Archivi categoria: Autori

La fiera dei miracoli

di Maria Elisabetta Curtosi

L’ incanto della poesia ci rende la vita più sopportabile e più lieve.

Così la poetessa Szymborska, premio Nobel per la letteratura, ci trasporta in un mondo stupefacente, tra la profondità della sua riflessione poetica viaggiamo nella sua scrittura filosofica e scherzosa e implusiva. “ Non dà risposte, perché ogni domanda può generare altre domande” definisce le linee guida P. Marchesani “ di ogni singolo lettore sembra condividere intuizioni, sensazioni e paure”.

 

LA FIERA DEI MIRACOLI

 

Un miracolo comune:

l’accadere di molti miracoli comuni.

 

Un miracolo normale:

l’abbaiare di cani invisibili

nel silenzio della notte.

 

Un miracolo fra tanti:

una piccola nuvola svolazzante,

e riesce a nascondere una grande pesante luna.

 

Più miracoli in uno:

un ontano riflesso sull’acqua

e che sia girato da destra a sinistra,

e che cresca con la chioma in giù,

e non raggiunga affatto il fondo

benché l’acqua sia poco profonda.

 

Un miracolo all’ordine del giorno:

venti abbastanza deboli e moderati,

impetuosi durante le tempeste.

 

Un miracolo alla buona:

le mucche sono mucche.

 

Un altro peggiore:

proprio questo frutteto

proprio da questo nocciolo.

 

Un miracolo senza frac nero e cilindro:

bianchi colombi che si levano in volo.

 

Un miracolo- e come chiamarlo altrimenti:

oggi il sole è sorto alle 3.14

e tramonterà alle 20.01.

 

Un miracolo che non stupisce quanto dovrebbe:

la mano ha in verità meno di sei dita,

però più di quattro.

 

Un miracolo, basta guardarsi intorno:

il mondo onnipresente.

 

Un miracolo supplementare, come ogni cosa:

l’inimmaginabile

è immaginabile.

Share

Il Grande dittatore: Discorso all’umanità – Charlie Chaplin

di Maria Elisabetta Curtosi

Nel 1940 siamo nel pieno della Seconda Guerra mondiale e il grande genio di Charlie Chaplin, autore e protagonista, crea un film straordinario che rimarrà un punto fermo nella storia del cinema: Il Grande dittatore. Da vedere e rivedere mille volte sopratutto per la grande intensità di significato che Chaplin vuole esprimere attraverso la sua arma più forte, la satira. Riportare il suo discorso all’umanità con cui alla fine si chiude il film, sottolinea che è un film oramai senza tempo.

“Mi dispiace, ma io non voglio fare l’imperatore non è il mio mestiere non voglio governare né conquistare nessuno. Vorrei aiutare tutti se è possibile: ebrei, ariani, uomini neri e bianchi. Tutti noi esseri umani dovremmo aiutarci sempre dovremmo godere solo della felicità del prossimo.

Non odiarci e disprezzarci l’un l’altro.
In questo mondo c’è posto per tutti, la natura è ricca, è sufficiente per tutti noi. La vita può essere felice e magnifica ma noi l’abbiamo dimenticato. L’avidità ha avvelenato i nostri cuori. Ha precipitato il mondo nell’odio, ci ha condotti a passo d’oca fra le cose più abiette.

Abbiamo i mezzi per spaziare ma ci siamo chiusi in noi stessi. La macchina dell’abbondanza ci ha dato povertà. La scienza ci ha trasformato in cinici, l’abilità ci ha resi duri e cattivi. Pensiamo troppo e sentiamo poco. Più che macchinari ci serve umanità. Più che abilità ci serve bontà e gentilezza, senza queste qualità la vita è violenza e tutto è perduto. L’aviazione la radio hanno riavvicinato le genti, la natura stessa di queste invenzioni reclama la fratellanza dell’uomo, reclama la fratellanza universale, l’unione dell’umanità. Perfino ora la mia voce raggiunge milioni di persone nel mondo, milioni di persone donne e bambini disperati, vittime di un sistema che impone agli uomini di torturare e imprigionare gente innocente. A coloro che mi odono dico: non disperate! L’avidità che ci comanda è solamente un male passeggero. L’amarezza di uomini che temono le vie del progresso umano. L’odio degli uomini scompare insieme ai dittatori e il potere che hanno tolto al popolo ritornerà al popolo e qualsiasi mezzo usino la Libertà non può essere soppressa.

Soldati non cedete a dei bruti, uomini che vi disprezzano e vi sfruttano, che vi dicono come vivere, cosa fare, cosa dire, cosa pensare, che vi irreggimentano, vi condizionano, vi trattano come bestie, non vi consegnate a questa gente senza un’anima! Uomini macchina con macchine al posto del cervello e del cuore! Voi non siete macchine! Voi non siete bestie! Siete Uomini! Voi avete l’amore dell’umanità nel cuore, voi non odiate. Coloro che odiano sono quelli che non hanno l’amore altrui. Soldati non difendete la schiavitù ma la Libertà! Ricordate nel vangelo di San Luca è scritto “il regno di Dio è nel cuore dell’uomo”. Non di un solo uomo, di un gruppo di uomini ma di tutti gli uomini! Voi, voi il popolo avete la forza di creare le macchine, la forza di creare la felicità. Voi, voi il popolo avete la forza di fare che la vita sia bella e Libera, di fare di questa vita una splendida avventura.

Quindi in nome della Democrazia usiamo questa forza! Uniamoci tutti! Combattiamo per un mondo nuovo che sia migliore che dia a tutti gli uomini un lavoro, ai giovani un futuro, ai vecchi la sicurezza. Promettendovi queste cose dei bruti sono andati al potere, mentivano! Non hanno mantenuto quelle promesse e mai lo faranno. I Dittatori forse sono liberi perché rendono schiavo il popolo. Allora combattiamo per mantenere quelle promesse. Combattiamo per liberare il mondo eliminando confini e barriere, eliminando l’avidità, l’odio e l’intolleranza. Combattiamo per un mondo ragionevole, un mondo in cui la scienza e il progresso diano a tutti gli uomini il benessere.

 

Soldati nel nome della democrazia siate tutti uniti.”

