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“Scrivete. Perseguitate con la verità i vostri persecutori.”

di Maria ELisabetta Curtosi

Informare per conoscere, capire e migliorare: sventolando per la prima volta la bandiera della verità – così scriveva Gian Pietro testa nel “mestiere del giornalista” – fascicoli in ottava, copertina gialla, questa era la <<Giovane Italia>> di Mazzini, sei quaderni, usciti dal 1832 al 1834.

La rivoluziona aveva aperto un esplorato territorio fino ad allora nella storia della democrazia: “l’uso di strumenti riservati al potere da parte di chi combatteva contro il privilegio dei pochi inaugurando così un processo davvero irreversibile”. Questo strumento così importante era il giornale, appunto. In questo contesto, fine Settecento, si aprì perciò la discussione sul significato filosofico di <<verità>> non in quanto assoluta , ma relativa ai fatti, “brandelli inalienabili della nostra realtà, e come  arma per affrontare altre verità spacciate per assolute e indiscutibili.

Ma voi pochi sublimi animi che solitarj o perseguitati su le antiche sciagure della nostra patria fremete, se i cieli vi contendono di lottar con la forza, perchè almeno non raccontate alla posterità i nostri mali? […]- Se avete le braccia in catene, perchè inceppate da voi stessi anche il vostro intelletto di cui nè i tiranni nè la fortuna, arbitri d’ogni cosa, possono essere arbitri mai? Scrivete. Perseguitate con la verità i vostri persecutori. E poichè non potete opprimerli, mentre vivono, co’ pugnali, opprimeteli almeno con l’obbrobrio per tutti i secoli futuri.

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Storie di uomini e santi

di Maria Elisabetta Curtosi

Migliaia di “fedeli” tanto tempo fa accorrevano a Pannàconi, in Calabria, dove un uomo aveva scoperto una “fonte miracolosa” e affermava di parlare con la Vergine.

“ LA MADONNA MI HA DETTO: DAI, FAMMI UNA CHIESA”.

Racconta Domenico Bucci: “Ho costruito il tempio accanto a una sorgente di acqua benedetta, proprio dove voleva la Madonna quando mi apparve per la prima volta.  Sono un guaritore e un veggente”.  Per capire le malattie spiega che ha come suggeritori i Santi Cosma e Damiano: “Senza il loro aiuto non potrei fare nulla perché non conosco il corpo umano”. Mette  in contatto  i vivi con i defunti e ha anche scritto un “vangelo” perché, dice, ha “un filo diretto” col cielo.

Il “tempio dei miracoli”, sorge a un limitare di un sentiero che scende impervio,tra olivi secolari e cespugli di rovi. E’ un edificio di gusto grossolano, moderno, inadeguato ai colori sommessi di questa campagna dallo spirito persistentemente antico. Ma il suo instancabile costruttore ne parla con fierezza.” L’ho realizzato accanto a una sorgente d’acqua benedetta, proprio dove voleva la madonna” ci spiega in un dialetto difficile da comprendere.” E’ stata lei stessa, quando mi è apparsa per la prima volta, suggerire le indicazioni necessarie. Al resto ho pensato io. Lavorando da solo e tra mille ostacoli”. L’uomo a questo punto s’interrompe bruscamente per indicare i preliminari cui dobbiamo sottoporci prima di dialogare con lui. Si tratta di un semplice rituale, obbligatorio per chiunque si accosti a questo luogo “sacro”: una breve sosta di preghiera in chiesa, la bevuta purificatrice presso la fonte, infine l’incontro con lui. Domenico Antonio Bucci, inviato del Signore. Se sia un veggente, un guaritore o più semplicemente un impostore è difficile stabilirlo, perché si tratta di un “fenomeno” troppo recente. Ma è un fatto indiscutibile oramai,che la fama di quest’uomo sta dilagando nelle città e campagne della Calabria e sta già rimbalzando oltre i confini della regione. I suoi” fedeli” non si contano più. Vengono da ogni parte per sottoporgli quesiti di ordine medico e problemi di carattere personale, per cercare conferme e conforto.

