostra dipendenza dal petrolio e dalle crisi magrebine piuttosto che moscovite? Un fondamentale principio d’economia energetica afferma che “la migliore energia è quella a più basso costo, purché si aggiungano ad essa anche tutti i costi indiretti”. Costi indiretti, che spesso definiti externalities. Dopo aver ascoltato le parole di Umberto Veronesi che ci rassicura dicendoci che lui vivrebbe vicino una centrale o un deposito di scorie nucleari, prima di rimetterci a costruire nuovi impianti che entreranno in funzione, se andrà tutto bene, tra una ventina d’anni e che, tra l’altro, troppo nuovi e sicuri non lo sono, sarebbe opportuno rileggere le parole del Prof. Carlo Rubbia, premio Nobel per la fisica, che d’ideologico non hanno nulla: “Tra il 2000 ad oggi i prezzi dell’ossido di uranio sono cresciuti dai 7 dollari/libra a 130 e cioè circa di un fattore 20”. La preoccupazione cresce ulteriormente – sostiene Rubia – “se si tiene conto che circa un terzo dell’uranio utilizzato proviene oggi da stock militari esistenti e in via di esaurimento. La situazione dell’uranio, ricorda quindi terribilmente quella del petrolio”. Insomma, si rischia che dalla padella del petrolio si passi alla brace dell’uranio. In quell’intervento Rubbia aggiunge che: “Non si può evitare il confronto con le nuove energie rinnovabili da diffondere su larga scala, come il solare a concentrazione ad alata temperatura”, il così detto CSP, di cui quasi mai si parla. Impianti che, al contrario delle grandi centrali nucleari, sarebbero “realizzabili in tempi brevi, tra 16 e 24 mesi per impianti di grandi dimensioni, con costi che, pur essendo oggi ancora più elevati, sono nel processo di rapida riduzione che li porterà a valori del tutto compatibili con i costi dei fossili in meno di un decennio. Il costo dell’elettricità per un impianto CSP è perfettamente prevedibile. Il prezzo dell’uranio tra trent’anni, a metà strada dei tempi di vita di un reattore, è assolutamente imprevedibile”. Ma la cosa che davvero non può permettersi l’Italia è un ritorno al nucleare alla cieca, senza che un vero dibattito venga aperto nel paese e senza una vera informazione dei cittadini. Ma su questo e su altri temi, il servizio pubblico radiotelevisivo dov’è?

 

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Quando il libero mercato incrementa la miseria

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “il Domani della Calabria” del 9.11.2010

Siamo in un Paese bloccato in cui – ai fini del successo – conta di più la ricchezza dei propri genitori che non il livello d’istruzione o il merito. Sono queste, in sostanza, le conclusioni che si possono trarre dall’intervento, o forse sarebbe meglio chiamarla “lezione”, del Presidente della Banca d’Italia Mario Draghi tenuto il 5 novembre scorso ad Ancona alla facoltà di economia intitolata al grande economista Giorgio Fuà.

L’Italia – ha affermato Draghi – è a un bivio fra la stagnazione e la crescita e deve saper uscire dalla spirale del calo della produttività che ha colpito tutto il paese, anche il Nord, nell’ultimo decennio non appagandosi della ricchezza conquistata negli scorsi anni.

A darne per prima grande risalto sulla stampa nazionale è Chiara Paolin, giornalista de il Fatto quotidiano, che riporta nel suo articolo titolato “Italia povera come nel ‘600” alcuni passaggi di quell’intervento sul tema “Crescita, benessere e compiti dell’economia politica” in cui Draghi, interrogandosi sulle cause del deludente andamento della produttività dell’Italia afferma, senza peli sulla lingua, che “La stagnazione di questo valore nel decennio precedente la crisi è stata uniformemente diffusa sul territorio”. Dal Mezzogiorno al Nord d’Italia Draghi parla di un Paese per il quale “Dobbiamo ancora valutare gli effetti della recessione sulla nostra struttura produttiva” aggiungendo che “E’ possibile che lo choc della crisi abbia accelerato la ristrutturazione almeno di parti del sistema, accrescendone efficienza e competitività” ma anche che “è possibile un semplice, lento ritorno al passo ridotto degli anni pre-crisi” o peggio ancora “un percorso più negativo”.