« Più che in qualunque trovata comica, credo che il fascino di Chaplin stia nella sua capacità di riaffermare la verità – soffocata dal fascismo e anche, fatto piuttosto comico, dal socialismo – che vox populi è uguale a vox Dei e che i giganti sono vermiciattoli. »(George Orwell)

 

Share

Chi furono i primi giornalisti?

di Maria Elisabetta Curtosi

Chi furono i primi giornalisti in assoluto? Secondo Gian Pietro Testa forse i “diaristi” babilonesi i quali erano incaricati dai loro re di scrivere, giorno per giorno, i pubblici avvenimenti, dando di essi una versione ben accetta ai “grandi”. Tuttavia nonostante il forte legale che li legava al potere politico del tempo devono essere considerati dei veri e propri giornali perché erano il portavoce e pian piano iniziavano a comparire anche altre notizie di curiosità, di costume e perfino di “nera” –  che poi sarebbero diventati il nucleo portante dei giornali moderni. Esempi erano  gli <<Acta diurna>>dove l’aggettivo qualificativo già di per se anticipa la definizione di giornale. Medesimo spirito ebbero d’altra parte le croniche medievali, di cui le prime tracce abbiamo prima dei Mille (Cronicon Altinate di Venezia), ma che si affermarono con l’avvento dei Comuni. Famosi cronisti furono Dino Compagni e Giovanni Villani, fiorentini. Ma altrettanto importante fu il lavoro di comunicazione svolto dai loro colleghi in tutte le grandi città europee, da Venezia a Milano, da Pisa a Tolosa.

Share

“Licealità Classica e Nuovo Umanesimo nel XXI Secolo”

di Maria Elisabetta Curtosi

Aula magna Carlo Diano al Liceo Classico “Michele Morelli” di Vibo Valentia

– 19 /10/2011 –

Ho ricevuto nei giorni scorsi l’invito dal Dirigente Scolastico per essere oggi presente all’Inaugurazione dell’ a. s. 2011/2012; sia per portare la mia testimonianza sia per fare alcune brevi riflessioni sull’importante tema “Licealità classica e Nuovo Umanesimo”.

L’amore e la passione per gli studi classici mi danno tante soddisfazioni, l’ultima in ordine di tempo è stato l’esame di Latino superandolo brillantemente con 30 e lode e soprattutto le congratulazioni del  Professore di lingua e letteratura latina, che mi ha esaminato e mi ha chiesto da quale liceo provenissi.

Ho risposto che ho studiato in quel liceo “M. Morelli” di Vibo Valentia, al che lo stesso prof. Ha avuto parole di apprezzamento per il nostro liceo classico vibonese. Lui pensava che provenissi da uno degli storici licei classici romani.

Congratulazioni al nostro liceo “Morelli” e per questo sento il dovere di ringraziare, pubblicamente  tutti i miei professori.

Sono fiera di aver fatto parte di questo liceo. Chi non ricorda, per esempio, Luigi Bruzzano, padre dell’etnologia; o il poeta Carlo Massinnissa Presterà; per arrivare al grecista latinista Carlo Diano e per restare ai nostri giorni a Giacinto Namia? Tutte personalità illustri che hanno fatto parte del Morelli.

 

Oggi purtroppo la scuola vive un momento particolarmente delicato. Infatti le ultime statistiche dell’Istat sul livello culturale del paese spiegano in maniera incontrovertibile quali sono alcuni veri problemi degli italiani.

Secondo questi dati (l’Italia è in fondo alla classifica dei ventisette Paesi europei per scolarizzazione, rendimento scolastico, investimenti nella pubblica istruzione, consumi culturali delle famiglie, conoscenza delle lingue straniere, ma anche della lingua italiana). Siamo primi per abbandono scolastico, ore trascorse davanti alla televisione e acquisti di telefonini ( Calabria in testa). Altre ricerche provano che il 60% degli italiani non è in grado di leggere e capire un articolo breve ( Calabria in testa) e che gli insegnanti italiani  vogliono cambiare mestiere, sognano di scappare dalla scuola. A rivelarlo è una ricerca di pochi mesi fa condotta dall’Osservatorio sui diritti dei minori.

Questi dati certificano che il sistema scolastico italiano è fallimentare. Vogliamo discutere di chi sia la colpa, se dei pessimi ministri, degli insegnanti o degli studenti,della famiglia, dei sindacati, dei comuni, dei dirigenti scolastici?  Noi siamo controcorrente . Cerchiamo di spiegare perché.

Quello di cui non ha bisogno sono le parole, parole, le tante parole; intanto il bullismo nella scuola spadroneggia ed il vuoto di potere è oramai una voragine.

Le cronache quotidiane sono vere e amare.

Si è voluta una scuola c.d. “ progressista”, avanzata, aperta tanto da fargli perdere i veri connotati: il sostantivo sacrificato agli aggettivi.

Occorrono invece selezione,  indirizzo, valutazioni serie, meritocrazia.

Il tema che apre l’inaugurazione dell’anno scolastico, mi da la possibilità di poter portare qualcosa di  personale, di vissuto prima sui  banchi di questo antico liceo e poi alla “Sapienza” di Roma che è stato determinante: ossia in  concreto il  valore formativo dello studio delle lettere  classiche.

La cosa va sottolineata, perché nella considerazione comune e nelle menti di molti giovani, soprattutto, che si iscrivono al classico, gli studi umanistici passano per essere una simpatica vacanza dalla vita, una vacanza da riempire con i romanzi o i quadri o i film che ci piacciono, e soprattutto con le nostre personali opinioni su tutte queste meraviglie dell’arte, in genere.

Non è così.

L’opportunità che si ha di comprendere, attraverso questi ritratti, in cosa possa consistere il lavoro di un umanista, per esempio. Per realizzare studi del genere occorre un lungo apprendistato, non diverso per natura da quello che è necessario nelle scienze “dure”, un apprendistato che passa attraverso le lingue classiche e la storia o le discipline tecniche come la linguistica ecc.

Ecco, con ciò non si vuole trattare solo l’aspetto informativo e culturale ma soprattutto quello formativo e innovativo: CLASSICI SI MA ANCHE INNOVATIVI.

Il potenziamento della mia personalità, infatti, si è costruito attraverso lo studio, in particolare il latino,il greco, la letteratura ecc…

Sull’inserto del Sole 24 ore di Domenica scorsa, Claudio Giunta si propone di Ripensare l’umanesimo e si chiede se sia il caso di avere meno specialisti e puntare ad avere una cultura più diffusa? Che aspettative dare?

Il dibattito in corso sul ruolo del sapere umanistico oggi deve saper rispondere a delle domande: cosa dobbiamo volere e cosa no. Di sicuro dobbiamo volere l’incremento della cultura diffusa, volgiamo che le persone leggano più libri, e libri migliori, che vedano film decenti, che si interessino al  lavoro scientifico che sta dietro al microcip dei nostri cellulari.

Quindi puntare soprattutto nel settore dell’istruzione e non solo genericamente cultura, perché migliorando l’istruzione di base, è possibile formare cittadini migliori che all’idea di cultura rimangono affezionati anche una volta usciti dalla scuola secondaria. Buona cultura e una coscienza civica diffusa.

Insistiamo  su queste cose, perché solo così la Calabria può migliorare. Ripartendo dai saperi.