E lui risponde a tutti, senza stancarsi di ripetere che ogni parola gli viene suggerita dall’alto, dalla Madonna e dai santi con cui entra di volta in volta in contatto. Anche la nostra visita gli era stata preannunciata, dice. Cosi, mentre ci apprestiamo a dialogare con lui,riusciamo a studiare da vicino questo personaggio carismatico. Una figura comune, nell’aspetto, a tante altre dell’universo contadino della Calabria. Un uomo piccolo, asciutto, vestito in modo dimesso e con il volto segnato dall’età e dalla sofferenza. Pure la storia della sua vita non sembra discostarsi dalle vicissitudini di tanti altri che da questa regione sono stati costretti a emigrare per sfuggire agli stenti. E lui stesso a raccontarla. “Ho sessantasette anni, sono di origine molisana ma ho trascorso la mia infanzia qui, a Pannàconi. La miseria mi ha spinto, quando già ero sposato e con un figlio, a tentare la fortuna in Brasile. Sono partito solo e senza soldi. Anche laggiù ho dovuto penare per essere assunto come operaio. Il lavoro era massacrante e cosi,quando la mia salute è andata peggiorando, sono stato licenziato. Nel frattempo, qualche mese dopo il mio arrivo, anche mia moglie si è ammalata gravemente. Ho passato dei mesi interminabili ad accudirla in ospedale e a piangere sulla nostra situazione. Un giorno poi ero particolarmente depresso e mi sono trovato a sfogliare la Bibbia e a cercare di leggerla, tra mille difficoltà. Improvvisamente una luce accecante ha inondato la stanza. L’episodio si è ripetuto per tre giorni consecutivi e qualcosa che non so definire mi ha portato a credere che si trattasse di una manifestazione dello Spirito Santo. Da quel momento ho cominciato a dedicarmi al prossimo”.

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Ciao Vittorio (De Seta)

di Francesco Santopolo

Caro Vittorio, ho iniziato questa lettera il giorno stesso dei tuoi funerali, senza riuscire a concluderla.

Avevo bisogno di uscire dallo smarrimento in cui mi scaraventava un evento difficile da accettare, sebbene ne avessi colto i segni già qualche mese prima, quando venni a trovarti all’ospedale di Soverato.

Il fatto che tu- come facevi sempre- non avessi aperto il quotidiano che ti avevo portato e per due volte hai voluto che fossi io a rispondere al tuo cellulare mi avevano dato il senso di un distacco da te stesso.

Negli ultimi giorni non riuscivo a parlarti perché eri assopito in un silenzio terribile che cominciava a darmi la misura che ti stavamo perdendo e, con te, un mondo di valori con i quali siamo cresciuti.

L’emozione e il senso di privazione mi hanno bloccato e solo ora riprendo un progetto interrotto, per cercare di decifrare l’intensità del nostro rapporto, misurare la tua assenza e tentare, almeno questa volta, di dialogare con te senza dover vincere il pudore dei sentimenti e senza sentirmi fissato dai tuoi occhi che, sebbene stanchi, avevano conservato quella straordinaria capacità di vedere oltre le apparenze e indagare sulla ricchezza umana dei dimenticati e sulla terribile miseria della piccola e grande borghesia consumista.

In questo anno ho rivisto più volte i tuoi film e ho riletto quello che hai scritto o che altri hanno scritto su di te ma, per queste note, preferisco affidarmi molto alla memoria e spero di riuscire a ricordare tutti i tuoi insegnamenti e il significato di un rapporto che non era facile, per alcune sostanziali analogie biografiche e caratteriali.

L’essere entrambi riservati ha reso, qualche volta, difficile il nostro percorso comune.

Avevi preso l’abitudine di rimproverarmi, anche quando credevo di anticipare i tuoi bisogni, e questo mi portava ad impennate di orgoglio. Purtroppo, come tutte le donne e gli uomini feriti, sono permaloso e la ferita che mi provocava la tua disapprovazione mi portava ad isolarmi.

Poi Vera mi disse che questo era il tuo modo di dimostrare stima e affetto e allora ho capito che per te ero il “figlio” docile che si può educare e a cui si può fare acquisire lo sguardo giusto per osservare il mondo.

Conoscerti e frequentarti è stata un’esperienza esaltante e irripetibile che mi porterò dentro e cercherò di trasmettere agli altri quando avrò modo di parlare di te, cosa che mi succede spesso.

La frequentazione quotidiana mi ha consentito di svelare a me stesso il tuo segreto: sei stato un grande uomo di cinema perché sei stato un grande uomo, capace di vivere la propria vicenda umana e la propria esperienza intellettuale con testarda coerenza, consapevole che gli altri possono rispettarci solo se noi diamo prova di avere rispetto di noi stessi e delle nostre idee.

