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L’ipocrisia in Italia

di Maria Elisabetta Curtosi

Riporto di seguito una delle tante lettere che scrisse Indro Monntanelli lettera al suo amico e collega Edmund Stevens (1953):

L’ipocrisia in Italia è dettata dal senso dell’«opportuno». È spicciola, pratica e utilitaria. Quando un italiano vuol cambiare partito, non fa un esame di coscienza; si limita a un calcolo di convenienza. Una cinquantina d’anni fa, a Capri, una ricca famiglia inglese si mise in testa di convertire gli abitanti al protestantesimo. E in un certo senso ci riuscì perché tutti i neofiti avevano diritto a mangiare gratis. Ma a un certo punto scoperse che ogni domenica andavano a confessarsi da un prete cattolico che aveva dato loro il permesso. Frattanto i missionari erano caduti completamente in miseria, perché i loro seguaci di fede ne avevano poca, ma di appetito molto. E allora furono gl’«ipocriti» che mantennero loro senza punto domandargli in cambio la conversione al cattolicismo.

No, una vera e propria ipocrisia in Italia non c’è; ma non c’è per la ragione molto semplice, e poco nobile, che gl’italiani non hanno un Ideale. Essi accettano sé stessi. Non si sforzano di essere diversi e migliori di ciò che sono. In America l’ipocrisia nasce da questo tentativo. La donna americana che, prima di fare l’amore con un uomo che non è suo marito, beve, un po’ per stimolare con l’alcol i suoi desideri, ma soprattutto per poter credere l’indomani di aver agito senza il controllo della coscienza, certo è un’ipocrita; ma lo è perché ha nell’animo un’idea di onestà e di pulizia da preservare contro le proprie debolezze. Ricordo la mia indignata sorpresa quando, all’indomani della mia prima esperienza erotica americana, mi vidi trattato con estrema freddezza dalla mia compagna che si rifiutò di parlarne. Ero furioso. Da buon italiano, mi sembrava offensivo e ignobile che una donna avesse dimenticato o provasse disgusto per una notte d’amore con me. E non riuscii a perdonarglielo.

(1) Indro Montanelli, (Fucecchio 1909 – Milano 2001) giornalista. Laureato in Legge e Scienze politiche, inviato speciale del “Corriere della Sera”, fondatore del “Giornale nuovo” nel 1974 e della “Voce” nel 1994, è tornato nel 1995 al “Corriere” come editorialista. Ha scritto migliaia di articoli e oltre cinquanta libri fra i quali ricordiamo: XX Battaglione eritreo, I cento giorni della Finlandia, Qui non riposano,Le stanze, L’Italia del Novecento (con Mario Cervi), La stecca del coro, L’Italia del Millennio (con Mario Cervi), Le nuove stanze.

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Stefano Cucchi: “ingiustizia” è fatta. Colpevoli solo i medici, pena sospesa

tortura3Condannati solo i medici per omicidio colposo. Assolti i tre infermieri e i tre agenti della polizia penitenziaria. Stefano era stato arrestato per droga il 15 ottobre del 2009 e, dopo una settimana, era morto nelle mani dello Stato, presso il presidio ospedaliero protetto (sic!) Sandro Pertini, che lo aveva preso in consegna dopo essere stato in carcere a Regina Coeli. Per questo fa discutere la sentenza della III Corte d’Assise di Roma di ieri che sembra aver sposato la maxi-perizia del dicembre scorso per la quale Stefano sarebbe morto per l’“inanizione” colposa dei medici. Tra il pubblico, spiega la redazione de il fatto quotidiano, al momento della sentenza c’è chi grida “Vergogna”, “assassini” indirizzati al banco degli imputati.

Stefano Cucchi
Stefano Cucchi – Foto: crmmedia.com

Ma chi l’aveva ridotto così la sentenza non lo spiega! Ilaria Cucchi parla di una non sentenza che, appunto, non spiega come Stefano possa essere entrato sano ed essere uscito morto. In aula la sorella di Stefano, Ilaria in lacrime parla di “Giustizia ingiusta”. Dopo 4 anni la sentenza di primo grado non piace alla famiglia e neanche al pm che si dichiara “insoddisfatto” dalla sentenza. Nel 2009, Giovanni Cucchi e la famiglia chiedevano spiegazioni: “Vogliamo sapere perché – alla richiesta precisa di Stefano – non è stato chiamato, dai militari la sera dell’arresto, il suo avvocato di fiducia, vogliamo sapere dalle forze dell’ordine come è stato possibile che abbia subito le lesioni … “. A quella richiesta del padre di Stefano esplicitata durante la conferenza stampa del 29 ottobre del 2009 si era associata anche la nostra redazione. Molte domande rimangono senza spiegazioni. Soprattutto una: come si fa ad essere ad essere presi in consegna dallo Stato e morire ridotti così? A questo link l’inchiesta amministrativa del DAP che l’allora On.le Rita Bernardini (Radicali Italiani eletta col PD) aveva reso pubblica.

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Emergenza rifiuti in Calabria: la rete in difesa del territorio chiede che “si dimettano Pugliano e Scopelliti”

di Giuseppe Candido

La Calabria non è una pattumiera! Domani, 6 Giugno una giornata di confronto tra comitati, associazioni e movimenti in difesa del territorio, per chiedere le dimissioni dell’assessore regionale all’ambiente e del presidente Scopelliti.