E qui l’importanza degli studi classici che sviluppano nello studente l’ambito della riflessione

è lo sviluppo del raziocinio, della capacità logica e dialogica nel senso che si procura con lo studio del latino e del greco come acquisizione di notizie tecniche e particolari ed ancora come assimilazione di concetti e di idee e come coordinamento e comparazione di esse.

Impariamo a nostre spese.

Infatti nell’interpretare i testi classici possiamo trarre un importante beneficio: la precisione e l’importanza del fatto che nulla si  deve trascurare.

Ecco, per finire questo mio breve intervento penso che gli studi classici danno un beneficio totale nel senso di una  formazione di una mentalità speciale che chiamiamo per brevità “classica”.

Ogni periodo storico ha la propria e la scuola calabrese, la scuola vibonese  è lo specchio della società odierna: come una bella addormentata non si sa quando si risveglierà per scoprire le proprie risorse e capacità che non sono seconde a nessuno in Italia.

Non parlo qui per campanilismo, il Petrarca mi viene incontro:  “Dico per ver dir, non per odio altrui o per disprezzo”.

Per questo si può dire che il Liceo, il Liceo classico per quanto mi riguarda non è passato invano!

Siamo convinti che l’attuale dirigente scolastico l’ing. Raffaele Suppa lascerà un’impronta positiva al nostro liceo.

Un augurio a tutti gli studenti e un buon compleanno all’antico e glorioso “Michele Morelli” per il IV secolo di vita.

Share

Dal paiolo al labirinto: storia e storie

di Francesco Santopolo

Premessa

La scelta di presentare contemporaneamnte quattro libri apparentemente diversi, nasce dall’esigenza di spiegare le ragioni della scrittura e trovare il filo rosso che tiene insieme un raccolta di versi, due “diari” a percorso differente e una vicenda in cui la biografia di una protagonista, diventata un’icona delle lotte democratiche del dopoguerra, è assunta a simbolo della storia dei subalterni in Calabria.

C’è, altrettanto importante, una seconda motivazione che giustifica questa scelta: questi libri meritano di essere letti ma riteniamo che non abbiano avuto e potrebbero non avere sufficiente diffusione.

Poetica e anti- poetica

Se partiamo dall’idea- cara a formalisti e strutturalisti- che «oggetto della poetica non è il testo letterario in se stesso, bensì […] la sua “letterarietà”» (Chatman, 2010), significa che prima della “qualità” di un’opera è necessario definire e collocare l’opera stessa.

Quando Jakobson scrive del Macbeth che il problema non è quello di stabilire se è un capolavoro ma piuttosto quali sono gli elementi che ci portano a definirlo una tragedia (in Chatman, l. c.), apre un problema non da poco per l’analisi poetica.

Ed è il problema che ci troviamo davanti con il libro di versi di Rosanna Talarico (Labirinti ed io dispersa), per tentare, prima di ogni giudizio critico, di cogliere gli elementi che ci consentono di definirlo un libro di poesia. L’autrice è nata a Cerva, nell’alta montagna interna della Presila catanzarese e da qui si è mossa verso spazi ambiziosi e, in qualche modo, laceranti.

Dopo essersi laureata alla “Bocconi” è andata a vivere a Parigi.

Due mondi lontani dalle sue radici e in cui la “matematica certezza” del dubbio si trasforma nella solitudine di un “lacerante immenso”.

L’autrice vive una condizione in qualche modo estraniante e, sebbene eviti di parlare in modo esplicito dei boschi e delle montagne, che pure ha nel cuore, risolve la propria esistenza in “Parentesi/graffe/dubbi” e solo la sera può abbandonarsi alla “vista sul mondo illuminato/dalla cima della montagna”.

Oppure può osservare che “i fiori crescono/inerpicandosi/sulle pareti del mondo”, quel mondo cui più non appartiene, ormai calata “nel rumore/di soffocante caos” fatto di “Volti, cemento, frenesia” che le fanno pensare con nostalgia a “strade/tra verdi montagne” e a “gente di poche ambizioni/ semplicità e silenzio”.

In altre parole, le sue strade e la sua gente. La poesia, in fondo, è uno dei tanti modi per guardare il mondo, con gli occhi di chi emerge dal “porto sepolto” e vede che “per le strade/della città deserta” appaiono “non più ombre di vita/ma fantasmi”.

Ci troviamo davanti a versi maturi, pervasi da una originale carica emotiva, pure in presenza di un ermetismo espressivo dominato dalla sapienza immaginifica di cui l’autrice fa uso nella scelta della parola.

Raccontare la vita, narrare la storia

Su tutt’altro piano si pongono i libri di Anna Manna (Il paiolo pieno di patate), Francesca Rizzari Gregorace (Pagine dell’Ottocento catanzarese) e Lina Furfaro (Giuditta Levato. La contadina di Calabricata), la cui lettura necessita di una premessa.

Se la narrativa è una struttura con un piano del contenuto e un piano dell’espressione, definiti, rispettivamente, storia e discorso (Chatman, l.c.), emergono alcune dicotomie.

La prima è rappresentata dal rappporto tra enunciati di processo ed enunciati di stasi, cioè tra il mondo dell’essere (esistenza) e il mondo del fare (azione). (Chatman, l. c.).

La seconda dicotomia è legata alla “rappresentazione” narrativa che può essere diretta o mediata.

Muovendosi all’interno di questi schemi, l’autore «scrivendo crea non soltanto un ideale, impersonale “uomo in generale” ma una implicita versione di “sé stesso”» o il proprio alter ego, per cui «il suo lettore si costruirà inevitabilmente l’immagine dello scrivente ufficiale, che è l’autore impicito, cioè l’autore «ricostruito dal lettore per mezzo della narrazione» (Chatman, l.c.).

Di un libro, quindi, si può scrivere in termini formalmente “tecnici” ma ci sono operazioni narratologiche che nascono da un viaggio dentro sé stessi e finiscono col coinvolgere e contaminare il lettore.

Nel caso di Francesca Rizzari Gergorace diciamo subito che ha scritto un libro che mancava e nel suo bisogno di recuperare “i ricordi della nonna”, offre, attraverso una testimone privilegiata, una ricostruzione attenta della Catanzaro ottocentesca e apre spiragli importanti per capire una città improbabile.

Nonna Giuditta era figlia di Michele Maria Manfredi, ingegnere di altissimo profilo, cui si devono la stesura del primo Piano Regolatore di Catanzaro e opere di sistemazione urbanistica e di difesa idrogeologica d’avanguardia, in una regione devastata da calamità naturali e terremoti.

Tra il 1637 e il 1689, la Calabria era stata devastata da alluvioni con cadenza ventennale (ad eccezione di quelle del 1683 e del 1689), gelate ad intervalli di 4-6 anni tra il 1600 e il 1683 e, infine, tra il 1609 e il 1635 terremoti ogni 3-5 anni fino alla scossa terribile del 1693 che produsse 12 mila morti nell’area dell’attuale Lamezia Terme.

