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Il giorno dell’Ascensione

di Maria Elisabetta Curtosi

Il recupero e la valorizzazione della storia di una comunità deve costituire un obiettivo irrinunciabile per qualunque comunità che voglia privilegiare il rapporto dialettico passato-presente al fine di guardare al futuro con maggiore  consapevolezza.

La ruralità, strettamente legata e connessa da vincoli primordiali, da queste parte vuol dire identità culturale e quindi cultura popolare proprio di un mondo che non c’è più, ma che i semplici richiamano alla storia, alle leggende ed alle tradizioni,alle  costumanze cristiane che si innestano con quelle pagane che durano ancora e che vede mescolarsi il sacro con il profano, il pagano antico con l’elemento cristiano venuto dopo tanto come era nelle usanze e tradizioni sacre greche. Era uso da parte dei coloni della Magna Grecia commemorare all’entrata della primavera l’ascensione di Proserpina dall’inferno che si purificava bagnandosi nelle acque del mare e pare di rivivere quei tempi antichi quando da Pannaconi si vedono discendere nelle prime ore del giorno  dell’Ascensione e comunque prima del sorgere del sole ,verso la località “ Scrugli” o “ Maghija” sulla spiaggia di Safò  le donne pannaconote. Dopo aver percorso  tutto quel territorio, che da Pannaconi porta a “ Scrugli”,che dista in linea d’aria un paio di chilometri e dove ancora si possono ammirare vaste zone coltivate ad agrumi, olivi e piante di cereali e dove la natura, le luci, il buio, l’arcobaleno, la natura ,  i fiori dei capperi, le foglie di  liquirizia, sembrano  diversi, fuori dal tempo e dal mondo; un posto dove l’estate dura di più degli altri posti perché il mare che è a quattro passi è senza dubbio “il più bello del mondo “, come lo defini sir William Hamilton, vulcanologo e diplomatico, in occasione del terribile terremoto del 1783, che appunto distrusse il vecchio abitato di Pannaconi; rimane   la Villa Romana come viene comunemente chiamata per fare da guardia nel cinquecento  a difesa dei Saraceni, dei barbareschi.  Da qui si può vedere nelle giornate limpide lo scoglio d’Ulisse, Punta Safò, Santa Irene, Scoglio della Catena dove si avventurarono i cercatori di oro forse attratti dal colore della rena che ha ancora oggi il colore che si avvicina all’oro.  Sono  solo donne,quasi tutte anziane avvolte talune  ancora nei “ Jippuni” neri, allo spuntare del sole arrivano sulla spiaggia cantando e recitando preghiere e si bagnano i piedi nelle acque marine continuando a cantare e recitare preghiere invocando lo Spirito Santo per dare forza e salute.” Grolia a Vui, Patreternu,grolia a Vui, figghiolo divinu, grolia a Vui Spiritu Santu, comu a Vui sempi sarà, grolia pi tutta l’eternità”. Dietro il golfo di Pizzo il sole è quasi alto e le donne ancora nell’acqua si prendono per mano formando una lunga catena umana . Canti, suoni, colori, odori e poesia accompagnano la devozione dell’ascesa di Gesù al Cielo nella ricorrenza dell’Ascensione. Difficile risalire storicamente alla composizione dei canti che si tramandano di generazione in generazione, come non è impresa da poco raccogliere e tutelarne la memoria affinchè non si disperda l’ingente patrimonio dei sentimenti popolari. Il mare, le piccole cose, il sogno, la natura, la vita, la morte, la gioia, l’amore e la donna. Un minuto all’alba per un rapporto all’infinito. Dalle lontane colline sboccia la luna e il mare e lo Stromboli splendono di là, ma la terra è piena di “ scandalari” colore oro, profumi di ginestra ed i colori rosso accesi dei papaveri fanno da scenari ad una sorta   di “ rito di passaggio”.  Il sentiero del silenzio è pieno di rumori: quelli che non siamo più abituati ad ascoltare, dallo stormir di fronde degli alberi di ulivo secolari al cinguettio di fringuelli, con gli alberi di fichi e di mele selvatiche su cui arrampicarsi d’estate per cogliere i dolci frutti, e con i merli a fare compagnia, insieme al battere a martello dei picchi fino al rumore del mare racchiuso in una vecchia conchiglia. Le vecchie donne raccolgono sui sentieri, sulla strada del ritorno “ l’erba dell’Ascensione” una pianta succulenta che viene messa al capezzale del letto per quaranta giorni e cioè per il tempo della fioritura. Mentre ne percorri il sentiero l’unica voce che senti è la voce umana di Gustina, la donna più anziana,si risale sulla collina  ed ogni fermata mette poi a disposizione dei camminatori silenziosi e ci si trova a star bene con qualcuno anche senza parlare e capisci che quelle sono le persone giuste. Da piccolo mi piaceva andare perché c’era tutto quel silenzio . Se fiorisce è indice di salute, in caso contrario è da attendersi giorni nefasti . Dimenticavo di evidenziare che questa erba deve essere raccolta in un luogo che lo sguardo esclude la vista del mare ed al pellegrino laico,  il sentiero del silenzio lascia due possibilità: si può scegliere il percorso breve ( 35 minuti, senza contare quelli dedicati ad eventuali riflessioni) e con salite alla portata anche dei polmoni di un fumatore . O quello lungo che di minuti ne richiede almeno 55, pendii mozzafiato e panorami degli dell’Infinito leopardiano.  Il tutto, dalle 4 di mattino allo spuntare del sole.

E dunque, perché non riscoprirla,lungo u due- tre chilometri che costituiscono il percorso  dell’”Ascensione”, partendo proprio dai resti della Villa romana, con un viaggio “ al rallentatore” per conoscere la cultura, il territorio, le persone, a ritmi lenti, fermandosi qua e là per osservare il verde fitto dei limoneti ai lati della strada, le greggi di pecore al pascolo, le rovine di vecchie “ pinnate” e costruzioni padronali che emergono tra gli arbusti sempre verdi e le perenni gramigne, l’eco della parrata pannaconota di Gustina e le altre donne e lo scenario spettacolare del golfo di Santa Venere e quello di Pizzo.  Da queste parte Cicerone era di casa quando veniva a trovare il suo amico Sicca. Qui nessuno suona il clacson, nessuno va di corsa. Ma ciò che rende magico il percorso è un originale sole con il volto umano e lunghi raggi gemmati, quello dell’Ascensione, appunto.”  A Santa Venere, ov’io sono,  mi riposo del mio lungo viaggio”, cosi diceva Cicerone.

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Dante nel cinema

di Maria Elisabetta Curtosi

Nell’ambito dell’approfondimento dell’analisi del sistema dell’ intertestualità dantesca nel cinema Rino Caputo,  professore ordinario di Letteratura Italiana  Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma “Tor Vergata evidenza la divulgazione prorompente di Dante nell’orizzonte multimediale, attraverso la informatizzazione multimediale.

Il fenomeno quale Digital Dante ha avuto una grande diffusione in questi anni, numerosi sono i siti on-line di qualità ad esempio Dante On Line che è un progetto della Cassa di Risparmio di Firenze che mette in linea , tra l’altro, alcuni manoscritti della Commedia.

Inoltre, l’Università di Princeton propone il Princeton Dante Project, che unisce gli approcci tradizionali allo studio della Commedia con la multimedialità. La facilità di reperire documenti oggi è semplicemente più evidente oggi rispetto a anni fa. Ricostruire e classificare un testo con criterio.

Andrea Cortellessa è un critico letterario italiano, storico della letteratura e professore associato all’Università Roma Tre presso il DAMS, dove insegna Letterature Comparate e Storia della Critica ed ha proposto una lettura critica dei canti I – VIII dell’ Inferno di Dante attraverso una video-lezione.

Il culto di dante – continua Caputo – si è trasferito dai padri fondatori che vedevano la commedia come la Bibbia ad un eccesso di ermeneutica teologia. Ad esempio Eliot (900) diceva che Dante è << easy to read >>, arriva più direttamente di Shakespeare, inoltre, senza la nostra tradizione illustre non ci sarebbe modernità di Dante. Più avanti Caputo cita anche  Foscolo (800) : << dante tenzona, Petrarca sona>>. Per sottolineare la grande energia che trasmette Dante nelle sue opere. Dal Nord America ci fu un eccesso di teologizzazione.

Amilcare Iannucci, studioso di Dante, direttore del centro di studi umanistici dell’Università di Toronto ha affrontato, in uno dei suoi ultimi volumi, il tema  di Dante e Hollywood.

<< L’influsso di Dante nel cinema risale all’inizio del Novecento e precisamente data 1911 il primo lungometraggio è un film basato sulla prima cantica della Divina Commedia cioè l’Inferno, è un film mediato dalle immagini di Gustave Dorrè. La  grandezza di Dante varca i confini che tempo e spazio riservano ai comuni mortali ce la sua arte e la sua ispirazione hanno influenzato gli animi di scrittori e poeti ma questi ritrovano vigore nel mezzo cinematografico e danno infinita e continua linfa creativa a registi e creatori di Hollywood.>>

Sono centinaia i film che in qualche modo sono stati ispirati, hanno preso spunto ed atmosfere dal lavoro di Dante alla pari di Shakespeare. Ma perche Dante attrae così tanto?

<< Dimensione visuale che è molto forte poiché crea un mondo parallelo che è molto simile al nostro, contiene tutto, storie drammatiche, personaggi appassionati dante è un testo produttivo che produce altri oggetti: film, poesia, architettura. Ed ecco rappresentate allegorie dantesche: le pene del contrappasso, figure chiave in molte sceneggiature di horror e thriller come Seven e anche comici come Bugiardo Bugiardo con Jim Carrey.

La discesa agli inferi intesa come discesa interiore e la figura di Lucifero interpretata al cinema da Al Pacino nel film L’avvocato del Diavolo. In Annibal troviamo non solo la Divina Commedia ma anche l’amore ossessivo della “Vita Nova”.

