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Giustizia e carcere: ecco come si gioca coi numeri della tortura nel governo del turbo premier

di Giuseppe Candido

Nell’intervista rilasciata a Claudia Fusani per L’Unità, il ministro della Giustizia, Andrea Orlando ha parlato di riforma della giustizia (da fare per giugno) e della “precondizione necessaria”, che è l’emergenza carceri. E in riferimento alla scadenza della sentenza pilota “Torreggiani” del 28 prossimo maggio, dice: “Dobbiamo assolutamente dimostrare che in Italia è cambiato qualcosa nel sistema delle pene”.

Quando la giornalista gli chiede conto del fatto che “tra poco più di un mese scade il termine stabilito dalla Corte di Strasburgo per dimostrare che che siamo davanti a un paese civile, che sa amministrare le pene. Altrimenti fioccano decine di milioni di multa (e migliaia di ricorsi a valanga, ndr)”, il ministro della giustizia risponde che “A Strasburgo abbiamo messo in evidenza progressi e punti critici. I progressi sono nei numeri: oggi circa 60.000 detenuti a fronte di circa 45mila posti disponibili”. E aggiunge: “Prima di una lunga serie di interventi eravamo arrivati a circa 40mila posti a fronte di una crescita tendenziale che puntava a circa 70mila detenuti. Bene: questo trend è stato bloccato e tutti i mesi assistiamo a una piccola diminuzione”.

A Strasburgo il ministro, addirittura, aveva parlato di 49mila posti disponibili.

In realtà, alla data del 2 aprile, i posti effettivi disponibili, come finalmente emerso dai dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) grazie alla lotta nonviolenta di Rita Bernardini, sono 43.547 a fronte di 60.167 detenuti. Nel comunicato del DAP infatti, si sottolinea che a fronte di una capienza regolamentare di poco più di 48 mila posti, “La vastità del patrimonio edilizio penitenziario determina fisiologicamente un certo numero di posti indisponibili per ragioni di inagibilità e per esigenze di ristrutturazione ordinaria e straordinaria, pertanto alla data odierna il numero esatto dei posti detentivi effettivi disponibili è di 43.547, pari al 90,14% della capienza regolamentare.

I “circa”, in questo caso, non sono indicati. Non possono esserlo giacché si parla di persone alle quali vengono sistematicamente violati diritti umani fondamentali con pene illegali perché erogate in condizioni inumane e degradanti in modo strutturale in tutte le carceri del territorio naturale. “Sistemiche e strutturali”, ha scritto nella sentenza pilota la Corte Europea per i Diritti Umani, condannando il nostro paese perché in condizioni “tecnicamente criminali”, per dirla alla Pannella, perché vìola accordi internazionali oltreché la stessa Costituzione. Una sentenza che, dopo il 28 di maggio, apre la strada ad una valanga di ricorsi analoghi.

E il ministro Orlando lo sa bene, tant’è che corregge la giornalista quando gli ricorda che ce ne sono già tremila pendenti: “Sono già quattromila”, dice. E aggiunge: “Dobbiamo evitare un effetto valanga”.

Quindi il ministro della giustizia Orlando sa molto bene che il nostro Paese è fortemente esposto a un rischio di questo tipo, oltre alle multe milionarie che dovrà pagare per la procedura d’infrazione. Spiegato il perché, a Strasburgo, qualche settimana fa i posti erano diventati quasi 50mila. Ma il problema delle nostre patrie galere non riguarda solo il sovraffollamento. Non riguarda solamente l’ora d’aria e i metri quadrati a disposizione dei detenuti. Strasburgo chiede all’Italia riforme strutturali anche per la giustizia e “un rimedio interno” per evitare la valanga di ricorsi.

Il Presidente Napolitano era stato molto chiaro nel suo messaggio alle Camere. L’unico messaggio inviato secondo l’articolo 87 della Costituzione, che il Presidente ha voluto scrivere affinché non ci fossero alibi.

La cessazione degli effetti lesivi si ha, innanzitutto, con il porre termine alla lesione del diritto e, soltanto in via sussidiaria, con la riparazione delle conseguenze della violazione già verificatasi. Da qui – aveva detto Napolitano – deriva il dovere urgente di fare cessare il sovraffollamento carcerario rilevato dalla Corte di Strasburgo, più ancora che di procedere a un ricorso interno idoneo ad offrire un ristoro per le condizioni di sovraffollamento già patite dal detenuto”.

In quel messaggio, il Presidente Napolitano aveva posto all’attenzione del Parlamento ciò che – testualmente – aveva definito “l’inderogabile necessità di porre fine, senza indugio, a uno stato di cose che ci rende tutti corresponsabili delle violazioni contestate all’Italia dalla Corte di Strasburgo”. Aggiungendo che “esse si configurano, non possiamo ignorarlo, come inammissibile allontanamento dai principi e dall’ordinamento su cui si fonda quell’integrazione europea cui il nostro paese ha legato i suoi destini”.

Ma né il Parlamento né il governo Renzi hanno inteso ascoltarlo, soprattutto nella parte in cui ha chiaramente parlato di “considerare l’esigenza di rimedi straordinari” come amnistia e indulto.

Di fronte a precisi obblighi di natura costituzionale e all’imperativo – morale e giuridico – di assicurare un civile stato di governo della realtà carceraria”, – aveva detto nel suo messaggio – “sia giunto il momento di riconsiderare le perplessità relative all’adozione di atti di clemenza generale”. Aggiungendo che, “l’opportunità di adottare congiuntamente amnistia e indulto (come storicamente è sempre avvenuto sino alla legge n. 241 del 2006, di sola concessione dell’indulto) deriva dalle diverse caratteristiche dei due strumenti di clemenza”.

“L’indulto, a differenza dell’amnistia, impone di celebrare comunque il processo per accertare la colpevolezza o meno dell’imputato e, se del caso, applicare il condono, totale o parziale, della pena irrogata (e quindi – al contrario dell’amnistia che estingue il reato – non elimina la necessità del processo, ma annulla, o riduce, la pena inflitta)”.

In pratica, l’amnistia e l’indulto sarebbero propedeutiche a quella riforma della giustizia che, per il governo del turbo premier Matteo Renzi, si vorrebbe già realizzata (chissà come) entro il mese di giugno.

Senza l’amnistia e senza l’indulto, non solo è impossibile rientrare nelle condizioni di legalità e di rispetto dei diritti umani nell’irrogazione delle pene entro quel 28 maggio fissato da Strasburgo, ma neanche la riforma della giustizia, di quella giustizia italiana che si traduce in ingiustizia per la sua lentezza, pure questa condannata dall’Europa da oltre tre decenni.

Per non parlare dell’enorme mole costituita da 9 milioni di processi pendenti che, oltre ai tempi faraonici per ottenere una sentenza, annualmente, produce 130mila prescrizioni. Prescrizioni che, queste sì, rappresentano un’amnistia illegale, strisciante e di regime, per dirla sempre alla Pannella, per chi può pagarsi buoni avvocati e puntare alla prescrizione dimezzate dalla c.d. legge ex-Cirielli. Mentre si continua a giocare coi numeri sperando di riformare senza creare le precondizioni necessarie, è ridicolo.

Ma la cosa davvero strana è la contrarietà all’amnistia del nuovo segretario del PD, Matteo Renzi, esplicitata sin dal momento successivo al messaggio di Napolitano, quasi a volerne neutralizzare l’efficacia e l’impatto.

Strana se si considera che, quando il 20 dicembre 2012 Marco Pannella aveva iniziato uno sciopero della fame durissimo che lo costrinse al ricovero, il sindaco di Firenze addirittura si mobilitò, firmando una lettera scritta dal consigliere Enzo Brogi. Con una capriola acrobatica – scrive Zurlo su il Giornale – Matteo Renzi fiuta il vento e si sposta. Ma a dicembre, solo pochi mesi fa, firmava una lettera inviata da un consigliere regionale a Marco Pannella per sostenere la sua battaglia sulle carceri e per la concessione di un provvedimento di clemenza”.

Senza contare che il messaggio di Napolitano inascoltato in Italia, invece, qualche giorno fa, l’11 e il 17 marzo, è stato utile alla Royal Court inglese per negare l’estradizioni di due persone condannate nel nostro Paese (una per mafia) richieste dall’Italia, attraverso le procure di Firenze e di Palermo. Perché quanto scritto da Napolitano ha assicurato che le condizioni sanzionate dalla Corte di Strasburgo non erano mutate al 3 Ottobre, data in cui il Presidente ha scritto quel messaggio.

Mentre si continua a giocare coi numeri, non ci si rende conto che, in realtà, dietro quei numeri ci sono persone, donne e uomini, trattate in modo degradante e non umano. I Radicali non mollano. Rita Bernardini è in sciopero della fame ad oltranza dal 28 febbraio, per ricordare al paese che non c’è più tempo da perdere e che, senza amnistia e indulto, il termine ultimo per la sentenza Torregiani fissato al 28 maggio prossimo è in realtà già scaduto.

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Nell’Antropocene calabrese aspettare oltre sarebbe suicida

Secondo Jürgen Renn1, direttore dell’Istituto Marx Plank per la Storia della Scienza di Berlino, viviamo oggi in una era nuova. L’Antropocene, la chiama: una era “geologica” nella quale “più del 75% della superficie terreste non ricoperta da ghiaccio è stata trasformata dall’uomo”. Per lo scienziato questa che stiamo vivendo è “l’era in cui la natura incontaminata non esiste più”.

di Giuseppe Candido

 Un’era in cui l’impronta ecologica della specie umana si sta facendo devastante.

Nell’ampia prolusione2 tenuta, il 3 marzo 2014 all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Bergamo, l’illustre cattedratico ha posto alcuni seri interrogativi ai “responsabili del pianeta”.

Abbiamo creato cambiamenti irreversibili, consumando le risorse naturali, liberando materiale radioattivo, alterando sia la biosfera sia l’atmosfera. Questo significa che il futuro del nostro pianeta sarà in larga parte forgiato dall’azione umana. Come possiamo essere – chiede Renn – all’altezza delle responsabilità che ci siamo presi? Che tipo di conoscenza serve? Come possiamo essere certi che la conoscenza guiderà la nostra risposta alle grandi sfide che ci attendono?”.