Circa un secolo dopo, il 5 febbraio 1783, una violenta scossa di terremoto, seguita da altre nello stesso mese e in quelli successivi, sconvolge l’assetto oroidrografico della Calabria e consegna alla distruzione interi paesi e comunità, con 30.000 morti pari al 7,5% della popolazione.

Andando indietro di una generazione, il nonno di Giuditta, l’avvocato Giuseppe Maria, definito “decoro del Foro catanzarese”, era nato a Cantalupo (CB) il 9 novembre 1788.

A otto anni si trasferisce con la famiglia in una Napoli appena uscita dalla tragica esperienza della Repubblica Partenopea e in cui si preparano gli eventi del ’48 e gli uomini che ne saranno protagonisti.

Per chi manifesta nostalgia della Napoli borbonica, è il caso di ricordare che i moti del ’48 si concluderanno con la condanna a morte di Filippo Agresti, Michele Aletta, il barone Gennaro Bellelli, il barone Francesco Antonio Mazziotti, Casimiro De Lieto, Salvatore Faucitano, Luigi De Matera, Stanislao Lupinacci, Benedetto Musolino, Giuseppe Ricciardi, Filadelfo Sodano, Antonio Lopresti (Petrusewicz, 1998).

Ad altri come Silvio Spaventa, Saverio Barbarisi, Salvatore Gigliarano e Michele Calafiore, viene comminato l’ergastolo (Petrusewicz, l. c.).

Poi ci furono i condannati a pene tra i 18 e i 30 anni e molti, come Guglielmo Pepe, Santorre di Santarosa, il poeta Gabriele Rossetti, Francesco De Sanctis, Giuseppe Poerio, Terenzio Mamiani, Nicolò Tommaseo, Vincenzo Gioberti, Carlo Pepoli, Pietro Giannone, Giuseppe Sirtori, Michele Amari, Pier Silvestro Leopardi, Giuseppe Ricciardi, Piero Emilio Imbriani, Giuseppe Massari, finirono in esilio (cfr., M. Petrusewicz, l. c.).

In questo clima è del tutto naturale che il giovane Manfredi venga contaminato dalle prime esperienze politiche e culturali, mediate dalla conoscenza di Basilio Puoti (maestro di Francesco De Sanctis) e la frequentazione assidua di Pietro Colletta.

Divenuto giacobino, nel 1812 entra nel battaglione dei Véliti nella grande armata della Campagna di Russia.

Ebbe modo di distinguersi nella vittoria di Lutezet (Sassonia, maggio 1813) e guadagnò il grado di sergente, prima di tornare in Calabria con Florestano e Guglielmo Pepe (Sinopoli et al., 2004)

Da avvocato penalista difese i tre fratelli Marincola nel processo farsa del 20-24 marzo 1823 che vide la condanna a morte di Francesco Monaco (ghigliottinato), Giacinto De Jesse e Luigi Pascali (afforcati), la condanna “ai ferri” per 11 imputati e l’assoluzione di 3 imputati, i fratelli Cesare, Odoardo e Giovanni Marincola.

I fatti addebitati risalivano ai moti rivoluzionari del 1821 e nel corso del processo furono ascoltati 36 testimoni a carico sui 98 citati e nessun testimone a discarico. Gli estensori di quella sentenza infame furono, poi, processati e condannati nel 1825 (Sinopoli et al, l. c.).

Probabilmente al lettore risulterà difficile ricostruire l’autore implicito di Pagine dell’Ottocento catanzarese, perché con sapienza e umiltà Francesca Rizzari Gregorace riesce a celarsi dietro i ricordi della nonna, alla cui voce offre una narrativa fluida, curata nei toni e, solo apparentemente, neutra.

Affatto diverse sono le operazioni narratologiche di Anna Manna (Il paiolo pieno di patate) e di Lina Furfaro (Giuditta Levato. La contadina di Calabricata) che si muovono nell’ambito della letteratura diaristica, diretta nel caso della Manna, mediata nel caso della Furfaro.

Trovandoci al cospetto di narrativa diaristica, l’errore da evitare è quello di considerarlo un racconto privato e non, invece, come l’amarcord della vita di ognuno di noi per quel poco o molto che ci accomuna al narratore.

Per spiegarmi meglio farò riferimento ad alcune operazioni narrative diaristiche “indirette” citandone soltanto tre.

Autobiografia della leggera (1966) in cui Danilo Montaldi da voce a cinque personaggi della leggera, quel mondo di emarginati, dai cento mestieri e dall’esistenza precaria.

Il mondo dei vinti (1977) in cui Nuto Revelli ha raccolto ottantacinque racconti di vita contadina e L’anello forte (1985) in cui, sempre Nuto Revelli, da voce alla figura più marginale della nostra società: la donna contadina emarginata dalla propria condizione suibalterna e da una storia scritta al maschile. Questo richiama subito alla mente la figura della nonna di Anna Manna, rievocata con l’enfasi di una nipote che ha ricostruito lo spirito di tempi tragici, quando anche una donna appartenente alla classe agiata, si trova ad attraversare la storia, ed è costretta a prendere decisioni importanti, mostrando di che pasta sono fatte le donne che hanno radici nelle campagne.

Il romanzo di Lina Furfaro assume valenza emblematica nelle rievocazione di una figura come Giuditta Levato e si carica di valori epici nella ricostruzione del modello economico e del sistema di valori di cui erano espressione i subalterni nella Calabria tradizionale.

Sono passati sessantasei anni dalla morte di Giuditta Levato, questa contadina carismatica che guiderà i braccianti “senza terra” nelle occupazioni di terre incolte e malcoltivate.

Per ricostruire il clima in cui sono maturate le vicende che porteranno alla morte di Giuditta Levato va ricordato che a fine ‘700, nel Regno di Napoli, 113 famiglie possedevano il 61% della terra e 64 enti ecclesiastici ne possiedono il 37% (Woolf, 1973).

In pratica, il 98% della terra era in possesso dei nobili e della manomorta: 15 famiglie possedevano i ¾ delle terre feudali e la sola famiglia Pignatelli possedeva 72 feudi ma le le imposte sui terreni rappresentavano poco meno di 1/5 del carico tributario, mentre tassazioni indirette, gabelle, imposte di consumo e dazi doganali, raggiungevano livelli così alti che chi lavorava la terra pagava in tasse più di chi la possedeva (Woolf, 1973).

Dopo la liquidazione dell’Asse Ecclesiastico e le leggi eversive della feudalità, in Calabria almeno dieci famiglie avevano accumulato proprietà superiori ai ventimila ettari, senza considerare le terre possedute in altre aree (Berlingeri in Basilicata, Barracco in Rhodesia e Brasile).

