di Francesco Santopolo
Premessa
La scelta di presentare contemporaneamnte quattro libri apparentemente diversi, nasce dall’esigenza di spiegare le ragioni della scrittura e trovare il filo rosso che tiene insieme un raccolta di versi, due “diari” a percorso differente e una vicenda in cui la biografia di una protagonista, diventata un’icona delle lotte democratiche del dopoguerra, è assunta a simbolo della storia dei subalterni in Calabria.
C’è, altrettanto importante, una seconda motivazione che giustifica questa scelta: questi libri meritano di essere letti ma riteniamo che non abbiano avuto e potrebbero non avere sufficiente diffusione.
Poetica e anti- poetica
Se partiamo dall’idea- cara a formalisti e strutturalisti- che «oggetto della poetica non è il testo letterario in se stesso, bensì […] la sua “letterarietà”» (Chatman, 2010), significa che prima della “qualità” di un’opera è necessario definire e collocare l’opera stessa.
Quando Jakobson scrive del Macbeth che il problema non è quello di stabilire se è un capolavoro ma piuttosto quali sono gli elementi che ci portano a definirlo una tragedia (in Chatman, l. c.), apre un problema non da poco per l’analisi poetica.
Ed è il problema che ci troviamo davanti con il libro di versi di Rosanna Talarico (Labirinti ed io dispersa), per tentare, prima di ogni giudizio critico, di cogliere gli elementi che ci consentono di definirlo un libro di poesia. L’autrice è nata a Cerva, nell’alta montagna interna della Presila catanzarese e da qui si è mossa verso spazi ambiziosi e, in qualche modo, laceranti.
Dopo essersi laureata alla “Bocconi” è andata a vivere a Parigi.
Due mondi lontani dalle sue radici e in cui la “matematica certezza” del dubbio si trasforma nella solitudine di un “lacerante immenso”.
L’autrice vive una condizione in qualche modo estraniante e, sebbene eviti di parlare in modo esplicito dei boschi e delle montagne, che pure ha nel cuore, risolve la propria esistenza in “Parentesi/graffe/dubbi” e solo la sera può abbandonarsi alla “vista sul mondo illuminato/dalla cima della montagna”.
Oppure può osservare che “i fiori crescono/inerpicandosi/sulle pareti del mondo”, quel mondo cui più non appartiene, ormai calata “nel rumore/di soffocante caos” fatto di “Volti, cemento, frenesia” che le fanno pensare con nostalgia a “strade/tra verdi montagne” e a “gente di poche ambizioni/ semplicità e silenzio”.
In altre parole, le sue strade e la sua gente. La poesia, in fondo, è uno dei tanti modi per guardare il mondo, con gli occhi di chi emerge dal “porto sepolto” e vede che “per le strade/della città deserta” appaiono “non più ombre di vita/ma fantasmi”.
Ci troviamo davanti a versi maturi, pervasi da una originale carica emotiva, pure in presenza di un ermetismo espressivo dominato dalla sapienza immaginifica di cui l’autrice fa uso nella scelta della parola.
Raccontare la vita, narrare la storia
Su tutt’altro piano si pongono i libri di Anna Manna (Il paiolo pieno di patate), Francesca Rizzari Gregorace (Pagine dell’Ottocento catanzarese) e Lina Furfaro (Giuditta Levato. La contadina di Calabricata), la cui lettura necessita di una premessa.
Se la narrativa è una struttura con un piano del contenuto e un piano dell’espressione, definiti, rispettivamente, storia e discorso (Chatman, l.c.), emergono alcune dicotomie.
La prima è rappresentata dal rappporto tra enunciati di processo ed enunciati di stasi, cioè tra il mondo dell’essere (esistenza) e il mondo del fare (azione). (Chatman, l. c.).
La seconda dicotomia è legata alla “rappresentazione” narrativa che può essere diretta o mediata.
Muovendosi all’interno di questi schemi, l’autore «scrivendo crea non soltanto un ideale, impersonale “uomo in generale” ma una implicita versione di “sé stesso”» o il proprio alter ego, per cui «il suo lettore si costruirà inevitabilmente l’immagine dello scrivente ufficiale, che è l’autore impicito, cioè l’autore «ricostruito dal lettore per mezzo della narrazione» (Chatman, l.c.).
Di un libro, quindi, si può scrivere in termini formalmente “tecnici” ma ci sono operazioni narratologiche che nascono da un viaggio dentro sé stessi e finiscono col coinvolgere e contaminare il lettore.