Già quarant’anni prima che esplodessero gli scandali di Tangentopoli un grande intellettuale denunciava, con pagine roventi e documentate, gli illeciti di imprese e partiti che oggi rivediamo emergere in “cricche” degli appalti che “lavorano” in assenza di concorrenza o in condizioni di concorrenza “controllata”. Nel volume Capitalismo inquinato Ernesto Rossi (1897-1967), quarant’anni prima degli scandali del ’92, documentava come, in questo Paese, “I grandi industriali hanno la coscienza troppo sporca” perché “Capiscono anche loro che non possono continuare ad accumulare miliardi, senza dare alcun servizio utile alla collettività, riscuotendo dei balzelli ai passaggi obbligati e non pagando le imposte che servono a mantenere l’ordine di cui profittano”.

Secondo Mario Draghi, oggi, si potrebbe precipitare in “situazioni vissute in epoche lontane, nel ‘600 o agli inizi del ‘900, quando una pur consolidata ricchezza di base non riuscì ad arrestare la recessione ad una civiltà squilibrata verso le forme più rurali ed arretrate”. E in questo scenario “a rischiare di più sono i giovani”. Oggi come allora sono proprio i giovani di questo Paese a rischiare di più. La disoccupazione a livelli che non si registravano da anni, quasi 4 milioni di lavoratori precari pari al 16% del totale della forza lavoro e il lavoro irregolare che secondo i dati istat raggiunge il 12% su media nazionale ma che, in regioni come la Calabria, sfiora il 20% del totale della forza lavoro. E, spiega Draghi, “Senza la speranza di una sia pur graduale stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari, si hanno effetti alla lunga negativi su produttività e profittabilità”. Ma non è un inno retorico ai giovani. Da economista qual’è, Draghi sottolinea proprio come il precariato finirà per scardinare il sistema capitalistico italiano, cioè la nostra vita economica.

Draghi descrive insomma un paese non solo economicamente ma anche socialmente “bloccato” dalle troppe rendite di posizione: “Nel determinare il successo professionale di un giovane, il luogo di nascita e le caratteristiche dei genitori continuano a pesare molto di più delle caratteristiche personali, come il livello d’istruzione”. Si hanno cioè più chance se si è figli di un’industriale o un parlamentare e si nasce in Lombardia o in Veneto piuttosto che in regioni come la Calabria o la Campania. È questa la fotografia dell’Italia scattata a 150 anni dalla sua storia unitaria. “E questo accade in Italia” – continua impietosamente Draghi nel suo discorso – “con incidenza che non ha pari in Europa”. Il lavoro e la fine della precariato come emergenze e come possibilità di riscatto sociale, morale e politico del nostro Paese. Forse sarebbe possibile se si guardassero quegli studi e quelle proposte troppo spesso in passato considerate “marginali” se non “utopiche”, ma che oggi sarebbero utili davvero per abolire la miseria. Mentre si premiano imprenditori come Marchionne, dovremmo ricordare che, ancora oggi, come scriveva Rossi nel ’46, “Le dimostrazioni che molti economisti hanno creduto di dare che il regime individualistico, consentendo la maggiore approssimazione possibile allo schema teorico della libera concorrenza, tende automaticamente ad attuare in ogni momento un massimo di utilità collettiva, non reggono alla critica, rivelandosi, nel migliore dei casi, delle semplici tautologie; la libera concorrenza può dare degli effetti socialmente benefici o malefici, a seconda degli argini dell’ordinamento giuridico entro i quali viene contenuta”. Se le regole del libero mercato non esistono o vengono sistematicamente violate, derogate, se gli imprenditori sono lasciati liberi di agire nel loro esclusivo interesse individualistico anche quando essi non contribuiscono alla collettività in cui operano con il giusto pagamento delle tasse, se si lascia che non si paghino i contributi ai lavoratori perché li si lascia lavorare in nero, se anzi si premiano i comportamenti evasivi con i condoni fiscali, allora il libero mercato è destinato ad incrementare la miseria e quel divario tra la tracotanza di coloro che vivono di rendite e la gente comune, sempre più miserabili, destinati a non riuscir a sopravvivere neanche del loro lavoro.

