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L’ATTUALITA’ DI GIUSEPPE MAZZINI SINDACALISTA SOCIALISTA A DISTANZA DI UN SECOLO E MEZZO

di Maria Elisabetta Curtosi

Mazzini, a ragione, viene considerato l’antesignano del sindacalismo nazionale, cioè parliamo di quel sindacalismo che non si esaurisca nella lotta di classe, poichè temeva che in Italia una guerra di classe avrebbe prodotto facilmente una reazione che avrebbe ritardato sia la conquista totale dell’indipendenza nazionale sia lo sviluppo economico del paese. Aveva osservato che la borghesia era diventata volubile, e l’appoggio più costante gli proveniva dagli operai, uno dei motivi che lo inducevano a denunciare la divisione provocata dal comunismo che si traduceva, a suo vedere, in un espediente illiberale e oppressivo con cui un gruppo di intellettuali intendeva impadronirsi del potere assoluto sull’intera comunità.

Per Mazzini il comunismo era una “falsa utopia” ed era certo che un giorno le classi lavoratrici si sarebbero visti riconoscere il loro ruolo di componenti primarie della società.

Della questione sociale si è interessato durante tutto il corso del suo “apostolato” che sostanzialmente consistette nell’elevazione morale del popolo perché esso partecipasse con piena coscienza dei suoi doveri e delle sue funzioni alla rivoluzione italiana cioè alla conquista dell’unità nazionale e dell’indipendenza politica fondata sulla sua emancipazione morale.

E questo problema fu cosi presente nel suo spirito che senti il bisogno di esprimerlo in una specie di testamento ideale, che alla vigilia della sua morte volle riassumere in una serie di articoli apparsi su “Roma del popolo” verso la fine del 1871 appunto sotto il titolo di “Questione sociale”.

Il modo fondamentale per Giuseppe Mazzini era < un miglioramento morale in noi stessi> considerato per lui <a capo di ogni mutamento di ogni grande impresa >.

E la base di questo miglioramento era per lui l’istruzione, intesa prima di tutto come educazione, come elemento morale, come risveglio di una illuminata coscienza dei doveri, come missione civile, rafforzata da istruzione professionale che affinasse le armi delle classi operaie nella loro battaglia quotidiana per il programma economico e sociale. Battaglia che, sull’odio classista predicato da Marx, deve prevalere l’amore poiché <un germe di comunione e di amore è più potente a pro di un popolo abbandonato, che non certo grida di rabbiosa vendetta >.

Per questo, egli postula il riordinamento del Lavoro e l’associazione come fondamento che garantisca il salario come basa del mondo economico futuro.

E’ l’invito all’associazione sindacale, all’affratellamento operaio, in cui gli scopi sociali ed economici s’innestano a quelli morali , educativi. La definizione sindacale non ha ancora corso, ma Mazzini ha una chiarezza sui quelli che saranno i futuri compiti del sindacato da fare invidia ai più moderni sindacalisti.

Quindi il sindacato ha una funzione educativa che dovrebbe essere ancora preminente e sarà ancora di più se supererà la fase classista in cui ristagna. In altre parole dovrà restare “la Scuola delle masse” da cui dovranno venir fuori i degni rappresentanti dei lavoratori assieme ai nuovi istituti rappresentativi come la Camera del Lavoro o Consiglio legislativo dell’Economia e del Lavoro l’attuale C.N.E.L. Già prevede l’istituzione della Magistratura del Lavoro cioè i “ consigli conciliativi, composti per metà da padroni per metà da operai, usciti tutti naturalmente dall’elezione e presieduti da un soggetto capace”.

Perché l’Apostolo sa perfettamente che << l’operaio, senza interesse alcuno materiale o morale nei risultati della produzione, non dà, in generale , e non quel tanto di lavoro necessario a rivendicargli il salario pattuito per cui ha dalla partecipazione sprone a produrre maggiormente e meglio>>.

E rivolgendosi alle classi emancipate le pone di fronte alle loro responsabilità << o con voi o contro di voi>> è un ammonimento vecchio di un secolo e mezzo ma ancora di un’attualità sorprendente.