Difendiamo la Calabria è una rete di comitati e associazioni ecologiste che si batte per la difesa del territorio. Legge rifiuti zero, acqua bene comune e presidi sul territorio per verificare la legalità dello stoccaggio dei rifiuti nella nostra regione sono le battaglie che “Rete difesa del territorio” porta avanti ormai dal 2009. Cittadine e cittadini, ma anche associazioni di volontariato, culturali ed ecologiste che, insieme, sostengono questo “movimento” d’idee e di persone.

L’appuntamento è per domani, 6 giugno 2013, all’Università della Calabria, al “cubo” numero 18 dove c’è il ponte coperto del parcheggio di linguistica. Alle ore 17.30 inizierà il dibattito sulla legge rifiuti zero che, anche noi di Abolire la miseria della Calabria sosteniamo e, a seguire, per una legge sul ritorno alla pubblicizzazione dei servizi essenziali e sull’importanza delle bonifiche dei siti inquinati calabresi. Si parlerà del caso della “Legnochimica” e, sul ciclo dei rifiuti, la testimonianza di Scala Coeli e le specifiche delle condizioni calabresi dopo sedici anni, ormai quasi diciassette, di commissariamento dell’emergenza.

Chi per lavoro o per altri impegni non potrà essere fisicamente presente potrà lo stesso seguire il dibattito-confronto e gli interventi programmati perché il tutto sarà trasmesso in diretta su “FuoriOndaRadio”.

Alle 22.00, al termine del dibattito una serata di “musica collettiva” a sostegno della “causa ambientale” con un palco aperto “a chiunque voglia suonare, cantare, ballare o semplicemente far rumore”. La Calabria non è una pattumiera è lo slogan dell’appello diffuso su internet per convocare la manifestazione: “Le strade ancora cariche di immondizia” scrivono gli organizzatori – “esemplificano in maniera evidente che la fallimentare gestione del ciclo dei rifiuti continua anche dopo la fine del commissariamento. Infatti, dopo 16 anni di emergenza e circa 2 miliardi spesi, il ritorno alla competenza regionale non ha apportato nessun miglioramento. Finora infatti la raccolta differenziata è stata ostacolata proprio dall’ufficio del commissariamento all’emergenza ambientale che, agendo in deroga alle leggi ordinarie, ha di fatto incentivato un modello di gestione dei rifiuti basato su inceneritori e sull’apertura di nuove mega-discariche. La salute dei cittadini è stata subordinata al profitto di quei privati che hanno fatto del nostro territorio una fonte di speculazione. Impianti inquinanti e discariche abusive o non bonificate tuttora in uso sono solo una parte della devastazione ambientale della nostra regione. Infatti, la Calabria è ricca di siti inquinati che da tempo richiedono una messa in sicurezza. Per diversi siti, inoltre, risultano nemmeno essere censite le certificazioni necessarie per valutare il danno ed avviare le adeguate bonifiche. Questa è la riprova della linea politica della regione rispetto la tutela della salute e della questione ambientale del nostro territorio. In questa direzione va anche la bozza di piano regionale sui rifiuti e soprattutto il nuovo decreto del presidente Scopelliti che, oltre a riproporre la costruzione di nuove discariche e impianti, dispone il pericoloso sversamento del rifiuto tal quale in discarica. I modelli virtuosi quali la riduzione del rifiuto attraverso il riciclo e il riutilizzo per mezzo la raccolta porta a porta spinta non sono affatto presi in considerazione. La salute, l’ambiente non sono tematiche di cui possiamo disinteressarci. La partecipazione attiva di comitati e cittadini è la più efficace forma di contro e difesa dei nostri territori. Per questo, chiamiamo tutti i cittadini, le associazioni e i movimenti a incontrarsi insieme per confrontarsi sul futuro del nostro territorio.”

Il testo, per la Rete in Difesa del Territorio “F. Nistico”, è firmato dalle associazioni “Ingegneria Senza Frontiere” di Cosenza, “Laboratorio Politico P2 Occupata”, “Ateneo Controverso”, “Pensierolibero Unical”, “Associazione Crocevia”, dal Comitato Ro.Mo.Re. e dal “comitato No Megadiscarica Castrolibero” .

Cosa chiedono?

Legge sui rifiuti per la Calabria sul modello di quella di iniziativa popolare “Rifiuti Zero, perché – si legge – “Manca una legge quadro che tratti la gestione del ciclo dei rifiuti. A questo proposito, traendo spunto dal progetto Rifiuti zero entro il 2020, proponiamo questo progetto di legge che possa produrre un modello virtuoso, attraverso il riciclo, il riutilizzo e l’abbattimento della produzione di materiali non riciclabili e inquinanti”.

Una legge sull’acqua pubblica perché “l’esito dei referendum ci ha spinti a immaginare una proposta di legge dal basso che ri-pubblicizzi la gestione dei servizi idrici e la bonifica delle falde acquifere e dei bacini”.