E aggiunge: “Chi può garantire che la scienza fornirà le risposte ai problemi creati da questi interessi politici ed economici? E anche se otteniamo le risposte, quali strutture saranno richieste per implementarle?”.

Come lo stesso Renn sa bene, questi sono “interrogativi enormi di cui nessuno conosce le soluzioni”.

Renn non è però il solo a parlare di “Antropocene” e di modello di sviluppo, come oggi lo conosciamo, non più sostenibile.

Nel settembre del 2012, durante il 6° World Urban Forum3 tenutosi a Napoli, il Partito Radicale Nonviolento Transazionale e Transpartito, quale ONG con Status Consultivo Generale di prima categoria presso l’ECOSOC delle Nazioni Unita, ha presentato una specifica relazione4 ad opera e coordinamento del Prof. Aldo Loris Rossi, docente di Urbanistica presso l’Università Federico II di Napoli e attivista storico del Partito Radicale.

Per Aldo Loris Rossi, quello che non si riesce a capire è che “il depauperamento delle risorse naturali, legato alla crescita senza sosta, rischia o minaccia la sopravvivenza del pianeta”.

La relazione presentata alle Nazioni Unite è in continuità con le tesi proposte oltre mezzo secolo fa e tutt’ora attuali, non solo per noi italiani, in particolare da Aurelio Peccei, dal Club di Roma, da Bruno Zevi e da Paul Erlic, Barry Commoner, Dennis Meadows; nonché con le lotte e proposte radicali di Marco Pannella sull’ambiente e sulla “questione napoletana”, dalla riorganizzazone territoriale con l’area metropolitana della “Grande Napoli” e per imporre la presa di coscienza del problema Vesuvio e della sismicità dell’intera area.

In questo senso il lavoro del Prof. Aldo Loris Rossi depositato presso le Nazioni Unite per conto del Partito Radicale, rappresenta un vero e proprio “manifesto” ecologista mondiale e un approfondimento prezioso già dall’incipit nel quale si notava come, al 2012, il ritmo di crescita della popolazione umana è aumentato vertiginosamente.

Se la popolazione mondiale ha impiegato 2 milioni di anni per giungere al primo miliardo di abitanti nel 1830 e 100 anni per il secondo, dal 1930 ne sono occorsi solo 30 per il terzo miliardo, 15 per il quarto, 13 per il quinto, 12 per il sesto, 13 per il settimo nel 2011. Intanto le metropoli in espansione tendono a formare sistemi sinergici con quelle prossime configurando megalopoli definite tali se superiori a 30 milioni di abitanti.(…)

(…) La sinergia delle due esplosioni, demografica e metropolitana, ha causato tra il 1950 e il 2000 il raddoppio della popolazione urbana (dal 25,4 % al 50,0 %) che ha superato quella rurale nel 2008. (…)

(…) Ma se la città tradizionale pre-industriale, cresciuta in simbiosi con la natura, non ha avuto alcun impatto sul pianeta, dalla rivoluzione industriale in poi l’habitat dell’uomo è mutato progressivamente e con legge esponenziale al punto da indurre il premio Nobel per la chimica 1955 Paul J. Crutzen a denominare tale era: Antropocene5, che oggi minaccia la sopravvivenza del pianeta. (…)

(…) Dunque, nel XX secolo si assiste alla più grande espansione demografica, urbana e economica della storia che ha rotto definitivamente l’equilibrio millenario Città-Natura6.

Dopo una premessa in cui si analizzano le cause storiche, nella relazione del prof. Rossi, si individua chiaramente come, tale insostenibilità “si manifesta attraverso patologie sempre più allarmanti”; patologie che – come si legge testualmente – “non possono essere più rimosse, minimizzate o ignorate dalle istituzioni7”.

Le patologie identificate come segno manifesto di un’impronta ecologica non più trascurabile sono riassumibili nei seguenti fenomeni:

  1. L’esplosione della bomba demografica;

  2. L’espansione permanente delle mega-cities e delle galassie megalopolitane;

  3. L’onnipotente sviluppo post-industriale, la globalizzazione mercatista e il controllo planetario delle risorse;

  4. La mutazione genetica post-fordista della produzione, della società, della metropoli;

  5. La globalizzazione di infrastrutture, mercati e sistemi urbani in un’unica weltstadt “infinita e senza forma”;

  6. L’ “Impronta ecologica” della città planetaria oltre i limiti della Natura;

  7. La distruzione progressiva del patrimonio storico e delle comunità tardo-antiche.

  8. Il consumismo come acceleratore esponenziale della produzione: la sua metamorfosi da vizio a virtù.

  9. L’apogeo e il tramonto dell’era dei combustibili fossili: il conflitto per il dominio mondiale delle energie.

  10. La crescita vertiginosa di rifiuti, inquinamento e effetto serra: l’ecocidio planetario;

  11. L’autoreferenzialità dell’architettura nella società consumistico spettacolare8.

Due punti di quel documento, il sesto e il decimo, riguardano direttamente quella peste ecologica di cui il caso Calabria rappresenta la punta di iceberg di un più ampio problema italiano, europeo e, più in generale, globale.

Nel documento presentato dal Partito Radicale si denuncia alle Nazioni Unite come, dette “patologie” sono ormai “giunte a un livello di pericolosità tale da minacciare, (…) la sopravvivenza del pianeta!”.

La sinergia tra tecnocrazia, economicismo e mercatismo ha continuato a ignorare l’ecocidio planetario in atto svelato e denunciato, dagli anni Settanta in poi, dalla nuova visione sistemica del mondo.

Essa ha evidenziato che il pianeta, in quanto ecosistema “vivente” in equilibrio autoregolato, non può più essere governato da tali principi e dalla politica del laisser-faire laisser-passer sempre più indifferenti alla gravità della crisi ambientale, energetica e metropolitana, pervenuta a un punto di rottura9.

Nel documento si parla esplicitamente della necessità di una “Nuova alleanza” con la natura. Necessaria, scrive Aldo Loris Rossi, “Se si vuole liberare la modernità dai « suoi disastrosi inconvenienti », ormai insostenibili, occorre con urgenza una strategia alternativa capace di perseguire” a livello globale, il “disinnesco della bomba demografica”, “la rifondazione del modello di sviluppo come sintesi di economia e ecologia”, “la città dell’era solare (Eliopolis) e delle energie rinnovabili: la riconversione dell’habitat planetario” e “la nuova civiltà entropica del riciclaggio, del controllo dell’inquinamento e dell’effetto serra10”.

Come giustamente nota Enrico Salvatori nell’intervistare il prof. Aldo Loris Rossi, si tratta di “un documento politico in undici punti nel quale si tenta di spiegare che il vecchio modello dello sviluppo illimitato industriale, che ha sempre considerato la natura come una riserva da sfruttare a volontà, ha già creato problemi ingovernabili”.

Un manifesto ecologista di stampo transnazionale che indica, però, soluzioni anche per quella peste ecologica che evidenziamo anche in Calabria, emblema del caso Italia. Cosa centra il disinnesco della “bomba demografica”, per la Calabria? È problema che non riguarda questa regione?

In merito alla sfida demografica basti rilevare che nella seconda metà del XX secolo l’incremento della popolazione tra le rive nord e sud del Mediterraneo è avvenuto ad un ritmo molto differenziato: nel 1950 quella nord registrava 150 milioni di abitanti, mentre la riva sud aveva meno de1la metà degli abitanti (73 milioni); nel 1970, rispettivamente 178 ml e 122 ml; ma nel 1990, i valori si invertono, 1999 ml contro 200; nel 1997, 202 ml della riva nord contro 233 ml di quella sud. Dunque gli squilibri tra le diverse rive del Mediterraneo sono preoccupanti ed esigono politiche concertate per affrontare la “sfida demografica”.
In particolare, il versante sud dell’Europa è formato da otto metropoli che superano il milione di abitanti: Valenza (1,5), Barcellona (2), Marsiglia (1,4), Genova (0,9-1), Roma (3), Napoli (3), Atene (3,2) e Istanbul (9). Mentre, sulla sponda opposta africana e su quella medio orientale, ritroviamo altre otto metropoli: Algeri (3,7), Tunisi (1,8), Tripoli (2), Alessandria (4), il Cairo (11), Beirut (1,9), Smirne (2), Damasco (2), in via di sviluppo. (…)11

Per la “megalopoli mediterranea”, secondo il documento del Partito Radicale, “emerge in tutta la sua importanza il ruolo dei Corridoi trans-europei da connettere alle «autostrade del mare» al fine di realizzare quel grande sistema intermodale capace di integrare la «megalopoli europea» e la «megalopoli mediterranea» in una nuova prospettiva unitaria”.

(…) Ma se l’Italia svolgerà sempre più una funzione di cerniera tra la megalopoli europea e la megalopoli mediterranea, quale sarà il ruolo del Mezzogiorno in tale contesto?
In realtà – si legge nella relazione del Prof. Loris Rossi – questo ruolo emergerà naturalmente nella misura in cui si realizzerà la suddetta “zona di libero scambio” euro-mediterranea.
L’Italia come cerniera tra la megalopoli europea e la megalopoli mediterranea. Il Mezzogiorno come piattaforma logistica intermodale proiettata nella “zona di libero scambio”. (…)

(…) Dunque emerge il ruolo centrale del Mezzogiorno articolato in tre piattaforme logistiche: la Tirrenica-sud, formata dalla piattaforma ferroviaria di Marcianise, dal nodo di Nola e dai porti di Napoli, Salerno e Gioia Tauro; l’Adriatica-sud, costituita dal nodo di Pescara, dal nodo ferrovia-rio e portuale di Bari e Brindisi-Taranto; la Mediterraneo-sud, con i porti di Palermo, Catania e Cagliari (hub).12

In pratica, è l’intero pianeta che rischia di morire a causa della peste ecologica. Il rapporto “State of the World 2013”13 del Worldwatch Institute, si domanda se sia ancora possibile la sostenibilità. Nell’edizione italiana curata da Gianfranco Bologna da oltre vent’anni, si afferma come ciò sia possibile solo con “una nuova cultura e una nuova economia”.