Hollywood ricambia il favore a Dante, testi impegnativi sui banchi di scuola e dell’università tornano infatti ad essere amati dagli studenti. L’aspetto audiovisivo è molto importante. Se loro vedono che c’è un vecchio testo che è ancora attuale che non è un testo morto ma un tsto che può essere ricreato non solo in letteratura ma anche nel cinema e nella televisione agli occhi dei giovani diventa più importante.>>

Il periodo muto annovera anche una Beatrice d’ispirazione dantesca (1919, regia Herbert Brenon) con la diva dell’epoca Francesca Bertini, e un horror americano, Dante’s Inferno del ’24, diretto da Henry Otto e scritto da Edmound Goulding, uno dei registi della Garbo, dove s’immagina che un avido e spietato uomo d’affari, giustiziato per aver spinto al suicidio una sua vittima, finisca agli inferi tormentato per l’eternità da demoni insaziabili. È solo il primo di una serie di titoli in cui lo sfondo “infernale” (il Purgatorio e il Paradiso attraggono poco, anzi per niente, la settima arte) serve da trait-d’union metafisico, metaforico e ammonitore con la contemporaneità, oppure da sfondo puramente fantasy: quest’ultimo è il caso del rutilante peplum Maciste all’inferno di Guido Brignone (1925), con il leggendario Bartolomeo Pagano.

Opera aperta, teatrale, pluringuistica, sperimentale, visionaria, realistica, dialogica, narrativa e multisemica, la Commedia sollecitò fino dalla sua apparizione metamorfosi in tutte le arti.

Il 1907 segna l’avvento del primo cortometraggio (10 min.) a soggetto dantesco “Francesca di Rimini” o “the Two Brothers” di William V. Ranous, prodotto negli USA dalla Vitagraph Company.

La nuova sensazionale tecnologia il  cinema, appunto, permise per la prima volta nella storia di narrare non più soltanto per verba o mediante la mera giustapposizione di icone statiche (si pensi all’effetto di “moviola” delle illustrazioni alla Commedia di Sandro Botticelli con la ripetizione delle posizioni multiple assunte via via dai viaggiatori Dante e Virgilio) ma con immagini finalmente in fluido movimento senza apparente soluzione di continuità.

In fondo, trasporre la Commedia di Dante in un film, passando cioè da parole scritte, immobili, disposti su una pagina ad un adattamento visivo, equivalente all’originale si può parlare di una forma di intertestualità o meglio di traduzione intersemiotica  in quanto passaggio da un dato medium espressivo ad un atro.

Agli albori della storia del cinema, che si caratterizza subito rispetto alle altre arti come prodotto industriale e di massa, ma che cerca ancora un suo specifico, alcune intraprendenti case di produzione di Milano, Torino, Roma e New York pensarono, e vinsero la scommessa che la Divina Commedia avrebbe potuto essere lo script perfetto per nobilitare la decima Musa ancora legata a forme di intrattenimento illusionistico e leggero da vaudeville e ad un pubblico popolare: Dante, con il suo indiscutibile valore letterario e civile ora elevato a ideologia patriottico e confessionale, avrebbe convinto una borghesia melomane e perbenista ad entrare in una “licenziosa” sala cinematografica Così, le vicende stesse dell’uomo Dante, le esiziali passioni di un manipolo di suoi grandi personaggi, il fantastico dei paesaggi oltremondani e la fisicità dei dannati si presentavano quali ottimi spunti cinematografici, tra l’altro già noti al pubblico per il tramite della temperie culturale romantica, preraffaellita e decadente.

Su tutto, indiscussa protagonista del cinema ad ispirazione dantesca, già celebrata da tele, sinfonie e pièces teatrali, Francesca, l’eroina romantica per eccellenza, la cui storia ha tutte le carte in regola per “funzionare” nel cinema poiché contiene in sé con il suo pathos caratteri di comedy, drama, thriller e sexy movie.

I primi approcci del cinema con Dante, certo, consistono di brevi scene in costume in cui si vedono, filmati in un interno, i più celebri personaggi “characters” danteschi che mimano con i gesti enfatici tipici del teatro dell’epoca le loro vicissitudini, con al termine una spasmodicamente lenta morte (gli abiti e gli arredi sono di gusto neogotico e dannunziano).

Tra il 1907 e il 1926 si collocano svariati adattamenti diretti della storia di Paolo e Francesca (a quello di Ranous seguirono quelli di Mario Marais [1908], Ugo Folena [1909] (con la grande Francesca Bertini), Stuart Blackton [1910], Eduardo D’Accurso [1917], Ubaldo Maria Del Colle [1919], Mario Volpe [1922], Aldo De Benedetti [1926] e vari anonimi), del Conte Ugolino (Giuseppe De Liguoro [1908], Giovanni Pastrone [1909]), di Pia de’ Tolomei (Mario Case- rini [1908], Gerolamo Lo Savio [1910], Giovanni Zannini [1921]).

Sorprendentemente, a distanza di quasi cento anni, un amalgama di questi stessi ingredienti (mangiamento del cuore nel primo sonetto della “Vita Nova” suicidio di Pier delle Vigne accusato di tradimento, e tecnofagia di Ugolino) è stato riproposto da Ridley Scott nel suo Hannibal nel 2001, ambientato a Firenze sull’onda del torbido caso giudiziario del “mostro”.

Su questa produzione pionieristica degli anni Dieci spicca “L’inferno” diretto da Francesco Bertolini e Adolfo Padovan (con la collaborazione di Giuseppe de Liguoro ed Emilio Roncarolo), prodotto dalla Saffi-Comerio  nel 1911. Alla sua trionfale prima presso il Teatro Mercadante di Napoli il 2 Aprile 1911 (con ottime recensioni di Matilde Serao e di Antonio Labriola, che ne sottolineava l’utilità didattica) seguì una redditizia distribuzione anche all’estero grazie ad un nuovo sistema di Gustavo Lombardo che vendeva non le “pizze” contenenti le pellicole, ma i diritti sulle proiezioni in esclusiva per zone.

Si tratta del primo lungometraggio in Italia, e uno dei primi in assoluto (65 minuti, 1.400 metri di pellicola), che richiese ben due anni per la sua produzione, il che permise a Giuseppe Berardi e Arturo Busnengo della di plagiarlo mentre era in corso d’opera e di far uscire nelle sale il “proprio” pressoché identico ma ben più episodico Inferno (di 15 min.) nel Febbraio (con la differenza che Francesca è qui a seni nudi ma sono invece coperti i genitali degli uomini), cui tenne dietro un Purgatorio nell’anno successivo (mentre Giovanni Pettine realizzò un Paradiso).

Ma ad essere ricordato è soprattutto un nuovo Dante’s Inferno (uscito in Italia come La nave di Satana), stavolta sonoro (1935), a firma dell’americano Harry Lachman, protagonisti Spencer Tracy, Claire Trevor e la semiesordiente Rita Cansino (Hayworth), dove Tracy è l’ambizioso e privo di scrupoli gestore di una serie di attrazioni da luna-park che finiranno però immolate in un incendio purificatore e redentore.

L’Inferno di Bertolini e Padovan, diviso in 54scene (ne sopravvivono due copie leggermente diverse tra di loro, una restaurata dal British Film Institute e una conservata presso la Cineteca Nazionale di Roma) intervallate dalle didascalie con le citazioni dei versi e concluso con un’immagine del monumento di Dante a Trento (all’epoca ancora terra irredenta), è una trasposizione completa e letterale dell’Inferno di dante di Inferno di Dante di grande suggestione visiva (ispirata alle incisioni di Gustave Doré come pressoché tutti i film danteschi a venire), nella quale le scene di teatro riservate ai personaggi principali (Paolo e Francesca, Pier delle Vigne, Conte Ugolino) rivivono quali flashbacks incastonati nella diegesi complessiva.

Il grande successo fu dovuto anche ad un uso efficace della macchina da presa (il campo lunghissimo con i cerchi concentrici dei lussuriosi che volano e l’inquadratura dal basso di Farinata ne sono alcuni esempi) e dei primi effetti speciali (presi in prestito dal cinema fantascientifico di Georges Méliès): dai vecchi trucchi teatrali illusionistici delle funi (Beatrice che vola via), delle esplosioni fumanti (i ladri), dell’abito nero su fondo nero per simulare invisibilità (la testa tenuta in mano da Bertran de Born), fino alle tecniche di dissolvenza in entrata e in uscita (i ponti sospesi e i giganti) e di esposizione multipla (l’aureola luminescente e rotante di Beatrice, Dante e Virgilio fissi in un angolo dell’inquadratura mentre scorrono i paesaggi). Accanto a momenti di eleganza e di grazia, si riscontrano (almeno nelle copie sopravvissute) però anche errori di montaggio (la discesa su Gerione fuori posto) e omissioni (i sodomiti). Dagli anni Venti si cominciano a produrre anche mélangese e rielaborazioni: il nuovo medium ha ormai acquisito gli strumenti per raccontare (da cinema di illusione a cinema di narrazione),e non ha più bisogno di Dante per costruire interamente un film, se non per collegarlo ad altri temi, sentimentali o politici (si prenda Das Spiel mit dem Teufer dell’austriaco Paul Czinner [1920], La mirabile visionedi Luigi Sapelli [1921] (con il grande Gustavo Salvini), o Dante nella vita dei tempi suoi di Domenico Gaido [1922], che fonde riferimenti storici con la vita del poeta e la tragedia di Piccarda Donati carda Donati).  Su questa nuova linea di ibridazioni, sospeso tra superomismo e futurismo,  Maciste all’Inferno di Guido Brignone del 1926 (ripreso in chiave surrealmente comica nel Totò all’inferno di Camillo Mastrocinque [1955], ed in chiave camp – con ambientazione al tempo della caccia alle streghe – nel remake di Riccardo Freda [1962], autore anche di uno stilisticamente attardato Conte Ugolino [1949]).