Il latifondo era dominato dalla rotazione sessennale: maggese, grano, ringrano e tre anni di riposo pascolativo e l’anno di ringrano (quello meno produttivo) veniva dato a terraggeria.

Alla fine della seconda guerra mondiale, si ripresentava quella “fame di terra” che era stata la rivendicazione principale dei giacobini napoletani.

Il movimento contadino, partito nel 1943 con l’occupazione del fondo “Lochicello” di Andali, si concluderà con l’eccidio di Melissa, sarà uno dei momenti alti delle lotte democratiche del dopoguerra e, proprio per questo, contrassegnato da episodi di inaudita: violenza: Portella delle Ginestre, Montescaglioso, Calabricata, Melissa.

Ma se a Portella della Ginestra era stata la mafia a sparare- sia pure per conto degli agrari e con la protezione degli apparati istituzionali- a Melissa è la polizia dello Stato ad usare le armi contro bracianti inermi per difendere il “diritto” di chi aveva usurpato il fondo “Fragalà”, demanio di uso civico.

Per un paradosso della storia, Angelina Mauro, Francesco Nigro e Giovanni Zito, legittimi proprietari in qualità di “cittadini lavoratori manuali della terra”, furono uccisi per sancire il diritto degli usurpatori.

Diverso il destino di Giuditta Levato che muore per mano di Vincenzo Napoli, in circostanze che non furono chiarite durante il processo.

Napoli fu assolto per insufficienza di prove e i giudici espressero “dubbio se fu lui a sparare, dubbio se sparò volontariamente, dubbio se sparò per legittima difesa” (dalla sentenza del 3 agosto 1948. In Furfaro, l. c.)).

È veramente impagabile- se non celasse risvolti drammatici- l’ipotesi della legittima difesa che potrebbe indurci a credere che gli sputi o le minacce possano rendere legittimo l’uso delle armi.

Passando alla narrazione autobiografiche in prima persona che si muovono negli enunciati di processo, vorremmo citare alcuni esempi.

Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, per esempio, sono solo un racconto “privato” che, per quanto intrigante, sarebbe stato consegnato inevitabilmente all’oblio? O rappresentano la ricostruzione di un’epoca e di una generazione che vale fissare nella memoria?

Quale sarebbe oggi la nostra conoscenza della shoah senza il Diario di Anna Frank o le opere di Primo Levi? O, meglio, quale sarebbe oggi la nostra percezione di un etnocidio che non ha eguali nella storia dell’uomo e che meglio di ogni altro potrebbe fornire elementi per ricostruire quella Critica della ragion criminale in cui Gregory (2006) immagina coinvolto Immanuel Kant?

Più recentemente la narratologia diaristica ha acquistato una valenza storica e documentaria importante con Terra matta di Vincenzo Rabito e Ci trovammo bene nel futuro di Antonio Mele, due autori che hanno in comune il fatto di non essere “addetti ai lavori”.

Vincenzo Rabito era un bracciante semianalfabeta protagonista, a suo modo, di una storia minoritaria che ha atraversato tutto il ‘900. A un certo punto della sua vita, si chiude in casa a Chiaramonte Gulfi e, con l’ausilio della mitica “Lettera 32”, scrive 1300 pagine in spazio uno raccontando, in un misto di dialetto e qualche parola italiana appresa oralmente, una storia, la sua e quella di milioni di subalterni, che nessun altro avrebbe potuto raccontare con tanta efficacia.

Antonio Mele, ex bracciante, poi “contadino” su una quota di terra assegnata con la riforma fondiaria degli anni ’50, anche lui semianalfabeta ma “contaminato” da una cultura costruita attraverso la militanza politica nel partito socialista, o attraverso letture senza ordine che lo porteranno a scegliere un destino diverso per i suoi figli: uno avvocato, uno medico, uno agronomo e l’unica figlia libraia.

Il paiolo pieno di patate si presenta subito come opera aperta nel senso che si offre al lettore come stimolo verso atti di libertà interpretativa che rappresentano ”il peso della quota soggettiva nel rapporto di fruizione” (Eco, 1980). In altri termini, la maggior parte dei narratori guida il lettore e non lascia spazio alla sua interpretazione o, per dirla meglio, non lo contamina e non lo coinvolge.

Nel caso del “Paiolo”, leggere i ricordi di Anna Manna e sovrapporvi i nostri, obbedisce ad automatismi incosci ma profondamente contaminanti, per come l’autrice riesce a tenere in equilibrio la storia (il cosa) e il discorso (il come) (Chatman, l. c.).

Ma le due cose non sono separate perché gli eventi di una storia (cosa), quella che si chiama “intreccio” e che Aristotele chiamava mythos, acquistano senso dal discorso (come).

Il paiolo pieno di patate non è solo una operazione di recupero delle proprie radici ma acquista valore letterario per il fatto che storia e discorso si fondono armonicamente portandoci a dire che un libro su questi temi (cosa) poteva essere scritto solo in questo modo (discorso).

Ma ci sono altri aspetti del libro di Anna Manna che meritano di essere evidenziati.

Il libro è certamente un libro di ricordi o, meglio, una narrazione diaristica cui conferiscono grande dignità la storia (cosa) e il discorso (come) e il modo in cui l’autrice combina gli elementi della narrazione ma è anche un libro di antropologia o, meglio, di quella branca della disciplina definita antropologia sensoriale (Gusman, 2004) ed è anche un libro di storia.

Il paiolo pieno di patate si colloca autorevolmente nella rivoluzione culturale che ha attraversato queste due discipline. Quanto si è verificato negli ultimi 80 anni in campo storico, ne fa un libro di storia, così come raccontare i ricordi attraverso i sensi (la vista, l’olfatto, l’udito, il tatto, il gusto) lo collocano autorevolmente tra gli studi antropologici, nella branca dell’antropologia sensoriale nata a fine ‘900.

Veniamo agli aspetti storici entro i quali è possiile collocare il lavoro e che si muovono all’interno di quel grande movimento conosciuto come scuola delle “Annales”, raggruppata attorno a una rivista fondata nel 1929 da Marc Bloch e Lucien Febvre.

Il titolo iniziale della rivista era “Annales d’histoire économique et sociale”, divenuto dal 1946 “Annales. Economies. Sociétés. Civilisation” che porterà, nel 1947, all’istituzione della VI sezione dell’Ecole pratique des hautes études, per cambiare ancora nome nel 1994 diventando “Annales. Histoire et sciences sociales“.

Attorno alla rivista ruotavano alcuni dei maggiori storici del ‘900: Fernand Braudel, Georges Duby, Jacques Le Goff, Emmanuel Le Roy Ladurrie e, in posizione più defilata, Ernest Labrousse, Pierre Vilar, Maurice Agulhon, Michel Voselle, Peter Burke, Roland Mousnier e Michel Focault (Burke, 2001). Vale a dire una generazione di intellettuali che hanno innescato una rivoluzione culturale paragonabile a quella provocata da Einstein con la teoria della relatività.