Nel caso di Francesca Rizzari Gergorace diciamo subito che ha scritto un libro che mancava e nel suo bisogno di recuperare “i ricordi della nonna”, offre, attraverso una testimone privilegiata, una ricostruzione attenta della Catanzaro ottocentesca e apre spiragli importanti per capire una città improbabile.
Nonna Giuditta era figlia di Michele Maria Manfredi, ingegnere di altissimo profilo, cui si devono la stesura del primo Piano Regolatore di Catanzaro e opere di sistemazione urbanistica e di difesa idrogeologica d’avanguardia, in una regione devastata da calamità naturali e terremoti.
Tra il 1637 e il 1689, la Calabria era stata devastata da alluvioni con cadenza ventennale (ad eccezione di quelle del 1683 e del 1689), gelate ad intervalli di 4-6 anni tra il 1600 e il 1683 e, infine, tra il 1609 e il 1635 terremoti ogni 3-5 anni fino alla scossa terribile del 1693 che produsse 12 mila morti nell’area dell’attuale Lamezia Terme.
Circa un secolo dopo, il 5 febbraio 1783, una violenta scossa di terremoto, seguita da altre nello stesso mese e in quelli successivi, sconvolge l’assetto oroidrografico della Calabria e consegna alla distruzione interi paesi e comunità, con 30.000 morti pari al 7,5% della popolazione.
Andando indietro di una generazione, il nonno di Giuditta, l’avvocato Giuseppe Maria, definito “decoro del Foro catanzarese”, era nato a Cantalupo (CB) il 9 novembre 1788.
A otto anni si trasferisce con la famiglia in una Napoli appena uscita dalla tragica esperienza della Repubblica Partenopea e in cui si preparano gli eventi del ’48 e gli uomini che ne saranno protagonisti.
Per chi manifesta nostalgia della Napoli borbonica, è il caso di ricordare che i moti del ’48 si concluderanno con la condanna a morte di Filippo Agresti, Michele Aletta, il barone Gennaro Bellelli, il barone Francesco Antonio Mazziotti, Casimiro De Lieto, Salvatore Faucitano, Luigi De Matera, Stanislao Lupinacci, Benedetto Musolino, Giuseppe Ricciardi, Filadelfo Sodano, Antonio Lopresti (Petrusewicz, 1998).
Ad altri come Silvio Spaventa, Saverio Barbarisi, Salvatore Gigliarano e Michele Calafiore, viene comminato l’ergastolo (Petrusewicz, l. c.).
Poi ci furono i condannati a pene tra i 18 e i 30 anni e molti, come Guglielmo Pepe, Santorre di Santarosa, il poeta Gabriele Rossetti, Francesco De Sanctis, Giuseppe Poerio, Terenzio Mamiani, Nicolò Tommaseo, Vincenzo Gioberti, Carlo Pepoli, Pietro Giannone, Giuseppe Sirtori, Michele Amari, Pier Silvestro Leopardi, Giuseppe Ricciardi, Piero Emilio Imbriani, Giuseppe Massari, finirono in esilio (cfr., M. Petrusewicz, l. c.).
In questo clima è del tutto naturale che il giovane Manfredi venga contaminato dalle prime esperienze politiche e culturali, mediate dalla conoscenza di Basilio Puoti (maestro di Francesco De Sanctis) e la frequentazione assidua di Pietro Colletta.
Divenuto giacobino, nel 1812 entra nel battaglione dei Véliti nella grande armata della Campagna di Russia.
Ebbe modo di distinguersi nella vittoria di Lutezet (Sassonia, maggio 1813) e guadagnò il grado di sergente, prima di tornare in Calabria con Florestano e Guglielmo Pepe (Sinopoli et al., 2004)
Da avvocato penalista difese i tre fratelli Marincola nel processo farsa del 20-24 marzo 1823 che vide la condanna a morte di Francesco Monaco (ghigliottinato), Giacinto De Jesse e Luigi Pascali (afforcati), la condanna “ai ferri” per 11 imputati e l’assoluzione di 3 imputati, i fratelli Cesare, Odoardo e Giovanni Marincola.
I fatti addebitati risalivano ai moti rivoluzionari del 1821 e nel corso del processo furono ascoltati 36 testimoni a carico sui 98 citati e nessun testimone a discarico. Gli estensori di quella sentenza infame furono, poi, processati e condannati nel 1825 (Sinopoli et al, l. c.).
Probabilmente al lettore risulterà difficile ricostruire l’autore implicito di Pagine dell’Ottocento catanzarese, perché con sapienza e umiltà Francesca Rizzari Gregorace riesce a celarsi dietro i ricordi della nonna, alla cui voce offre una narrativa fluida, curata nei toni e, solo apparentemente, neutra.