In questo contesto melodrammatico (che pure stregò un giovanissimo Fellini per i suoi primi piani espressionistici e per lo charme di una formosa Proserpina in bikini) il re dell’Ade Plutone manda Barbariccia sulla terra per assoldare Maciste (il nuovo uomo fascista e virile, impersonato da Bartolomeo Pagano), ma invano; seduce allora un principe debosciato ed effemminato (il fragile ancien régime), che corrompe una ragazza. Per salvare il neonato, Maciste viene travolto all’Inferno, dove vige la regola che chi scambia un bacio con una donna viene lì trattenuto per sempre (ennesima rimodulazione del bacio fatale tra Paolo e Francesca). Maciste cede alle lusinghe di Proserpina, abbigliata come una dea egizia, e la bacia, per cui rimane incatenato come Prometeo ad una roccia, ma sarà alla fine salvato dalla preghiera in suo favore balbettata dall’infante nel giorno di Natale. Il film dispiega tutta una serie di reminiscenze dantesche (il nome Barbariccia, i diavoli crocifissi al terreno come Caifas o con la testa staccata come Bertran de Born ecc.), ma si tratta di un Inferno di soli eserciti di diavoli senza dannati, ibridato con l’Ade classico, e contrappuntato da invenzioni della modernità, quali grattacieli, aeroplani e perfino una sorta di televisore. A partire dalla fase “classica della produzione di Hollywood, i personaggi danteschi vengono disambientati in altri luoghi e tempi: così Henry Otto nel suo Dante’s Inferno nel 1924, così David Wark Griffith nel suo Drums of Love nel 1928 (che sposta in Sud America la storia di Paolo e Francesca), così Harry Lachmann nel suo Dante’s Inferno (1935, sonoro, con Spencer Tracy), che prende il nome dal theme park gestito da un avido capitalista che porta al suicidio il suo concorrente ma si pente leggendo l’episodio di Pier delle Vigne: il tipico puritanesimo americano porta questi registi ad interpretare Dante come un morality play che insegna a tornare sulla retta via (la parodia di quest’ottica, con un’allegra discesa in un Inferno fatto invece di jazz, coctkails, striptease e small talk che trasgredisce il taboo del Deconstructing Harry [Woody Allen, 1997]).

Dal dopoguerra in poi, il cinema guarderà spesso a Dante, ma solo per estrapolarne elementi molto specifici e circoscritti da incorporare ed incastonare, popolarizzandoli, entro un testo filmico con una sua propria autonomia, stante l’impossibilità di realizzare in toto un equipollente della Commedia (penosi i tentativi di resuscitare nella modernità i generi del muto quali le Pia de’ Tolomei di Esodo Pratelli [1941] e di Sergio Greco [1958], i Paolo e Francesca di Riccardo Matarazzo [1949] e di Gianni Vernuccio [1971]): lo stesso Fellini non andò oltre abbozzi di sceneggiatura di un suo Inferno, e dichiarò l’inadeguatezza di qualunque regista a tale compito.

Nonostante Mario Monicelli abbia scherzosamente dichiarato che la “Commedia all’Italiana” nasce proprio con Dante, manca a tutt’oggi una trasposizione completa della Commedia , e lo stesso Peter Greenaway, che ha realizzato nel 1989 il pur splendido A TV Dante (con la collaborazione dell’artista figurativo Tom Phillips) optando per il format della serie televisiva a puntate settimanali (trasmesse nel Regno Unito da Channel 4 a partire dall’episodio-pilota di Inferno V), non è di fatto riuscito ad andare oltre il Canto VIII dell’ Inferno (modesto il tentativo di prosecuzione di Raul Ruiz [ Inferno 9-14 , 1995] ambientato a Santiago).

Pur nel fallimento del progetto generale, il Dante per il piccolo schermo di Greenaway resta un capolavoro di stile, da collocare lungo una linea di sperimentazioni off e underground quali l’animazione Thirteen Cantos of Hell dello scultore inglese Peter King [1955, memore del Principe Achmed di Lotte Reiniger], il Pokol (’Inferno’) televisivo dell’ungherese András Rajnai [1974] dove Dante diviene metafora dello scrittore dissidente e censurato, lo Skärseld (‘Purgatorio’) dello svedese Michael Meschke e del turco Orhan Oguz [1975], la Comoedia in chiave punk e morfinica dell’italiano Bruno Pischiutta [1980] dove Dante è un eroinomane, il cortometraggio pittorico (6 min.) The Dante Quartet di Stan Brakhage [1987], il Paradiso: Dante’s Dream di David Simpson [1990], o la più recente animazione Dante’s Inferno dell’americano Sean Meredith [2007].

Naturalmente nei decenni successivi il testo dantesco è sottoposto anche ad esperimenti-monologhi di varia natura, come il corto di Rosa von Praunheim Samuel Beckett o il curioso Rosso dei Kaurismäki Brothers, sino alla miniserie inglese A TV Dante dell’89, che reca la firma collettiva di Tom Phillips, Raoul Ruiz ma soprattutto di Peter Greenaway, il carismatico, contorto, labirintico, multidisciplinare e spesso insopportabile autore de “I misteri del giardino di Compton House” e “Il ventre dell’architetto”. Il lavoro di Greenaway affronta i primi otto canti dell’Inferno in un caleidoscopio stilistico dove s’intersecano parti monologanti in primo piano, allegorie, numerologie, materiali d’archivio, eleganti nudi e riferimenti pittorici: i ruoli di Dante, Virgilio e Beatrice sono affidati rispettivamente a Bob Peck, John Gielgud e Joanna Whalley-Kilmer, e l’insieme rappresenta forse il più ambizioso (ancorché puntualmente fallito) tentativo di raccordare la fascinazione simbolistica del verso dantesco con l’infinito e inestricabile intrico di “segni” che popolano il morboso immaginario dell’autore inglese.

Il TV Dante di Greenaway è precorritore di Internet e dell’ ipertestualità , dove, accanto ad un uso spregiudicato e raffinato al tempo stesso del nudo, delle computer graphics, del cut-up(sono presenti vecchi spezzoni di film ed altri media ), della mera dizione poetica a riempire la scena (Virgilio è interpretato dall’attore shakespeariano Sir John Gielgud), della modalità di attualizzazione (la «selva oscura» del traffico metropolitano, il «greve truono» associato alla bomba atomica, gli scontri Guelfi-Ghibellini tradotti come scontri tra manifestanti e polizia, l’Inferno come campo di sterminio ecc.), appaiono sullo schermo dei pop-ups entro i quali esperti di specifiche aree (tra i quali il naturalista Peter Attemborough familiare agli spettatori) si avventurano per campionature nello spessore della polisemia dantesca, e dove la struttura dei collegamenti (i links appunto) non è celata, ma al contrario esibita secondo i dettami del postmoderno.

In definitiva, anche se manca una traduzione diretta dell’opera di Dante in video (se non, sorprendentemente, oggi in video-gioco, il Dante’s Inferno della Eagames – che fonde il mito di Orfeo ed Euridice ad un Dante-crociato e quantomai muscolare – ora proposto in versione cinematografica per la Universal Pictures ), quanto mai vari e diffusi sono i modi dei riusi e dei riciclaggi indiretti, soprattutto nel cinema d’autore, e centinaia sarebbero gli esempi di contatti più o meno profondi o significativi.

Si va dalla citazione di alcuni versi (la «lacrimetta» di Bonconte da Montefeltro nell’epigrafe di Accattone [Pasolini, 1961], la battuta frivola en passant «non rinnoviamo disperato dolor che il cor ci preme» del padre di Marcello che non vuole parlare della sua età ne La dolce vita [Fellini, 1960], il sarcasmo del «lasciate ogni speranza voi che entrate» rivolto ad una neoprostituta ancora in Accattone , il «vidi gente attuffata in uno sterco» recitato da un detenuto malato in Mamma Roma [Pasolini, 1962]), alla presenza di una riconoscibile effigie di Dante sulla scena ( Amarcord [Fellini, 1974]), alla paronomasia (il “Convegno dei Dentisti Dantisti” di Uccellacci e uccellini [Pasolini, 1966]), alla ripresa di specifiche e precipue strutture morali infernali (i “gironi” “delle manie” “della merda” e “del sangue” di Salò o le 120 giornate di Sodoma [Pasolini, 1975]) e purgatoriali (il serial-killer che uccide secondo la legge del contrappasso e l’ordinamento dei sette peccati capitali in Seven [capolavoro di David Fincher, 1997, con Brad Pitt e Morgan Freeman]), all’inserimento di raffigurazioni dell’aldilà ( Decameron [Pasolini, 1970]), al ricalco del rapporto attanziale Dante-Virgilio come rapporto pellegrino-guida nell’aldilà (così nel pastiche new-age cristiano-buddista What Dreams May Come [Vincent Ward, 1998]), alle libere modulazioni sul tema di Paolo e Francesca (l’ascolto della sinfonia Francesca da Rimini di Cajkovskij che fa sfiorare il delitto a un marito geloso in Unfaithfully Yours [Preston Sturges, 1948], la ri-lettura femminista della storia nel Francesca è mia di Robert Russo [1986, con Monica Vitti anche come collaboratrice alla stesura]).

Si arriva così, distanziandosi sempre più dal testo, all’astuto marketing di titoli ad effetto, “danteschi” solo in apparenza (ben 23 titoli che iniziano con Inferno sono registrati nel di Paolo Mereghetti): è il caso dei disaster-movies a effetto A Towering Inferno (di Irwin Allen [1974] dove l’inferno del grattacielo in fiamme sembra presagire l’11 Settembre) e Dante’s Peak (di Roger Donaldson [1995] dove il ‘Picco di Dante’ è in effetti un vulcano realmente esistente sul territorio americano), della farsa psicotica A Divina Comédia del portoghese Manoel de Oliveira [1991], della serie televisiva americana di gay-horror sessualmente esplicito Dante’s Cove (di Michael Costanza [2005-2009] dove la ‘Insenatura di Dante’ è il nome di un’isola di turismo di élite), infine della commedia metropolitana Dante’s dell’americano Armand Mastroianni [2009], dove il nome del poeta e della sua opera diventano puri flatus vocis .

 

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L’ESERCIZIO ASCETICO VERSO LA LIBERTA’ MISTICA

DE TRISTITIA CHRISTI DI THOMAS MORE

di Maria Elisabetta Curtosi

Paura, preghiera, dolore fisico e sofferenza interiore. Siamo nel 1535 quando quel 6 luglio, dopo un lungo periodo di isolamento nelle carceri della Torre di Londra, Thomas More presto verrà decapitato. Conosciuto per le sue doti di politico rigoroso, colto umanista e pensatore, rimase alla storia per il suo capolavoro “Utopia”, ma fu anche un cristiano appassionato e fervido fedele.

A prova di ciò è importante citare il suo scritto “ De tristitia Christi” che nella traduzione in italiano è indicato come Gesù al Getsemani, in cui troviamo la Passio di Cristo, che agonizzante nell’orto degli ulivi, isolato dagli apostoli assonnati, supplichevole domanda al Padre << di allontanare il calice della sofferenza e della morte >>. Ma nella scena dell’arresto di Cristo il testo rimane incompiuto perché More viene allontanato dalla sua cella e gli vengono sottratti carta e inchiostro.