Pochi sono gli intellettuali che hanno vissuto con altrettanta caparbia coerenza.

Mi vengono in mente François Villon, Arthur Rimbaud, Dino Campana, Pier Paolo Pasolini.

Quattro grandi poeti vissuti in tempi diversi ma divorati dalla consapevolezza che il poeta ha, dentro di sé, la luce e deve irradiarla anche quando le tenebre sono più fitte e quando il mondo pensa che le loro rivelazioni costituiscono un pericolo.

François Villon e Pier Paolo Pasolini hanno pagato con una morte violenta, Arthur Rimbaud con l’isolamento, Dino Campana con l’internamento a Castel Pulci.

Tu hai scelto di rifugiarti in una disperata solitudine, fino a diventare un eroe solitario, espressione che Cesare Zavattini ha usato per marcare quella “eccezione” che ha fatto di te il più geniale e onesto uomo di cinema e per questo “separato” da un mondo che si alimenta di finzione, nell’illusione che apparire conti più che essere.

Tu hai voluto essere, fino in fondo, nell’accezione con cui Erich Fromm connotava la sostantivazione di un verbo.

Ci siamo conosciuti tardi ma abbiamo scoperto che i nostri percorsi erano stati guidati da valori comuni e le tue parole mi hanno insegnato a guardare il mondo con occhi diversi.

Ma la nostra storia, come ebbi modo di dirti più volte, partiva da lontano.

Nel 1964 nasceva a Catanzaro la prima esperienza di Cinema d’Essai, riprendendo un’esperienza a fruizione limitata iniziata qualche anno prima da Gianni Amelio, Mimmo Rafele e Rino Zumpano, nell’oratorio di quello straordinario personaggio che fu Don Giorgio Bonapace.

I “Martedì del Supercinema” presero l’avvio con due autori italiani emergenti: Ermanno Olmi e Vittorio De Seta.

Col senno di poi, devo dire che solo una grande sensibilità e una indiscutibile competenza potevano determinare una scelta importante anche per gli altri ragazzi del circolo “Gobetti” che avevano con il cinema un rapporto diverso, rispetto a quel ragazzino che sarebbe, poi, diventato Gianni Amelio.

Gianni Amelio aveva realizzato l’obiettivo di avvicinare i più intonsi compagni di cordata alla narrazione filmica, semplicemente usando il messaggio di due grandi autori.

“Banditi a Orgosolo” ebbe su alcuni di noi un impatto decisivo nel farci scoprire che non c’era solo il cinema di evasione ma che un autore, tra l’altro di origine aristocratica, aveva deciso di fornirci gli strumenti per guardare il mondo dei vinti.

Da allora, con pochi altri, sei diventato uno dei miei punti di riferimento.

“Banditi a Orgosolo”, film bellissimo e terribile, ci ricordava, oltre l’enfasi di un fittizio boom economico, che esistevano gli esclusi e i “dimenticati”.

Pasolini aveva già raccontato l’impatto del “miracolo economico” nelle borgate romane, quel mondo di esclusi che farà da sfondo a quel capolavoro assoluto che è “Diario di un Maestro”.

Franz Fanon aveva svelato il vero volto del colonialismo e tu hai ripreso quel tema con “Lettere dal Sahara” e “Hong Kong”, ogni volta fornendoli di una sguardo diverso, più ricco, più penetrante.

E non perché il tuo mezzo espressivo fosse il cinema (non ne hai mai fatto un uso strumentale) ma perché nel tuo modo di guardare il mondo si fondevano l’antropologo, lo storico, il poeta.

Il cinema era il tuo mezzo espressivo, non meno eversivo e devastante di quello che Pasolini andava facendo con le sue rubriche su rotocalchi a grande diffusione.

Avete, ognuno a suo modo, demolito un mondo vecchio e decrepito ma avete anche evidenziato gli orrori antropologici del sistema di valori che lo andava sostituendo.

“Diario di un maestro” non è stato solo un film staordinario ma anche la denuncia dell’esistenza di una scuola che esclude, seleziona, cancella identità.

Don Milani e la Scuola di Barbiana non erano lontani e Bruno Cirino è riuscito a calarsi nella parte ed essere fedele interprete del tuo pensiero.

Il maestro D’Angelo non era “finto”, come qualche insegnante ipocrita ebbe modo di dire, era, piuttosto, un profeta disarmato ma convinto che la scuola per occuparsi di tutti, deve impegnarsi su quelli che, per condizione sociale, ne sarebbero esclusi.