Ma quel che oggi è preoccupante è che ciò oltre ad aver lasciato indifferenti quelle classi sociali a cui era direttamente rivolta, non è stata capita, nonostante un linguaggio esplicito e chiaro che aveva un solo obbiettivo: affermare la dignità e i diritti di tutti i lavoratori per fare diventare una nazione libera.

Dovrebbero i nostri governanti prendere esempio da loro, invece di lavorare per dividere l’Italia e il mondo del lavoro.

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Patriota, educatore e meridionalista: Umberto Zanotti-Bianco

 di Maria Elisabetta Curtosi

Zanotti Bianco storico e meridionalista che concepiva il problema politico come problema morale lontano da ogni moralistico bla bla ma una ricerca della eticità del vero impegno civile per il Sud ed in particolare per la Calabria. Un esempio resta il saggio “Martirio della scuola in Calabria” dove impegno civile ed etica sono un tutt’uno ed in questo senso Zanotti Bianco raccoglieva l’esempio del suo maestro di meridionalismo Gaetano Salvemini che aveva inculcato nel giovane amico la fiducia nella storia “fatta di piccoli sforzi, che accumulandosi fanno le grandi soluzioni”.  Salvemini e Zanotti Bianco si incontravano nella fondazione etica della politica ed era comune il convincimento che “nessun popolo che non valga moralmente riesce a farsi valere”. Questo convincimento durò per tutta la loro vita.  E’ superfluo aggiungere, oggi come allora l’attualità dell’insegnamento. In un libro pubblicato nel 2009 presso Rubbettino (Umberto Zanotti Bianco. Patriota, educatore, meridionalista: il suo progetto e il nostro tempo, pp.247, Euro 16), Sergio Zoppi ha dedicato una biografia ad una personalità complessa ed emblematica del novecento italiano che ha fatto dell’impegno sociale e civile a favore del Sud una vera e propria missione.

Zanotti  Bianco e Salvemini si videro per la prima volta  a Gennaio del 1909,dopo il terribile terremoto del 1908 che sconvolse Messina e mezza Calabria. Fra quei volontari c’era Zanotti Bianco poco più che ventenne,mentre Salvemini in quel disastro aveva perduto  la moglie e i cinque figli e si aggirava tra le macerie alla disperata ricerca di Ugo, il figlio più piccolo d cui non si era trovato il corpo. Si trovava in compagnia dell’amico Giovanni Malvezzi e di Giovanni Gallarati Scotti in una esperienza drammatica che doveva segnare per sempre la sua vita consacrandolo ad un’opera di apostolato per il Sud Italia non più abbandonata. I due si incontrarono nel 1910 a Roma per fondare l’Associazione nazionale per gli interessi morali ed economici del Mezzogiorno (ANIMI) della quale facevano parte uomini come Giustino Fortunato, Pasquale Villari, Giuseppe Lombardo Radice, Tommaso Vallari Scotti e Antonio Fogazzaro. Salvemini – scriveva Zanotti a Fogazzaro “si è mostrato fautore entusiasta”, e più tardi comunicava a Giustino Fortunato che “un gruppo di giovani e di vecchi decideva di mettere su un’associazione pel mezzogiorno col fine immediato di concentrare gli sforzi intorno al problema della scuola e della istruzione e della emigrazione in provincia di Reggio Calabria. Gli uomini autorevoli danno l’ indirizzo e  i giovani sgobbano. Saremmo lieti e orgogliosi di averti tra di noi.  Oltre mezzo secolo fa lo stesso Zanotti Bianco rievocava l’incontro con la Calabria, la Magna Grecia, un incontro dettato da una precisa scelta di vita, una vera e propria missione: “Sarà tra poco mezzo secolo che percorro in tutti i  sensi le terre dell’antica Magna Grecia. Per quanto istintivamente attratto da ogni testimonianza artistica e dal fascino delle ricerche archeologiche, tuttavia la miseria ed i dolori di questa regione, ingigantiti dalla spaventosa tragedia del terremoto che prese nome da Reggio e Messina, occuparono nei primi anni di lavoro quaggiù tutta intera la mia vita (…) Fu Paolo Orsi, il grande, perseverante archeologo roveretano,che con la descrizione dello stato  miserando dei monumenti superstiti della Calabria, mi fece sentire il dovere della pietà per le creazioni d’arte del passato, silenziose educatrici degli spiriti nel futuro, e mi spinse a creare nel 1920, in quel desolato dopoguerra, la Società Magna Grecia”.   Paolo Orsi gli fece conoscere Carlo Felice Crispo, storico della civiltà magno-greca della Calabria ed in particolare di Vibo Valentia, già Hipponion. Conobbe anche il marchese Enrico Gagliardi. Diventò subito amicizia vera perché avevano in comune l’amore per il bello ed i valori della libertà e della onestà. Oltre a questi grandi vibonesi altre figure di primo piano aderirono alla Società:il prof. Eugenio Scalari, Pietro Tarallo, Mario Micalella, il conte Capialbi, Mario Cordopatri, Vincenzo Cremona, Leonardo  Donato ed altri.  Con il marchesino Gagliardi a bordo di una macchina cabrio visitarono tutti i monumenti di Monteleone, Pizzo, Mileto.   Giuliana Benzoni, stretta collaboratrice di Zanotti cosi lo descrive: “Esile, dagli occhi cerulei, con biondi capelli da agnellino che adornavano una testa da cherubino, affascinante come una visione, spirituale come un santo, concreto come un banchiere, splende per bellezza fisica, passionalità, ardore:un tombeur de femmes eccezionale”.