La ri_pubblicizzazione di tutti i servizi essenziali e la bonifica dei siti inquinati perché, si legge testualmente, “la Calabria è ricca di siti inquinati che da tempo richiedono una messa in sicurezza. Occorre provvedere ad una certificazione di tutti i siti da bonificare e procedere subito ad una messa in sicurezza e avviare immediatamente le adeguate bonifiche”.

Si dimettano Scopelliti e Pugliano. Secondo gli organizzatori, che denunciano le responsabilità della politica regionale sui temi che riguardano direttamente l’ambiente, la Giunta guidata da Giuseppe Scopelliti avrebbe “dimostrato di tutelare ben altri interessi piuttosto che quelli riguardanti la salute pubblica e la difesa dell’ambiente. Per questo, è imprescindibile partire dalle dimissioni di chi in questi ultimi anni si è reso colpevole di questa cattiva gestione, per costruire dal basso un modello basato sul controllo e la partecipazione dei cittadini.

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Abolito il finanziamento dei partiti? Macché, giocano come sempre con la volontà popolare da trent’anni!

Che il finanziamento pubblico ai partiti non sia affatto morto come invece sostiene il governo di Enrico Letta Sergio Rizzo lo scrive oggi a chiare lettere sul Corriere della Sera! “Gli errori di una scelta insufficiente” è il titolo che però non rende bene l’idea! Sono trentacinque anni, dal primo referendum per la sua abolizione, che i partiti si sottraggono alla volontà degli elettori. Le vie del finanziamento pubblico dei partiti sono infatti infinite e più volte abolito è sempre rientrato dalla finestra sotto forma di 4 per mille e di rimborsi elettorali. Sgravi fiscali, rimborsi truffa non legati alle spese effettivamente sostenute, esenzione dell’Imu per le sedi dei partiti, contributi ai gruppi nei Consigli Regionali. Ma andiamo con ordine. L’articolo 75 della Costituzione afferma che l’esito referendario è vincolante: purtroppo come per il finanziamento pubblico dei partiti, per molti referendum la partitocrazia non ne considerò affatto vincolante l’esito: responsabilità civile dei magistrati, nucleare. La lista dei tradimenti della volontà popolare ad opera del partito unico della spesa è lungo. Il finanziamento pubblico dei partiti fu introdotto nel nostro Paese dalla legge Piccoli nel 1974. La legge era giustificata dagli scandali Trabucchi del 1965 e petroli del 1973; il Parlamento intendeva rassicurare l’opinione pubblica che, attraverso il sostentamento diretto dello Stato, i partiti non avrebbero avuto più bisogno di collusione e corruzione da parte dei grandi interessi economici. Già da subito tale previsione fu smentita dagli scandali che a breve seguirono: Lockheed e Sindona. Tant’è che già nel settembre del ’74 il Partito Liberale Italiano tenta di raccogliere le firme senza riuscirvi. Nel 1978, i Radicali riescono a raccogliere le firme necessarie e, 11 giugno del 1978 si tenne il primo referendum per tentare di abolirlo: Nonostante l’invito a votare “no” da parte dei partiti che rappresentano il 97% dell’elettorato, il “si” raggiunge il 43,6%. Per i Radicali, lo Stato avrebbe dovuto favorire tutti i cittadini, non solo quelli già rappresentati in parlamento, attraverso i servizi, le sedi, le tipografie, la carta a basso costo e quanto necessario per fare politica, non garantire strutture e apparati che, per i promotori, dovevano essere autofinanziati dagli iscritti e dai simpatizzanti. Ma siccome all’ingordigia non c’è fine, nel 1981 con la legge 659, i finanziamenti pubblici vengono raddoppiati; partiti ed eletti (ma anche candidati o aventi cariche di partito) hanno il divieto di ricevere finanziamenti dalla pubblica amministrazione, da enti pubblici o a partecipazione pubblica. Viene introdotta una nuova forma di pubblicità dei bilanci che prevedeva che i partiti dovessero depositare un rendiconto finanziario annuale su entrate e uscite anche se nessun controllo effettivo viene previsto. Poi gli scandali di tangentopoli e, nell’aprile del 93, il referendum  abrogativo promosso dai Radicali Italiani raggiunge il quorum col 53% e vede il 90,3% dei votanti a favore dell’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti. Ma la partitocrazia, quella partitocrazia che Pannella chiama anche “partito unico della spesa” che in sessant’anni ha prodotto 20.000 miliardi di euro di debito pubblico, è subito pronta, anche questa volta, a tradire la volontà dei cittadini (costituzionalmente vincolante). Appena otto mesi dopo, con la legge n. 515 del 10 dicembre 1993, il Parlamento, in modo truffaldino, aggiorna la già esistente legge sui rimborsi elettorali! Subito applicata con le elezioni del marzo del 1994: 47 milioni di euro per l’intera legislatura vengono divorati dai partiti proprio nei cinque anni successivi il referendum che avrebbe dovuto essere vincolante a fronte di spese documentate poco superiori a 36 milioni di euro. Un furto di oltre 10 milioni dalle tasche dei cittadini (sic!). Ma al peggio non c’è fine.