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Lamezia Terme – Affrontate le problematiche e le potenzialità dell’export agroalimentare della Calabria

di Franco Vallone

Nel corso del convegno sulle tematiche del commercio estero delle imprese agroalimentari della Calabria, che si è svolto Giovedì scorso presso la sala conferenze dell’Unioncamere di Lamezia Terme, sono stati evidenziati i punti critici delle tante aziende calabresi che si affacciano al mercato internazionale con i loro prodotti. Nel corso dei lavori è stata ribadita la necessità di aggregazione, anche sotto forma di consorzi tematici, al fine di orientare e di incanalare organicamente le potenzialità di ognuno, in una forza competitiva che dia risposta alla prorompente azione di Paesi esteri del Mediterraneo e asiatici che sempre più cercano di contrastare le tipicità italiane, e quelle calabresi in particolare, puntando su una politica di abbassamento dei prezzi a discapito della qualità e creando una pericolosa confusione dei consumatori dei Paesi esteri. La presentazione del volume curato, da Luigi Sisi, con la collaborazione di Ernesto Perri, Cosimo Cuomo, Giuseppe Critelli, e Giovambattista Nicoletti, ha registrato un grande successo di pubblico, esperti e responsabili del settore che hanno avuto modo di approfondire l’interessante tematica economica. Patrocinata dall’Assessorato all’Agricoltura della Provincia di Vibo Valentia, dalla Regione Calabria, dal Ministero dello Sviluppo Economico, dall’Unioncamere, da Cia e Ice della Calabria, il convegno ha ospitato, tra l’altro, gli interventi del presidente di Unioncamere Calabria, Fortunato Roberto Salerno, di Ernesto Perri, del Ministero, dell’assessore provinciale di Vibo Valentia Nazzareno Fiorillo, del consigliere regionale Alfonsino Grillo, di Domenico Neri e Giovambattista Nicoletti dell’Ice Calabria e di Giuseppe Critelli dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Grande soddisfazione per l’ottima riuscita dell’evento è stata espressa da Luigi Sisi, organizzatore del convegno e curatore del volume.

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Altro che mille euro al mese

di Giuseppe Candido

pubblicato su “Il Domani della Calabria” del 29.07.2010

La Camera ha approvato con voto di fiducia la manovra fiscale e, assieme alle misure di austerity con cui si bloccano gli stipendi al pubblico impiego per tre anni e con cui si tagliano i fondi agli enti locali che saranno costretti ad aumentare le tasse, ha deciso di tagliare di mille euro anche le indennità dei parlamentari. Per dare il buon esempio ai cittadini. Considerando i 945 Parlamentari e Senatori si otterrà un risparmio di 11.340.000 euro ogni anno. Lodevole? Macché, ben poca cosa rispetto a quanto poteva essere fatto soltanto riducendo i rimborsi elettorali che, dopo il referendum che l’aveva abolito, ha di fatto reintrodotto il finanziamento pubblico dei partiti. Una vera e propria truffa ai danni dei cittadini, grazie alla quale, ben 500 milioni di euro di finanziamento pubblico finiscono ogni legislatura nelle casse dei partiti a fronte di poco più di 100 milioni di spese effettivamente documentate. In questa direzione era stato presentato, dai deputati Radicali eletti nel PD, un emendamento alla manovra che intendeva limitare i rimborsi elettorali alle sole spese effettivamente documentate. Ciò avrebbe comportato una riduzione dell’80% del finanziamento pubblico. L’emendamento, manco a dirlo, è stato bocciato dalla Camera, in continuità con le scelte che sin dal ’93 vedono sabotata la volontà referendaria degli elettori che aveva detto un chiaro “No” al finanziamento pubblico dei partiti. Altro che buon esempio: anche nei momenti di crisi “la Casta” continua a succhiare denaro pubblico dalle casse dello Stato.