Così che la tristezza, il tradimento e la solitudine si fanno voci comuni di un solo grido di salvezza e consolazione sia per il Cristo, sia per l’integerrimo cancelliere del re tiranno d’Inghilterra Enrico VIII che vive gli stessi attimi nell’ultima fase della sua vita.

Un viaggio nella letteratura spirituale con grande accuratezza e acutezza è stato percorso da Mons. Gianfranco Ravasi che citando More propone un trittico che procede verso “il genio della mistica” Juan de la Cruz (Giovanni della Croce) e il suo scritto Salita al Monte Calvario dove predomina nell’oscurità del tema, <<l’eclisse della luce divina per cui l’anima procede in un gelido e drammatico cono d’ombra>>. Anche in quest’ opera incompiuta leggiamo la crisi dell’autore per un percorso troppo arduo nella contemplazione che porta ad una ascesa-ascesi di catarsi dello spirito e dei sensi -afferma Ravasi- che continua con un ultimo autore Jean-Joseph Surin che scrisse “Un Dio da gustare”, fu gesuita nel Seicento, afflitto da una grave malattia mentale e strane possessioni diaboliche nel monastero delle orsoline di Loudun di cui era cappellano, aveva grandi doti, non tanto nelle sue opere ma nel sua epistolario variegato e suggestivo, di intellettuale e mistico presto dimenticate per questi due eventi tragici.

Per questo Enzo Bolis offre un particolare ritratto di quest’autore definendolo un intelligente laico prematuramente scomparso; e Mino Bergamo lo indica come il più grande e dimenticato dei contemplativi seicenteschi, basta leggerlo una volta e non lo si abbandona più, proprio come una medicina efficace o un amico al quale chiedere consiglio.

Ravasi ne rimase particolarmente colpito e lo definì sotto un profilo << di raffinatezza letteraria che si coniuga con una teologia viva e intensa, l’esercizio ascetico sfocia nella gioiosa libertà mistica, il linguaggio spirituale illumina le vicende umane, l’esperienza interiore s’incrocia con la testimonianza operosa >> .

Concludiamo con uno tra i suoi eccezionali e razionali aforismi:

Che io possa avere la forza

Di cambiare le cose che possono cambiare,

che io possa avere la pazienza

di accettare le cose che non possono cambiare,

che io possa avere soprattutto l’intelligenza di saperle distinguere”

 

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In missione per conto di Caino. Intervista all’On. Sergio D’Elia, segretario di Nessuno Tocchi Caino

di Giuseppe Candido

“La pena capitale è un “ferro vecchio” della storia. Le vie per l’abolizione sono infinite”

L’associazione che da anni lotta per l’abolizione della pena di morte nel mondo presenta il suo rapporto annuale.

4 agosto 2012 – Titolare dell’iniziativa all’ONU nel dicembre 2007 che portò all’approvazione della moratoria universale della pena di morte, lo scorso 3 agosto, presso la sede di Via di Torre Argentina a Roma, l’associazione Nessuno Tocchi Caino ha presentato il rapporto annuale sull’abolizione della pena di morte nel mondo. Oltre al Ministro per gli Affari Esteri, Giuliomaria Terzi di Sant’Agata, erano presenti numerosi ambasciatori: Finlandia, Svezia ma anche Turchia, Romania e Benin.

Il Rapporto 2012 – curato anche quest’anno dall’On. Elisabetta Zamparutti ed edito da Reality Book con la prefazione dello stesso Sergio D’Elia – conferma un’evoluzione positiva verso l’abolizione con 155 Paesi che hanno deciso di abolirla per legge o in pratica (i Paesi totalmente abolizionisti sono 99; gli abolizionisti per crimini ordinari sono 7; quelli che attuano una moratoria delle esecuzioni sono 5; i Paesi abolizionisti di fatto, che non eseguono sentenze capitali da oltre dieci anni o che si sono impegnati internazionalmente ad abolire la pena di morte, sono 44) mentre i Paesi mantenitori sono saliti a 43 rispetto ai 42 del 2010 sol perché il Sudan del Sud, divenuto indipendente dal Sudan nel luglio del 2011 ha mantenuto la pena di morte. Nel 2011 sono inoltre diminuiti i Paesi che hanno fatto ricorso alle esecuzioni capitali: 19 rispetto ai 22 del 2010 e sono diminuite le stesse esecuzioni, almeno 5.000 nel 2011, a fronte delle almeno 5.946 del 2010, fondamentalmente per il significativo calo delle esecuzioni in Cina che sono passate dalle circa 5.000 del 2010 alle circa 4.000 del 2011. La Cina è la prima sul triste podio dei paesi “esecuzionisti”, seguita dall’Iran, con almeno 676, un aumento spaventoso rispetto alle 546 del 2010 e dall’Arabia Saudita che con almeno 82 esecuzioni ha addirittura triplicato quelle compiute l’anno precedente. Dal rapporto si apprende che “i paesi totalitari ed illiberali sono responsabili del 99% del totale mondiale delle esecuzioni, mentre quelli democratici dell’1% con gli Stati Uniti che ne hanno compiute 43 nel 2011 (un dato che conferma il calo delle esecuzioni in corso da anni in America) e Taiwan 5. In controtendenza il Giappone che invece nel 2012 ne ha già eseguite 5”.

Sergio D'Elia, segretario di Nessuno Tocchi Caino
Sergio D’Elia, segretario di Nessuno Tocchi Caino

Abbiamo raggiunto Sergio D’Elia telefonicamente per avere dettagliate informazioni sulle novità che emergono dal rapporto e per fare il punto sulla lotta per l’abolizione della pena di morte nel mondo.

D: Onorevole D’Elia, lo scorso 3 agosto è stato presentato il Rapporto annuale di Nessuno Tocchi Caino sulla pena di morte. Quali sono le novità più importanti e qual’è la prospettiva futura per l’abolizione della pena di morte del mondo?

R: In primo luogo si conferma una tendenza, ormai irreversibile, verso l’abolizione della pena di morte che, ormai, è divenuta un “ferro vecchio” della Storia dell’umanità di cui, però, bisogna ancora definitivamente liberarsi come ci si è liberati dalla tortura, dalla schiavitù e da altri strumenti mortiferi. Sicuramente abbiamo svolto un’opera che ci ha consentito, in questi diciannove anni dalla nascita nel ’93 di Nessuno Tocchi Caino, di far abolire, attraverso le iniziative intraprese paese per paese ma, soprattutto, attraverso l’iniziativa in sede delle Nazioni Unite all’Assemblea Generale dell’ONU che ha portato alla moratoria. Quando abbiamo iniziato, nel ’93, erano 97 i Paesi membri dell’Assemblea che ancora mantenevano la pena di morte. Ora ne abbiamo 56 in meno di quei 97 paesi. La risoluzione (dell’ONU, ndr) è stata una pietra miliare.

D: Nel dicembre del 2007 è stata votata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite la moratoria sulle esecuzioni capitali. Una battaglia che ha visto Nessuno Tocchi Caino affianco al Governo italiano. Cosa è cambiato da allora?

R: La moratoria è stata sostenuta da una coalizione mondiale di Paesi abolizionisti rappresentativi un po’ di tutti i continenti ma guidata, innanzitutto, dal Governo italiano che ha avuto un ruolo fondamentale e con il quale, da almeno 20 anni, siamo stati partner per questa battaglia.

La situazione oggi è quella di dover dare attuazione concreta a quella Risoluzione in una quarantina di paesi (sono ancora 41 Paesi rimangono ancora mantenitori della pena di morte). Di questi, però, solo una metà di essi ancora, ogni anno, chi più chi meno, pratica la pena di morte. E per porre definitivamente fine allo Stato che uccide, allo “Stato Caino”, occorre che, soprattutto i Paesi che hanno sostenuto all’ONU la risoluzione sulla moratoria universale delle esecuzioni capitali, si impegnino concretamente affinché sia rispettata ovunque. Io dico che le vie per l’abolizione della pena di morte sono infinite. Noi le abbiamo praticate tutte e continuiamo a farlo: la via parlamentare, la via dell’opinione pubblica nazionale, la via della comunità internazionale, ma anche la via, veloce e concreta, della “non collaborazione” da parte dei paesi che hanno abolito la pena di morte, alla pratica della pena di morte nei paesi in cui ancora vige.

D: In che senso “non collaborazione”?

R: Faccio un esempio: nel giro di un mese, un annetto fa, l’Italia – campione mondiale per la lotta all’abolizione della pena di morte, che l’ha abolita nel ’47 dalla propria Costituzione, che si rifiuta di estradare chi rischia la pena di morte verso i paesi che ancora la mantengono – rischiava essa stessa di essere complice dei paesi che ancora la praticano. La via della non collaborazione l’abbiamo attuata un anno fa impedendo ad una filiale italiana di una multi nazionale farmaceutica di produrre in Italia il penthotal che era destinato per gli Stati Uniti. Lo abbiamo fatto con iniziative parlamentari, con manifestazioni, conferenze stampa. Quello è stato un passaggio cruciale perché sulla scia della prima anche altre società multinazionali hanno preso la decisione di non consegnare più il penthotal né il penthopartital che intanto aveva sostituito il primo nelle carceri americane. Addirittura è accaduto che il Vietnam, che è passato dal plotone d’esecuzione all’iniezione letale appena un anno fa, in quest’anno non ha giustiziato nessuno perché non è riuscito a procurarsi, sul mercato internazionale, le sostanze letali necessarie a poter praticare la pena di morte. E quindi questa è una strada. Un’altra strada l’ha intrapresa un’altra organizzazione che si chiama “Uniti contro l’Iran nucleare”, un’organizzazione che si occupa soprattutto di contrastare il rischio che il regime dei Mullah possa dotarsi dell’arma nucleare, ma che è diventata anche un associazione che si batte contro la pena di morte e che ha fatto un’interessante campagna che ha cominciato a dare i suoi frutti. Cioè quella denominata campagna delle gru che, in Iran, sono diventate lo strumento usato per praticare le impiccagioni. Loro (gli attivisti, ndr) hanno ottenuto che tre società giapponesi multinazionali, che vendono gru in tutto il mondo, hanno deciso di scindere tutti i contratti commerciali con l’Iran proprio perché hanno verificato che le loro gru venivano utilizzate per fare le impiccagioni. Insomma, queste sono altre strade che si possono percorrere, come quella sul penthotal che abbiamo percorso in prima persona noi, che ha causato in alcuni stati americani il rinvio delle esecuzioni e, alcuni stati, addirittura sono arrivati all’abolizione della pena di morte anche per questo. Il prossimo autunno, in novembre, si voterà in California un referendum per abolire la pena di morte. Certo, questo non soltanto per problemi legati alla carenza dei farmaci letali ma anche perché la California ha verificato che condannare a morte, tenere nel braccio della morte 10-15-20 anni un detenuto prima di giustiziarlo, costa molto di più che tenerlo in carcere anche tutta la vita. E quindi stanno adesso discutendo con un referendum se abolire la pena di morte, anche in base a questi dati economici. Pragmaticamente americano come ragionamento, però. Loro sono particolarmente rigorosi sui bilanci statali. Hanno verificato che il bilancio della Giustizia penale, proprio per il mantenimento della pena di morte, costa tantissimo e quindi vogliono rientrare nei calcoli dei loro bilanci anche eliminando questa pena. Poi ci sono le prese di posizione dei parenti delle vittime che, piuttosto che spendere tanto (ci sono cifre altissime soprattutto in Stati come il Texas) per mandare, una o due volte l’anno, qualcuno a morire, chiedono di utilizzare meglio quei fondi per investigare e risolvere quei crimini e quei reati che rimangono insoluti e di cui non si conosce il colpevole. E sono i parenti delle vittime, oltre agli investigatori e i dipartimenti di polizia, che fanno questa proposta. Diciamo che si sta muovendo moltissimo anche in Paesi un tempo prettamente sciatte ad istanze umanitarie come la Cina.