Affatto diverse sono le operazioni narratologiche di Anna Manna (Il paiolo pieno di patate) e di Lina Furfaro (Giuditta Levato. La contadina di Calabricata) che si muovono nell’ambito della letteratura diaristica, diretta nel caso della Manna, mediata nel caso della Furfaro.
Trovandoci al cospetto di narrativa diaristica, l’errore da evitare è quello di considerarlo un racconto privato e non, invece, come l’amarcord della vita di ognuno di noi per quel poco o molto che ci accomuna al narratore.
Per spiegarmi meglio farò riferimento ad alcune operazioni narrative diaristiche “indirette” citandone soltanto tre.
Autobiografia della leggera (1966) in cui Danilo Montaldi da voce a cinque personaggi della leggera, quel mondo di emarginati, dai cento mestieri e dall’esistenza precaria.
Il mondo dei vinti (1977) in cui Nuto Revelli ha raccolto ottantacinque racconti di vita contadina e L’anello forte (1985) in cui, sempre Nuto Revelli, da voce alla figura più marginale della nostra società: la donna contadina emarginata dalla propria condizione suibalterna e da una storia scritta al maschile. Questo richiama subito alla mente la figura della nonna di Anna Manna, rievocata con l’enfasi di una nipote che ha ricostruito lo spirito di tempi tragici, quando anche una donna appartenente alla classe agiata, si trova ad attraversare la storia, ed è costretta a prendere decisioni importanti, mostrando di che pasta sono fatte le donne che hanno radici nelle campagne.
Il romanzo di Lina Furfaro assume valenza emblematica nelle rievocazione di una figura come Giuditta Levato e si carica di valori epici nella ricostruzione del modello economico e del sistema di valori di cui erano espressione i subalterni nella Calabria tradizionale.
Sono passati sessantasei anni dalla morte di Giuditta Levato, questa contadina carismatica che guiderà i braccianti “senza terra” nelle occupazioni di terre incolte e malcoltivate.
Per ricostruire il clima in cui sono maturate le vicende che porteranno alla morte di Giuditta Levato va ricordato che a fine ‘700, nel Regno di Napoli, 113 famiglie possedevano il 61% della terra e 64 enti ecclesiastici ne possiedono il 37% (Woolf, 1973).
In pratica, il 98% della terra era in possesso dei nobili e della manomorta: 15 famiglie possedevano i ¾ delle terre feudali e la sola famiglia Pignatelli possedeva 72 feudi ma le le imposte sui terreni rappresentavano poco meno di 1/5 del carico tributario, mentre tassazioni indirette, gabelle, imposte di consumo e dazi doganali, raggiungevano livelli così alti che chi lavorava la terra pagava in tasse più di chi la possedeva (Woolf, 1973).
Dopo la liquidazione dell’Asse Ecclesiastico e le leggi eversive della feudalità, in Calabria almeno dieci famiglie avevano accumulato proprietà superiori ai ventimila ettari, senza considerare le terre possedute in altre aree (Berlingeri in Basilicata, Barracco in Rhodesia e Brasile).
Il latifondo era dominato dalla rotazione sessennale: maggese, grano, ringrano e tre anni di riposo pascolativo e l’anno di ringrano (quello meno produttivo) veniva dato a terraggeria.
Alla fine della seconda guerra mondiale, si ripresentava quella “fame di terra” che era stata la rivendicazione principale dei giacobini napoletani.
Il movimento contadino, partito nel 1943 con l’occupazione del fondo “Lochicello” di Andali, si concluderà con l’eccidio di Melissa, sarà uno dei momenti alti delle lotte democratiche del dopoguerra e, proprio per questo, contrassegnato da episodi di inaudita: violenza: Portella delle Ginestre, Montescaglioso, Calabricata, Melissa.
Ma se a Portella della Ginestra era stata la mafia a sparare- sia pure per conto degli agrari e con la protezione degli apparati istituzionali- a Melissa è la polizia dello Stato ad usare le armi contro bracianti inermi per difendere il “diritto” di chi aveva usurpato il fondo “Fragalà”, demanio di uso civico.
Per un paradosso della storia, Angelina Mauro, Francesco Nigro e Giovanni Zito, legittimi proprietari in qualità di “cittadini lavoratori manuali della terra”, furono uccisi per sancire il diritto degli usurpatori.
Diverso il destino di Giuditta Levato che muore per mano di Vincenzo Napoli, in circostanze che non furono chiarite durante il processo.
Napoli fu assolto per insufficienza di prove e i giudici espressero “dubbio se fu lui a sparare, dubbio se sparò volontariamente, dubbio se sparò per legittima difesa” (dalla sentenza del 3 agosto 1948. In Furfaro, l. c.)).