Anche alle critiche al “Diario” hai risposto come solo Vittorio De Seta avrebbe potuto fare e sono nati i quattro episodi di “Quando la scuola cambia”.

È stato una forma di cinema verità in cui ti sei limitato a riprendere e raccontare didattiche diverse: “La piccola troupe cinematografica- entrata nella scuola senza una programmazione precisa- ha colto ciò che si stava facendo in quel momento” (De Seta, 2009).

Sei entrato nella scuola di Mario Lodi e di Caterina Foschi Pini, per filmare forme didattiche alternative ma il messaggio più forte è venuto da due scuole del sud: l’esclusione nell’esclusione.

In un paese albanese, San Marzano di S. Giuseppe, hai raccontato il lavoro del maestro Carmine De Padova intento a “recuperare” la lingua e la cultura “arbresh” in via di estinzione; a Cutrofiano il percorso difficile e accidentato dei diversamente abili e delle persone, genitori e insegnanti, che se ne occupano.

Pochi di noi conoscevano la tua cinematografia di esordio, precedente a “Banditi a Orgosolo”.

Mi riferisco a quelli che qualcuno ha definito documentari (Farinelli, 2009), e che, in realtà, sono pagine di storia dell’uomo che nessun antropologo e nessuno storico avrebbe saputo rendere con altrettanta efficacia.

I documentari occupano uno spazio temporale che va dal 1955 al 1959 e faranno dire a Martin Scorsese (2009): “Avevo sentito parlare dei documentari come accade per i luoghi leggendari[…] De Seta stesso era una figura leggendaria e misteriosa” .

Leggendario l’autore, leggendari i risultati.

Martin Scorsese, che ha visto i tuoi documentari quarant’anni dopo aver visto “Banditi a Orgosolo”, non poteva non essere sopraffatto dall’inquietudine che coglie chi si rende conto “che quella era l’ultima volta che la vitalità di una cultura incontaminata veniva filmata” (Scorsese, l. c.).

La tecnica di estrazione dello zolfo fu modificata radicalmente e i bambini cessarono di entrare nelle viscere della terra e finì il tempo della “Surfarara”, ma si chiuse anche un capitolo della storia dell’uomo durato millenni e con esso tutto un reticolo di relazioni con la natura e con la fatica.

Il primo documentario è stato “Pasqua in Sicilia”, una pagina importante, con riprese fatte in luoghi diversi: la processione a S. Fratello, la Passione a Delia, la Resurrezione ad Aidone.

Hai ripreso lo stesso tema un anno dopo, arricchendolo di contenuti e immagini straordinari.

Del ’54 sono anche “Lu tempu di li pisci spata” e “Isole di fuoco”.

Verranno ancora “Contadini del mare”, “Parabola d’oro”, “Pescherecci”, “Pastori a Orgosolo”, “Un giorno in Barbagia”, per chiudere questa tua prima esperienza con un capolavoro assoluto che è “I dimenticati”.

In un mondo e in una cultura che cominciavano ad alimentarsi di consumismo- primo retaggio del boom conomico- Alessandria del Carretto ci sembra un paradiso perduto, girato nella “nostra terra”, in un posto lontano dal rampante consumismo che andava esprimendo la propria capacità di contaminazione.

Poi è venuto “Un uomo a metà”, film straordinario che solo Pasolini, Moravia e Mino Argentieri hanno capito e apprezzato fino in fondo.

Avevi ragione a lamentare la latitanza della critica su un film che “regge” bene il tempo, a differenza di altri osannati dalla critica ma che oggi non si lasciano guardare più.

Più volte abbiamo avuto modo di parlarne e ogni volta coglievo la tua dolorosa sorpresa per l’indifferenza/malevolenza dei critici.

Ho rivisto il film in questi giorni è ho pensato che solo il tuo coraggio e la tua determinazione potevano indurti a raccontarti in un film, senza omettere la tua solitudine e le tue angosce.

Solo che lo hai fatto troppo presto.

Negli anni ’60 anche gli artisti più raffinati si presentavano vincenti.

Come potevano capire la “confessione” di un uomo che si dichiara perdente e affida alla psicoanalisi un processo introspettivo devastante?

Pasolini (1999) riassume in due punti le critiche mosse al tuo film.