In Italia si sono collocati su questa scia Emilio Sereni, Massimo Montanari, Augusto Placanica, Piero Bevilacqua, Pietro Tino, Lina Scalise, Gabriella Corona e tutto il gruppo di storici che ruota attorno all’IMES e alla rivista “Meridiana”.

Senza immergersi nell’analisi approfondita di un processo che ha cambiato il modo di scrivere la storia, gli assunti fondamentali delle “Annales” sono:

  1. la sostituzione della tradizionale storia narrativa concentrata sugli avvenimenti con una storia analitica orientata ai problemi;

  2. la storia delle attività umane (alimentarsi, mangiare, vivere il territorio e il paesaggio), invece che una storia principalmente politica;

  3. la contaminazione della storia con discipline altre (economia, sociologia, psicologia).

Se partiamo da quanto scrive Braudel che “La storia forse non è condannata a studiare soltanto giardini ben chiusi da muri” (1976), dobbiamo ammettere che per uscire dal “giardino” è necessario contaminare la storia con l’economia e con la sociologia, riprendendo in chiave storica il disegno tracciato da Durkeim con la rivista ”Année sociologique”, con cui tentava di sancire l’egemonia della sociologia tra le scienze umane.

Dalla nascita della scuola delle “Annales”, la storia non è più storia di “eventi”, epopea di eroi, narrazione di vicende ma è alimentazione (Massimo Montanari), paesaggio (Bevilacqua, Sereni), economia e territorio (Placanica, Bevilacqua), cioè è “scritta” dai cambiamenti materiali di cui gli uomini sono attori e fruitori.

In questo senso, il mondo raccontato da Anna Manna, non è “Un mondo semplice che consentiva una vita pienamente vissuta”. È, semplicemente, il mondo così come lo abbiamo vissuto, reso epico da un nuovo modo di scrivere la storia.

Raccontare quanta storia c’è in “Nonna Giovanna…rimasta vedova a ventinove anni, con cinque figli da crescere”, per esempio.

E lei lo fa, senza indugio, scrivendo la propria storia che diventa il simbolo di una possibile storia che ci appartiene.

Da un punto di vista antropologico, il libro si muove su due livelli.

Il primo è relazionale, il secondo sensoriale.

I venditori ambulanti la cui presenza contribuiva a creare circuiti relazionali, la vita nei cortili, i rapporti di vicinato, la “nevicata in tazza” e, soprattutto, i sensi che usiamo per vedere i colori e i paesaggi, sentire gli odori, avvertire i rumori, capire dal tatto la forma di un oggetto, sentire il gusto delle cose che mangiamo.

Cosa dire della rappresentazione ecologica delle “galline [che] razzolavano libere nell’aia” se non che è una critica forte al mondo globalizzato in cui siamo costretti a vivere?

E l’immagine delle “galline che deponevano le uova secondo i tempi che madre natura consentiva loro, le mucche davano il latte che era possibile”?

Sono immagini potenti di ricordi che non sono solo “ricordi” ma indicano una possibile alternativa a un modello di vita “esasperato e calcolato”.

Nell’uso dei sensi, invece, c’è un marcato etnocentrismo.

Anna Manna usa tutti i cinque sensi per ricostruire i suoi ricordi: la vista, l’olfatto, l’udito, il gusto, il tatto, tutte categorie sensoriali che appartengono al mondo occidentale. La vista, per esempio, che in alcune culture tribali è considerato un senso negativo consentito solo agli sciamani, nella cultura occidentale dominata dalle immagini “ha assunto un predominio assoluto” (Gusman, l. c.). Per contro, uno sciamano, proprio perché vede, non usa l’udito (Gusman, l.c.).

Anna Manna riscatta, però, l’etnocentrismo perché gli odori che la inducono a ricordare prima che nel suo naso sono nella sua cultura.

Bibliografia

Braudel, F. (1976), Civiltà e imperi del Medierraneo nell’età di Filippo II, Torino, Einaudi.

Burke, P. (2001), Introduzione a Una rivoluzione storiografica, in Insegnare la Storia, Agrigento, Imes.

Chatman, S. (2010), Storia e discorso, Milano, Il Saggiatore.

Eco, U. (1980), Opera aperta, Milano, Bompiani.

Frank, A. (1993), Diario, Torino, Einaudi.

Furfaro, L. (2012), Giuditta Levato. La contadina di Calabricata, Cosenza, Falco Editore.

Gregory, M. (2006), Critica della ragion criminale, Torino, Einaudi.

Gusman, A. (2004), Antropologia dell’olfatto, Bari, Laterza.

Levi, P. (1977), Se questo è un uomo, Torino, Einaudi.

Levi, P. (1978), La chiave a stella, Torino, Einaudi.

Levi, P. (1986), I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi.

Manna, A.(2012), Il paiolo pieno di patate, Soveria M.,. Calabria Letteraria Editrice.

Mele, A. (1997), Ci trovammo bene nel futuro, Argo.

Montaldi, D. (1966), Autobiografie della leggera, Torino, Einaudi

Nievo, I. (2006), Le confessioni di un italiano, Milano, RCS.

Petrusewicz, M. (1998), Come il Meridione divenne una Questione, Soveria Mannelli, Rubbettino.

Rabito, V. (2007), Terra matta, Torino, Einaudi.

Revelli, N. (1977), Il mondo dei vinti, Torino, Einaudi.

Revelli, N. (1985), L’anello forte, Torino, Einaudi.

Rizzari Gregorace, F. (2008), Pagine dell’Ottocento catanzarese, Catanzaro, Ursini.

Sereni, E. (1987), Storia del paesaggio agrario, Bari, Laterza.

Sinopoli, C.-Pagano, S.- Frangipane, A. (2004), La Calabria. Storia, geografia, arte, Soveria M., Rubbettino.

Talarico, R.( 1998), Labirinti ed io dispersa, Soveria M., Rubbettino.

Woolf, S. J. (1973),La storia politica e sociale, sta in Storia d’Italia, vol. III, Dal primo settecento all’Unità, Torino, Einaudi.

Share

Un mondo senza immaginazione: la fine delle illusioni

di Maria Elisabetta Curtosi

Cosa significa per centinaia di migliaia di persone essere allontanate a forza dal proprio paese d’origine, obbligate a migrare verso città e paesi lontani, abitati già da troppi uomini e donne che non li aspettano e non li accolgono certo bene? Cosa significa perdere tutti i propri seppur modesti beni, la propria casa e non avere nulla in cambio?