Il finanziamento pubblico ai partiti fu introdotto nel ’74 dalla Legge Piccoli (L. n.195/1974), che interpretava “il sostegno all’iniziativa politica” come puro finanziamento alle strutture dei partiti presenti in Parlamento. Il referendum dell’aprile 1993 vide il 90,3% dei voti espressi a favore dell’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti. L’Italia però si liberò di questa ruberia medievale solo per pochissimi mesi.

Con quello che potremmo definire, senza paura di venir smentiti, come uno dei più grandi tradimenti del volere popolare nello stesso dicembre 1993 il Parlamento aggiorna (con la Legge 515/1993) la legge sui rimborsi elettorali, definiti “contributo per le spese elettorali”, subito applicata in occasione delle elezioni del 27 marzo 1994. Per l’intera legislatura vengono erogati in un’unica soluzione 47 milioni di euro.

Insomma, aggirato il referendum e modificato un paio di definizioni i partiti tornano a appropriarsi impunemente e legalmente del denaro dei cittadini. Ma al peggio non c’è fine e la Legge 2/1997, intitolata “Norme per la regolamentazione della contribuzione volontaria ai movimenti o partiti politici”, reintroduce di fatto il finanziamento pubblico ai partiti. Il provvedimento prevede la possibilità per i contribuenti, al momento della dichiarazione dei redditi, di destinare il 4 per mille dell’imposta sul reddito al finanziamento di partiti e movimenti politici (pur senza poter indicare a quale partito), per un totale massimo di 56.810.000 euro, da erogarsi ai partiti entro il 31 gennaio di ogni anno. Per il solo anno 1997 viene introdotta una norma transitoria che fissa un fondo di 82.633.000 euro per l’anno in corso (nonostante le adesioni siano minime).

Nel 1999, dietro il titolo “Norme in materia di rimborso delle spese per le consultazioni elettorali e referendarie” si nasconde un’altro furto. Il rimborso elettorale previsto non ha infatti attinenza diretta con le spese effettivamente sostenute per le campagne elettorali. La legge 157/99 prevede cinque fondi: per elezioni alla Camera, al Senato, al Parlamento Europeo, Regionali, e per i referendum, erogati in rate annuali, per 193.713.000 euro in caso di legislatura politica completa.

La normativa viene ancora modificata dalla Legge 156/2002, recante “Disposizioni in materia di rimborsi elettorali”, e che trasforma in annuale il fondo e abbassa dal 4 all’1% il quorum per ottenere il rimborso elettorale. Per cui abbiamo partiti che non siedono sugli scranni del Parlamento ma che percepiscono ugualmente i rimborsi truffa. L’ammontare da erogare, per Camera e Senato, nel caso di legislatura completa sale da 193.713.000 euro a 468.853.675 euro. Infine, con la Legge 5122/2006, l’erogazione dei rimborsi è dovuta per tutti e cinque gli anni di legislatura, indipendentemente dalla sua durata effettiva. L’aumento prodotto è esponenziale. Con la crisi del governo Prodi del 2008 e le conseguenti nuove elezioni, i partiti, anche quelli non più presenti in Parlamento, iniziano a percepire il doppio dei fondi, poiché ricevono contemporaneamente le quote annuali relative alla XV e alla XVI Legislatura. Per capirci: fino al 2011 anche l’Udeur di Mastella continuerà a percepire i rimborsi elettorali per la tornata del 2006, mentre i partiti che hanno raccolto almeno l’1% dei consensi stanno prendendo i rimborsi sia relativamente al 2006 che alle elezioni 2008 e sono sistemati fino al 2013. Per loro niente blocco degli stipendi e, forse, magari qualche aggiustamento all’ultimo minuto aumenterà ulteriormente il malloppo.