Neanche trascorsi quattro anni dal referendum che li aveva aboliti, non sazio dei rimborsi, il Parlamento approva la curiosa legge 2/1997, candidamente intitolata “Norme per la regolamentazione della contribuzione volontaria ai movimenti o partiti politici”, reintroducendo, di fatto, anche il finanziamento a pioggia pubblico ai partiti. Il provvedimento prevede la possibilità per i contribuenti, al momento della dichiarazione dei redditi, di destinare il 4 per mille dell’imposta sul reddito al finanziamento di partiti e movimenti politici (pur senza poter indicare a quale partito), per un totale massimo di 56.810.000 euro, da erogarsi ai partiti entro il 31 gennaio di ogni anno. Per il solo anno 1997 viene introdotta una norma transitoria che fissa un fondo di 82.633.000 euro per l’anno in corso (nonostante le adesioni fossero minime). I Radicali percepiscono quei fondi per toglierli agli altri partiti e li restituiscono ai cittadini legittimi proprietari durante apposite manifestazioni.

Nel 1999, dietro il titolo “Norme in materia di rimborso delle spese per le consultazioni elettorali e referendarie” si nasconde l’altro furto. Il rimborso elettorale previsto non ha infatti attinenza diretta con le spese effettivamente sostenute per le campagne elettorali. La legge 157/99 prevede cinque fondi: per elezioni alla Camera, al Senato, al Parlamento Europeo, Regionali, e per i referendum, erogati in rate annuali, per 193.713.000 euro in caso di legislatura politica completa.

Tre anni dopo, la normativa viene ulteriormente modificata dalla Legge 156/2002, recante “Disposizioni in materia di rimborsi elettorali”: il fondo diviene annuale (ma mantiene la stessa entità) e viene abbassato dal 4% all’1% il quorum per ottenere il rimborso elettorale. Partiti che non siedono sugli scranni del Parlamento ma che percepiscono ugualmente i rimborsi. L’ammontare del finanziamento, per Camera e Senato, nel caso di legislatura completa sale da 193.713.000 euro a 468.853.675 euro.

Dulcis in fundo, con la Legge 5122/2006, l’erogazione dei rimborsi è dovuta per tutti e cinque gli anni di legislatura, indipendentemente dalla durata effettiva. Nel 2008 si vota di nuovo e molti partiti si ritrovano in tasca molti rimborsi mentre partiti ormai non più esistenti continuano a percepire i soldi della legislatura precedente (anche la Margherita assieme all’Udeur di Mastella, e fino al 2011, ha continuato  percepire i rimborsi elettorali per la tornata del 2006). L’aumento prodotto è esponenziale. Le tasche dei cittadini si impoveriscono ma non quelle dei partiti e dei loro eletti.

L’entità del furto ai cittadini.

La differenza tra spese sostenute e rimborsi erogati cresce di elezioni in elezioni: 22.649.220 di euro per le regionali del ’95 che diventano 27.105.163 di euro per le politiche del ’96.

Nel 1999 alle europee si arriva quasi a 47 milioni di euro di differenza tra spese documentate e rimborsi incassati dai partiti. Cifra astronomica che però, nel 2000, in occasione delle regionali cresce ancora a 57 milioni e 200 mila euro.

Ma è per le politiche del 2001 che avviene il salto di qualità: i partiti arrivano ad incassare, a fronte di neanche 50 milioni di euro di spese, la cifra astronomica di 476 milioni e mezzo di euro con una differenza di quasi 427 milioni di euro.

Nel 2004, per le europee, la differenza tra spese e contributi incassati è di quasi 160 milioni di euro, 147 milioni di euro di differenza tra spese e contributi per le regionali del 2005. Per le politiche del 2006 la differenza tra spese sostenute dai partiti e i contributi erogati è di 376.771.092 euro e di quasi 393 milioni di euro per le politiche del 2008. Dal 1994, da dopo che era stato abolito il finanziamento pubblico, la casta ha continuato a dissanguare le casse dello Stato per un totale oltre 1,6 miliardi di euro.

Gli unici a rimborsarsi meno soldi delle spese effettivamente documentate e sostenute, come adeguatamente documentano Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo ne “La Casta”, sono sempre e solo i Radicali con la Lista Marco Pannella.

Si sperava che col finanziamento pubblico i partiti evitassero di essere corrotti o poter essere tentati da collusioni. Oggi, dopo gli scandali di Lusi, Belsito e dei vari Batman Fiorito sparsi nei consigli regionali di tutta Italia che hanno attraversato trasversalmente quasi tutti i partiti, sappiamo che è andata esattamente all’opposto. La corruzione e la collusione della e nella politica e delle classi dirigenti di questo Paese, a tutti i livelli, si è ingigantita. E’ aumentata a dismisura. Gli apparati burocratici dei partiti sono cresciuti proprio perché alimentati da un valanga di denaro.

Il dubbio che non ci sia da fidarsi anche in questo caso è legittimo: il Governo Letta è il governo delle “larghe intese” proprio tra chi, fino ad ora, le intese le ha trovate per i loro comodi e per disattendere la volontà popolare.

I Radicali non mollano e ci riprovano con un nuovo referendum con un testo che interviene sulla legge n. 96 del luglio 2012 che ha creato un fondo unico per finanziamento pubblico e rimborso spese elettorali (70% del totale) e un altro per il cofinanziamento dello Stato in aggiunta alle donazione private (30%). Io li sostengo.