È veramente impagabile- se non celasse risvolti drammatici- l’ipotesi della legittima difesa che potrebbe indurci a credere che gli sputi o le minacce possano rendere legittimo l’uso delle armi.
Passando alla narrazione autobiografiche in prima persona che si muovono negli enunciati di processo, vorremmo citare alcuni esempi.
Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, per esempio, sono solo un racconto “privato” che, per quanto intrigante, sarebbe stato consegnato inevitabilmente all’oblio? O rappresentano la ricostruzione di un’epoca e di una generazione che vale fissare nella memoria?
Quale sarebbe oggi la nostra conoscenza della shoah senza il Diario di Anna Frank o le opere di Primo Levi? O, meglio, quale sarebbe oggi la nostra percezione di un etnocidio che non ha eguali nella storia dell’uomo e che meglio di ogni altro potrebbe fornire elementi per ricostruire quella Critica della ragion criminale in cui Gregory (2006) immagina coinvolto Immanuel Kant?
Più recentemente la narratologia diaristica ha acquistato una valenza storica e documentaria importante con Terra matta di Vincenzo Rabito e Ci trovammo bene nel futuro di Antonio Mele, due autori che hanno in comune il fatto di non essere “addetti ai lavori”.
Vincenzo Rabito era un bracciante semianalfabeta protagonista, a suo modo, di una storia minoritaria che ha atraversato tutto il ‘900. A un certo punto della sua vita, si chiude in casa a Chiaramonte Gulfi e, con l’ausilio della mitica “Lettera 32”, scrive 1300 pagine in spazio uno raccontando, in un misto di dialetto e qualche parola italiana appresa oralmente, una storia, la sua e quella di milioni di subalterni, che nessun altro avrebbe potuto raccontare con tanta efficacia.
Antonio Mele, ex bracciante, poi “contadino” su una quota di terra assegnata con la riforma fondiaria degli anni ’50, anche lui semianalfabeta ma “contaminato” da una cultura costruita attraverso la militanza politica nel partito socialista, o attraverso letture senza ordine che lo porteranno a scegliere un destino diverso per i suoi figli: uno avvocato, uno medico, uno agronomo e l’unica figlia libraia.
Il paiolo pieno di patate si presenta subito come opera aperta nel senso che si offre al lettore come stimolo verso atti di libertà interpretativa che rappresentano ”il peso della quota soggettiva nel rapporto di fruizione” (Eco, 1980). In altri termini, la maggior parte dei narratori guida il lettore e non lascia spazio alla sua interpretazione o, per dirla meglio, non lo contamina e non lo coinvolge.
Nel caso del “Paiolo”, leggere i ricordi di Anna Manna e sovrapporvi i nostri, obbedisce ad automatismi incosci ma profondamente contaminanti, per come l’autrice riesce a tenere in equilibrio la storia (il cosa) e il discorso (il come) (Chatman, l. c.).
Ma le due cose non sono separate perché gli eventi di una storia (cosa), quella che si chiama “intreccio” e che Aristotele chiamava mythos, acquistano senso dal discorso (come).
Il paiolo pieno di patate non è solo una operazione di recupero delle proprie radici ma acquista valore letterario per il fatto che storia e discorso si fondono armonicamente portandoci a dire che un libro su questi temi (cosa) poteva essere scritto solo in questo modo (discorso).
Ma ci sono altri aspetti del libro di Anna Manna che meritano di essere evidenziati.
Il libro è certamente un libro di ricordi o, meglio, una narrazione diaristica cui conferiscono grande dignità la storia (cosa) e il discorso (come) e il modo in cui l’autrice combina gli elementi della narrazione ma è anche un libro di antropologia o, meglio, di quella branca della disciplina definita antropologia sensoriale (Gusman, 2004) ed è anche un libro di storia.
Il paiolo pieno di patate si colloca autorevolmente nella rivoluzione culturale che ha attraversato queste due discipline. Quanto si è verificato negli ultimi 80 anni in campo storico, ne fa un libro di storia, così come raccontare i ricordi attraverso i sensi (la vista, l’olfatto, l’udito, il tatto, il gusto) lo collocano autorevolmente tra gli studi antropologici, nella branca dell’antropologia sensoriale nata a fine ‘900.
Veniamo agli aspetti storici entro i quali è possiile collocare il lavoro e che si muovono all’interno di quel grande movimento conosciuto come scuola delle “Annales”, raggruppata attorno a una rivista fondata nel 1929 da Marc Bloch e Lucien Febvre.