Per le politiche del ’94 a fronte di 36.264.124 euro di spese effettivamente documentate il rimborso ottenuto è di 46.917.449 euro con un surplus di 10.653.324 euro. Una differenza tra spese sostenute e rimborsi erogati che va aumentando di elezioni in elezioni: 22.649.220 di euro per le regionali del ’95 che diventano 27.105.163 di euro per le politiche del ’96. Nel 1999 alle europee si arriva quasi a 47 milioni di euro di differenza tra spese documentate e rimborsi incassati dai partiti. Cifra astronomica che, nel 2000, in occasione delle regionali aumenta ancora a 57 milioni e 200 mila euro. Ma è per le politiche del 2001 che avviene il salto di qualità: i partiti arrivano ad incassare, a fronte di neanche 50 milioni di euro di spese, la cifra astronomica di 476 milioni e mezzo di euro con una differenza di quasi 427 milioni di euro. Nel 2004, per le europee, la differenza tra spese e contributi incassati è di quasi 160 milioni di euro, 147 milioni di euro di differenza tra spese e contributi per le regionali del 2005. Per le politiche del 2006 la differenza tra spese sostenute dai partiti e i contributi erogati è di 376.771.092 euro e di quasi 393 milioni di euro per le politiche del 2008. Dal 1994, da dopo che era stato abolito il finanziamento pubblico, la casta ha continuato a dissanguare le casse dello Stato per un totale oltre 1,6 miliardi di euro. Altro che mille euro al mese di diaria in meno.

Paradossalmente, una crisi di governo con scioglimento anticipato delle Camere prima del 2011 costerebbe agli italiani i contributi ai partiti per ben 3 legislature (seppure non terminate): 2006, 2008 e 2010/2011. Speriamo perciò, se non proprio il governo, che duri almeno la legislatura.

Il finanziamento pubblico dei partiti dal 94 al 2010
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Al di sotto della soglia di povertà. Una telenovela italiana che dura da 15 anni

di Margherita Giardino*

Il “nuovo” accordo Italia-Canada su assicurazione sociale firmato a Roma il 23 maggio 1995 e mai ratificato.

La Storia infinita
La Storia infinita                                Lorenzo De Seta, Olio su Tela, 2005

Sono stata emigrante in Canada per 26 anni ed ora sono in pensione. Ricevo dal Canada le due pensioni dovutemi : Canada Pension Plan $ 67 e Old Age Pension $ 310 mensili mentre, dal Governo Italiano, ricevo $ 8 (otto) mensili. Mio marito riceve più o meno quello che ricevo io, per cui complessivamente percepiamo in due circa 9.500,00 euro all’anno con due figli a casa di cui uno ancora all’università. Siamo al di sotto della soglia di povertà .

Mio marito ha lavorato ( onorando la nostra terra ) in Canada per ben 21 anni e , rimpatriato nel 1987, ha investito tutto quello che possedeva in una Impresa Edile la quale dopo venti anni di attività ha dovuto chiudere i battenti attanagliata e soffocata da debiti e da tanta disonestà , ingiustizia, malaffare, corruzione, imbrogli, ritardi, ecc.

Tra qualche mese ci pignoreranno la casa buttandoci in mezzo alla strada. L’INPS dichiara che la bassissima pensione italiana è dovuta al fatto che sia io che mio marito abbiamo contributi da lavoro in Italia per meno di due anni.

Esiste, come è notorio, un accordo internazionale su assicurazione sociale tra Italia e Canada in vigore fin dal 1979 , ed un Nuovo Accordo di Sicurezza Sociale firmato a Roma nel maggio 1995 e poi un Protocollo dello stesso firmato a Roma nel maggio del 2003: gli ultimi due stabiliscono che noi dovremmo avere garantito il diritto al trattamento minimo (ma non sono ratificati).

La stessa cosa stabiliscono i Regolamenti comunitari di sicurezza sociale (art.50 Regolamento n.1408/71 e le convenzioni ratificate con Argentina, Australia, Bosnia Erzegovina, Brasile, Croazia,

Macedonia, Principato di Monaco, Repubblica di Capoverde, Repubblica di San Marino, Repubblica Federale di Jugoslavia, Stati Uniti d’America, Tunisia e Uruguai .