 Zanotti Bianco era nato nel 1889 a Canea sull’isola di Creta, il padre console,la madre di origine scozzese, studi nel collegio Carlo Alberto di Moncalieri dai padri Barnabiti. Ammirava Mazzini e gli ideali del Risorgimento, Tolstoj e Romolo Murri.Allo scoppio della prima guerra mondiale,seguendo l’esempio di Gaetano Salvemini, si arruola volontario. Nel 1939 Achille Storace aveva protestato perché la sua associazione ANIMI era ancora in vita e quindi dimostrava che il fascismo non aveva risolto tutti i problemi del Sud. Zanotti chiede l’aiuto della principessa Maria Josè che assume l’alto patronato dell’associazione.Nel 1941 viene arrestato e inviato al confino vicino a Sorrento. Erede del cattolicesimo liberale. Partecipa in seguito alla lotta clandestina nelle file del partito liberale. Nel 44 assume la presidenza della Croce Rossa. Nel 1952 è nominato senatore a vita da Luigi Einaudi. Fonda assieme ad Elena Croce Italia Nostra. Muore a Roma nel 1963.

 

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CENSURA E LIBERTA’ DI STAMPA

di Marilisa Curtosi

È la stampa, bellezza, e tu non puoi farci niente

Testate stampa calabrese
Libertas e La Zanzara                                               Due testate della stampa calabrese

In questo periodo la domanda che frequentemente viene da porsi è se esiste la libertà di stampa in questo Paese che definiamo come “democratico”.

Possiamo veramente parlare di “parole in libertà” o è rimasto solo un logo della corrente del Futurismo?

In questo caso per non dare una semplice e “comoda” risposta è necessario prima di ogni altra cosa fare un passo indietro e ripercorrere brevemente la mappa storica della libertà di stampa e censura.

La libertà di stampa venne ufficialmente proclamata a Parigi con la DICHIARAZIONE DELL’UOMO E DEL CITTADINO il 26 Agosto 1789. Vi si stabiliva che << la libera comunicazione del pensiero e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo: ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo rispondere degli abusi nei casi determinati dalla legge>>

Come ben ricorda Mario Infelise, insegnante di Studi Storici, ne ”i libri proibiti” <l’immagine del rogo dei libri ha una lunga storia alle spalle e rappresenta con drammatica efficacia l’estrema conseguenza del conflittuale rapporto tra poteri organizzati e voci avvertite come dissidenti>. Uno dei più famosi è quello del 10 maggio 1933 , di fronte all’Università d iBerlino, dove bruciavano le opere degli autori liberali e democratici, perché doveva risultare chiaro che <la presa del potere nazista sulla Germania non si limitava alle istituzioni, ma doveva incidere in profondità sulle coscienza>.