Alcuni avevano scritto che il film “si distingue per un contenuto povero e poco interessante malgrado le immagini molto belle o «Malgrado il calligrafismo delle immagini»” e altri avevano aggiunto che il “il film di De Seta tratta di un problema vecchio, noioso e ripetuto, cioè un caso di nevrosi” (Pasolini, l. c.).

Letture superficiali ma anche sbagliate perché il tuo cinema non è mai stato calligrafico, a dispetto delle immagini che da sole possono reggere una storia.

“Un uomo a metà” è, prima di tutto, un film “didattico” e la lettura filmica della lezione junghiana, rivisitata atttraverso Bernhardt, è un segno di maturità che dimostra- se mai ce ne fosse bisogno- la tua straordinaria capacità di trasformare le tue “letture” (Salvemini, Dorso, Giustino Fortunato, Gramsci, Tolstoj, i Vangeli) e arricchirle, come solo a te riusciva di fare.

Pasolini aveva scritto che “il personaggio centrale (Michele, n. d. r.) è una tra le figure più belle che si siano viste in questi ultimi tempi sugli schermi” (Pasolini, l. c.).

Perché Pasolini si è espresso in questo modo?

Perché in un cinema che, pur presentando molti “caratteri” umani, ostenta un protagonista “sempre purissimo, [che] non concede mai nulla alla volgarizzazione di sé stesso” (Pasolini, l. c.) tu hai avuto la capacità di raccontarti con un personaggio vero ed è questa l’eresia che non ti è stata perdonata.

C’è un’altra osservazione di Pasolini che mi sento di sottoscrivere integralmente.

“Un uomo a metà” è un fim di poesia nel senso tanto dei “tempi” quanto della bellezza delle immagini.

Nel 1969 ti affidarono la regia e la sceneggiatura de “L’invitata”, tratto da un soggetto di Tonino Guerra e Lucile Laks.

Non era un “tuo” film ma solo un tentativo dell’industria delle immagini di “normalizzare” un eretico.

La tua straordinaria capacità di narrazione filmica non era sfuggita e mettendoti accanto quel mostro di Michel Piccoli e Tonino Guerra, grande poeta e sceneggiatore di Fellini, pensavano di recuperarti all’industria del business.

Hai dribblato con eleganza e sei riuscito a restare te stesso anche lavorando su un soggetto non tuo e, probabilmente, l’industria del cinema capì definitivamente che non si può rendere normale un poeta.

Sei tornato ai tuoi temi, con l’èpos di in “Un carnevale a Venezia”, la festa in cui “la gente scrolla di dosso il peso, l’angoscia della vita quotidiana, cambiando identità, proiettando all’esterno, col travestimento…la parte più misteriosa e inquietante di sé” (De Seta, 2009).

Una grande antropologa, morta tragicamente, aveva scritto che “Il carnevale ha, ancora oggi, con le sue feste e i suoi riti…una funzione oppositoria e liberatoria sia a livello collettivo che individuale” (Rossi, 1977) e ne rintracciava i segni nell’aspetto festivo, inteso come “un periodo rituale, circoscritto nel tempo, durante il quale si forma una comunità metastorica a carattere provvisorio” (Rossi, l. c.) ma anche in un “Aspetto di ribellione alla condizione sociale del gruppo” e in quello “rituale, arcaico, legato nel passato a rituali agricoli di propiziazione del raccolto e di eliminazione del male” (Rossi, l. c.).

Chissà se avevi letto le ricerche antropologiche di Annabella Rossi.

Forse no, ma conoscevi tanto bene Ernesto De Martino e avevi la sensibilità giusta per trovare da solo la strada e raccontare la storia dei poveri che, per un giorno, diventano protagonisti, semplicemente travestendosi da protagonisti.

Verranno ancora un omaggio alla tua terra e il ritorno ai temi dell’emigrazione che avevi già “visitato” nel 1980 con “Hong Kong, città di profughi”.

“In Calabria” segna il tuo commosso omaggio alla terra che avevi adottato, “Lettere dal Sahara” una delle denunce più forti al problema dell’immigrazione che il nostro paese non è ancora attrezzato a gestire.

E quando ho visto Madawass Kebe in chiesa, il giorno del tuo funerale, tutti gli altri sono spariti e sei rimasto solo tu e quel mondo staordinario che hai saputo raccontarci.

Rivedo i tuoi film e mi viene in mente uno dei tanti miti fioriti attorno alla cometa di Halley che passa a una tale distanza dall’orbita della Terra da impedire a nuovi meteoroidi di raggiungerne l’atmosfera.