D: Dopo la battaglia per la moratoria delle esecuzioni capitali, oggi ha ancora senso sostenere in questa “missione per conto di Dio e di Caino”, l’associazione che tu guidi da oltre dieci anni?

R: Beh, io dico sempre che Nessuno Tocchi Caino è una sorta di società per azioni. Mutuando questo termine dall’ambito economico finanziario, è letteralmente così. Nel senso che l’iscriversi a Nessuno Tocchi Caino equivale a sottoscrivere l’azione di una società, in questo caso di un’associazione radicale; chi contribuisce direttamente acquista una quota, la propria, di un impegno, di un’opera e di un’iniziativa che poi ritorna in termini di “guadagno” – tra virgolette – perché ritroviamo un mondo più giusto, più umano. Un mondo dove, finalmente, ci possiamo liberare di questo anacronismo della Storia che è la pena capitale.

Per approfondire (dalla Newsletter di NTC, Anno XII n°56 del 4 agosto 2012)

LE PROSPETTIVE DELLA CAMPAGNA DI NESSUNO TOCCHI CAINO

L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite tornerà a votare nel dicembre 2012 una nuova Risoluzione a favore di una Moratoria sull’uso della pena di morte e Nessuno tocchi Caino è impegnata su due fronti di iniziativa a sostegno della Risoluzione.

Il primo è aumentare il numero dei Paesi cosponsor e dei voti a favore della Risoluzione. A tal fine, con il supporto del Ministero degli Affari Esteri italiano, Nessuno tocchi Caino ha previsto di compiere nei prossimi mesi missioni in Africa in 4 Paesi – Zimbabwe, Ciad, Repubblica Centroafricana e Swaziland – dove negli anni più recenti sono stati compiuti passi significativi verso l’abolizione della pena di morte.

Il secondo fronte è rafforzare il testo della nuova Risoluzione con due richieste fondamentali da rivolgere esplicitamente ai Paesi che praticano ancora la pena capitale. La prima richiesta è di abolire i “segreti di Stato” sulla pena di morte, perché molti Paesi, per lo più autoritari, non forniscono informazioni sulla sua applicazione, e la mancanza di informazione dell’opinione pubblica è anche causa diretta di un maggior numero di esecuzioni. E’ il caso, ad esempio, di Cina, Iran e Arabia Saudita, che non a caso risultano essere tra i primi Paesi-boia al mondo. La seconda richiesta è di limitare ai “reati più gravi” l’applicazione della pena di morte e di abolire la sua previsione obbligatoria per certi tipi di reato.

Infine, Nessuno tocchi Caino propone che la nuova Risoluzione chieda al Segretario Generale dell’ONU di istituire la figura di un Inviato Speciale: non solo di monitorare la situazione ed esigere una maggiore trasparenza e limiti più restrittivi nel sistema della pena capitale, ma anche di continuare a persuadere chi ancora la pratica ad adottare la linea stabilita dalle Nazioni Unite: “moratoria delle esecuzioni, in vista dell’abolizione definitiva della pena di morte”.

L’audio dell’intervista

(Ci scusiamo per la scarsa qualità della registrazione telefonica e per i pochi ma pur presenti “disturbi di fondo” che, ahi noi, non siamo riusciti a rimuovere per scarsa padronanza degli strumenti di elaborazione audio)

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Guerra economica mondiale: aziende sempre più “responsabili”

di Maria Elisabetta Curtosi

E’ evidente che siamo giunti a un punto di svolta nella “guerra economica” mondiale, almeno per quanto rigurada la sostenibilità.

Fresca è la notizia che le aziende diventano sempre più “responsabili”, infatti da un po’ di tempo sentiamo parlare di corporate social responsability (Csr) appunto. Ovvero le piccole e medie imprese  non dovranno  essere solo ossessionati dalla ricerca di profitti in tempi sempre più brevi, spinti dal capitale finzanziario e che finiscono per rispondere sempre meno a domande sociali reali  e sempre più ubbidiscono ai propri imperativi di crescita infinita ma dovranno considerare l’impatto sociale e ambientale; sarà un’importante responsabilità.

Nel 2011 il 68% delle imprese prevede di aumentare i propri investimenti in sostenibilità in quanto si considera imprescindibile il legame tra i risultati economici e l’impegno per quest’ultima. Inoltre l’ Adnkronos ci informa che <<Da un’indagine svolta su 200 aziende, dall’Economist Intelligence Unit e commissionata da Enel, l’87% dei manager ritiene che la responsabilità sociale di un’azienda rappresenterà un fattore ancora più importante e strategico nei prossimi tre anni.>>

Siamo in un momento storico in cui il consumismo è alla base della nostra vita sociale, ne detta le regole. Ma ancor più chiaro e fulmineo  risulta l’intervento del Professore di Storia Contemporanea dell’Università La Sapienza, Piero Bevilacqua a delineare un processo sempre più allarmante:  << Si continua a seguire una logica di accumulazione in una fase storica dello sviluppo capitalistico in cui occorrerebbe attivare una logica della distribuzione: distribuzione di risorse, di beni, di lavoro, di cultura. Si continua a seguire una logica dell’accrescimento quando la possibilità di migliorare le nostre condizioni di vita è palesemente legata a una logica della diminuzione: meno ore di lavoro, meno merci, meno dissipazione di risorse naturali e di energia, meno consumo, meno celocità, meno fretta>>.

 

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La logica della seduzione

di Maria Elisabetta Curtosi

“Nella storia dell’antica Roma, l’esempio piu’ sorprendente di una seductio politico-militare e’ connessa al rituale religioso dell’evocatio”. Mentre le popolazioni semite (Assiri, Babilonesi, Ebrei) combattevano insieme i nemici e i loro dei, i romani concepivano le divinità del nemico come separabili dalle citta’ e dalle popolazioni cui erano connesse. I semiti quindi pensavano alla guerra come qualcosa di totale, che coinvolgeva anche gli dei, i Romani ritenevano di non poter conquistare una citta’, se non dopo avere sedotto, o con termine tecnico, appunto evocato la divinita’ che la tutelava. Questa veniva perciò invitata ad abbandonare la sua residenza e a trasferirsi a Roma, dove riceveva in cambio l’erezione di un tempio e l’organizzazione di un culto”.  – Così scriveva Mario Perniola, ne “La società dei simulacri”, Cappelli 1983 – Inoltre “la condizione indispensabile della riuscita della evocatio è il fatto che la città e il dio fossero designati col loro vero nome. Questo rituale, il cui significato e’ insieme militare, politico, culturale e religioso, si muove in una prospettiva opposta a quella della metafisica occidentale, la cui linea e’ espressa per esempio da Mosè: parlando dei nemici d’Israele, Mosè infatti ordina di votarli allo sterminio, di non fare con essi alleanza, ne’ loro grazia, di demolire i loro altari, spezzare le loro tele, tagliare i loro pali sacri, bruciare nel fuoco i loro idoli.  Mentre gli Ebrei così votano alla distruzione ciò che è loro estraneo, i Romani se ne appropriano: secondo l’evocatio romana la conquista è impossibile se non si assimila il patrimonio spirituale e culturale del nemico, che deve essere oggetto di rispetto e di culto; anzi condizione della sconfitta del nemico è il fatto che egli sia separato dalla propria radice culturale e religiosa, che sia privato della sua identità: egli puo’ cosi’ entrare nella logica della seduzione (…).
Gli dei sedotti non perdono nulla della loro dignità: essi vengono a Roma non come prigionieri, ma con la loro volontà. Il muto annuire della statua era infatti considerato come una condizione del trasporto, che doveva essere effettuato da giovani. La costruzione di un tempio, generalmente sull’Aventino, garantiva loro un’adeguata sistemazione. L’evocatio è il contrario della prevaricazione: Roma non porta i propri dei nella città nemica, ma fa loro spazio nel suo ambito. Stabilisce così con le città vinte un rapporto di seduzione che si trasmette successivamente agli abitatori di queste: essa diventa così la nuova patria, il nuovo centro di attrazione delle popolazioni soggettate. Non un ‘Vaterland’, basato sulla devozione, ma un Kinerland, basato sulla seduzione.”