Il Governo Canadese ha già ratificato il Nuovo Accordo ed il Protocollo dello stesso nel 2004 ; mentre il Governo Italiano ancora non lo ha fatto, sebbene siano già trascorsi 15 anni.

Come può la nostra tanto amata Italia calpestare e penalizzare solo gli emigranti dal/in Canada e Venezuela ( gli unici a non essere tutelati da convenzioni che non si vogliono ratificare) , commettendo una così tremenda ingiustizia ,anche contro la nostra Costituzione : art.3 ed art.38 e contro i figli che La hanno sempre amata e onorata per il mondo?.

Dal momento che tutti gli altri emigranti sono coperti da questo diritto, perché io ne devo essere esclusa ed a causa di una lunga e protratta e intenzionalmente posticipata Ratifica da parte del nostro Governo?

Il 26 maggio u.s. anche il Giudice ha dovuto rigettare la mia richiesta contro l’INPS :per cui ora dovrei ricorrere in appello, forse anche in Cassazione ecc., cose che io non posso proprio permettermi.

Considerato il mio diritto sancito dalla Costituzione Italiana: si può proporre un Provvedimento d’Urgenza affinché l’INPS riconsideri il caso e conceda questo mio diritto?

Ringrazio per avermi letto e che il Buon Dio illumini conducendo a verità e giustizia.

Albi, lì 03 giugno 2010

* Margherita Giardino è stata emigrante in Canada per 26 anni ed ora è in pensione e vive ad Albi, in Provincia di Catanzaro

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Prima che la partitocrazia trasformi la povertà in miseria

di Giuseppe Candido

Le considerazioni finali del governatore Mario Draghi illustrate nell’importante relazione presentata all’Assemblea annuale della Banca d’Italia hanno provocato il plauso unanime non soltanto dei partiti ma anche dei sindacati. Eppure sono proprio quei partiti e quei sindacati, che da anni si mostrano restii a fare le necessarie riforme strutturali quali l’abolizione di enti inutili e l’innalzamento dell’età pensionabile, ad essere i principali imputati della grave situazione in cui oggi versa il nostro Paese e che gli italiani dovranno pagare con i loro sacrifici.

Se è vero che “la radice della crisi che investe il mondo da quasi tre anni sta in carenze regolamentari e di vigilanza nelle piazze finanziarie più importanti” e che in Europa “negli ultimi mesi le conseguenze della crisi hanno messo alla prova la coesione dell’area” dove, “L’imponente creazione di debito pubblico, in una fase in cui arrivano a scadenza sui mercati quantità straordinarie di obbligazioni bancarie, ha improvvisamente accresciuto il premio di rischio su alcuni debitori sovrani”, è anche vero, però, che proprio l’Italia è quel Paese in cui, stando alle parole della relazione, solo nel biennio 2008-2009, “il Pil è sceso di 6 punti e mezzo”, “il reddito reale delle famiglie si è ridotto del 3,4 %” e “le esportazioni sono cadute del 22%”. Draghi ci dipinge un’Italia in cui l’occupazione, nel 2009, è diminuita dell’1,4% e in cui i fallimenti di imprese, soprattutto di piccole imprese, sono stati 9.400. E se poteva ritenersi, fino a qualche mese fa, che l’Italia “sarebbe tornata a crescere ai pur modesti ritmi registrati nel decennio precedente la crisi” oggi, ha sottolineato il governatore Draghi, “l’esplodere della crisi greca potrebbe cambiare il quadro di riferimento”. E anche se la manovra finanziaria del Governo Italiano determinerà, entro il 2012, una “riduzione del disavanzo tendenziale pari a 24,9 miliardi” mediante la riduzione delle principali voci della spesa corrente che, negli ultimi dieci anni, era invece cresciuta, secondo il governatore Draghi, la correzione dei conti pubblici va accompagnata col rilancio della crescita e con le riforme strutturali che “la crisi rende più urgenti”. Ed è proprio in questi passaggi che si leggono, nelle parole del governatore, le vere cause della nostra situazione: “la caduta del prodotto accresce l’onere per il finanziamento dell’amministrazione pubblica, i costi della corruzione divengono ancora più insopportabili, la stagnazione distrugge capitale umano soprattutto tra i giovani”. Quando si parla di “Ripensare il perimetro e l’articolazione delle amministrazioni, per razionalizzare l’allocazione delle risorse, riducendo sprechi tra enti e livelli di governo” forse Draghi intende proprio quell’abolizione di province, comunità montane, consorzi di bonifica, che servono solo a garantire poltrone. Se si vuole diminuire i costi della politica, piuttosto che le indennità, perché non si decide di mettere fine a quella vera e propria ruberia legalizzata che sono i rimborsi elettorali che, sganciati da spese effettivamente dimostrate, hanno sostituito e rimpinguato il finanziamento pubblico dei partiti abolito dagli italiani col referendum del 93?