Il titolo iniziale della rivista era “Annales d’histoire économique et sociale”, divenuto dal 1946 “Annales. Economies. Sociétés. Civilisation” che porterà, nel 1947, all’istituzione della VI sezione dell’Ecole pratique des hautes études, per cambiare ancora nome nel 1994 diventando “Annales. Histoire et sciences sociales“.
Attorno alla rivista ruotavano alcuni dei maggiori storici del ‘900: Fernand Braudel, Georges Duby, Jacques Le Goff, Emmanuel Le Roy Ladurrie e, in posizione più defilata, Ernest Labrousse, Pierre Vilar, Maurice Agulhon, Michel Voselle, Peter Burke, Roland Mousnier e Michel Focault (Burke, 2001). Vale a dire una generazione di intellettuali che hanno innescato una rivoluzione culturale paragonabile a quella provocata da Einstein con la teoria della relatività.
In Italia si sono collocati su questa scia Emilio Sereni, Massimo Montanari, Augusto Placanica, Piero Bevilacqua, Pietro Tino, Lina Scalise, Gabriella Corona e tutto il gruppo di storici che ruota attorno all’IMES e alla rivista “Meridiana”.
Senza immergersi nell’analisi approfondita di un processo che ha cambiato il modo di scrivere la storia, gli assunti fondamentali delle “Annales” sono:
-
la sostituzione della tradizionale storia narrativa concentrata sugli avvenimenti con una storia analitica orientata ai problemi;
-
la storia delle attività umane (alimentarsi, mangiare, vivere il territorio e il paesaggio), invece che una storia principalmente politica;
-
la contaminazione della storia con discipline altre (economia, sociologia, psicologia).
Se partiamo da quanto scrive Braudel che “La storia forse non è condannata a studiare soltanto giardini ben chiusi da muri” (1976), dobbiamo ammettere che per uscire dal “giardino” è necessario contaminare la storia con l’economia e con la sociologia, riprendendo in chiave storica il disegno tracciato da Durkeim con la rivista ”Année sociologique”, con cui tentava di sancire l’egemonia della sociologia tra le scienze umane.
Dalla nascita della scuola delle “Annales”, la storia non è più storia di “eventi”, epopea di eroi, narrazione di vicende ma è alimentazione (Massimo Montanari), paesaggio (Bevilacqua, Sereni), economia e territorio (Placanica, Bevilacqua), cioè è “scritta” dai cambiamenti materiali di cui gli uomini sono attori e fruitori.
In questo senso, il mondo raccontato da Anna Manna, non è “Un mondo semplice che consentiva una vita pienamente vissuta”. È, semplicemente, il mondo così come lo abbiamo vissuto, reso epico da un nuovo modo di scrivere la storia.
Raccontare quanta storia c’è in “Nonna Giovanna…rimasta vedova a ventinove anni, con cinque figli da crescere”, per esempio.
E lei lo fa, senza indugio, scrivendo la propria storia che diventa il simbolo di una possibile storia che ci appartiene.
Da un punto di vista antropologico, il libro si muove su due livelli.
Il primo è relazionale, il secondo sensoriale.
I venditori ambulanti la cui presenza contribuiva a creare circuiti relazionali, la vita nei cortili, i rapporti di vicinato, la “nevicata in tazza” e, soprattutto, i sensi che usiamo per vedere i colori e i paesaggi, sentire gli odori, avvertire i rumori, capire dal tatto la forma di un oggetto, sentire il gusto delle cose che mangiamo.
Cosa dire della rappresentazione ecologica delle “galline [che] razzolavano libere nell’aia” se non che è una critica forte al mondo globalizzato in cui siamo costretti a vivere?
E l’immagine delle “galline che deponevano le uova secondo i tempi che madre natura consentiva loro, le mucche davano il latte che era possibile”?
Sono immagini potenti di ricordi che non sono solo “ricordi” ma indicano una possibile alternativa a un modello di vita “esasperato e calcolato”.
Nell’uso dei sensi, invece, c’è un marcato etnocentrismo.
Anna Manna usa tutti i cinque sensi per ricostruire i suoi ricordi: la vista, l’olfatto, l’udito, il gusto, il tatto, tutte categorie sensoriali che appartengono al mondo occidentale. La vista, per esempio, che in alcune culture tribali è considerato un senso negativo consentito solo agli sciamani, nella cultura occidentale dominata dalle immagini “ha assunto un predominio assoluto” (Gusman, l. c.). Per contro, uno sciamano, proprio perché vede, non usa l’udito (Gusman, l.c.).
Anna Manna riscatta, però, l’etnocentrismo perché gli odori che la inducono a ricordare prima che nel suo naso sono nella sua cultura.
Bibliografia
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