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Avvenimenti nel 1848.

di Maria Elisabetta Curtosi

Qualcuno ha affermato che il 3 luglio 1848 può essere considerato uno dei giorni più importanti per la nascita del giornalismo moderno: nacque, infatti, “Die Presse” fondata da August Zang a Vienna che aveva portato in prima pagina la pubblicità e al piede sempre in prima pagina veniva pubblicato un feuilleton così come viene usato ancora dai nostri quotidiani. Quindi oltre alle dichiarazioni di libertà e al dibattito sulle nuove idee socialiste ed umanitarie ciò che interessava era il tentativo di rendere più leggibile e discorsivo il giornale. Molte furono le difficoltà incontrate nel diffondere le discussioni che che fermentavano nei circoli più intelelttuali del tempo.

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5 Referendum contro il sopruso cementato dal silenzio

di Giuseppe Candido

In questi giorni se n’è parlato a seguito delle dichiarazioni di Berlusconi al comizio di Brescia. Ma anche oggi, proprio come trent’anni fa nel momento del suo arresto, il “caso Tortora” dovrebbe essere, soprattutto, “simbolo e bandiera di un riscatto che non può più tardare”. Domani, martedì 28 maggio 2013, a venticinque anni dalla morte e trenta dall’arresto di Enzo Tortora, una delegazione del “Comitato promotore dei referendum” presieduto da Marco Pannella con il coinvolgimento formale anche della “Lista Pannella”, depositerà presso la Corte di Cassazione altri cinque quesiti referendari “per la giustizia giusta”: Responsabilità civile dei magistrati, separazione delle carriere, custodia cautelare, incarichi extragiudiziali, progressione delle carriere. (altri 5 sono stati presentati nei giorni scorsi su legalizzazione droghe, immigrazione clandestina, 8×1000, finanziamento partiti e divorzio breve)

Come scrisse lo stesso presentatore nell’articolo del 14 marzo del 1984 titolato “Occorreva un Tortora”, anche oggi, quotidianamente, “sentiamo ogni giorno testimonianze agghiaccianti sui soprusi, le infamie, le illegalità che quotidianamente vengono compiute”. E anche oggi, come venticinque anni fa per colpa di una politica impegnata in tutt’altre riforme ad personam, “l’Italia è tutto un’immenso “Muro Lucano”, che”, scriveva Tortora, “eleggerei davvero a capitale di questa Repubblica fondata non più sul lavoro, ma sul sopruso, cementato nel silenzio”. Anche oggi il silenzio dei media che avvolge i nuclei di Shoah attivi presenti nelle carceri del nostro Paese è davvero assordante! Tortora aveva compreso, in quei giorni che da detenuto era candidato al Parlamento europeo, “come persino la verità, quando si tinge di parola “radicale”, diventi sospetta, non più vera, o meno di prima, e oggetto di attacchi velenosi, irresponsabili, abbietti”. Quant’attualità in quelle parole. “Sto attraversando l’intera programmazione di un’Italia incredibile e invivibile, che mai come in questo momento, proprio perché l’ho vista, e la vedo vivere, sento il bisogno, sento l’urgenza di contribuire a cambiare. Cambiare nel profondo, cambiare nelle sue strutture marcite e putrescenti: cambiarla non “contro”, ma per amore della democrazia”. E si domandava se, proprio a questa nostra Repubblica, “occorreva un uomo chiamato Tortora, esibito in catene come un trofeo di caccia, in un osceno carosello televisivo, per destare il Ministro Martinazzoli da un sonno lungo quanto quello di Aligi”. La Giustizia italiana e la sua appendice rappresentata da carceri sovraffollate in maniera inumana e degradante continuano a mostrasi vicende sempre più Kafkiane e dimenticate: “A fare il punto sul problema della giustizia in Italia, mi pare che il caso Tortora si configuri come esemplare”. Scriveva così Leonardo Sciascia aggiungendo, tanto per esser chiari, che usava “il caso Tortora” soltanto per “abbreviazione”. “Potrei anche dire: il caso di numerosi arrestati, insieme a Tortora perché omonimi, di persone indicate dai “pentiti” come camorristi – che mi pare caso, qualitativamente e quantitativamente, anche più grave. Voglio dire che non è soltanto quello della carcerazione preventiva il nodo che viene al pettine, ma anche quello dell’affidabilità conferita ai partiti e del mandato di cattura facile, dello strapotere della magistratura inquirente, del suo essere al riparo da responsabilità”. Ancora oggi ci sono ingiustizie che potrebbero essere vedute da chi queste le commette e anche oggi, come allora sosteneva lo scrittore di Racalmuto, “Un argine bisogna metterlo, un rimedio bisogna trovarlo: a fronte della giungla giudiziaria”. Anche oggi, come allora, il “1984 di Orwell può”, in questo nostro Stato che sembra aver smesso di essere Stato di Diritto, “assumere specie giudiziaria”. Ce ne sono non soltanto “i presentimenti” e “gli avvisi”: oggi ci sono anche le condanne europee della Corte dei Diritti dell’Uomo che mettono l’Italia in condizioni di essere tecnicamente criminale contro i suoi stessi cittadini. E, se non si pone rimedio, “questo Paese sarà veramente finito”. “Il caso Tortora” per Sciascia era allora “l’ennesima occasione per ribadire la gravità della situazione” in cui versava l’amministrazione della giustizia in Italia. “Il tutto”, scriveva Sciascia, “porta a riflettere sui giudici e sui loro errori: bisognerebbe far fare ad ogni magistrato, appena vinto il concorso, almeno tre giorni di carcere o, meno utopisticamente, “caricarli di responsabilità” (civile) senza togliergli l’indipendenza”. Se la politica non cambia, allora cambiamo noi. Ecco perché servono quei 5 referendum per una Giustizia Giusta: ancora oggi “c’è la manetta facile in un paese dove tutto è diventato facile, tranne l’onestà, tranne il carattere”.