Si domanda Arundhati Roy, l’autrice dello splendido romanzo Il dio delle piccole cose. Si è laureata alla Delhi School of Architecture e vive a Nuova Delhi. È stata assistente al National Institute of Urban Affairs e ha studiato Restauro dei monumenti a Firenze. Ha scritto, tra l’altro, alcune sceneggiature. Il dio delle piccole cose, suo romanzo d’esordio, è stato un best seller in tutto il mondo.

 

La tragedia che si cela dietro questo fenomeno non è facile da  immaginare. Eppure “ E’ il governo indiano che organizza queste migrazioni di massa, per costruire dighe sempre più grandi, sempre più forti e sempre più economicamente utili ”. Una triste e drammatica realtà e la scrittrice ha scelto di non tacere , ma quali saranno i vantaggi? il progresso, il bene comune, l’interesse del paese? La Roy risponde no.

La scrittrice indica anche alcuni responsabili dello scempio, ad esempio la Banca Mondiale, alcuni Consulenti Internazionali per l’Ambiente, politici, burocrati e imprese costruttrici. Uno scenario che si ripete in molti altri paesi del Terzo Mondo, mentre il Primo Mondo si rifiuta ormai da tempo di costruire Grandi Dighe “che riducono la terra a un deserto, provocano inondazioni, saturazione e salinizzazione del terreno, e diffusione di malattie… non sono nemmeno riuscite a svolgere il ruolo di monumento alla Civiltà Moderna, di emblema del dominio dell’Uomo sulla Natura”.

Non si può parlare di “sviluppo costruttivo”, ma unicamente di “sviluppo distruttivo”. Un esempio di fallimento per tutti: la diga di Bargi, vicino a Jabalpur, che irriga solo il 5 per cento della terra che i progettisti avevano previsto.

<< Sono cresciuta in un villaggio e ho sperimentato sulla mia pelle l’isolamento, l’iniquità e la potenziale barbarie di questa vita. Non sono una fanatica antiprogresso, e nemmeno cerco di far proseliti a favore del mantenimento perenne di costumi e tradizioni. Ma sono molto curiosa. E la mia curiosità si è ridestata a proposito della valle della Narmada. L’istinto mi diceva che qui c’era qualcosa di grosso >>

Infatti, questo territorio è in pericolo per la costruzione di una diga del Sardar Sarovar, e da dieci anni c’è in corso una battaglia in India molto importante che sfociò in un problema polito e sociale cioè di democrazia. A chi appartiene questo territorio? E’ dei tribunali o dell’esercito o meglio dell’apparato burocratico?

Share

I grandi giornalisti dell’antichità

di Maria Elisabetta Curtosi

La storia del giornalismo moderno dev’essere datata a cominciare dal diciassettesimo secolo, quando la tecnologia permise la riproduzione, e quindi la pubblicazione, inmolte copie e in breve tempo di uno scritto, esiste un’altra vicenda molto più antica che fa parte dell’avventura umana della conoscenza e della comunicazione. Benetto Croce, nel saggio “Il Giornalismo e la storia della letteratura” ha ricordato che << parecchi scritti, che ora ammiriamo come classici e facciamo studiare nelle scuole, furono nient’altro che giornalismo dei tempi andati: le orazioni di Demostene, di Eschine, di Cicerone o i pamphlets del Courier e le lettere della Sevignè e del Galiani>>. Se invece facciamo riferimento a tempi dell’antica Grecia quando Senofonte nel suo scritto ” l’Anabasi”  raccontava la sfortunata spedizioni di Ciro in Mesopotamia, possiamo affermare con certezza che fu il precursore dei nostri attuali inviati di guerra.Inoltre dobbiamo ricordare Plinio il Giovane, grazia al quale ancora ricordiamo la tragedia di Pompei dove morì lo zio Plino il Vecchio ed infine Tacito considerato da molti l’inventore del più puro linguaggio giornalistico, cioè preciso con pochi aggettivi, crudo. In tutti i grandi giornalisti dell’antichità esiste un comunde denominatore, presente pure nei moderni, l’agiografia, che è poi madre della censura, a dimostrazione che il rapporto giornalismo-potere è stretto anche se teoricamente inconciliabile non tanto con la verità dei fatti, che è un valore così poco consistente, quanto con l’obiettività.

Share

Il viaggio dell’anima

di Maria Elisabetta Curtosi

Il canto di amore e morte dell’alfiere Christoph.

Rainer Maria Rilke,

Scritto nel 1899, comparve per la prima vota solo nel 1906 ma subito godette di una grande fama in tutta l’ Europa, riscuotendo un gran successo  travolgente tanto da vendere cinquemila copie solo nelle prime tre settimane. Nella sua storia, Rilke vi rielabora il mito a lui caro di una propria origine aristocratica, vi racconta , infatti, la vicenda tragica di un giovane alfiere Christoph, che muore nel tumulto della battaglia dopo aver provato per la prima volta le “gioie dell’amore”.

L’opera fu considerata “impressionista”, “tutta costruita per vividi frammenti, in un susseguirsi di quadri più poetici che narrativi”.

Già sono presenti alcuni dei grandi temi della sua poetica: il rimpianto nostalgico per l’infanzia e per la figura materna, il viaggio come ritorno, per ritrovare le proprie radici.

Infatti nato a Praga nel 1875, dopo un’infanzia infelice e un’adolescenza drammatica trascorsa in una accademia militare Rainer Maria Rilke iniziò a viaggiare per tutta l’Europa; Monaco, Berlino, in Italia, in Russia dove si recò con l’amica Lou Andreas-Salomè, la seduttrice più intellettuale dell’epoca che fu soprattutto un “allumeuse”, pronta a suscitare ammirazioni incontrollate che non aveva intenzione di soddisfare; e a Parigi dove strinse un importante sodalizio con Auguste Rodin. Ospite di amici, negli anni del primo dopoguerra soggiornò in Svizzera fino alla morte avvenuta nel 1926. Conosciuto come il maggior poeta tedesco e interprete lirico della spiritualità dell’età moderna la sua poesia si muove tra le filosofie i Schopenhauer e soprattutto Nietzsche.

L’esordio di Rilke è l’esordio di un gesto che costituirà la questione centrale della sua poesia: esteriorizzazione dell’interiorità ed interiorizzazione dell’esterno.

“Poeta di atmosfere intime e di realtà sfocate al limite dell’onirismo”. Egli preferisce optare per una “scuola dello sguardo”: «E perciò mi dedicherò a guardare meglio, a osservare, con più pazienza, con più dedizione» . Il poeta scorgeva nella prima scuola di impressionismo tedesco la precisa volontà di ignorare qualsiasi concezione romantica della natura nonché l’impegno a disertare le aule accademiche e gli atelier per immergersi completamente nel lavoro all’aperto, «en plein air» .