Nel rapporto sullo stato del nostro pianeta, prestigiosi ricercatori assieme ad alcuni tra i maggiori esperti internazionali di economia ecologica, scienze del sistema Terra, scienza della sostenibilità, scienze sociali e protagonisti della società civile, annualmente “si interrogano su un tema cruciale per l’intera civiltà umana e cioè se, allo stato attuale della situazione, sia ancora possibile per l’umanità imboccare una rotta di sostenibilità dei propri modelli di sviluppo sociale ed economico14”.

È lo stesso Gianfranco Bologna a notare come Kate Raworth, una delle prestigiose autrici del World State 2013, ricercatrice “seniordi Oxfam e docente presso l’Environmental Change Institute della Oxford University, scrive che:

Ogni pilota conosce l’importanza della bussola per il volo, senza di essa correrebbe il rischio di andare fuori rotta. Per questo le moderne cabine di pilotaggio sono dotate di una vasta gamma di strumenti e quadranti, dalla bussola all’indicatore del carburante, dall’altimetro al tachimetro. È un vero peccato quindi che i decisori economici non si siano avvalsi di tali strumenti per pianificare il corso dell’intera economia. Negli ultimi decenni, si è dimostrato un eccessivo interesse per il prodotto interno lordo (PIL) come indicatore dell’andamento economico nazionale; ciò equivale a pilotare un aereo servendo- si del solo altimetro che mostra le variazioni di altitudine senza però fornire dati sulla direzione o sulla quantità di carburante disponibile. Un tale interesse per la produzione economica monetizzata non riesce a riflettere il crescente degrado delle risorse naturali, il lavoro inestimabile ma non retribuito di assistenti e volontari e le sperequazioni del reddito che conducono molti individui in tutte le società alla povertà e all’esclusione sociale. Il dominio del PIL ha abbondantemente superato la sua legittimità: è necessario impiegare una strumentazione più adeguata che ci permetta di navigare nel 21° secolo in direzione dell’equità e della sostenibilità. Fortunatamente si stanno mettendo a punto indicatori più adeguati15”.

Sull’ambiente, siamo governati da piloti che, pur avendo gli strumenti, non ne tengono conto.

Ciò è vero sul piano globale, ma anche per il livello locale quando si parla di governo dei territori nelle regioni del nostro Paese. E il caso Calabria ne è un tragico esempio. Molto spesso le comunità locali credono che consumare suolo dissennatamente per costruire case, sia un modo di promuovere lo sviluppo e l’economia. Il problema dei rifiuti viene sottovalutato, non si tiene adeguatamente conto e non si informano adeguatamente le popolazioni dei rischi geologico-ambientali.

Nel citato rapporto sullo Stato del pianeta 2013, è delineato chiaramente il quadro che abbiamo, oggi, davanti a noi su scala globale:

1) Tutti gli avvertimenti, documentati e motivati, che si sono succeduti in questi ultimi decenni sulla gravità della situazione ambientale in cui versa la nostra biosfera, sebbene siano stati oggetto di ampi dibattiti, polemiche e iniziative politiche di vario tipo, nel complesso non si sono tradotti in urgenti misure per cambiare decisamente rotta ai nostri modelli di sviluppo socioeconomico;

2) La conoscenza della comunità scientifica internazionale sul Global Environmental Change (GEC) è progredita in maniera impressionante in questi ultimi decenni e ci ha condotto alla comprensione che stiamo vivendo in pratica un nuovo periodo geo- logico (un vero battito di ciglia nella storia del nostro pianeta che data 4,6 miliardi di anni) non a caso, definito Antropocene, a dimostrazione delle prove ingenti sin qui raccolte che dimostrano quanto gli effetti dell’intervento umano sulla natura siano or- mai paragonabili agli effetti delle grandi forze geologiche che hanno modificato il pia- neta nella sua intera storia e che la nostra pressione sui sistemi naturali ci sta sempre più urgentemente conducendo verso alcuni punti critici, oltrepassati i quali per la no- stra civiltà sarà veramente difficile o impossibile reagire adeguatamente;

3) L’inazione politica, l’utilizzo costante dell’attesa, della deroga, del rimando, la lentezza dei processi democratici nel prendere decisioni importanti per l’intera civiltà umana sono sotto gli occhi di tutti e certamente non aiutano a risolvere i problemi che, con il passare del tempo, non fanno altro che aggravarsi16.

A giugno del 2013, la Population Division delle Nazioni Unite ha pubblicato i dati sulla popolazione mondiale aggiornando i dati al 2012.

Gianfranco Bologna nel curare la sua pubblicazione annuale del rapporto sullo stato di salute del pianeta,

La popolazione attuale è di 7,2 miliardi e si prevede incrementerà di un miliardo entro i prossimi 12 anni, raggiungendo gli 8,1 miliardi nel 2025 e i 9,6 miliardi nel 2050. Nel World Population Prospects precedente, quello del 2010, la popolazione prevista al 2050 per la variante media (le Nazioni Unite analizzano, in ogni rapporto, le varianti bassa, media e alta nonché la variante costante, ma la più credibile rispetto a quanto poi si verifica nella realtà è quella media) era di 9,3 miliardi.

Nel nuovo Prospects l’indicazione per il 2050 è di 9,6 miliardi, con la previsione di un incremento di 300 milioni rispetto alla previsione precedente, dovuta alla revisione dell’andamento del livello dei tassi di fertilità totale (il numero di figli/figlie che ha una donna nell’arco della propria esistenza riproduttiva) di diversi paesi in via di sviluppo. Sempre secondo la variante media la popolazione mondiale, al 2100, passerebbe quindi dalla precedente previsione (2010) di 10,1 miliardi a quella dell’attuale rapporto di 10,9 miliardi (quindi quasi 11 miliardi).

La maggior parte della crescita della popolazione avrà luogo nelle regioni in via di sviluppo che si prevede incrementeranno la popolazione dai 5,9 miliardi nel 2013 agli 8,2 del 2050. La crescita sarà abbastanza rapida in 49 paesi in via di sviluppo che vedranno la loro popolazione passare da circa 900 milioni del 2013 a 1,8 miliardi nel 2050 (tra questi paesi vi sono, per esempio, la Nigeria, il Niger, la Repubblica Democratica del Congo, l’Etiopia, l’Uganda, l’Afghanistan). Nello stesso periodo la popolazione delle regioni sviluppate rimarrà abbastanza stabile, intorno a 1,3 miliardi. Una significativa crescita della popolazione globale, nel periodo che va da ora al 2050, avrà luogo in Africa, dove la popolazione incrementerà da 1,1 miliardi attuali ai 2,4 miliardi nel 2050, raggiungendo potenzialmente, addirittura, i 4,2 miliardi nel 2100, alla fine del secolo.

L’impatto della specie umana sui sistemi naturali è stato riassunto in una famosa equazione pubblicata nel 1971, dai grandi studiosi Paul Ehrlich, il notissimo ecologo del- la Stanford University e John Holdren, esperto energetico, allora alla California University di Berkeley e poi divenuto, con l’amministrazione Obama, capo scientifico della Casa Bianca. Secondo l’equazione di Ehrlich e Holdren, l’impatto (I) dell’attività uma- na è il prodotto di tre fattori: la dimensione della popolazione (P), il suo tenore di vita (A, dall’inglese affluence) espresso in termini di reddito pro capite, e la tecnologia (T), che indica quanto impatto produce ogni dollaro che spendiamo. L’equazione di Ehrlich e Holdren ci dice con chiarezza che è impossibile ridurre l’impatto umano sui sistemi naturali intervenendo semplicemente su uno solo dei tre fatto- ri che la compongono. È necessario, infatti, intervenire su tutti e tre17.

Quello della crescita demografica, è problema che il Partito Radicale come ONG propone ormai da anni con l’associazione “Rientro dolce”.

Un problema che sta determinando l’avanzare della peste ecologica.

Minxin Pei, esperto di governo della Repubblica popolare cinese di rapporti Usa-Asia e di processi di democratizzazione nei paesi in via di sviluppo, attualmente direttore del centro di studi strategici presso il Claremont McKenna College in California, nell’articolo ripreso lo scorso 21 novembre 2013 dal settimanale L’Espresso per traduzione di Anna Bissanti, parala esplicitamente di una Cina sovrappopolata, devastata dal punto di vista ecologico e di dati sull’inquinamento, non tanto dell’aria difficile da nascondere, ma dell’acqua e del suolo, tenuti segreti da Pechino.

Penuria d’acqua, inquinamento idrico del fiume Yangtze, risorsa vitale per mezzo miliardo di persone e l’inquinamento del suolo da pesticidi agricoli e metalli pesanti, per un’estensione del 10% del suolo coltivato, sono difficili da nascondere.

Già ora, nota lo l’esperto, “i raccolti coltivati su questi terreni devono essere controllati accuratamente”, concludendo che, “di questo passo, la Cina dovrà affrontare presto una grave crisi della sicurezza alimentare. Una crisi alimentare nella nazione più grande e popolosa del mondo, la seconda economia più importante al mondo, che avrà ripercussioni spaventose a livello globale”.

Una bomba ecologica: la peste ecologica è problema globale, ma che però deve essere affrontato a partire dalle realtà locali, non in modo indipendente da una visione olistica d’insieme che faccia da linea guida, da bussola a chi le decisioni le deve prendere.

Parliamo di “sviluppo sostenibile”, ma spesso si fa mota confusione.

Per Gianfranco Bologna, “volendo semplificare il concetto in una semplice definizione, possiamo affermare che la sostenibilità significa imparare a vivere in una prosperità equa e condivisa con tutti gli altri esseri umani, entro i limiti fisici e biologici dell’unico pianeta che abitiamo: la Terra18”.

Per Gianfranco Bologna, curatore dell’edizione italiana del rapporto State of the World da oltre vent’anni,“La continua inazione ha aggravato la situazione19”. “Il 1972” – ricorda Gianfranco Bologna – “costituì un anno particolare per la crescente consapevolezza delle problematiche ambientali nelle società di tutto il mondo20”.