La grande attualità del tema ha spesso reso difficile una corretta ricostruzione storiografica, in grado di prendere in considerazione le sue tante sfaccettature.

Trattare di censura continua e, con ogni probabilità, continuerà a sottintendere implicazioni politiche e religiose legate a ogni presente che rischiano spesso di proiettarsi al passato , deformandolo.

La storiografia democratica e liberale di matrice ottocentesca ha, ad esempio, a lungo rivolto uno sguardo carico di indignazione verso la censura ecclesiastica dei secoli scorsi, facendo proprie tutte le argomentazioni di chi allora era stato costretto a subirla. Non si è però mai curata di tener nel debito conto quali fossero le condizioni effettive dell’esercizio del potere e della circolazione delle informazioni. In compenso, certo recente revisionismo storiografico ha teso a minimizzare le conseguenze della svolta controriformistica sull’evoluzione intellettuale dei paesi cattolici.

Da una parte e dall’altra sono rimasti in ombra altri rilevanti effetti che il controllo sulla stampa dell’età moderna ha lasciato nella cultura europea.

Paradossalmente in certi casi proprio la repressione, suscitando la curiosità nei riguardi dei titoli proibiti, ha alimentato l’interesse e ne ha consentito la sopravvivenza. In altri ambiti la necessità di eludere la vigilanza ha condotto ad affinare lo stile e a coltivare l’ironia e le allusioni. Il fatto che spesso la repressione si sia manifestata in epoche lontane ha contribuito a destoricizzare il problema. Si pensi all’immagine del rogo dei libri, dall’età classica al nazismo e oltre. Forse la forza evocatrice di quei fuochi ha impedito di ragionare al di fuori di schemi ideologici e di collocare la questione della censura all’interno del tema più ampio della comunicazione e dei rapporti di questi con il potere. Uno dei rischi di restare legati a concetti che si ritiene immutabili è quello di stentare a percepire che non è possibile definire una volta per tutte il quadro entro la quale la libertà di espressione può essere esercitata poiché esso tende a configurarsi in maniera sempre nuova, a seconda dell’evolversi delle tecnologie dell’informazione, in funzione dei sistemi istituzionali e di esigenze di carattere sociale. Non esiste potere che possa permettersi di rimanere indifferente alle opinioni dei governati al punto di astenersi del tutto dal proposito di influire su di esse.

Gli interventi di Paolo Sarpi furono del resto in linea con questo principio. Egli era consapevole della funzione politica che la censura stava assumendo in quel periodo e con estrema lucidità, aveva chiarito che nessun potere poteva ormai disinteressarsi alle letture dei sudditi : << La materia dei libri- aveva scritto nel 1613- Par cosa di poco momento perché tutta di parole; ma da quelle parole vengono le opinioni del mondo che causano le parzialità, le sedizioni e finalmente le guerre. Sono parole sì , ma che in conseguenza tirano eserciti armati>>.

Dunque ritornando alla questione iniziale, risulta azzardato dire che in questo Paese la libertà di stampa è una questione strettamente legata al servizio del potere o del potente di turno?

Abolire la miseria Anno III n°9 (unico)
Abolire la miseria Anno III n°9 (unico)

Forse è meglio far rispondere ad uno dei più grandi attori di tutti i tempi che con queste parole Humphrey Bogart inchiodava il suo antagonista filmico alle proprie responsabilità civili e penali: “È la stampa, bellezza, e tu non puoi farci niente”; mentre il rumore delle rotative trionfava sugli strepiti dei corrotti nemici della libertà di stampa.