Le meteore che vediamo non sono altro che le polveri che si sono staccate dalla cometa di Halley negli ultimi 2 millenni.

Il mito cui mi riferisco dice che ad ogni passaggio della cometa, le polveri che si diffondono fanno nascere sulla terra uomini straordinari o poeti, che è, poi, la stessa cosa.

Nel 12 a. C., quella che sarà ricordata come Stella di Betlemme, annuncia la nascita di Cristo.

La cometa passerà ancora nel 1222 e nascerà Dante Alighieri (1265), nel 1301 e nascerà Francesco Petrarca (1304).

Nel 1431 sarà François Villon ad annunciare il passaggio della cometa che passerà ancora nel 1768 e nascerà Ugo Fosolo (1778), nel 1835 e nasceranno Arthur Rimbaud (1854), Gabriele D’Annunzio (1863), Dino Campana (1885), Boris Pasternàk (1890),Vladimir Majakocskj (1893), Sergèj Esenin (1895), Salvatore Quasimodo (1901).

È passata nel 1910 e ci ha regalato Pier Paolo Pasolini (1922) e Vittorio De Seta (1923).

Col prossimo passaggio, atteso per il 2061, la cometa potrebbe decidere che il Terzo Millennio non merita più un poeta, visto che gli uomini non sono più atrezzati a riconoscerlo.

Forse sei stato l’ultimo poeta che ci è stato regalato ma voglio pensare che la tua generosità abbia lasciato le tracce per una contaminazione di cui abbiamo bisogno.

Bibliografia

De Seta, V. (2009), Un carnevale per Venezia, in La fatica delle mani a cura di Mario Capello, Milano, Feltrinelli.

De Seta, V. (2009) Quando la scuola canbia, in La fatica delle mani a cura di

Mario Capello, Milano, Feltrinelli.

Farinelli, G. L., (2009), Un lungo viaggio verso il mondo perduto, in La fatica delle mani a cura di

Mario Capello, Milano, Feltrinelli.

Fofi, G.-Volpi, G. (1999), Vittorio De Seta. Il mondo perduto, Torino, Lindau.

Fromm, E. (1978), Avere o Essere, Milano, Mondadori.

Pasolini, P., P. (1999), Un uomo a metà, sta in Goffredo Fofi e Gianni Volpi (a cura di), Vittorio De seta, il mondo perduto.

Rossi, A.- De Simone, R. (1977), Carnevale si chiamava Vincenzo, Roma, De Luca Editore

Scorsese, M. (2009), Martin Scorsese su Banditi a Orgosolo, in La fatica delle mani a cura di Mario Capello, Milano, Feltrinelli.

Zavattini, C. (2002), Diario cinematografico, Milano. Bompiani.

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Emigrazioni in America

Emigrazioni  verso le Americhe o verso il Nord Europa : molti recitavano  a memoria alcuni versi di Enotrio Pugliese, genuino ed immenso artista calabrese, anch’esso figlio di emigranti:

 

“Quando nascivi patrima era a Merica.

Fici u sordatu e patrima era a Merica.

Vinneru i figghji e patria era a Merica.

Mama moriu e patria era a Merica.

Aguannu tornau patrima d’a Merica pe nommu mori a Merica”.

 

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Estate 1968

di Maria Elisabetta Curtosi

Che estate quella del ’68.

Si apriva un decennio che, iniziato con il ’63, continuava con gli anni ’70: per loro la grande battaglia a quel tempo erano i pantaloni lunghi perché sanzionavano la fine dell’infanzia assieme all’esame di Licenza Media. Iniziavano le masturbazioni mentali .