In quell’anno le Nazioni Unite organizzarono la prima grande conferenza internazionale per far confrontare i governi di tutti i paesi sull’analisi di un quadro sempre più preoccupante, relativo allo stato di salute dei sistemi naturali, e sulle proposte da concordare e attuare per migliorare la situazione. Era il giugno del 1972 e a Stoccolma si tenne la prima Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano. Si riunirono i rappresentanti dei governi di oltre cento paesi con studiosi, esperti e rappresentanti di oltre 400 organizzazioni governative e non governative, mettendo a confronto i problemi dei paesi del Nord del mondo, ricchi e industrializzati, con quelli del Sud, poveri e desiderosi di ottenere maggiore crescita economica. La Conferenza trattò i temi delle risorse ambientali e della loro gestione, del nostro impatto sulla natura e degli inquinamenti da noi provocati, sollecitando giuste mediazioni tra le esigenze della tutela ambientale e dello sviluppo economico e sociale. Da allora si è aperto un vero e proprio periodo di “ecodiplomazia internazionale” mirato a trovare soluzioni a tali problemi e ad avviare percorsi di sostenibilità dei nostri processi di sviluppo socioeconomico, mentre sono state realizzate altre tre grandi Conferenze del- le Nazioni Unite sui problemi dell’ambiente e della sostenibilità del nostro sviluppo: a Rio de Janeiro nel giugno 1992 (l’Earth Summit, il Summit della Terra e cioè la Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo), a Johannesburg nell’agosto 2002 (il Summit mondiale sullo sviluppo sostenibile) e di nuovo a Rio de Janeiro nel giugno 2012 (la Conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile21).

Qualche mese prima della Conferenza di Stoccolma, il 12 marzo 1972, presso la prestigiosa Smithsonian Institution a Washington, – ricorda Gianfranco Bologna – “un gruppo di giovani studiosi del System Dynamics Group dell’autorevole MIT, coordinati da Dennis Meadows, presentò un rapporto voluto dal Club di Roma, con un titolo molto chiaro The Limits to Growth22.

(…) La ricerca del MIT si proponeva di definire le costrizioni e i limiti fisici relativi alla moltiplicazione del genere umano e alla sua attività materiale sul nostro pianeta. Si trattava di fornire risposte concrete ad alcune domande fondamentali per il nostro futuro: che cosa accadrà se la crescita della popolazione mondiale continuerà in modo incontrollato? Quali saranno le conseguenze ambientali se la crescita economica proseguirà al passo attuale? Che cosa si può fare per assicurare un’economia umana capace di soddisfare la necessità di un benessere di base a tutti e anche di mantenersi all’inter- no dei limiti fisici della Terra? (23)

Le conclusioni dello studio furono le seguenti:

1) Nell’ipotesi che l’attuale linea di crescita continui inalterata nei cinque settori fondamentali (popolazione, industrializzazione, inquinamento, produzione di alimenti, consumo delle risorse naturali) l’umanità è destinata a raggiungere i limiti naturali della crescita entro i prossimi cento anni. Il risultato più probabile sarà un improvviso, incontrollabile declino del livello di popolazione e del sistema industriale.

2) È possibile modificare questa linea di sviluppo e determinare una condizione di stabilità ecologica ed economica in grado di protrarsi nel futuro. La condizione di equilibrio globale potrebbe corrispondere alla soddisfazione dei bisogni materiali degli abitanti della Terra e all’opportunità per ciascuno di realizzare compiutamente il proprio potenziale umano.

3) Se l’umanità opterà per questa seconda alternativa, invece che per la prima, le probabilità di successo saranno tanto maggiori quanto più presto essa comincerà a operare in tale direzione. (24)

Occorre fare bene e occorre fare subito, insomma.

Poi, come lo stesso Gianfranco Bologna ci ricorda esplicitamente nel rapporto 2013 sullo Stato del nostro pianeta da lui curato, vent’anni dopo il Club di Roma, “nel 1992, l’anno della “grande Conferenza” dell’ONU su ambiente e sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro, Donella e Dennis Meadows e Jorgen Randers, i tre principali autori del rapporto originale del MIT del 1972, pubblicarono, a distanza di venti anni, un’ottima rivisitazione di quel rapporto. In questa nuova versione gli autori dello studio riformulano i tre punti pubblicati come conclusioni al primo rapporto del 1972 nel modo seguente:

1) L’impiego di molte risorse essenziali e la produzione di molti tipi di inquinanti da parte dell’umanità hanno già superato i tassi fisicamente sostenibili. In assenza di significative riduzioni dei flussi di energia e materiali, ci sarà nei prossimi decenni un declino incontrollato della produzione industriale, del consumo di energia e della produzione di alimenti pro capite.

2) Questo declino non è inevitabile. Per non incorrervi, sono necessari due cambiamenti. Il primo è una revisione complessiva delle politiche e dei modi di agire che perpetua- no la crescita della popolazione e dei consumi materiali. Il secondo è un drastico, veloce aumento dell’efficienza con la quale materiali ed energia vengono usati.

3) Una società sostenibile è, dal punto di vista tecnico ed economico, ancorapossibile. Potrebbe essere molto più desiderabile di una società che tenta di risolvere i propri problemi affidandosi a un’espansione costante. La transizione verso una società sostenibile richiede un bilanciamento accurato tra mete a lungo e a breve termine, e una accentuazione degli aspetti di sufficienza, equità, qualità della vita, anziché della quantità di prodotto. Essa vuole, più che produttività o tecnologia, maturità, umana partecipazione, saggezza.” (25)

Per come testualmente si legge nel rapporto, “le conclusioni del rapporto MIT-Club di Roma rivisitato venti anni dopo rappresentano l’essenza delle analisi, delle riflessioni e delle proposte per avviare, nel concreto, una sostenibilità del nostro sviluppo sulla Terra26”.

I tre eminenti ricercatori, nel nuovo rapporto del ’92, ribadiscono “i punti fondamentali che hanno impedito di indirizzare verso una strada di minore insostenibilità” il modello di sviluppo socioeconomico:

1) La crescita dell’economia fisica è considerata desiderabile; essa è al centro dei nostri sistemi politici, psicologici e culturali. Quando la popolazione e l’economia crescono, tendono a farlo in modo esponenziale. 2) Vi sono limiti fisici alle sorgenti di materiali e di energia che danno sostegno alla popolazione e all’economia e vi sono limiti ai serbatoi che assorbono i prodotti di scarto delle attività umane. 3) La popolazione e l’economia in crescita ricevono, sui limiti fisici, segnali che sono distorti, disturbati, ritardati, confusi o non riconosciuti. Le risposte a tali segnali sono ritardate. 4) I limiti del sistema non sono solo finiti, ma anche suscettibili di erosione quando vengano sollecitati o sfruttati all’eccesso. Vi sono inoltre forti elementi di non linearità – soglie superate le quali i danni si aggravano rapidamente e possono anche diventare irreversibili. (27)

Questo “elenco di cause del collasso” è al tempo stesso, “un elenco dei modi che consentono di evitarli”.

“Per indirizzare il sistema verso la sostenibilità e la governabilità”, si nota nel rapporto, “basterà rovesciare le medesime caratteristiche strutturali:

1) La crescita della popolazione e del capitale deve essere rallentata, e infine arrestata, da decisioni umane prese alla luce delle difficoltà future, e non da retroazione derivante da limiti esterni già superati. 2) I flussi di energia e di materiali devono essere ridotti aumentando l’efficienza del capitale. In altri termini, occorre ridurre l’impronta ecologica e ciò può avvenire in vari modi: dematerializzazione (utilizzare meno energia e meno materiali per ottenere il medesimo prodotto), maggiore equità (ridistribuire i benefici dell’uso di energia e di materiali a favore dei poveri), cambiamenti nel modo di vivere (abbassare la domanda o dirottare i consumi verso beni e servizi meno dannosi per l’ambiente fisico). 3) Sorgenti (sources) e serbatoi (sinks) devono essere salvaguardati e, ove possibile, risanati. 4) I segnali devono essere migliorati e le reazioni accelerate; la società deve guardare più lontano e agire sulla base di costi e benefici a lungo termine. 5) L’erosione dei sistemi ecologici deve essere prevenuta e, dove sia già in atto, occorre rallentarla e invertirne il corso”. (28)

Il dibattito scientifico sull’Antropocene è ormai vivacissimo.

(…) La consapevolezza della dimensione antropocenica nella quale ci troviamo ha condotto tanti scienziati ad approfondire le ricerche e a cercare le soluzioni. Paul e Anne Ehrlich, famosi ecologi della Stanford University, qualche anno fa hanno lanciato un grande progetto internazionale definito Millennium Assessment of Human Behaviour (MAHB) che si è poi trasformato nel Millennium Alliance for Humanity and the Biosphere.

(…) Tra i compiti più importanti delle azioni del MAHB vi è proprio la realizzazione di di- battiti pubblici sulle cause del comportamento autodistruttivo dell’umanità, quali il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità, discutendone anche le dimensioni etiche e indagando come l’evoluzione culturale possa dirigersi verso la creazione di una società globale sostenibile.

Il quadro della situazione dei sistemi naturali del nostro meraviglioso pianeta è sempre più drammaticamente chiaro agli scienziati di tutto il mondo e non possiamo rimandare ancora nel muoverci speditamente per cambiare rotta e imboccare la strada di una maggiore sostenibilità dei nostri modelli di sviluppo.

(…) La tutela della biodiversità, la ricchezza della vita sulla Terra, è fondamentale per la so- pravvivenza umana. Il valore sociale, economico, culturale, spirituale e scientifico del- la biodiversità è realmente incalcolabile.

(…) Gli studiosi ci ricordano chiaramente che una crescita economica incontrollata è insostenibile in un pianeta con limiti biofisici evidenti. I governi devono riconoscere le se- rie limitazioni presentate dal PIL (il prodotto interno lordo) come misura e indicatore della crescita e della ricchezza di un paese. Il PIL quindi deve essere assolutamente integrato con altri indicatori ambientali e sociali che diano il senso compiuto di cosa significhi realmente la ricchezza di un paese. Inoltre è necessario istituire delle tasse ecologiche ed eliminare rapidamente tutti i sussidi perversi forniti dai governi alle attività dannose per l’ambiente e il nostro futuro. (29)

Tutto questo, si obbietterà, è valido a scala globale, planetaria, ma che c’entra il rapporto sullo stato del pianeta con la nostra Calabria e i suoi evidenti problemi ambientali ed ecologici?

È lo stesso curatore del rapporto a spiegarlo.