Nei momenti di autentico confronto con il “fenomeno visivo” egli avverte un’equivalenza tra il mondo interiore e quello esteriore, tra la dimensione dell’apparenza sensibile e quella dell’essenza o del significato.  Il poeta trova riparo nel mondo d’infinite gradazioni e sfumature (nel colore, nel movimento, nella luce) delle arti figurative. Qui Rilke cerca soprattutto nuovi modi di espressione, non ancora utilizzati nel campo della letteratura, e in grado di superare la “povertà di articolazione del linguaggio concettuale e astratto”.

Infatti negli anni dell’intenso rapporto con la pittura e la scultura del simbolismo, dell’impressionismo e del post-impressionismo europei, impara differenti lingue del visuale e in un articolo del 1898, l’autore opta definitivamente per una scrittura poetica, ritenuta la sola forma capace di cogliere spontaneamente, a livello intuitivo, gli stati d’animo umani.

Rilke rappresenta nei Quaderni il conflitto fra partenza e ritorno, distacco e ricongiunzione. Normalmente, si pensa ai Sonetti o alle Elegie come a un genere di discorso poetico dove l’autore è riuscito a esprimere delle verità sulla vita e sul linguaggio. Talvolta, si ha l’impressione che la conoscenza linguistica prevalga su quella esistenziale, producendo delle metafore o dei simboli della poesia.

Inoltre proprio le “Elegie di Duino” completano la ricerca rilkiana di uno sguardo “nuovo” che superi la mera apparenza e la caducità delle cose, per giungere al “lavoro di conversione continua dell’ amato visibile e tangibile nell’ invisibile vibrazione e agitazione della nostra natura”, alla ricerca dell’ essenza delle cose, di una loro profonda comprensione, che si trasfonda in parola, verso, canto.

Rilke, il cantore dell’ “aperto” (das Offene), il poeta dell’indicibile, scrive: “Visione e mondo esterno coincidevano dovunque come se fossero nell’ oggetto; in ciascuno di essi si manifestava tutto un mondo interiore, come se un angelo cieco e abbracciante lo spazio scrutasse in se stesso. Questo mondo, visto non più con gli occhi degli uomini, rappresenta forse il mio vero compito”.

Share

L’oro nero

di Maria Elisabetta Curtosi

<<L’effendi è quel signore che consuma, abitualmente, una tazza di petrolio alle cinque del pomeriggio >> trent’anni fa Rino Gaetano affermava ciò.

I tempi sono oramai maturi, ho perfino sentito: “d’ ora in avanti per far benzina dovrai chiedere un mutuo alla banca”, e credo non sia poi tanto sicuro che lo concedano, visto che nemmeno loro se la passano così bene.

Il prezzo di questo prodotto distillato è salito alle stelle, in Italia soprattutto, e noi però siamo arrivati alle stalle, con quel che ci costa.

Purtroppo conviviamo con “La Crisi”, oltre che economica magari presto risolta con una manovra del governo, la definirei pscicologica; poiché noi italiani finiamo per abituarci alle cose.

Come diceva Leopardi nello Zibaldone: <<  I fanciulli trovano il tutto nel nulla, gli uomini il nulla nel tutto>>.

Resta il fatto che il petrolio è il motore dell’economia mondiale utile a riempire le tasche di pochi, assoggetta popoli interi, crea guerre e povertà, fame e violenza.

La forza di cambiamento deve nascere nella coscienza collettiva di tutti noi, se questa dovesse venir meno a causa delle leggi bavaglio, ad esempio, i diritti dell’uomo sarebbero messi in serio pericolo.

Concludo con un testo ad hoc del grande cantautore crotonese, Rino Gaetano, una delle voci più nuove e originali della musica italiana degli anni ’70, estroverso ed ironico nei suoi testi che  apparivano surreali, con un nonsene come sfondo. Scrisse questa canzone, si dice, prendendo ispirazione dal fatto che lui, andava in giro nelle vie di Roma  con il maggiolino  di Antonello Venditti e con qualche altro amico a turno pagavano la benzina, anche se questo fu una sorta di incipit per parlare poi di affari finanziari e sociali legati all’uso del petrolio.

 

“Essence benzina e gasolina
soltanto un litro e in cambio ti do Cristina
se vuoi la chiudo pure in monastero
ma dammi un litro di oro nero…

Ti sei fatto il palazzo sul Jumbo
noi invece corriamo sempre appresso all’ambo
ambo terno tombola e cinquina
Spendi spandi spandi spendi effendi
spendi spandi spandi spendi effendi

se vinco mi danno un litro di benzina..

 

[…] pace prosperità e lunga vita al sultano”.

Inoltre ricordiamoci che Rino disse “vogliono mettermi il bavaglio ma non ci riusciranno”; e disse anche che le sue canzoni sarebbero state capite un giorno, quando la gente si sarebbe domandata cosa succedeva sulla spiaggia di capocotta.
A cosa alludeva Rino?

Share

CANZONE DI PROTESTA

di Maria Elisabetta Curtosi

“Mi han detto
che questa mia generazione ormai non crede
in ciò che spesso han mascherato con la fede,
nei miti eterni della patria o dell’ eroe
perchè è venuto ormai il momento di negare
tutto ciò che è falsità, le fedi fatte di abitudine e paura,
una politica che è solo far carriera,
il perbenismo interessato, la dignità fatta di vuoto,
l’ ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto ”

Anche se sono cambiate molte cose da quando fu scritta questa canzone, era il 1965, rimase comunque come un punto fermo nella produzione di Guccini e di tutta la canzone d’ autore in Italia.

Fu perfino censurata dalla Rai che pensò al titolo (di carattere nietzschiano) come blasfemo e non capì il testo della canzone, evidentemente interpretato in maniera erronea.

Ma è lo stesso Guccini che chiarisce i contenuti: << E’ una canzone di protesta, italiana a temi ulteriori rispetto a quello del pacifismo, e più precisamente veicola un’opposizione radicale all’autoritarismo, all’arrivismo, al carrierismo, al conformismo >>.

Alla fine la speranza di un futuro migliore rimane, e a questa speranza ci aggrappiamo anche noi giovani, sebbene le possibilità di trovare un lavoro stabile siano poche e incerte, dobbiamo rimanere nella nostra terra, nella nostra patria del sé;  e credere di migliolarla con i saperi e la cultura perché è necessaria una nuova rinascita spirituale e morale contro il consumismo, il falso moralismo e l’imperante ipocrisia.

Così  conclude:

“ Ma penso
che questa mia generazione è preparata
a un mondo nuovo e a una speranza appena nata,
ad un futuro che ha già in mano,
a una rivolta senza armi,
perchè noi tutti ormai sappiamo
che se dio muore è per tre giorni e poi risorge,
in ciò che noi crediamo dio è risorto.”

<< Una  spallata “pre-sessantottoesca”, tutto sommato, perché sentivamo che tante cose dovevano essere cambiate>>   in questo modo definì il brano il  Guccini poeta.

 

 

Share