E affermare che l’evasione dell’Iva è pari al 16% del totale e comporta un mancato gettito di 30 miliardi di euro ogni anno – pari a due punti di Pil – significa denunciare chiaramente il fardello dell’economia sommersa, che è il conto salatissimo che l’Italia non può più pagare. Dagli scontrini non battuti per un caffè alle parcelle dei medici specialistici che ti ricevono nel loro studio lussuoso ma che non ti fanno la ricevuta, passando per il lavoro nero. D’altronde, se i controlli sono scarsi e le aliquote elevate, evadere conviene. Ma è proprio l’evasione fiscale che Draghi denuncia come “freno alla crescita perché richiede tasse più elevate a chi le paga, riduce le risorse per le politiche sociali, ostacola interventi a favore dei cittadini con redditi modesti”. Solo recuperando la metà dell’Iva evasa si sarebbero potuti recuperare in due anni trenta miliardi di euro anziché i 24 di lacrime e sangue che dovranno pagare i cittadini con l’aumento delle tasse locali e con il blocco degli stipendi statali che per alcune categorie sono già al di sotto della media europea. Se le tasse le pagano tutti, le pagheremo tutti meno. Un concetto semplice ma che, ahi me, è difficile da far applicare. Questo, invece, è il Paese dove ai docenti precari si tagliano le cattedre, si bloccano gli aumenti di stipendi mentre ai furbi e ai furbetti, a coloro che hanno accumulato per anni capitali all’estero senza pagare le tasse, gli viene dato lo scudo di protezione, la possibilità di far rientrare i capitali pagando solo il 5%. Ma se nel discorso sull’evasione la politica è implicata soltanto indirettamente, tranne qualche politico evasore che staticamente pur certo lo si troverà, il vero passaggio “anti partitocratico” di Draghi lo si legge quando il governatore ha parlato della corruzione: è su questo che la platea di politici ha fatto orecchi da mercante. Le “relazioni corruttive tra soggetti privati e amministrazioni pubbliche, in alcuni casi favorite dalla criminalità organizzata, sono diffuse”. Nel Mezzogiorno – aveva detto in passato Draghi – queste “relazioni” diventano “pervasive”. “La corruzione frena lo sviluppo economico”. Probabile che per uscirne bisognerà dargli retta e dare retta anche a Pannella che da anni parla dello spaventoso debito pubblico italiano e oggi afferma che “La vera sfida, per l’Italia”, quella che bisogna affrontare con urgenza, sta nel “liberarsi dal regime partitocratico” prima che la povertà diventi anche miseria.