La ricerca scientifica e il dibattito sugli ormai sempre più famosi tipping point (i punti critici) che l’impatto umano può provocare nei sistemi naturali a livello globale, – nota Bologna – si sta arricchendo sempre di più.

(…) Gli scienziati ritengono plausibile il raggiungimento di un punto critico (tipping point) su scala planetaria che richiede ovviamente una grandissima attenzione da parte di noi tutti e una raffinata capacità scientifica di registrare i primi segnali di allerta (…).

(…) Gli ecologi sanno bene che i tipping point esistono e si manifestano negli ecosistemi a livello locale e regionale e tantissime situazioni sono state ormai ben studiate e approfondite. Per fare solo un semplice esempio, se a un lago vengono aggiunte parecchie sostanze nutrienti, le sue proprietà ecologiche tendono a continuare finché il lago improvvisamente entra in un nuovo stato, in una situazione di eutrofizzazione dove le acque da limpide diventano torbide e le comunità di piante e pesci e altri organismi cambiano completamente. Riportare le condizioni del lago allo stato preesistente è possibile ma a costo di sforzi imponenti e costosi per le società umane.

(…) Recentemente altri studiosi, come Barry Brook, Erle Ellis, Michael Perring, Anson Mackay e Linus Blomqvist, pur sottolineando la drammaticità della situazione dei si- stemi naturali dovuta all’intervento umano, non ritengono però che queste condizioni si possano applicare globalmente alla biosfera planetaria. Per avere un tipping point planetario, essi ritengono che le forze prodotte dall’umanità dovrebbero essere praticamente uniformi su tutta la biosfera, tutti gli ecosistemi dovrebbero rispondere a tali forze nelle stesse maniere e questo dovrebbe essere trasmesso rapidamente attraverso i vari ecosistemi nei vari continenti. Persino i fenomeni dovuti al cambiamento climatico, così evidenti in tutto il pianeta, non rispondono a questi requisiti secondo questi studiosi. Alcuni ecosistemi in diverse regioni subiscono, per esempio, prolungati periodi di siccità e altri invece forti e con- centrati periodi di piovosità. Secondo Brook e colleghi, l’umanità sta producendo massicci cambiamenti nei sistemi naturali della biosfera, con effetti diversi nei diversi ecosistemi, comunità o specie. La risposta della biosfera alle pressioni umane è rappresentata dalla somma di tutti questi cambiamenti.

Diventa quindi sempre più importante comprendere e gestire l’evoluzione degli ecosistemi a livello locale e regionale. (30)

Ecco perché il discorso sugli aspetti ecologici globali ha riflessi importanti, secondo noi, anche con quelli regionali di una realtà come la Calabria.

Quello che si rischia, entro il 2050, sono situazioni molto gravi di sofferenza per l’intero genere umano. È estremamente importante un’azione rapida e condivisa per intervenire su cinque grandi elementi che causano la disgregazione dei sistemi naturali e che sono strettamente interconnessi fra di loro: 1) il degrado del sistema climatico; 2) i processi di estinzione delle specie viventi; 3) la perdita della diversità degli ecosistemi; 4) l’avanzamento degli inquinamenti dei sistemi naturali; 5) la crescita della popolazione umana e dei livelli di consumo.

L’avanzamento dei fenomeni di inquinamento come il malgoverno del territorio devono essere urgentemente arrestati, ma per farlo, l’abbiamo detto più volte, serve un cambiamento di cultura radicale.

Secondo Gianfranco Bologna, tutti noi, nel nostro piccolo, dovremmo diventare “soggetti moltiplicatori” di questi messaggi “per cercare concretamente di modificare in positivo gli attuali andamenti dei nostri processi di sviluppo socioeconomico”.

Ma c’è anche un’altro aspetto del “caso” Calabria che, direttamente, coinvolge le politiche del Partito Radicale sull’ambiente. Ed è quello legato alla lotta per il diritto alla conoscenza, per il diritto, cioè, delle popolazioni a conoscere i dati relativi ai rischi geologici e ai rischi ambientali.

«Isolando la scienza dai suoi contesti sociali, non si comprendono le sue relazioni effettive. La scienza» – aggiunge Renn nella sua prolusione citata – «è soltanto una forma particolare di conoscenza. La conoscenza è un aspetto fondamentale della cultura umana, ben più ampio della scienza. La conoscenza deriva dalla riflessione sulle nostre azioni precedenti, consentendoci di progettare quelle future31».

Ai responsabili del pianeta e, in generale, della cosa pubblica, Jürgen Renn fa notare che:

«La conoscenza non ha soltanto una dimensione cognitiva, ma anche sociale e materiale. Può essere comunicata, condivisa e immagazzinata tramite rappresentazioni esterne come congegni, manufatti e testi». Con la rivoluzione scientifica di Einstein, per Jürgen Renn, «vi è stata una trasformazione che ha riguardato non solo la scienza, ma più in generale le strutture della conoscenza. L’evoluzione della conoscenza è prodotta dalle strutture sociali32».

La conoscenza dei dati dell’inquinamento ambientali, la conoscenza dei luoghi a rischio dissesto, la conoscenza della sismicità locale e della vulnerabilità del patrimonio edilizio, sarebbero fondamentali per salvare vite umane oltre che per risparmiare un sacco di soldi. Il diritto alla conoscenza dovrebbe essere garantito, l’abbiamo detto tante volte, come diritto umano inviolabile.

Per capire, invece, quanto poca importanza sia data, oggi, da parte di una regione come la Calabria, alla conoscenza di quei dati ambientali e dell’uso delle risorse naturali che pure dovrebbero essere pubblici, è stato sufficiente andare a cercare sul sito del Consiglio regionale della Calabria nella sezione dedicata all’amministrazione trasparente. Nulla, a marzo 2014, non si trova nulla. Anche delle informazioni ambientali la cui trasparenza, oltreché dalla convenzione di Aarhus, dovrebbe essere ormai garantita dalla semplice applicazione dell’articolo 40 del D. Lgs. n. 33 del 2013, non si sa nulla.

Nell’ambito delle informazioni ambientali, sul sito della regione Calabria, sia che si cerchino i dati sullo stato dell’ambiente, sia che si voglia sapere quali siano i fattori di rischio o le misure incidenti sull’ambiente con le relative analisi di impatto, sia che si voglia conoscere le misure adottate a protezione dell’ambiente, e sia che si cerchi la relazione sull’attuazione della legislazione o, soprattutto, quella sullo stato di salute e della sicurezza umana, la risposta che, in automatico, costantemente si genera, è sempre la stessa: “Sezione in aggiornamento”.

NOTE

1 Jürgen Renn è direttore dell’Istituto Marx Plank per la Storia della Scienza di Berlino, docente di Storia della Scienza all’Università Humboldt e Visting, e docente presso la Boston University. Tra i più conosciuti e apprezzati studiosi del pensiero e dell’opera di Albert Einstein, ha scritto e curato numerosi lavori tra cui, in italiano, il libro Sulle spalle di giganti e nani: la rivoluzione incompitua di Albert Einstein, (Bollati Boringhieri, Torino, pp.360)

2 Il testo della prolusione citato è stato anticipato, in sintesi, nella rubrica Scienza e Filosofia, su Domenica, inserto de Il Sole 24 Ore, Domenica 2 Marzo 2014, n°60

3 Il World Urban Forum 6 è la più importante conferenza a livello mondiale sulle questioni urbane promossa da UN-Habitat alla quale partecipano Capi di Stato, rappresentanti di Governi, esperti, organizzazioni della “società civile”, Università, imprenditori e migliaia di delegati da oltre 160 paesi che si confronteranno sul tema “Il Futuro urbano”

4 Aldo Loris Rossi, L’Antropocene come minaccia alla sopravvivenza del pianeta, Relazione del Partito Radicale, 6° World Urban Forum, 1-7 settembre 2012, Napoli (fonte: Notizie.Radicali.it/node/5234).

5 Per Crutzen, precisa lo stesso Loris Rossi nella sua relazione, «A segnare l’inizio dell’Antropocene sono state la Rivoluzione industriale e le sue macchine, che hanno reso molto più agevole lo sfruttamento delle risorse ambientali. Se dovessi indicare una data simbolica, direi il 1784, l’anno in cui l’ingegnere scozzese James Watt inventò il motore a vapore. L’anno esatto importa poco, purché si sia consapevoli del fatto che, dalla fine del 18° secolo, abbiamo cominciato a condizionare gli equilibri complessivi del pianeta. Pertanto propongo di far coincidere l’inizio della nuova epoca con i primi anni dell’Ottocento» (2005).

6 A. L. Rossi, L’Antropocene come minaccia alla sopravvivenza del pianeta, Op.cit.

7 Ibidem

8 Ibidem

9 Aldo Loris Rossi, L’Antropocene come minaccia alla sopravvivenza del pianeta, Op. cit.

10 Ibidem

11 Ibidem

12 Aldo Loris Rossi, L’Antropocene come minaccia alla sopravvivenza del pianeta, Op. cit.

13 Bologna G. (a cura di), State of the World 2013Is Sustainability Still Possible? – Worldwatch Institute, Edizioni Ambiente, Milano, Agosto 2013

14 Bologna G. (a cura di), La sostenibilità è possibile? Solo con una nuova ccultura e una nuova economia, ne: State of the World 2013 – Op. cit., p.9-13

15 Bologna G. (a cura di), La sostenibilità è possibile? Solo con una nuova cultura e una nuova economia, ne: State of the World 2013 – Op. cit., p.10

16 Bologna G. (a cura di), Op. cit., p.11

17Bologna G. (a cura di), Ivi, Op. cit., p.12

18 Bologna G. (a cura di), L’Uso improprio del termine sostenibilità, ne: State of the World 2013 – Op. cit., p.13

19 Bologna G. (a cura di), Dal 1970 a oggi: la continua inazione ha aggravato la situazione, ne: State of the World 2013, Op. cit., p.14

20 Bologna G., Ibidem

21 Bologna G., Ibidem

22 Meadows D.H., Meadows D.L., Randers J. e Behrens III W.W., I limiti dello sviluppo, Mondadori, 1972.

23 Bologna G. (a cura di), Dal 1970 a oggi: la continua inazione ha aggravato la situazione, ne: State of the World 2013, Op. cit., p.15

24 Bologna G. (a cura di), Ibidem

25 Bologna G. (a cura di), Dal 1970 a oggi: la continua inazione ha aggravato la situazione, ne: State of the World 2013, Op. cit., p.17

26 Bologna G., Ibidem

27 Bologna G., Ivi, p.17.18

28 Bologna G., Ivi, p.18

29 Bologna G., Ivi, p.23

30 Bologna G., ivi, p.25

31T esto della prolusione di Renn J., in sintesi, ne Scienza e Filosofia, su Domenica, inserto de Il Sole 24 Ore, Op. cit.