 

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La rivoluzione di Fra Tommaso Campanella, figura curiosa che tende tranelli agli studiosi

Della tolleranza e della fraternità fra gli uomini. Campanella ci appartiene; appartiene a tutti quelli che hanno conosciuto la violazione del proprio mondo, la corruzione, il dispotismo, la violenza

di Maria Elisabetta Curtosi

Tommaso Camapanella
Tommaso Campanella

Nella prefazione al volume di Mario Moretti “La rivoluzione di Fra Tommaso Campanella”, pubblicato da Veutro Editore, nella ‘Collana della crudeltà e della violenza’ diretta da Rafael Alberti e Maria Teresa Leon, collana, precisa l’editore, “dedicata a Bertrand Russel come al simbolo più luminoso della sempre più folta schiera di filosofi, scienziati, letterati e uomini civili che lottano per un mondo pacifico e per il rispetto umano” Miguel Angel Asurias scrive: “L’anno scorso, di passaggio a Roma con mia moglie, siamo andati insieme al fraterno amico Rafael Alberti in un teatrino di Piazza Navona e il Tevere, dove rappresentavano un ‘Processo a Giordano Bruno’. La sorpresa è stata piacevole; l’occasione inaspettata. L’antitesi tirannia–libertà aveva qui la ferma e dolorosa angoscia dei grandi fatti corali, e il messaggio filtrato dai documenti autentici della vicenda di Giordano Bruno era presentato in un contesto che aveva l’impressionante, inconfondibile sapore della verità. Abbiamo voluto conoscere l’autore, Mario Moretti. Ci ha parlato della sua idea di un teatro-storia dove nulla sia affidato al caso o alla fantasia, ma dove il documento sia rivissuto e ricreato in una gamma di possibilità che va dal vero al verosimile, dal plausibile all’attendibile. Ho avuto l’impressione che il Moretti stia esplorando un terreno verminoso per estrarre dal brulichio immondo la pepita della verità”.

La lettura de ‘La rivoluzione di fra Tommaso Campanella’ me lo ha confermato.

Anche qui l’aggancio con la realtà risulta straziante: il dolore della storia si dilata, sorvola le epoche, le scavalca, arriva fino a noi. Leggi e ti accorgi di masticare e masticare la verità, come un pezzo di canna dalla polpa bianca. Alla fine hai la bocca amarognola, ti viene da sputare, perché la verità non è mai dolce.

La straordinaria esperienza di Campanella ha la vivacità, la corposità, la tropicalità della vita. Moretti espone i suoi documenti come foglie di tabacco: li allarga, li mette ad essiccare al sole, poi li “trincia” nella forma teatrale. Il risultato è immediato: Campanella ci appartiene; appartiene a tutti quelli che hanno conosciuto la violazione del proprio mondo, la corruzione, il dispotismo, la violenza”.

Mai come oggi”, chiosano Rafael Alberti e Maria Teresa Leon, “l’umanità ha avvertito il bisogno di riesaminare con occhio critico e privo di indulgenza la storia di cui è stata ed è protagonista. All’ingenua fiducia con la quale aveva creduto nella possibilità del proprio rettilineo progresso, sembra ora determinata a sostituire la ferma decisione di analizzare le cause di tante tragiche esperienze, dalle guerre ai campi di sterminio, al genocidio. L’umanità sembra aver preso atto che una gran parte della sua storia è stata scritta all’insegna della ‘violenza e della crudeltà’. Non vi è niente di fatale in tutto ciò. All’origine di entrambe vi è il cieco egoismo, l’ostinata determinazione di difendere il privilegio, l’abuso del potere contro ogni diritto, che genera reazioni di cui è spesso difficile constatare la tragica necessità”.

L’ambizione di “Abolire la Miseria della Calabria”, Rivista Nonviolenta, va nella stessa direzione della “Collana della crudeltà e della violenza” diretta da Rafael Alberti e Maria Teresa Leon, e cioè di contribuire a restaurare attraverso la conoscenza delle cause della crudeltà e della violenza, la fiducia nella capacità’ dell’uomo di scrivere la storia della tolleranza e della fraternità fra gli uomini.

Poche opere del Seicento hanno sollevato copiosi studi e appassionate discussioni come quella di fra Tommaso Campanella. Dagli scrittori e storici contemporanei a Campanella come G.Voet (Disputationese selectae,1648) che definiva “Ateo e libertino il filosofo di Silo”, o il cattolico M. Mersenne che mette il pensatore calabrese in compagnia degli atei, mentre il laico De Sanctis sostiene la tesi di un neo–guelfismo campanelliano.

Tortura del palo

 

 

 

 

Dagli storici politici della fine del secolo decimo nono che videro nella ‘Civitas solis’ e negli Aforismi politici le tavole precorritrici del comunismo, agli storici della filosofia che nel ‘De Sensu Rerum’ o nel ‘De Investigatione’ videro il precursore di Cartesio e dell’idealismo, il problema campanelliano è come si vede appassionante.

In tempi romantici il saio del domenicano di Stilo prese posto accanto alla tragica ombra di Giordano Bruno e alla figura gigantesca di Galileo: martiri della loro idea, propugnatori della libertà di pensiero e della verità scientifica contro la menzogna dogmatica, essi furono i simboli, gli argomenti polemici di tutte le battaglie anticlericali. In realtà il posto del domenicano di Stilo era in quella Accademia cosentina fondata da Bernardino Telesio. Campanella quindi continuatore di Telesio, una sorta di reincarnazione. Ma come sosteneva Alberto Consiglio sulle pagine de “L’Italia Letteraria” non v’è pensiero vivo che non subisca revisioni, non c’è verità che in un secondo tempo non appaia meno pura, meno sicura.

Un saggio di B.Croce ‘Il comunismo di Tommaso Campanella in materialismo storico ed economia marxistica’ del 1895 fa giustizia del Campanella anticipatore degli scrittori politici, negando alla Città del sole ogni valore sia come documento storico sia come indizio sociale. Già l’Amabile aveva compiuto una revisione totale dei giudizi correnti e dei luoghi comuni diffusi sul frate di Stilo. Tra l’altro s’era potuto stabilire che la congiura per la quale Campanella fu arrestato e per quasi un trentennio tenuto tra il letto dei tormenti e l’oscurità della segreta, era stata effettivamente ordita. “Avevano torto i romantici ad accendersi retoricamente”, continua il Consiglio, “di sdegno per la tirannide dei viceré e la spietata giustizia dei preti: il dominio spagnolo nelle Calabrie corse in effetti un bel pericolo e una bella avventura avrebbe avuto il suo compimento se i domenicani, i vescovi, i preti, i contadini calabresi che giuravano per fra Tommaso, avessero, in alleanza coi Turchi del bassa Cicala, stabilita la Città del sole sugli Appennini di Calabria”.

Ora pare che la valutazione negativa della filosofia campanelliana deve a sua volta subire una revisione. Né è stato un segno lo studio di de Mattei che tentava di rivalutare la politica campanelliana dimostrandola di spiriti machiavellici, inserendo la figura del domenicano in quell’atmosfera del segretario fiorentino.

Nel suo studio, ‘La filosofia politica di Tommaso Campanella’ (Bari, Laterza, 1930) Paolo Treves, analizza con occhi molto sereni il pensiero politico del domenicano con uno sforzo di grande equilibrio, sobrio e chiaro: i giudizi sono dosati con cura, la documentazione è abbondante e la scelta delle citazioni sempre acuta ed opportuna.

Tortura dei cavicchi

Figura stranamente ambigua, si può giurare che sia un veggente, un’accesa anima di profeta e subito dopo dubitare che sia un impostore o un pazzo. Fu questo il caso dei rappresentanti dei viceré e del clero che istruirono il suo processo ed ebbero a concludere per la sua pazzia, a proposito della congiura calabrese, salvo a ritenerlo colpevole ed eretico in materia di fede. Fu ancora il caso di coloro che denunziarono i plagi del Campanella ed espressero dai suoi testi massime e concetti del Botero e del Gucciardini. Il Treves si sforza di dimostrare l’originalità del pensiero campanelliano, tratto di nuovo dalle ombre del medioevo e messo in a meno macchievellismo il pensiero del primo Seicento senza addirittura risalire sul piedistallo del vaticinatore. Tra coloro che vogliono ridurre a mero machiavellismo il pensieri campanelliano e coloro che fermandosi alle innumerevoli e spietate invettive fulminanti di fra Tommaso contro il segretario fiorentino, lo definiscono l’anti-macchiavelli. Il Treves elegge una felice posizione mediana: Campanella inconsapevolmente avrebbe preso dal Macchiavelli la ragione di stato, l’etica esteriore del ‘fine giustifica i mezzi’.

In realtà egli risentiva i cattivi influssi del secolo e su di un medesimo piano si trovano i politici laici del genere di Macchiavelli i gesuiti e Campanella che tenacissimamente avversava ambedue le tendenze. Il frate di Stilo non aveva affatto coscienza di questo suo machiavellismo: egli credeva, in effetti, che, permutati i fini dello Stato nei fini della Chiesa, e quindi in quelli di Dio, fosse capovolto il contenuto etico della politica. Rifatta, dunque la distinzione tra Macchivelli e machiavellismo, del quale furono eccellenti campioni proprio gli scrittori della Controriforma che osteggiavano la politica laica del fiorentino, l’opposizione tra lo ‘stilese’ e il gran segretario appare evidente e sostanziale. Nel primo si elaborava un concetto teocratico universalistico dello Stato che, in gran parte era pur sempre il pensiero tradizionale dei politici formatosi nell’orbita della scolastica: supremo ed universale potere del pontefice; potere esecutivo nell’imperatore, primo suddito del pontefice, collettività ferramente sottomessa ai principi etici della verità rivelata, estrema subordinazione dell’individuo ai fini religiosi della società.

Che aveva a che fare questa concezione nella quale entravano tumultuosamente in concorso tutte le disparate letture di fra Tommaso ,la tradizione scolastica e l’esperienza monastica, col pensiero veramente innovatore e moderno di Nicolò Macchiavelli?

Perché veramente nel ‘Principe’ si svolge il concetto di Stato da quello di individuo e si libera l’attività economica dalla subordinazione religiosa.

Ed è contro questa sostanza che si eleva, pieno di rampogne il frate di Stilo: tutta la vita egli lotterà contro gli scrittori che sommettono la religione agli interessi dello Stato, in favore di un impero utopistico sottomesso ai fini religiosi.