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“Fimmani e omani”.

di Maria Elisabetta Curtosi

Se verrà un giorno in cui smetteremo di chiederci se Vincenzo Ammirà, monteleonese, classe 1821, sia o no il più grande poeta calabrese,riconoscimento del quale l’interessato stesso non farebbe salti di gioia, vista anche l’amarezza con cui il poeta del Carmine-ex rione del paradiso terrestre vibonese che tanto decisivo nei suoi versi appare, oggi definitivamente deturpato da un progresso senza sviluppo. Fimmani, omini, natura, cultura e mondo: i temi della poesia ammiriana sono spesso risolvibili in tensioni irrisolvibili che hanno accompagnato lo scorrere dell’ultimo decennio dell’ 800 poetico esplorandone quella che sarebbe troppo facile definire una società profondamente corrotta. Le due leggendarie figure della poesia calabrese hanno plasmato con entusiasmo l’anima della gente, non solo in Calabria,ma la loro opera si è appannata, nel tempo. “L’atmosfera romantica che stupì il mondo della letteratura meridionale con le sensuali poesie si fa fatica a ritrovarla là dove la poesia è artificio, retorica, buona soprattutto nei salotti della domenica. La pratica diffusa oggi è una non celata forma di prostituzione che offenderebbe una come Cecia: qui da noi, e forse anche altrove, una signora desiderosa di occupare alacremente la propria vacanza  può comprare in un comune un incarico qualunque. La nostra coscienza è molto sporca”.

Quale dunque l’interesse di queste raccolte, a parte il gusto per lo scandalo.  Solo e semplicemente per amore della verità della conoscenza a tutto tondo come direbbe qualcuno ,nel senso che la conoscenza di qualcuno o di qualcosa non può nascondere o escludere nessuna parte di se o della sua opera.  Se vogliamo per davvero prendere le misure del Monteleonese Vincenzo Amnmirà e dell’apriglianese Domenico Piro alias Donnu Pantu, accanto ai versi sonori, cantabili, sfumati e sfuggenti, gioiosi e dilettevoli e rispettabili delle loro liriche note, si deve, appunto per amore di verità e di conoscenza.

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Storia della mancata prevenzione e il terremoto delle Calabrie del 1905

di Giuseppe Candido

Rovine di Piscopio
Rovine di Piscopio

Tremila e quattrocento circa sono le vittime del solo dissesto idrogeologico in Italia negli ultimi sessant’anni e perlopiù dovuti ai soli fenomeni repentini come esondazioni torrentizie, colate di fango e di detrito. Basti ricordare gli esempi di Sarno e Quindici nel salernitano; Soverato e l’alluvione del torrente Beltramme, Crotone e l’alluvione dell’Esaro, Maierato in Calabria. Solo alcuni degli ultimi nomi che a memoria ricordiamo.

Purtroppo non esiste – a livello nazionale (né tantomeno a livello regionale) – un ente che, per compito istituzionale, raccolga ed archivi sistematicamente le informazioni relative agli eventi calamitosi e che rendiconti annualmente l’ammontare economico dei danni (oltreché delle vittime) conseguenti a ciascuna calamità naturale. Secondo l’annuario dei dati ambientali elaborato dall’ISPRA, il costo complessivo dei danni dei soli eventi franosi ed alluvionali dal 1951 al 2009 è, rivalutato secondo moneta corrente, superiore ai 52 miliardi di euro. Circa un miliardo di euro all’anno.

Per delineare il fenomeno del dissesto idrogeologico in Italia è necessario fare riferimento al progetto IFFI, l’inventario dei fenomeni franosi in Italia curato dall’Agenzia per la Protezione Ambientale. Le statistiche e le elaborazioni effettuate sulla banca dati del Progetto IFFI offrono infatti un quadro della distribuzione dei fenomeni franosi sul territorio italiano. L’inventario ha censito, alla data del 31 dicembre 2006, 469.298 fenomeni franosi che interessano un’area di quasi 20.000 km2, pari al 6,6% del territorio nazionale. Più dell’ottanta percento dei comuni italiani ha almeno un’area instabile all’interno del suo territorio per frana o rischio alluvioni. In Calabria praticamente non c’è un Comune che non sia a rischio idrogeologico eppure, anche di questo come del rischio sismico, ci interessiamo solo dopo la tragedia ma non ce ne preoccupiamo, cioè non ce ne occupiamo prima.