32 Renn J., in sintesi, ivi

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Come diradare quelle “nuvole pesanti”

di Giuseppe Candido

Nell’editoriale di domenica 30 marzo, il direttore de il Quotidiano della Calabria, Matteo Cosenza, ci rappresentava in maniera assai efficace il quadro fosco delle “istituzioni nebulose” calabresi che si delinea dopo la pesante condanna a 6 anni, con interdizione perpetua dai pubblici uffici, inflitta al governatore Giuseppe Scopelliti. Una condanna che, sebbene di I grado, in base alla legge Severino ne prevede la decadenza. È chiara rappresentazione dei fatti affermare, come fa il direttore Cosenza, che “la politica sta di nuovo venendo meno al suo ruolo” e che il consiglio regionale e la Regione sono lo “specchio fedelissimo dell’arretratezza e dello sfasciume (partitocratico, ndr) in cui versa la Calabria”. Ed è sempre fedelissima fotografia dei fatti dire che adesso si aprirà una “questione di sopravvivenza dei consiglieri regionali”, anche in vista della riduzione dei seggi che si dovrà fare. Ha ragioni da vendere il direttore quando afferma che “questo consiglio regionale andava sciolto già da tempo sia per effetto delle inchieste giudiziarie, che hanno colpito i suoi esponenti con accuse gravissime, sia per la sua insignificante attività”. Ma siamo sicuri che basti andare al voto subito, cambiare la gamba su cui poggia un’organismo malato, la partitocrazia appunto, passare dal cetro destra al centro sinistra. Abbiamo visto, anche con l’esperienza del passato che al peggio non c’è mai fine se non si programma una rinascita. Noi del Partito radicale, con la lista Bonino Pannella, avevamo provato a sostenere la candidatura alla presidenza della Regione di Pippo Callipo. Avevamo tentato di evitare che allo sfascio del centro sinistra trionfasse il peggio partitocratico del centro destra. Contro la macchina da guerra di Scopelliti, e in generale della partitocrazia calabrese, fatta di clientele e connessioni a volte indicibili, non vi fu storia.Noi radicali, rimanemmo allo zero virgola.

Oggi potrebbero essere i cittadini stessi, con movimenti organizzati, a riappropriarsi delle istituzioni e a diradare le nebbie che le avvolgono in questa nostra terra. Per una nuova Regione, serve maggiore trasparenza; serve poter conoscere, di ciascun eletto o nominato, il loro stato patrimoniale, i loro redditi e i loro interessi finanziari. Oltre al numero di consiglieri, occorre subito dare un drastico taglio alle spese per i rimborsi elettorali e per l’attività politica dei gruppi consiliari; e per quelli che resteranno a sostegno dell’attività politica, ben documentati dovranno poter essere conosciuti direttamente dai cittadini attraverso la rete. Oggi internet consente, se usata bene, di fare una rivoluzione a costo zero ma che avrebbe un impatto forte dimostrandosi, alla lunga, capace di riavvicinare i cittadini alla politica, che oggi considerano qualcosa di ignobile. Accanto a questa rivoluzione morale e culturale, come notava giustamente il direttore nel suo editoriale, per i fondi europei, dovremmo assicurarci che, nei prossimi anni, a gestire le politiche della Regione vadano persone capaci di spendere bene gli 11 miliardi di euro che, dal 2014 al 2020, arriveranno da Bruxelles individuando gli “obiettivi prioritari” di cui questa terra non può più fare a meno per un sano, ed ecologicamente sostenibile, sviluppo. Bonifiche ambientali, risanamento dissesto idrogeologico, adeguamento vulnerabilità sismica del patrimonio edilizio pubblico e privato, risoluzione del problema dei rifiuti mediante l’ammodernamento degli impianti di trattamento idonei a produrre cdr (combustibile derivato da rifiuti) che, invece, paradossalmente, dobbiamo comprare da altre regioni per poter far funzionare il termovalorizzatore di Gioia Tauro, proprio mentre non sappiamo dove mandare i rifiuti nostri. È vero, la politica calabrese, quella legata ai partiti che hanno occupato i posti chiave di potere per alimentare e gestire clientele, ha dimostrato tutta la sua incapacità nel governare e gestire i fenomeni del territorio e nel dare risposte.

Come uscirne? Affinché le cose possano davvero cambiare, per abolire la miseria della politica fatta tramite clientele o, peggio, commistioni grigie irraccontabili, un ruolo assai determinante ce l’ha l’informazione. La stampa e, soprattutto, le televisioni, tramite le quali i cittadini calabresi, formano le loro opinioni. Per abolire le zone grige c’è bisogno di un’informazione che smetta di formare il consenso e cominci ad informare i cittadini, con obbiettività, su tutte le “offerte politiche” in campo.

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La nascita del primo servizio radiofonico

di Maria Elisabetta Curtosi

 

Nel 1933 ci fu un’altra importante rivoluzione in campo giornalistico e delle comunicazioni di massa e cioè  quando Guglielmo Marconi inaugura  dopo 38 anni di esperimenti il primo servizio radiofonico tra la Città del Vaticano e Castelgandolfo. Fu sconvolgente perché alla parola scritta si sostituisce o meglio si aggiunge la parola “parlata” facendo così una divulgazione sempre maggiore di informazioni e di idee. Così il potere si impadronì subito della radio e lo fa strumento di divulgazione, infatti proprio sulla radio che regimi come il fascismo puntarono per la loro propaganda, inoltre è sempre attraverso la radio che viene preparata la seconda guerra mondiale usando slogan, celebre rimane l’anatema del giornalista di regime Appelius contro l’Inghilterra per ingenerare odio negli italiani e condurli per mano al conflitto<. << Dio stramaledica gli Inglesi>>.

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Candido (#Radicali): Bene il Consiglio di Lamezia Terme che approva registro testamento biologico. Esilaranti le dichiarazioni circolate sulla stampa

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“Con soddisfazione di chi questa battaglia di libertà ha cominciato a sostenerla, in Calabria, dal 2006 sin dalla vicenda “nazionale”, di Piergiorgio Welby, apprendo dalla stampa che il Consesso Civico lametino guidato dal Sindaco Speranza, ha inteso adottare all’unanimità il registro dei testamenti biologici”. E’ quanto si legge in una nota di Giuseppe Candido, militante del Partito Radicale nonché direttore editoriale di ALM che, in Calabria, da anni porta avanti la battaglia sui registri dei testamenti biologici assieme all’associazione di cui Mina Welby è coo-presidente onoraria.
“Trovo davvero esilaranti”, afferma senza mezzi termini Giuseppe Candido, “alcune dichiarazioni circolate sulla stampa del coordinatore regionale dell’associazione “Alleanza Cattolica Calabria”, Dr. Elia Sgromo, secondo il quale tale sacro santa decisione del Consiglio di Lamezia Terme, tra l’altro non la prima in Italia e nemmeno per la Calabria essendo stato istituito persino nel piccolo comune di Botricello, sarebbe stata presa “senza alcuna necessità e urgenza sociale” e che i registri dei testamenti biologici rappresenterebbero, addirittura, una sorta di “cedimenti ad una mentalità radicale, libertaria e ideologica”. Per Sgromo, – prosegue Candido nella sua nota – un registro che consente di annotare ai cittadini le proprie volontà di fine vita, servirebbe solo a pubblicizzare una prospettiva anti-vita.

Contrariamente a quanto dice il dott. Sgromo, però, esiste un forte fondamento costituzionale che ci da’ il diritto di rifiutare i trattamenti sanitari per malattie inguaribili, unicamente finalizzati al proseguimento del mantenimento in vita”. L’articolo 32 della nostra costituzione, che il dott. Elia, forse appositamente, dimentica nel suo ragionamento per dire che non c’è niente che giustifichi il registro, c’è eccome, ed è in esso che è contenuto quel principio inviolabile che ha visto far garantire dalla magistratura il diritto di porre fine alle sofferenze e alle cure inutili di Piegiorgio Welby che ha potuto farsi staccare il suo ventilatore che lo teneva invita artificiale venendo contemporaneamente sedato da un medico che, per quel gesto, però, proprio perché una legge non c’è, dovette subire un processo uscendone completamente scagionato da tutte le accuse.
Lo stesso principio costituzionale che Elia forse finge di dimenticare, ha consentito al sig. Beppino Englaro, dopo anni, anni e quattro gradi di giudizio, di poter vedere rispettate le volontà della figlia Eluana in coma vegetativo permanete. Volontà che, non essendo state registrate da nessun notaio né da nessun altra “registro”, furono difficili da dimostrare. Se vi fosse stato un registro delle dichiarazioni anticipate di trattamento, i casi possibili potevano essere due: Eluana poteva aver fatto registrare il proprio testamento biologico oppure no.
Ecco a che servono i registri dei testamenti biologici. Ad evitare che a scegliere sia qualcun altro.

Da laici credenti cui ci sentiamo appartenere, ci sentiamo vicini ad una chiesa cattolica dell’accoglienza e della misericordia che questo Papa Francesco sta dimostrando poter essere rappresentata anche dai suoi massimi vertici; ci sentiamo vicini ad una chiesa vicina alle persone, agli umili, vicina ai bisognosi di misericordia, ma siamo assai distanti ad una chiesa degli integralismi, che vuol imporre l’attesa di un miracolo anche a chi nel miracolo non ci vuole credere e, come Piergiorgio Welby cerca una “morte opportuna”.

Ecco perché ribadiamo, invece, il nostro fermo SI ai registri sul testamento biologico e a una legge che regolamenti l’eutanasia legale contro quella di massa e clandestina. In parlamento c’è già una proposta di legge depositata dall’associazione Luca Coscioni e sottoscritta anche da migliaia di cittadini calabresi, tra cui sindaci e amministratori locali.