In effetti la dottrina del ‘Principe’ e la dottrina della ‘Città del sole’ e, meglio ancora, della ‘Monarchia di Spagna’ sono divise dall’abisso medesimo che divideva Riforma e Controriforma: il calvinismo in quel secolo, trovava nella predestinazione le ragioni religiose che davano valore e vigore alla vita terrena, mentre i mistici del cattolicesimo rinnovato ribadivano il concetto della valle di lacrime, dell’esilio terrestre. Tuttavia, benché rigidamente schierato tra le file del cattolicesimo il pensiero del frate di Stilo, inconsapevolmente tratto dal maturarsi dei tempi nuovi, tradisce concetti eterodossi, vivacemente innovatori, proprio quelli che lo hanno fatto definire profeta e anticipatore. Nel suo amore per la natura, per l’osservazione diretta, per il progresso e per il miglioramento delle condizioni di vita sociale, il Treves trova i documenti probatori di un’alta e luminosa originalità.

A proposito della bibliografia campanelliana, consultando un dizionario di scienze ecclesiastiche molto ortodosso, compilato dai gesuiti Richard e Girond, dove alla voce Campanella troviamo la “biografia di un dottore della chiesa”. Se si va invece nella ‘Istoria civile’ di Giannone troviamo un Campanella diavolo.

In realtà Campanella è un uomo d’azione, un rivoluzionario che fece suo il motto: “Propter Sion non tacevo”. Si scagliò contro pontefici e contro principi e contro ogni sorta di ingiustizie, per la libertà e la giustizia sociale.

Lo stesso De Sanctis, quando parla del civile impegno della poesia di campanella definisce lo scrittore calabrese “Tutto d’un pezzo e alla naturale ,veemente, rozzo, audace di pensiero e di parola, propenso a lasciare le discussioni astratte, le sottigliezze teologiche, malattia del tempo, e volgersi alla storia, alla geografia, allo studio del reale, per migliorare le condizioni sociali”.

Campanella filosofo naturalista.

Nell’anno 1589 Campanella esordisce, sulla scia di B.Telesio come filosofo e lo fa con ‘La Philosophia sensibus demonstrata’, lavoro fortemente polemico e anticonformista.

Nel 1591 compone in latino ‘Del senso delle cose e della magia. Tutte le cose sentono’:” tanta sciocchezza è negare il senso delle cose perché non hanno né occhi né bocca né orecchie, quanto negare il moto al vento perché non ha gambe, e il mangiare al fuoco perché non ha bocca ,il vedere a chi sta in campagna perché non ha finestre d’affacciarsi, e all’aquila perché non ha occhiali”.

Ad una conoscenza sopraggiunta “addita” come la chiama il frate di Stilo c’è una conoscenza nascosta “abdita” che è innata ed immediata e costituisce la forma preventiva della esistenza delle altre.

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La voce del diritto e della libertà: le gazzette nemiche dei tiranni

La nascita e l’evoluzione di una nuova, importante, esperienza culturale

di Giuseppe Candido e Filippo Curtosi

Da quando furono impiantate le prime officine tipografiche anche la Calabria ebbe allora i suoi giornali e il primo di essi fu stampato a Monteleone Calabro

Pubblicato su Calabria Letteraria, Anno LX, N°1-2-3 – Gennaio, Febbraio, Marzo 2012

Nell’era digitale in cui i giornali e le riviste diventano documenti elettronici in formato portatile (pdf) e quando la televisione tradizionale, che già predominava, sbarca oggi su internet e sul satellite, parlare di “vecchi” giornali, della loro nascita e della loro prima diffusione, farsi domande sul loro ruolo nella politica nazionale e locale potrebbe essere visto come anacronismo puro.

D’altronde ne è passato di tempo da quando, alla fine del ‘700 dopo che era stata concessa la pubblicità dei dibattiti parlamentari in Inghilterra Edmund Burke, filosofo e politico conosciuto come il “Cicerone britannico”, rivolgendosi ai giornalisti presenti alla camera dei Comuni, disse loro: «Voi siete il quarto potere». Quando lo fece era appena nato il quotidiano più famoso del mondo: il Times. Proprio perché politica e libera, l’attività giornalistica era allora circondata, in Inghilterra, da un rispetto che invece sul Continente, “impastoiata dalla censura, e limitata alla rissa letteraria”, non riuscì mai meritare. Allora, agli albori della stampa quotidiana, i pubblicisti erano temuti, ricercati, spesso adulati, ma mai amati. Svolgevano un’insostituibile funzione: divulgavano le conoscenze artistiche e scientifiche, aiutando il successo dell’Illuminismo e preparando indirettamente le rivoluzioni; ma proprio gli Illuministi – come gli storici ricordano a più voci – ne furono i critici più severi. Oggi che in Italia il tema della censura alla libertà di stampa è diventato drammaticamente attuale e che, allo stesso tempo, l’informazione di massa viola sistematicamente ai cittadini il diritto di “conoscere per deliberare”, ritrovarsi tra le mani un vecchio e polveroso numero della storica rivista Storia Illustrata che, nel settembre del 1962, pubblicava un articolo di Carlo Casalegno dall’attualissimo titolo “Le gazzette nemiche dei tiranni”, è davvero da considerarsi fortunosa e, per certi versi, incredibile. Un giornalista che, dopo aver svolto specifici studi, rievocava magistralmente le origini della stampa periodica documentandone meriti e limiti. Le statistiche di 50 anni fa evidenziavano, già allora, la presenza di oltre 7000 quotidiani stampati in tutto il mondo, con una tiratura complessiva che si aggirava attorno alle 220 milioni di copie anche se, già allora, mancando i dati precisi della Cina era difficile fare un calcolo preciso. Nel 2007, secondo le statistiche attuali, si era a quota 6580 quotidiani stampati in tutto il mondo per una tiratura complessiva di 395 milioni di copie al giorno. E anche se internet, il giornale in formato elettronico e gli altri media che la rete mette a disposizione, tendono a diffondersi in modo esponenziale, la carta stampata rimane ancora il business principale dell’informazione secondo solo a quello della tv. Nato nel 1702 come organo d’informazione, il giornale quotidiano divenne in breve tempo, come sostenne a chiare lettere il Casalegno, “la voce del diritto e della libertà”. Ma la storia delle “gazzette nemiche dei tiranni” comincia assai prima. “Nel giudizio corrente, – scriveva il Casalaegno – i pionieri del giornalismo furono i Romani con i loro troppo famosi Acta diurna; ma anche in questo campo, come per la polvere da sparo o la stampa tipografica o tante altre diavolerie, sembra che la priorità cronologica spetti ai cinesi”. E questo perché, par fondato che già ai tempi di Muzio Scevola – fra il 600 e il 500 a.C. – “nel Celeste Impero usciva un bollettino con le notizie ufficiali: il Ti-Pao (Notizie di Corte)”. Ma se ciò è vero, altrettanto vero è che la stampa moderna Cinese è oggi d’imitazione occidentale. Nella tabella dedicata ai primi venti quotidiani pubblicati nel mondo spiccavano i nomi del Daily Courant e del London Daily Post (Londra – 1702). Al quarto posto La Gazzetta di Parma (1735) nata come settimanale, poi divenuta quotidiano nel 1800. Più in basso, al 16° posto, La Gazzetta di Venezia e al penultimo La Gazzetta di Mantova. Soltanto più tardi, in Italia, nascevano altri quotidiani che avrebbero avuto più o meno fortuna: nel 1824 viene pubblicato il primo numero de Il Corriere Mercantile, nel 1848 vede la luce La Gazzetta del Popolo, nel 1859 La Nazione e nel 1860 il Giornale di Sicilia. Nel 1861, mentre l’Italia era appena nata, a luglio viene stampato il primo numero de L’Osservatore Romano; seguivano Il Sole (1865), La Stampa e il meno noto L’Arena (1866). Soltanto 10 anni dopo, nel 1876, vedeva a luce anche il Corriere della Sera.

E anche in Calabria la stampa fermentava di riviste, giornali e giornalisti: La Voce Pubblica (1862), La Verità (1870), L’Avvenire Vibonese (1882) diretto da Eugenio Scalfari e La Calabria (1888) diretta da Luigi Bruzzano sono soltanto alcune delle più famose testate tra le tante vibonesi che si possono citare. Già durante il decennio della dominazione francese, subito dopo l’istituzione delle Intendenze (1806), – come ci ricorda Mario Grandinetti nell’articolo “Periodici del Risorgimento in Calabria1” – furono impiantate nelle regioni che ne erano prive, “le prime officine tipografiche, e con esse, in ogni capoluogo di provincia, nacquero i primi «Giornali», destinati alla pubblicazione di atti ufficiali di governo”. Anche la Calabria, sottolinea il Grandinetti, “ebbe allora i suoi giornali, ed il primo di essi fu quello stampato a Monteleone Calabro dal tipografo Giuseppe Veriente, sotto la data del 18 gennaio 1808, col titolo di Giornale dell’Intendenza di Calabria Ultra.

E proprio a Monteleone di Calabria, oggi Vibo Valentia dove a breve si ricostituirà il circolo della Stampa Vibonese, cominciò una nuova, importante, esperienza culturale, che, “dopo aver conosciuto momenti di fortuna alterna nel periodo del Regno borbonico, si affermò in modo notevole solo dopo il conseguimento dell’Unità d’Italia”. In tutta Europa, Penisola tricolore compresa, durante il periodo che abbraccia l’ultimo decennio dell’Ottocento ed i primi venticinque anni del Novecento, suscitarono grande interesse le cronache elettorali, le quali, com’è risaputo, rappresentarono allora uno dei mezzi più efficaci di propaganda a disposizione dei candidati e ispirarono un grandissimo numero di periodici locali di cui costituirono il tema principale. Anche a Monteleone Calabro “conobbero gli onori della stampa giornali di varia ispirazione. E se pure tra il proliferare di testate vi furono quelle che si occuparono di cronaca da caffè a Monteleone di Calabria molti giornali videro impegnati, come redattori o collaboratori o anche semplici ispiratori, “il fior fiore di intellettuali della Città e del circondario. Molti dei temi trattati ebbero, anzi, un grande spessore culturale, che riuscì alla fine ad affermarsi sul piano politico, in nome dei grandi principi ideali. Il grande amore per la letteratura, anche quella popolare, per le scienze, la storia, la filosofia, per l’arte, archeologia e le tradizioni popolari furono i motivi ispiratori di molte pagine, comprese quelle, e ve ne erano molte, satiriche e umoristiche come La Zanazara fondato da Gabriele Ionadi nel 1913 come giornale “Satirico, umoristico, illustrato”.