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UN GIORNO, DUE RICORDI PER NON DIMENTICARE: DON GALLO E PADRE PUGLISI.

di Maria Elisabetta Curtosi
Genova e Palermo due città di mare, apparentemente molto distinte e lontane geograficamente e culturamente parlando, in un solo giorno, sabato scorso per la precisione, si sono quanto mai avvicinate.
Il comune denominatore è stato un ricordo, o meglio due.
Don Gallo e padre Puglisi. Uno amatissimo e conosciuto dai giovani, soprattutto, l’altro dai bambini.
Il primo beatificato e acclamato dal popolo, l’altro beatificato dalla Chiesa.
Coincidenze, a volte, che rievocano il profumo della storia, laica e religiosa. Il fiume del ricordo porta via tante cose, tocca argini impetuosi, bollenti, mafia e droga con cui hanno combattuto molto i nostri due protagonisti dei diritti dei più deboli e non.
Dello scorso sabato a Genova si ricorderanno soprattutto i fischi della folla che si è riunita fuori la chiesa, almeno diecimila persone hanno partecipato al corteo funebre di don Andrea Gallo che dalla comunità di san Benedetto al Porto si è snodato fino alla chiesa del Carmine. I fischi della contestazione che come un lava bollente si è riversata contro la gerarchia e la dottrina cattolica, rappresentata sull’altare dal cardinale Bagnasco, che rischiando molto, ha pronunciato parole che sembrano diffondersi come scintille in una stanza piena di gas.
Ecco le anime di Don Gallo che lui sapeva far convivere, pur senza compromessi. Non un eretico, come da qualcuno è stato descritto, ma l’opposto, un cristiano allo stato puro, il padre degli ultimi e dimenticati dalla chiesa cosiddetta ufficiale.
Fanno male a pensare che ora in fondo se ne è andato un rompiscatole un “agitatore di poveri cristi” perché senza più quella mano d’aiuto che serviva ad arginare il fiume in piena del non-lavoro e della povertà, il fiume può straripare da un momento all’ altro, portando con sè tutto ciò che incontra.
Importante è, allora, che ci siano ancora persone come il “nostro Don” che stanno << non dalla parte di chi fa la storia, ma di chi la subisce>> (don Ciotti).
Di sicuro è difficile trovare esempi negli uomini di partito che sabato scorso nella chiesa del Carmine latitavano, salve rare eccezione che confermano la regola.
Ecco cosa serve, veramente, ad un paese in cui convivano santi laici che si sbattono in silenzio per i loro simili.
“L’Italia dei don Gallo e dei padri Puglisi che, porca miseria, devono morire per essere celebrati.”

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Eutanasia legale: raccolta a Catanzaro con Sel e Socialisti ecologisti

Ieri pomeriggio, nonostante il vento e la pioggia che un po’ c’hanno limitato nel numero, non solo abbiamo raccolto le firme per tb ed eutanasia legale ma abbiamo avuto anche l’adesione di Antonio Giglio e Roberto Guerrero, rispettivamente capogruppo in Consiglio Comunale di Sel e dei Socialisti ecologisti per la raccolta firme per i 5 referendum (divorzio breve, 8×1000, droghe, immigrazione clandestina e finanziamento pubblico partiti). Dal prossimo 8 giugno quindi partirà anche a Catanzaro, come in tutta Italia, la raccolta delle 500.000 firme necessarie per ciascun quesito referendario!

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Saviano, Pannella e “l’uomo che presero al laccio come un animale”

Enzo Tortora

Roberto Saviano lo fa apposta nello scordare i RadicaliTortora, il partito antiproibizionista che non c’è. Li dimentica deliberatamente perché non si può neanche lontanamente pensare che lo scrittore non conosca i fatti. La settimana passata, nel parlare del “partito antiproibizionista che vorrebbe poter votare” aveva affermato che, purtroppo, quel partito in Italia non c’è dimenticando Pannella, Bonino e le loro disobbedienze civili.