Oggi, in Italia esiste l’eutanasia clandestina e la rinuncia alle cure viene effettuata nel silenzio e nella solitudine di mura domestiche, quando “non c’è più niente da fare”. Per il suicidio assistito bisogna andare in Svizzera o in Belgio.
Il nostro Si all’eutanasia legale contro quella clandestina, il Sì ai registri dei testamenti biologici, come fu per l’aborto che legalizzato da una legge, cui tra l’altro i Radicali si opposero, consentì la drastica riduzione del fenomeno e delle morti per prezzemolo o sotto i ferri della cucina, anche in questo caso, sia ben inteso, è un Si alla vita, che è amore e libertà. Un “Sì” deciso, forte, alla tutela della vita e delle libertà proprio quando si è nelle condizioni di massima fragilità.

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Una proposta (indecente) per la #scuola

Scuola pubblica statale
Armando Massarenti (@Massarenti24) con la filosofia minima vorrebbe rivoluzionare la scuola con una proposta: mandare i ricercatori che non si riesce ad assumere come tali, ad insegnare nelle scuole (al posto dei tanti docenti altrettanto precari, ndr).

“I problemi della scuola”, sostiene il Massarenti nel Domenicale de Il Sole 24 Ore di cui è responsabile, “sono immensi, ma a ben vedere uno dei principali riguarda la valorizzazione del merito tra il personale docente e la possibilità di immettere forze nuove, competenti, innovative, al passo coi tempi”. Per cui, la soluzione, per il Massarenti, è valida sia per i ricercatori cui si regalerebbe, così, la possibilità di entrare nella scuola, sia per il mondo della scuola, dove si immetterebbero “forze nuove al passo coi tempi”.

E, nel suo candido ragionamento, il giornalista, si smarca anche da quella che considera l’obiezione principale che, sempre a suo dire, si potrebbe opporre alla sua proposta: chi ha insegnato loro ad insegnare? Questa, sostiene il giornalista, “è una carenza endemica del sistema. Ben pochi all’università si preoccupano degli aspetti didattici”.

Così dicendo, però, il giornalista dimostrata di non conoscere affatto il tema di cui parla. I docenti che insegnano nelle scuole statali italiane di ogni ordine e grado, hanno tutti dovuto superare un concorso di abilitazione all’insegnamento, l’hanno superarlo e spesso hanno fatto, per anni, servizio come precari. Anziché assumere i docenti precari da anni, anziché predisporre adeguati piani di aggiornamento del personale docente e anziché adeguare gli stipendi dei prof a quelli della media europea dei loro colleghi, per dare energie nuove alla scuola, si propone di buttare nell’insegnamento persone sicuramente preparate ma che per anni hanno fatto ben altro. Per la scuola pubblica statale, in Italia, dovrebbero essere investite risorse ingenti, e la stessa cosa dovrebbe farsi nella ricerca e nell’università per evitare che i migliori cervelli continuino ad andare all’estero per poter fare ricerca. Assumere ricercatori precari al posto dei docenti precari, sarebbe solo mischiare, ancora una volta, le carte per non risolvere il problema della scuola italiana.

Alla proposta del Massarenti rispondo, perciò, con una frase che, agli inizi della mia carriera, sentii da un buon preside: “professore”, mi disse, “un bravo docente lo si valuta non perché conosce bene la matematica, ma perché nel conoscerla, quel matematico è in grado di creare una relazione educativa coi ragazzi per farsi ascoltare, spiegargli gli alfabeti della disciplina e insegnargli ad imparare da soli”.

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Come spendere quei fondi europei

Commissario Hahn
Commissario Hahn

di Giuseppe Candido

Pubblicato su la rubrica “Opinioni & Commenti” de Il Quotidiano della Calabria del 20 marzo 2014

La Calabria, nei prossimi anni, dovrà gestire e spendere, attraverso il POR 2014-2020, circa 11 miliardi di euro; il 50% dei fondi comunitari previsti per le cinque regioni Obiettivo 1.
Ce ne sarebbe da ricostruire la regione ex novo. Purtroppo, però, come tristemente raccontano i dati ufficiali, il Sud spende, in media, solo la metà dei fondi a disposizione (il 48,3%, per la precisione). Tanto per fare un esempio, di quasi due miliardi di euro del Programma Operativo Regionale (POR 2007-2013) relativi al “Fondo Europeo di Sviluppo Regionale” (FESR), in Calabria, a fine febbraio 2014, la spesa certificata era di 729 milioni di euro.
Lunedì 17 marzo, Giacomo Mancini, assessore al Bilancio della giunta Scopelliti che guida la regione dal 2010, ha tracciato il bilancio dei fondi 2007/2013 annunciando di non voler più ripetere gli errori del passato. Per questo, si legge sui quotidiani locali, sarà introdotto “un percorso di discontinuità nella programmazione dei fondi europei”.
Dopo aver governato quattro delle sette annualità del POR Calabria 2007-2013, la regione si rende finalmente conto che c’è bisogno di discontinuità. In effetti, il 14 luglio dell’estate scorsa, Enrico Marro e Valentina Santarpia, pubblicarono sul Corriere della Sera, su questo tema dei fondi comunitari, un articolo dal titolo assai eloquente: “Fondi UE, l’Italia spende poco e male. Ora si rischia di perdere 5 miliardi”. Si parlava, nell’articolo, di un tesoretto di trenta miliardi che, con questi chiari di luna, è allucinante che ancora non fosse stato speso in porgetti adeguati.
Alla data cui si riferiva l’articolo, secondo i documentati giornalisti, c’erano “17 miliardi di euro di fondi europei assegnati all’Italia” ai quali si aggiungevano “13 miliardi di cofinanziamenti nazionali, per un totale appunto di 30 miliardi che possono, anzi debbono, essere spesi entro il dicembre 2015, altrimenti Bruxelles i soldi se li tiene e li dà a qualche Paese più sveglio”. Tant’è che l’ex governo Letta, in un primo momento, aveva persino pensato di dirottare quel tesoretto su lavoro e povertà. Purtroppo, o forse per fortuna, quei soldi che ora, però, si rischia di perdere, sono vincolati per “interventi strutturali” e non possono essere utilizzati per “tamponare la congiuntura economica”. In pratica, i trenta miliardi di cui parlavano i due giornalisti sono ciò che restvaa del totale dei 49,5 miliardi di fondi UE assegnati all’Italia per il settennato 2007/2013. “Entro quest’anno vanno tutti assegnati e poi c’è tempo fino al dicembre 2015 per spenderli”, scrivevano a chiare lettere.
Ma, – notavano ancora gli autori dell’articolo – “i 20 miliardi finora spesi hanno performance diverse”. Il Centro-Nord, infatti, ha speso il 49% delle somme a sua disposizione mentre il Sud il 36%; e peggio della Calabria, riesce a fare solo la Campania che dei fondi a disposizione aveva speso il 30,3%.
E’ in questi numeri che appare evidente l’incapacità delle classi dirigenti del Mezzogiorno. Nell’inchiesta emergeva chiaramente in quali regioni si spendono male i soldi e, la Calbria, non spiccava in positivo, anzi. Per fare solo “qualche esempio”, i giornalisti ricordavano come, “Tra fondi Ue e nazionali abbiamo già dovuto ridimensionare il miliardo disponibile per i cosiddetti «attrattori culturali» (progetti riguardanti arte e cultura) ancora una volta nelle tre regioni maglia nera (Calabria, Sicilia, Campania) con l’aggiunta della Puglia”.
Si trattava, notavano i due, di “Un programma nato malissimo pur avendo potenzialità straordinarie: per tre anni le regioni non sono riuscite a presentare uno straccio di progetto, incapaci di trovare un coordinamento tra loro e col ministero. Al punto che, nel 2010, quando cadde una parte del muro dei gladiatori a Pompei, il commissario europeo alle Politiche regionali Johannes Hahn rimproverò l’Italia di non essere capace di usare i fondi Ue su emergenze simili”.
E anche sul “come” i soldi europei finora sono stati spesi, c’è da notare che i tantissimi “micro progetti” finanziati nei più fantasiosi settori (9.994,70 euro per la «Giostra del castrato» di Longobucco (Cosenza) 2009; 7.600 euro la Festa dell’uva a Catanzaro del 2011; 14.026,50 euro per «Le conversazioni del Venerdì» a Vibo Valentia nel 2010) si scontrano, cozzano decisamente, con quella «concentrazione delle risorse su pochi obiettivi ritenuti prioritari», invocata dal commissario Hahn e che anche il buon senso vorrebbe.
In Calabria avremmo degli obiettivi prioritari straordinari da centrare: in primis, la situazione dei rifiuti, che vede ancora la regione, dopo 15 anni di commissariamento dal ’97 al 2013 e un’emergenza senza fine, priva di impianti idonei a produrre cdr, priva di discariche di servizio per detti impianti perché stracolme e con una raccolta differenziata, salvo poche eccezioni, assolutamente inadeguata. Un altro obbiettivo “prioritario” è sicuramente la bonifica dei tantissimi siti regionali inquinati ma non di interesse nazionale; e tra gli obiettivi prioritari per questa regione sarebbero sicuramente da individuare il risanamento del dissesto idrogeologico e il monitoraggio delle aree a rischio; e potremmo inserire persino un piano di adeguamento strutturale degli edifici pubblici censiti ad alta vulnerabilità sismica già dal 1999 da uno studio di protezione civile rimasto li. E, bastassero i soldi, con quegli 11 miliardi di euro si potrebbe avviare un censimento della vulnerabilità sismica degli edifici privati.
Di obbiettivi prioritari, la Calabria, ne ha sicuramente. E sono obbiettivi, tutti, in grado di innescare lavoro e occupazione. La domanda quindi non è come spenderli né dove trovare i soldi, ma piuttosto un’altra: sarà in grado questa classe politica, destra e sinistra, a fare meglio dei disastri combinati? Perché, come cittadini, dovremmo ancora fidarci proprio di coloro che, finora, quei problemi non solo non li hanno risolti, ma con anni di gestione commissariale, li hanno persino aggravati?