Come il censimento della vulnerabilità sismica degli edifici pubblici di nove regioni realizzato da Franco Barberi per la Protezione Civile e lasciato nel cassetto per anni dal 1999, anche la mappatura effettuata dal Cresmel nel 2009 per le aree franose del nostro Paese ci fornisce un dato preoccupante: dalla semplice sovrapposizione delle carte del rischio frana o alluvione elaborate nei PAI, piani per l’assetto idrogeologico regionali, e le carte riportanti strutture pubbliche, scuole e ospedali, si evidenzia chiaramente come siano ben 3.458 le strutture scolastiche costruite in zone ad alto rischio idrogeologico nel nostro paese; 89 gli ospedali. Ma anche per questo non si può fare nulla perché il fabbisogno del Paese per il risanamento di queste situazioni di rischio ammonta a circa 40 miliardi di euro. Anzi, di recente, il Quadro Territoriale Regionale (QTR) ha dimenticato proprio di inserire le mappature dei rischi sismico ed idrogeologico nella bozza presentata: una questione di cultura, quella della mancata prevenzione.

E poiché al peggio non c’è mai fine, dalla padella del dissesto dobbiamo necessariamente ricordare la brace del rischio sismico. Quasi 4 miliardi di euro all’anno se ne vanno solo per il rischio sismico. Emergenze, quelle sismiche ed idrogeologiche del nostro paese, non più rinviabili dalla partitocrazia che le ha causate dimenticando la parola prevenzione.

La Calabria è notoriamente una delle aree della penisola con un altissimo livello di sismicità, uno dei più alti d’Italia. Ricorrenti e disastrosi i terremoti nei secoli l’hanno sconvolta. Nel 1783 un grave sciame sismico che durò tre anni, poi il disastroso terremoto del 1905 e, soltanto tre anni dopo, l’apocalisse che devastò Reggio Calabria e Messina nel 1908. U terremuoto, lo chiamavano.

Oggi è lo sciame sismico emiliano, prima il sisma in Abruzzo dell’aprile del 2009 l’aveva ricordato a tutti: il problema della sismicità è un problema generale per tutta la penisola; in Calabria, non dovremmo però dimenticare quanti terremoti e con quale gravità essi scossero la nostra Regione che, sula carta della sismicità italiana, è quasi tutta una macchia rossa e dove, ancora oggi, molti edifici pubblici, tra cui scuole e ospedali, sono rimasti con un’alta o medio alta vulnerabilità sismica, senza che nessuno facesse niente. Bisognerebbe forse far rileggere le cronache di allora ai nostri eletti in Calabria per svegliare una classe politica inconcludente nel governo del territorio e che dal 2009 ha dimenticato di approvare una legge antisismica che potrebbe salvare qualche vita ma che, evidentemente, non piace alle lobbies dei costruttori.

Senza andare troppo indietro nel tempo ai terremoti del 1639 nel catanzarese e del 1793 nel vibonese, sia sufficiente ricordare ciò che accadde nel solo secolo passato.

La notte tra il 7 e l’8 settembre del 1905 una poderosa scossa di terremoto funestò la Calabria. I giornali dell’epoca diedero grande attenzione e mandarono inviati e fotografi per raccontare i disastri. “Il gravissimo terremoto in Calabria e in Sicilia” titolava Il Giornale d’Italia: “Scene angosciose, una notte di terrore, morti e feriti, paesi distrutti” era l’occhiello. L’Ora, corriere politico quotidiano della Sicilia, nel numero del 10 settembre del 1905 raccontava ai suoi lettori “dei soccorsi” e degli “Spaventevoli disastri”.

Nella provincia di Catanzaro la desolante serie dei paesi distrutti o fortemente danneggiati: Girifalco, Olivadi, Borgia, Palermiti, S. Floro, S. Caterina sullo Ionio, Isca sullo Ionio, Tiriolo, Dinami, Ionadi, Monteleone, Parghelia, Piscopio, Pizzo, Maida, Polia, San Mango. A Catanzaro, anche l’ospedale riportò gravi lesioni.