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La forbice poteva tagliare altrove

di Giuseppe Candido

Il Governo approva le misure di austerità per risanare i conti pubblici. L’Italia è uno dei paesi europei con il più alto debito pubblico e il consistente pacchetto voluto da Tremonti è necessario per evitare che l’Italia affronti lo stesso destino della Grecia. Una manovra con oltre 24 miliardi di euro di tagli che incideranno notevolmente sulla vita degli italiani nei prossimi due o tre anni. I capitoli sui quali maggiormente si interverrà sono essenzialmente tre. In primis il blocco, per tre anni, del rinnovo dei contratti del pubblico impiego che da solo produrrà un gettito di 5,3 milardi di euro; altri 5 miliardi e 200 milioni proverranno dalla riduzione delle “finestre” di pensionamento dalle attuali tre ad una sola e dall’aumento, da 60 a 62 anni, dell’età cui potranno andare in pensione le donne. Poi c’è la fetta grossa da 13 miliardi di euro di tagli alle autonomie locali mediante la revisione dei parametri del patto di stabilità. Soldi in meno ai comuni e alle regioni che per far quadrare i loro bilanci dovranno aumentare le aliquote di competenza. Quindi, a guardar bene, non sarà certo coi tagli dei costi dei politici né tanto meno con l’abolizione di qualche provincia minore (e non invece di tutti gli enti inutili) che gli italiani usciranno dalla crisi. Poliziotti, dipendenti degli enti locali, professori, non vedranno aumentare il loro stipendio per tre anni mentre vedranno crescere le tasse locali a loro carico. A ciò aggiungiamo che in molte famiglie italiane i conti non tornano perché la crisi si è fatta sentire realmente, in tanti hanno perso il lavoro, gli incassi dei piccoli commercianti e delle piccole imprese si sono ridotti, i giovani non trovano lavoro o, quando ci riescono, non hanno uno stipendio adeguato e le donne hanno difficoltà ancora maggiori. Per questo contemporaneamente si annunciano limatine ai ministri e politici. Ma siamo davvero sicuri che non si poteva tagliare altrove, siamo sicuri che i costi della politica, i costi della non democrazia, si ridurranno davvero? Dopo essere stato abolito con referendum nel ’93 il finanziamento pubblico dei partiti è stato reintrodotto dalla finestra con il sistema dei rimborsi elettorali. A fronte di spese realmente dimostrate di 579 milioni di euro, dal 1994 al 2008 i partiti si sono spartiti 2,25 miliardi di euro, con un utile di ben 1,67 miliardi di euro. Poi c’è il capitolo della manomorta pubblica che, Sergio Rizzo nei “Rapaci”, spiega essere il vero problema dell’Italia: “il torbido impasto fra gli interessi dei partiti di destra e di sinistra, quelli del sindacato che producono clientele e spese”. Gli enti inutili come le Province, le comunità montane che si diceva di voler abolire. Ed è discriminatoria la norma che vorrebbe abolire soltanto le nove province con meno di 220.000 abitanti salvando le poltrone inutili di tutte le altre. Non si interviene nemmeno su quel “dedalo inestricabile di ambiti territoriali, consorzi di bonifica” che rimane tal quale consentendo la moltiplicazione delle poltrone per la sistemazione in posti dirigenziali dei politici trombati: “Le migliaia di società a controllo pubblico sono le uniche discariche che funzionano in questo Paese” le aveva definite l’ex presidente della Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo. Sono i costi della democrazia, che il libro di Cesare Salvi e Massimo Villone ci mostra in dettaglio e che si sarebbe potuto tranquillamente titolare “I costi della non democrazia”, degli sprechi a tutti i livelli, degli enti inutili per garantire poltrone elettive e nomine dirigenziali. L’Italia è il Paese dove si fanno società pubbliche per tutto: anche per dare consulenze milionarie senza nessun tipo di gara favorendo le cricche degli amici. E’ il Paese che paga il conto salato di aziende pubbliche come l’Alitalia che non starebbe sul mercato di nessun altro Paese e che vanta “il record mondiale dei menager bruciati”. Il Paese dove “è normale che un’azienda statale faccia causa a un’altra azienda statale e metta in conto agli italiani seicentomila euro di parcelle”. Nel Paese di Pulcinella dove è normale che ai politici tocchi percepire la pensione già dopo appena due anni di legislatura, siamo sicuri che la forbice non poteva tagliare anche altrove?

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