Questa settimana lo rifà imperterrito: per sconsigliare a Berlusconi di accostarcisi parla di Enzo Tortora ricordando che, proprio come sostenuto dalla figlia del conduttore televisivo, quella sì che fu “un’altra storia”. Certo, un’altra storia che però, anche questa come il partito che Saviano voterebbe, s’incrocia e s’intreccia strettamente con quella del Partito Radicale. Secondo Roberto, ossimoro antitaliano di se stesso, “ci sono aspetti del nostro Paese che continuano a sfuggirci” e candidamente aggiunge di temere che, se ciò accade “la responsabilità” è anche di chi “ha smesso di scrivere la complessità”. “Una di quelle storie che tutti credono di conoscere ma che pochissimi hanno raccontato”. Vero, verissimo. Ma adesso pare che anche la semplicità venga cancellata dallo scrittore: i Radicali furono gli unici che offrirono a Enzo Tortora una bandiera per poter lottare per una Giustizia giusta. Saviano ricorda la storia, le tappe della vicenda, cita il referendum di striscio ma dimentica di dire che Enzo Tortora, l’uomo “che presero al laccio come un animale”, proprio per difendersi nel processo e non dal processo si dimise da eurodeputato quale era stato eletto con il Partito Radicale.

Ma la storia, per capirla veramente, è necessari rileggerla dagli stessi che la scrissero. La storia vera di Enzo Tortora, se la si vuole conoscere e ricordare davvero è sufficiente riprendere i suoi scritti e i suoi dialoghi tutti rigorosamente archiviati dal sito di Radio Radicale, l’università popolare italiana, e su quello di Radicali.it.

Come avvenne la candidatura di Enzo Tortora?

“La telefonata di Marco Pannella” – scriveva Enzo Tortora – “mi arrivò in una sera, anzi in una notte di grande, profondissima disperazione. Da un anno vivo un tormento insopportabile. Una pena che è comune a molti, una tragedia civile che avrei ritenuto impossibile. Addirittura impensabile in un Paese che si ostina, chissà perché, a ritenersi ancora fondato sul diritto. L’uomo che presero al laccio, come un animale, il 17 giugno del 1983 spezzandogli barbaramente la vita, la salute, il lavoro, l’onore, era un uomo molto diverso da quello che oggi scrive queste parole. Ho attraversato tutto il pianeta dell’infamia legale. Ho visto e sentito sulla carne cose che avrei ritenuto assurde e indegne dell’occidente. Forse è bene che sia accaduto questo. Forse è bene, e non per me ma per gli altri, che l’osceno sipario si sia alzato su un fondale ancora più ributtante. Perché quella che ho vissuto e che vive è certo l’Italia vera, autentica. Crudelmente e crudamente reale. Così lontana dall’oleografia ufficiale. Dai paroloni e dai compiaciuti gargarismi di una classe politica che si nutre e ci nutre di chiacchiere, di vuoti propositi, mai completati in un’azione concreta. Lo ripeto, sono il testimone martoriato, e non il solo, di un’Italia medioevale e selvaggia. Giunta ormai a livelli di degrado giuridico e civile da ispirare orrore. La telefonata di Marco Pannella giunse inattesa e inaspettata a un uomo che non aspettava più niente. A un uomo che a gennaio aveva già detto di no una volta perché credeva che qualcosa sarebbe successo. Credeva che una buona volta, una forza politica, avrebbe detto no a questa infamia. Mi fidavo ancora ingenuamente e solidamente di ciò che mi avevano insegnato a scuola: l’Italia è democratica, l’Italia è Europa, l’Italia non pratica più la tortura, non ha la pena di morte, rispetta i diritti inviolabili. Parola che muove al riso: io sono ormai in grado di leggere la Costituzione come un’amara utopia. Ora so che l’Italia, invece, è totalmente immersa per volontà di alcuni uomini e per l’ignavia di un’intera classe politica immersa nella cultura dell’indifferenza e del disprezzo. Fu a questo punto che giunse da Trieste la telefonata di Marco. Non consolava, offriva. Non faceva voti, non emetteva sospiri ipocriti, non inviava inutili telegrammi di solidarietà. Non prometteva tavole rotonde sulle radici quadrate; non auspicava, non indiceva convegni e non prometteva soavi commissioni d’inchiesta. No, Pannella mi offriva un’arma altissima e una bandiera. Usale, mi diceva. “Usale per gli altri, per tutti”. Era ciò che pensavo. Il mio tormento e il mio dolore, la mia rabbia e la mia pena non debbono, non possono non “servire”. Servire agli altri, servire al Paese, servire a quest’Italia beffata, illusa, raggirata, irriconoscibile e ferita. Queste sono parole scritte da Enzo Tortora nel marzo del 1984 in articolo titolato “Quando la Costituzione è un’utopia”. Vecchie di trent’anni ma, nel rileggerle oggi, ognuno di noi sente quanto attuali siano queste parole. Da quel 1984 poco è cambiato. Chi conosce la realtà delle carceri italiane e della giustizia lo sa bene. Anzi, forse qualcosa è anche peggiorata. Perché quando si tradisce un referendum come quello sulla responsabilità civile dei magistrati, non si rimane allo stesso livello. Si torna indietro, si peggiora. La drammatica condizione delle carceri italiane è figlia anche di quella violenza con cui si tradì un voto popolare. “È ripugnante vedere la parola politica” – scriveva Enzo Tortora – “e politica in senso furbastro, da maneggioni o portaborse del potere, inserirsi adesso nel giudizio su quella mia scelta che qualcuno continua a considerare scandalosa. Sono, lo premetto, solo punture di pidocchi dopo le coltellate vere, profonde, che la cosiddetta Giustizia mi ha sferrato. Ma qui i pidocchi contano. Vorrei dire che sinora solo i pidocchi hanno contato. Sbarrai gli occhi, non so se più nauseato o indignato, quando lessi che un autorevole capo tribù democristiano scriveva: ”Mi auguro che Tortora riesca a dimostrare la propria innocenza”, rivelando che la più mostruosa inversione del concetto di onere della prova era ormai avvenuta nella coscienza di troppa gente. Perché qui ormai è addirittura l’innocenza che con fatica, strazio e anni di tormento, deve giungere a dimostrare di essere tale. Non sono gli altri che, con le prove e non con calunnie, devono in tempi rapidi provare la colpevolezza del cittadino. Qualcosa di ignobile è avvenuto nella nostra legislazione. Sta avvenendo sotto gli occhi di tutti, e alla barbarie non si può più dare il nome decentemente di diritto. Rifarei la scelta radicale fra un minuto. La rifarei ogni minuto. Sono profondamente convinto che oggi, in Italia, solo questa sparuta pattuglia di profeti disarmati, vede chiaro, vede lontano, e osa chiamare le cose con il loro nome.” Un “difetto” insopportabile per i media e che Pannella continua ad avere: dire la verità e chiamare le cose con il proprio nome. È così quando parla di uno Stato, quello italiano, tecnicamente e non moralmente criminale perché pluricondannato dalla Cedu per violazione dei diritti umani e per l’eccessiva durata dei processi. Un Paese dove la Giustizia è la vera emergenza senza la quale neanche il lavoro può trovare diritto e diritti. Con quell’ostinazione meravigliosa che è solo dei forti e degli uomini con la coscienza netta, Pannella “rilancia” e “provoca” sull’ingiustizia italiota ancora oggi. Come affidava allora a Tortora quella “bandiera” oggi Pannella la affida ai suoi compagni e ai detenuti nelle carceri che spesso coincidono e con cui sciopera. Affida quella bandiera alla loro coscienza, al loro cuore, perché tra il resto dell’ignavia lì c’è chi comprende l’urgenza delle urgenze. Allora Tortora sapeva e lo scriveva: “So che significa. L’ho sempre saputo. So che dietro di me, a guardare con speranza, ci sono uomini, migliaia di uomini e di donne che soffrono e che penano per una situazione, dico quella della carcerazione preventiva, che occorre cancellare dalla storia come si cancella una insopportabile vergogna”. Sarebbe una sorpresa benedetta se un Governo riuscisse a fare una riforma della Giustizia. Perché anche oggi, “in un Paese in cui l’altra faccia è invece la pigrizia e la noia, in un Paese in cui il cinismo e il malaffare istituzionalizzato sono pratica quotidiana, allora la parola “sorpresa” è benedetta”.