Un’orrenda catastrofe” titolava a due giorni dal disastro La Rivista Vibonese: “Appena riavuti dal grande panico prodotto dalla forte scossa ed usciti in mezzo alla via, abbiamo constatato – scriveva in prima pagina la redazione – che i danni superavano ogni nostra previsione. La luce elettrica completamente spenta, l’aria annebbiata da densi nuvoli di polvere uscente dalle finestre e dalle larghe fenditure prodottesi nei muri, una folla di gente gridante in cerca dei propri cari dispersi nel buio della notte, qualche lume qua e là di luce fiochissima, gridi di pianto e di dolore, una disperazione delle più terribili”.

I circondari di Monteleone e di Nicastro furono le aree più colpite dal sisma il cui effetto distruttivo si estese anche a due fasce delle provincie di Cosenza e di Reggio Calabria. Stando alle cronache del tempo furono distrutti o gravemente danneggiati 326 comuni, 135 in provincia di Catanzaro, 107 in quella di Cosenza e 84 in quella di Reggio Calabria. Più di ottomila le case crollate e oltre 700 i centri abitati danneggiati. Quasi completamente distrutti furono Zammarò (70 morti), Parghelia (62), Piscopio (60), Stefanaconi (65), San Leo di Briatico (24), Aiello (23), Martirano (16). Sei morti anche a Monteleone di Calabria (oggi Vibo Valentia).

Dovunque sono stato, – scriveva Olindo Malagodi su La Stampa – per tutti i luoghi della devastazione, uno stesso spettacolo si offriva: la sproporzione fra l’entità del disastro e la meschinità dei soccorsi … e vedevamo, con l’animo gonfio di angoscia, fronti sempre più rabbuiate e sguardi sempre più sconfortati, una disperazione sempre più cupa e sconsolata, una delusione che pareva un rimprovero. Ci son voluti nove giorni per assicurare una ragionevole distribuzione di pane …”.

Luigi Barzini, autorevole inviato per il Corriere della Sera, fu uno dei primi a giungere in Calabria e la notte dell’11 settembre invia la sua testimonianza: “In Calabria si muore”. “È troppo vasto il quadro di orrore e ho qualche cosa di più urgente da dirvi. Nella emozione, nella concitazione di quest’ora, non posso – scriveva – che gettarvi un grido d’aiuto; più tardi saprete in dettaglio quanto avvenne di spaventoso, saprete le stragi che la terra a commesso, le infamie di questa terra che tutti gli uomini chiamano madre. Adesso sappiate ciò che avviene mentre telegrafo. Qui intorno si muore di fame e di sete: i soccorsi, per quanto alacremente portati, non bastano; manca il pane ai sani, la carne ai feriti, manca l’acqua, manca il ricovero ai morenti. Intorno ai paesi una lugubre folla dolente si accascia; vi sono silenziose ventimila persone che perdono tutto, che non hanno neppure recipienti per andare alle fonti per attingervi; sono silenziose moltitudini che non possono staccarsi dalle rovine delle loro case, dovei i cari morirono e che, stordite, aspettano senza forza quegli aiuti che non arrivano mai. In alcuni luoghi, come Monteleone, poche case crollano; ma negli abitanti v’è ora il terrore della casa. Essa è il nemico. …”.

La casa, l’edificio, la struttura che fino al giorno prima rappresentava la sicurezza, il giaciglio confortevole, si era trasformata nel peggior nemico. Già, perché, anche allora come adesso, non è mai il terremoto che ti uccide ma la casa che rovinosamente crolla sulla testa. Ed è proprio per questo che, conoscendo la storia sismica del nostro paese che ci lascia ben prevedere dove avverranno e con quali intensità altri terremoti, non dovremmo più permettere che si continui a costruire con metodi “poco rigorosi” da un punto di vista antisismico e dovremmo sbrigarci ad adeguare quelle strutture pubbliche censite come vulnerabili già dal 1999 cominciando dalle scuole dove mandiamo i nostri figli a studiare.