Uno sguardo, una fotografia, una voce che racconta quel tempo: raccontare di fatti, personaggi e situazioni che hanno determinato la vita della nostra comunità ha oggi un significato importante: un modo nuovo di leggere il nostro quotidiano che parla di Europa, di storie di donne e di uomini che giocoforza debbono avere un doppio sguardo sull’Italia,  sul mondo e sull’Europa. Queste immagini fotografiche, affascinanti e nostalgiche rievocano, attraverso la memoria, la straordinaria avventura di quei ragazzi  che furono  “ i ragazzi col ciuffo”. Il linguaggio usato, quello fotografico, si sa  è strumento importante capace di parlare non tanto alla testa ma al cuore delle persone senza distinzioni di censo e culture. Speriamo che l’anello non si spezzi e che i paesi non diventino come diceva Giovanni Paolo II” deserto senza storia, senza linguaggio e senza identità, con conseguenze gravissime” . Coloro che amarono,  idolatrarono ed imitarono a modo loro i vari Elvis, Donavan,  Dylan e Joan Baez:  insomma “ i sacerdoti”  della musica folk in Inghilterra ed in America, mentre qui da noi erano Morandi, Equipe 84, Battisti, Little Tony, Celentano, Rita Pavone o l’eterea Francoise Hardy, I Giganti: inossidabili icone del rock casereccio che riportavano alla luce  vecchie ballate, canti di protesta o di ribellione nati nelle miniere, nelle piantagioni e sui campi di battaglia, storie d’amore e leggende ricoperte dalla polvere degli anni. “ Lo sai tu chi erano i Beattles ed i Rolling Stones? Questo il refrain di una canzone di Gianni Morandi che assieme a Lucio Dalla, rappresentava la famosa” via Emilia” della canzone nostrana. Insomma per capire quegli anni, per “ rivivere” ogni epoca e soprattutto “ l’epoca “ per antonomasia, quella del beat, del rhythm and blues importato in quanto da noi non esiste un patrimonio popolare come quello americano ma esiste il folk inteso come suggestive canzoni del Sud, lamenti di donne, grida di pescatori: basta pensare ad Otello Prefazio: un caso simile al “ fenomeno” Belafonte. “U ciucciu” il lamento dell’asino rappresenta una sorta di “cult” del folk singer calabrese.

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Il terzo settore merita rispetto

Riceviamo e pubblichiamo la seguente “Nota stampa del Forum Terzo Settore Calabria”

Cosenza – La crisi economica sta mettendo a dura prova il nostro sistema di welfare e rischia di riportare la situazione indietro di decenni, cancellando di fatto le conquiste di civiltà che l’Italia ha così faticosamente raggiunto. Le ultime stime ci parlano di una situazione che va via via aggravandosi: alla contrazione delle risorse destinate alle politiche sociali e di assistenza a livello centrale corrisponde un pesante ridimensionamento dell’offerta di servizi a livello locale e comunale, proprio ora che le richieste di aiuto e di sostegno da parte delle famiglie conoscono un aumento consistente. Si tratta di un corto circuito evidente che pesa nella vita concreta di migliaia di persone, rendendo la quotidianità ancora più pesante e difficile.

In Calabria la situazione è più preoccupante che altrove. Oltre alle ricadute dei tagli imposti a livello centrale, che incidono sui livelli di povertà e sulle dotazioni di servizi alle persone, in Calabria si sommano le carenze di un welfare mai strutturato rispetto alla vecchia e nuova legislazione in materia.

Il capitolo di bilancio delle politiche sociali quest’anno prevede una cifra inferiore ai 15 milioni, cioè meno del bilancio previsionale dello scorso anno e ben al di sotto del fabbisogno che ammonterebbe a circa 25 milioni di euro. Ancora più grave è la questione quota sociale per i servizi socio sanitari, ferma a 15 milioni contro un fabbisogno pari a 35 mil. Sono stati recuperati per gli anni 2011-2012 5 mil per il socio sanitario che non coprono neanche un 1/5 del debito. Per le non autosufficienze il capitolo è a zero (come l’anno passato). Sono stati previsti 450.000 euro per la nuova legge sul volontariato che, se non si prevederanno criteri seri, costituirà l’ennesimo spreco di risorse.

 

L’impegno del Terzo Settore alla vigilia della programmazione dei fondi regionali per gli interventi del prossimo anno è quello di denunciare con forza la situazione di grande difficoltà nella quale l’intero comparto ormai si trova. Proprio per questo nella giornata di oggi il Forum ha inviato alla Commissione bilancio e programmazione della Regione Calabria un documento critico di riflessione e proposta. Per illustrare le ragioni del Terzo Settore il Forum calabrese indirà a breve una conferenza stampa da tenersi a Lamezia Terme.

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Il sequestro del Re

di Maria Elisabetta Curtosi

Gli uomini hanno fatto il 14 luglio, le donne il 6 ottobre; gli uomini hanno preso la Bastiglia reale, e le donne hanno imprigionata la regalità stessa, l’ hanno messa nelle mani di Parigi, ossia della Rivoluzione.

Siamo in Francia, 1789, nel momento peggiore in cui le sofferenze diventate estreme avevano crudelmente colpito la famiglia e il focolare. Cosi ci racconta un importante storico francese G. Michelet secondo cui la storia doveva essere «la resurrezione della vita integrale del passato».