Ma c’era un’altra cosa – che Tortora sottolineava e che Saviano pure dimentica – che la stampa forse non aveva e non ha colto ancora: “il martirio cui sono sottoposti i cittadini in attesa di giudizio” e “il senso dell’urgenza, dell’urgenza disperata che questo tema della riforma dei codici, della responsabilità dei giudici, questo tema della democrazia veramente attuata non può concedere rinvii, chiacchiere, cabalette romantiche”.

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Storie di padri e massari.

di Maria Elisabetta Curtosi

Le regioni che hanno contribuito in maniera più rilevante, tra il 1876 e il 1900 sono state il Veneto che ha fornito il più elevato contingente di emigrati, seguito dalla Campania, Sicilia e Calabria.  La vita umiliata di quegli anni aveva però un pathos che scendeva nelle cose, una sorta di tardo   crepuscolarismo in cui anche gli oggetti sembravano simboli esistenziali. Madri povere, bambini che lavoravano,che giocavano senza scarpe, padri che “ fatigavanu” dalla mattina alla sera, “ mbivenu” e “jestimavanu”. Vita difficile quella dei massari:  “Pecchi, pecchi sta vita, afflitta, amara, aiu zappu pemmu u moru o aiu u zappu pemmu u campu si chiedeva con i versi Pasquale Creazzo. La mattina di domenica e nelle feste ricordate però  sempre in chiesa: schegge, frammenti, documenti in bianco e nero. Si, gli zingari eravamo noi e gli emigranti italiani in America è in un certo senso la storia capovolta. Il Museo dell’Emigrazione di Franco Vallone, giornalista e scrittore calabrese o quello della Fondazione Cresci di Lucca, entrambi hanno avuto importanti riconoscimenti negli Stati Uniti, descrivono il percorso migratorio,non solo con le foto e le lettere ingiallite che ci parlano e ci fanno rivivere  una  sorta di  ricostruzione mentale di quelle scene: dal passaporto per l’estero,con tanto  di “ Avvertenze agli emigranti” stampate sul retro come certifica il biglietto da viaggio (terza classe, rilasciato dalla Navigazione generale italiana al “ passeggiere numero 074321) all’imbarco nella stazione marittima, il molo, le lacrime che non si asciugano con i “ maccaturi”  che profumano di sole, sudore  e sale  e poi il piroscafo, il dormitorio, i bagni,  il refettorio e la cella per i riottosi.

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