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Alcune “Raccomandazioni….”

di Maria Elisabetta Curtosi

 

Uno spazio particolare è dedicato ai titoli e a quelle enunciazioni in cui la strumentalizzazione dell’immagine femminile quale richiamo. E’ evidente anche l’importanza su altre parti incluse nel testo. E’ interessante soffermarci, però,  nelle “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua” che è indirizzato a chi scrivendo o parlando intende eliminare le deformazioni di una lingua così strutturata e usata. Questo è un testo che sia per la personalità dell’autrice sempre proiettata verso innovazione e libera da condizionamenti che riteneva immotivati, sia per l’epoca in cui uscì –  1985  – portava con sé un preciso intento provocatorio. Anche se le raccomandazioni appaiono molte volte forti perché prive di una loro logica e di una potenziale attuabilità. Ma dal punto di vista del senso comune, che per quanto riguarda la lingua risente di quell’alone di sacralità che troviamo nei dizionari e grammatiche, anche se a tutti p noto che sono proprio questi che attestano la non neutralità della lingua e la perpetuano.

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Cinghiali, editori e la miseria della stampa calabrese

#cinghialieditori
#cinghialieditori

Cinghiali? La Calabria è una regione dove i cinghiali non mancano. Con la vicenda del Senatore Antonio Gentile dimessosi da sottosegretario del governo Renzi a seguito delle polemiche, rimbalzate su tutta la stampa nazionale per le presunte pressioni esercitate sul quotidiano L’Ora della Calabria affinché non uscisse nelle edicole con l’articolo sulle indagini sull’A.S.P. di Cosenza che vede indagato anche il figlio del Senatore, la questione della libertà di stampa calabrese e dell’indipendenza di quest’ultima dai poteri forti, è tornata d’attualità.

Come al solito, però, si guarda il dito per non vedere la luna.

Sicuramente è vergognoso pensare, nel 2014, nell’era di internet e dell’editoria digitale, che i poteri forti calabresi, per mano di uno stampatore, abbiano potuto bloccare la pubblicazione dell’articolo del direttore. “Rotative inceppate”, hanno detto. Ridicolo!

Ma la cosa che più dovrebbe stupire è che, sugli altri quotidiani calabresi, presenti nelle edicole la mattina del 19 febbraio, della vicenda del figlio di Gentile indagato non ce ne fosse traccia.

La miseria dell’editoria calabrese è emersa tutta. Quando si dice che, senza i contributi della politica e dei poteri “forti” calabresi, i giornali non potrebbero uscire nelle edicole, è un fatto verissimo. Enrico Fierro, sul Fatto, parla di editoria e informazione calabrese come di un “sistema infetto”. Mentre il procuratore Pignatone parlò di un “cono d’ombra” informativo. Chiamatelo come volete, ma è semplicemente la miseria della stampa calabrese che, registrando ALM, volevamo segnalare già nel 2006.

I giornali, in Calabria ancor di più che altrove, senza la manna partitocratica non potrebbero stampare perché con le vendite e la sana pubblicità non reggerebbero.

E allora, considerato che di cinghiali che, se feriti, possono colpire ovunque e a testa bassa, eccoti pronti i giornali calabresi formato velina: prodotti editoriali pieni di comunicati di quello e di quell’altro politico, si criticano da soli, ce ne raccontano il raccontabile ma, quando si tratta di fare vere indagini, di svelare segreti ce quando si tratta di dare notizie che possono dar fastidio ai potenti di turno, ecco che l’editoria calabrese si dissolve come neve al sole.

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La #Scienza è conoscenza s’è pubblica e disponibile

a cura di Giuseppe Candido

Conoscere per deliberare è il motto di Luigi Einaudi che però, anche in materia di dati sull’inquinamento ambientale, viene troppo spesso dimenticato.

Secondo Jürgen Renn1, direttore dell’Istituto Marx Plank per la Storia della Scienza di Berlino, viviamo oggi nell’Antropocene, una nuova era geologica nella quale “più del 75% della superficie terreste non ricoperta da ghiaccio è stata trasformata dall’uomo. L’era in cui la natura incontaminata non esiste più”. Nell’ampia prolusione2 tenuta oggi, 3 marzo del 2014, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico all’Università di Bergamo, l’illustre cattedratico ha posto seri interrogativi “ai responsabili del pianeta”.

“Abbiamo creato cambiamenti irreversibili, consumando le risorse naturali, liberando materiale radioattivo, alterando sia la biosfera sia l’atmosfera. Questo significa che il futuro del nostro pianeta sarà in larga parte forgiato dall’azione umana. Come possiamo essere – si chiede Jürgen – all’altezza delle responsabilità che ci siamo presi? Che tipo di conoscenza serve? Come possiamo essere certi che la conoscenza guiderà la nostra risposta alle grandi sfide che ci attendono?”. E ancora: “chi può garantire che la scienza fornirà le risposte ai problemi creati da questi interessi politici ed economici? E anche se otteniamo le risposte, quali strutture saranno richieste per implementarle?”.

Interrogativi «enormi» di cui, lo stesso Jürgen ammette che «nessuno conosce le soluzioni».

«Nelle società moderne, la scienza interagisce con gli sviluppi economici, politici e culturali».

Per Jürgen, «La scienza è stata spesso vista come un’attività che si svolge in una torre d’avorio, dove si esplorano idee astratte che possono anche non riferirsi al mondo reale».

Eppure, sostiene Renn nella sua lezione,

« Isolando la scienza dai suoi contesti sociali, non si comprendono le sue relazioni effettive. La scienza » – aggiunge Jürgen – « è soltanto una forma particolare di conoscenza. La conoscenza è un aspetto fondamentale della cultura umana, ben più ampio della scienza. La conoscenza deriva dalla riflessione sulle nostre azioni precedenti, consentendoci di progettare quelle future. Se vogliamo comprendere il progresso della scienza, dobbiamo studiare l’evoluzione della conoscenza ». Ai responsabili del pianeta e, in generale, della cosa pubblica, Jürgen Renn fa notare che « la conoscenza non ha soltanto una dimensione cognitiva, ma anche sociale e materiale. Può essere comunicata, condivisa e immagazzinata tramite rappresentazioni esterne come congegni, manufatti e testi».

Con la rivoluzione scientifica di Einstein, per Jürgen Renn, «vi è stata una trasformazione che ha riguardato non solo la scienza, ma più in generale le strutture della conoscenza. L’evoluzione della conoscenza è prodotta dalle strutture sociali ».

Emersa dalle prime società complesse assiro-babilonesi, la Scienza,

« per un lungo periodo rimase comunque un’attività marginale. Agli inizi dell’età moderna, tuttavia, l’esplorazione del potenziale intellettuale si indirizzo verso lacune tecnologie della società, come le infrastrutture urbane, l’architettura, la costruzioni di navi e di armi da guerra. Così, la conoscenza scientifica si rivelò ancor più utile nel miglioramento di queste tecnologie. Inoltre, la combinazione della conoscenza pratica con quella scientifica si trasformò in una matrice ampiamente diffusa, favorita dalla tecnologia delle stampa e da nuove istituzioni. (…) Le società implicano un’economia della conoscenza che produce e distribuisce non solo la conoscenza di cui hanno bisogno, ma anche un eccesso di conoscenza che può innescare sviluppi imprevisti. Alcuni di questi effetti diventano poi le condizioni per nuovi sviluppi. Così, la scienza emersa originariamente soltanto come un effetto collaterale, si è trasformata in una condizione essenziale per l’esistenza delle società moderne. Ma questo non deve farci dimenticare l’importanza delle sue connessioni con le economie della conoscenza delle nostre società e con l’evoluzione della conoscenza». Per Jürgen Renn, «è dunque necessario superare la tradizionale frammentazione della conoscenza scientifica, sfruttando il potenziale del Web per renderla pubblicamente disponibile e connetterla in nuove forme. E sarà cruciale esplorare le modalità in cui essa può essere integrata, con altre, che sono forse forme vitali di conoscenza soltanto a livello locale, per esempio, in merito a come impiegare le risorse in modo sostenibile, a come far fronte alle malattie e alla morte, a come mantenere la pace o, semplicemente, a come condurre una “vita felice” »

La conoscenza dei dati ambientali, la conoscenza dei luoghi a rischio dissesto e della vulnerabilità del patrimonio edilizio, sarebbero fondamentali.

Per capire, invece, quanto poca importanza sia data, oggi, da parte di una regione inquinata come Calabria, devastata dall’emergenza ambientale e dalle mancate bonifiche, alla conoscenza dei dati ambientali e dell’uso delle risorse naturali che pure dovrebbero essere pubblici, è stato sufficiente andare a cercare sul sito ufficiale del Consiglio regionale (www.consiglioregionale.calabria.it) nella sezione dedicata all’amministrazione trasparente. Ci siamo resi tristemente conto che, a fine febbraio 2014, non si trova nulla. Neanche quelle informazioni ambientali la cui trasparenza oltreché dalla convenzione di Aarhus, dovrebbe essere garantita dalla semplice applicazione dell’articolo 40 del D.Lgs. n. 33 del 2013.

Nell’ambito delle informazioni ambientali, sul sito della regione Calabria, sia che si cerchino i dati sullo stato dell’ambiente, sia che si voglia sapere quali siano i fattori di rischio o le misure incidenti sull’ambiente con le relative analisi di impatto, sia che si voglia conoscere le misure adottate a protezione dell’ambiente, sia che si cerchi la relazione sull’attuazione della legislazione o, soprattutto, quella sullo stato di salute e della sicurezza umana, la risposta che, in automatico, costantemente si genera, è sempre la stessa: “Sezione in aggiornamento”. Di dati ambientali, nelle pagine dell’amministrazione trasparente, non ce ne sono.

1  Jürgen Renn è direttore dell’Istituto Marx Plank per la Storia della Scienza di Berlino, docente di Storia della Scienza all’Università Humboldt e Visting, e docente presso la Boston University. Tra i più conosciuti e apprezzati studiosi del pensiero e dell’opera di Albert Einstein, ha scritto e curato numerosi lavori tra cui, in italiano, il libro Sulle spalle di giganti e nani: la rivoluzione incompitua di Albert Einstein, (Bollati Boringhieri, Torino, pp.360)

2  Il testo della prolusione citato è stato anticipato, in sintesi, nella rubrica Scienza e Filosofia, su Il Domenicale, inserto de Il Sole 24 Ore, Domenica 2 Marzo 2014, n°60

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