Perciò una donna, il sabato sera, 3 ottobre, diede l’allarme: vedendo che suo marito non era abbastanza ascoltato, corse al caffè Foy, denunciò le coccarde antinazionali, mostrò quale era il pericolo pubblico.

Il lunedi una giovinetta prese un tamburo, suonò a raccolta, trascinò tutte le donne del rione.

Donne che generarono valorosi e furoro esse stesse delle valorose.Nomi come Jeanne d’ Arc, Jeanne di Montfort, J. Machette sono da ricordare.

Ve ne fu una alla Bastiglia che, più tardi, partì per la guerra e fu capitano d’artiglieria mentre suo marito era soldato.

Non c’è da meraviglairsi; poiché esse maggiormente soffrivano. Le povere donne vivevano rinchiuse, sedute, filavano e cucinavano tutto il tempo.

E’ doloroso pensare che la donna, l’essere che un tempo non poteva vivere senza un compagno sia più spesso sola dell’uomo. Essa senza la famiglia era nulla. Rimanevano nella fredda casa, spoglia e disonora, con i bimbi che piangevano o che erano malati o morenti e non piangevano più.

Dunque quelle che in queste orribili calamità si muovono e agiscono sono le più forti, le meno sfinite dalla miseria.

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Il giornalista Giuseppe Mazzini.

di Maria Elisabetta Curtosi

Per mostrare ideali alti ma illustrati con linguaggio e toni aristocratici Mazzini nel divulgare la sua associazione “La Giovane Italia” << fondata al grande scopo di ricostruire l’Italia come nazione di uomini liberi e uguali, unita, indipendente e sovrana>> usò la carta stampata come unico organo di informazione per i comitati che erano nati un po’ ovunque. La Giovane Italia allora fu stampata nella tipografia marsigliese di Barile e Boulouch per due anni; successivamente Mazzini arrivò in Svizzera e qui fece uscire il primo numero della “Jeune Suisse”(primo luglio 1935) bisettimanale in cui si discuteva e si faceva propagandare l’idea europea. Nel 1836 a Parigi esce il mensile “L’Italiano” a cui collaborarono Mazzini e Michele Accursi, qui venne fuori il ruolo del giornale, inteso come controinformazione  a quella propagandistica, del potere. Scrive, infatti << Finora quasi tutte le storie d’Italia e delle altre nazioni non sono che la storia dei grandi re o la storia delle guerre. Ma la storia agricola, industriale, commerciale, legislativa, politica, nazionale, la storia di tute le scienze e di tutte le arti da dieci secoli in qua dove si trova?>>. Ecco il concetto nuovo, diverso e reale che ne scaturì da quell’uomo, inoltre ancora più chiaro fu il discorso fatto direttamente agli operai  nell’ ”Apostolare popolare” (1840-1843 Londra) egli scrive: << L’operaio legge, ha corsi, libri, giornali scritti unicamente per lui, ma in Italia egli manca d’ogni mezzo a istruirsi, riceve ciecamente alcune idee, quasi sempre false, perché gli vengono da uomini interessanti a mantenerlo nell’errore, e vive l’intera vita senza correggerle, senza accrescerle d’una sola, senza avanzar d’un passo sulla via della verità>>. Quale merito, allora dare a Mazzini? Dal punto di vista giornalistico possiamo affermare che ha avuto l’enorme merito di avere rivestito di dignità, di conoscenza l’informazione, e di questa lezione fa fede il nascere di tutta una serie di nuovi giornali in Italia, i quali mostrano di allettare gli interessi di lettori che non siano soltanto intellettuali.

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Illusioni perdute: letteratura e giornalismo.

di Mari Elisabetta Curtosi

<< La differenza tra letteratura e giornalismo? Il giornalismo è illeggibile e la letteratura non è letta. Questo è tutto>>. Come non riconoscere il tono perfido come sempre dello scrittore inglese Oscar Wilde in questo aforisma. Ma cosa vogliono dire le sue parole? Sicuramente il contesto è quello dell’Ottocento dove era diffusa l’opinione ( era la realtà) che il giornalista altro non era che un letterato… fallito, una professione di ripiego forse più lucrosa ma certamente la letteratura era l’unica attività “di penna degna di onore”  così scriveva Honorè de Balzac nelle “Illusioni Perdute” dove evidenziava il contrasto tra le due scelte di vita.

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