Guerriera Guerreri ci dà notizia delle testate nel volume “Periodici calabresi dal 1811 al 1974”. Nel 1871 nella tipografia di Giovanni Troyse nasce La Ghirlanda, giornale scientifico, letterario e artistico; dalle stesse presse vedono la luce poi, nel 1875, L’Imparziale, giornale politico, giuridico, letterario e, nel 1876, Cronaca Vibonese di Nicola Misasi. L’Avvenire Vibonese, diretto da Eugenio Scalfari dal 1882, oltre alla pubblicazione settimanale, con periodicità annuale pubblicava le “Strenne de L’Avvenire Vibonese” per le quali ebbe fama proprio per l’elevato livello culturale.

L’elenco dei giornali e delle riviste calabresi che, a partire dall’Unità d’Italia e sino all’inizio del ventennio, venivano pubblicate a Monteleone Calabro è davvero lungo. Il Primo Passo, che iniziò le pubblicazioni pure nel 1882 fu definito “Giornale degli studenti. Organo di propaganda democratica, anticlericale, lontano dal servilismo ufficiale e privato, contro ogni istituzione ostile al benessere sociale”. Era la tipografia di Francesco Raho una delle più attive della Monteleone post unitaria. Qui, nel 1888, cominciò le sue pubblicazioni anche La Calabria, rivista di letteratura popolare diretta dal Professor Luigi Bruzzano che, se pur poco apprezzata dai suoi contemporanei, fu molto rivalutata in seguito proprio per gli illustri collaboratori. Vi scrivevano infatti personaggi del calibro di Carlo Massinissa Preesterà, Ettore Capialbi, Antonio Julia, G.B. Marzano, Ottavio Ortona, Carlo Giuranna, Eugenio Scalfari e Raffaele Lomabrdi Satriani. Nel primo numero del settembre del 1888, Luigi Bruzzano presentò la sua rivista con queste parole: “Tre anni fa, quando io col mio amico Ettore Capialbi pubblicavo nella quarta pagina de “L’Avvenire vibonese” i racconti greci di Roccaforte, pochi fannulloni, miei concittadini, assordarono di grida la redazione del giornale, per indurla a smettere la pubblicazione di tutte quelle nostre chiacchiere … Le belle e dotte recensioni, che uomini illustri e miei maestri scrissero di quei racconti nell’Archivio per le tradizioni popolari e nella Rivista di filosofia e letteratura d’Italia e provenienti da taluni professori della stessa Grecia, dettero … torto a quei dottoroni da caffè, che tuttavia ci guardavano con un sorriso di scherno e di compassione. Ora pubblico a mie spese una rivista di letteratura popolare, nella quale saranno inserite in gran numero novelline greche ed albanesi inedite, e scritti che riguardano gli usi e i costumi di queste contrade. Tale impresa … sarà proseguita con coraggio, se i miei colleghi calabresi vorranno darmi una mano e se avrò il compatimento di quegli uomini illustri, che altra volta si occuparono a scrivere dei racconti greci, raccolti da me e dal mio amico Capialbi”. Nel 1889 fino alla fine dell’Ottocento nacquero a Monteleone Calabro, nelle tipografie Raho e Passafaro, molte altre testate: La luce, La Sentinella, Il Mefistofele (con un numero unico), La vendetta, La Falce, Il Risorgimento, L’Indipendente, La voce del popolo, il Presente, La Risposta, La Leva, Il Corriere di Monteleone, Sveglia, Il Risveglio, La piccola Brezia, Il Piccone, La Caldaia, Il vespro e Pro Calabria pubblicato come supplemento de Il Piccone.

Poi, nel 1900, nascono nelle tipografie di Raho e Passafaro, Il Piccolo, corriere settimanale di Calabria e Il Savoia, Gazzetta di Monteleone. Nel 1901 viene stampato Monteleone a Garibaldi, un numero unico dedicato all’eroe dei due mondi. Nello stesso anno vede la luce pure Il Vibonese, rivista di letteratura, scienze ed arte. Nel 1902, nella tipografia di Francesco Raho, nasce Libertas, periodico settimanale che sulla testata reca due citazioni: “La verità ci rende liberi” di Gesù e “La libertà ci renderà veraci” di Giordano Bruno. Nel 1903, nella stessa tipografia, viene fondato pure Lucifero. Entrambi hanno come Gerente responsabile Salvatore Licastro. Nel 1904, presso la tipografia Giuseppe La Badessa, vengono stampati i primi numeri de La Lotta, Il fuoco, nell’arte, nella vita, nell’umorismo, gazzetta politica amministrativa che aveva ben due direttori responsabili: G. Mele e A. Scabelloni. Nella tipografia Passafaro, sotto la direzione di Giuseppe Montoro, viene fondato Vita Nuova, gazzetta politica amministrativa del Circondario che si pubblicava ogni domenica. Allora la tipografia di Giuseppe La Badessa pubblica un numero unico di un giornale dal singolare titolo che evidenzia la rivalità tra le diverse testate: Risposta al giornale Vita Nuova. Esilarante, un fermento culturale eccezionale terminato soltanto con l’avvento del fascismo e della relativa censura. Nel 1905, diretto dal Francesco Ranieri nasce, nella tipografia del La Badessa, il settimanale studentesco Iride; lo stesso anno e nella stessa tipografia vengono stampati per la prima volta Il gazzettino vibonese (numero unico), Il Moto, Il Riscatto (numero unico) e Il mentore vibonese, mensile religioso letterario diretto ed amministrato dalla Parrocchia di S. Michele con l’approvazione dell’autorità ecclesiastica. Sempre nel 1905, presso la tipografia di Passafaro, prende vita La rivista vibonese, giornale radicale del Circondario che si pubblicava ogni domenica.

Il fervore culturale e la rivalità tra le officine tipografiche proseguono a Monteleone pure nel 1906 quando nascono Il Tamburo, La Gazzetta Valentina, La parola degli onesti e Il Marchio. L’anno successivo vengono fondati L’Agitazione, settimanale d’interessi regionali, Il Pane, giornale socialista per i senza pane diretto da Michele Pittò, e Il Randello.

Poi, nell’ottobre 1908, viene stampato il numero unico de A Garibaldi la Massoneria di Monteleone. Dal 1909 al 1920, in poco più di un decennio, vedono la luce, soltanto a Monteleone Calabro, altre ventitré testate: Il Crogiuolo, Il Faro (1909), Il Foro valentino (1910), La Difesa, La Difesa degli interessi del Circondario, Juvenilia (1911), Il Paese e L’Ambiente (1912); La Zanzara (1913), Il Pensiero del Circondario e Libera parola (1914); Il Pennello, L’Avvenire, La Fiaccola (dall’ambizioso titolo sotto testata: “Organo per la difesa dei supremi interessi della Scuola e della Calabria”) e La Fronda (1915); Nel 1918, in occasione della fine del conflitto mondiale, presso la tipografia di G. Raho venne stampato un “numero unico” de I Nostri Eroi con l’evidente intento di celebrare e commemorare i caduti della nostra Terra durante la guerra. Nel 1919 nascono poi Il Giornale di Monteleone, La Favilla, La libera Calabria, ed il quindicinale della gioventù Satana. Nel 1920, per cura della Sezione socialista di Monteleone, viene fondato il “Quindicinale per la propaganda socialista” Calabria Rossa e, presso la tipografia di Giuseppe La Badessa il Gloria! Giornale del fiumanesimo in Calabria.

L’attività giornalistica continuò a fervere a Monteleone e in tutta la Calabria, dal Pollino allo Stretto, nascevano giornali e riviste di cui ha senso custodire oggi la memoria. Immaginiamo un archivio unico dei giornali calabresi magari consultabile anche on line attraverso le nuove tecnologie di internet. Anche perché, alcune di quelle domande che Casalegno si poneva nel 1962 sono ancora oggi assai attuali per il ruolo e il futuro del giornalismo. I giornali furono “strumento d’interessi governativi, nazionali, economici? Oppure rappresentano una vera manifestazione di libertà di parola? Semplice mezzo di propaganda o vero interprete dell’opinione pubblica? Furono insomma, arma passiva in mano al potere politico, o riuscirono ad essere autentico «quarto potere»?

Considerate le condizioni in cui versa oggi sia la stampa locale sia quella nazionale, per chi affronta la professione giornalistica e per chi ancora crede che l’informazione sia davvero il “quarto potere”, sarebbe necessario porsi oggi queste domande, magari proprio mentre si scrive un articolo o mentre si conduce un’inchiesta.

1In «Rassegna storica del Risorgimento», a. LXXIX (1992), Fasc. I, p. 3

 

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TUTTO E NULLA

di Maria Elisabetta Curtosi

 

I fanciulli trovano il tutto nel nulla, gli uomini il nulla nel tutto.

E’ affascinante osservare un bambino che gioca o fissa il suo sguardo su un particolare minimo della natura: egli conosce quella virtù che lo stupore, destinato ad atrofizzarsi quando si pianterà davanti a una playstation. La realtà più semplice si trasfigura ai suoi occhi in un microcosmo in cui egli è ospite e signore, proprio cme affermava Leopardi nella frase che ho desunto dal suo Zibaldone.

E’ il contrario di quello che accade a noi adulti: attraversiamo un mondo di meraviglie con l’indifferenza di un mercante che calcola solo costi e ricavi, rischi e vantaggi.

<<  Se non diventerete come i bambini, non entrerete nel Regno>>, aveva ammonito Cristo.  Come faceva Francesco d’Assisi, celebrato nel calendario il 4 ottobre.

<< Vedrete il mondo in un granello di sabbbia/ il firmamento in un fiore di campo,/ l’infinito nel cavo della mano/ e l’eternità in un ora. >> (William Blake)

 

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Calabria Letteraria compie 60 anni

L’anniversario dei 60 anni dalla nascita dell’illustre Rivista calabrese fondata da Emilo Frangella che, nella nostra regione, tiene alta la fiammella della cultura, sarà celebrato sotto le stelle di San Lorenzo, il prossimo 10 agosto alle ore 21, presso il centro benessere delle Terme Luigiane ad Acquappesa di Guardia Piemontese (CS). A darcene notizia sono il suo direttore, Franco Del Buono, assieme al presidente del comitato organizzatore, Attilio Romano che, nel rimetterci l’invito ci raccomandano di dare massima visibilità all’appuntamento che vedrà esibirsi, in un simposio sotto le stelle cadenti, la voce del bel canto italiano, Cesira Frangella.

Calabria Letteraria

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