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Cenacolo di libertà

di Maria Elisabetta Curtosi

Nel 1847 Vincenzo Ammirà si affiancò ai liberali sotto la guida di Raffaele Buccarelli, tra i quali troviamo Francesco Fiorentino, Luigi Bruzzano, Ottavio Ortona, Francesco Protetti, Giuseppe Augurusa (….) che ebbero su di lui una certa influenza ed in compagnia di questi amici  spesso trascorreva le serate e le notti . Cenacolo di libertà. L’agiografia e la critica che sino ad oggi si è occupata di Ammirà di Donnu Pantu risulta piuttosto caricaturale, di maniera, conformista e quindi falsata. A noi interessano soltanto in quanto ci servono come veicolo per arrivare a capire il perché di una certa produzione, che d’altra parte è presente in Italia e fuori da essa, lungo tutto il percorso della storia letteraria, anche se celata con sufficienza da testi cosiddetti ufficiali.

Tre anni dopo, nel mese di…. lo troviamo al seguito di Giuseppe Garibaldi fino a Soveria Mannelli.

Le lagnanze della “ cultura ufficiale” battono sui soliti argomenti: l’immoralità mostruosa del comportamento del poeta che poteva avere sulle persone la più funesta influenza e,il fatto che il poeta dicesse pane al pane e vino al vino come in uno dei suoi più celebri scritti la “ Ceceide” che canta la vita di una bella e dignitosa buttana di Tropea, frequentata non dai poveri cristi popolani,ma da gente di cultura e di alto lignaggio come il filosofo Pasquale Galluppi e  la “Rivigghiede” che rappresenta una sorte di orationes funebre sempre di una grande buttana, questa volta montaleonese, assaporata,gustata e molto gradita  dai signori altolocati del tempo.  A Francesco Mantella-Profumi, appartenente al nobile casato pannaconese , disse: “Da certi scritti, che non credevo vivessero tanto,  sembro diverso da quel che realmente sono, eppure quando scrivo i miei versi sono sempre mesto”.  Dunque Ammirà, come Donnu Pantu vivevano  una vita castigata, l’uno tutto dedito alla famiglia, l’altro faceva il “mastru missaru”.

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Non è il terremoto ad uccidere

Mappa dell'intensità massima risentita in Italia - CNR GNDT

Fanno tragicamente notizia in questi giorni lo sciame sismico e i terremoti dell’Appennino modenese assieme alle vittime malcapitate che, ogni qual volta una struttura edificata non regge alle scosse, sono conseguenti alle rovine. Ma dobbiamo dirlo chiaramente non è la natura matrigna ad uccidere; non è il cataclisma naturale ad uccidere. Ancora una volta, a causare questa strage continua di popoli è la strage di regole, norme antisismiche e, più semplicemente, dello stesso buon senso. Se gli stessi terremoti che hanno scosso e continuano a scuotere l’Emilia Romagna si fossero verificati in Giappone non sarebbe morto nessuno. Gli operai morti nei capannoni in questi giorni hanno lasciato questa terra non per una causa naturale ma perché, come per gli abitanti dell’Aquila, la prevenzione in questo Paese si è fermata all’anno zero. Se la protezione civile nazionale è diventa leader nel mondo nella gestione delle emergenze tanto da straripare persino nella gestione dei grandi eventi, e se con la previsione siamo pure ad un livello avanzato della mappatura dei rischi, dal punto di vista della prevenzione ce ne infischiamo come se il costo della stessa fosse una spesa e non già un investimento. Ogni anno in Italia, l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, attraverso le registrazioni effettuate attraverso la Rete Sismica Nazionale, localizza dai 1.700 ai 2.500 eventi di magnitudo pari o superiore a 2,5. Nel rapporto pubblico on line si legge che “in media in Italia ogni 100 anni si verificano più di 100 terremoti di magnitudo compresa tra 5,0 e 6,0 e dai 5 ai 10 terremoti di magnitudo superiore a 6,0”. Tra i terremoti italiani più rovinosi del ’900, nello studio presentato dai geologi, si ricordano esplicitamente quello del 1905 in Calabria (M=6,8 – I=X – 557 vittime), quello del 1908 Calabro Messinese (M=7,1 – I=XI – 80.000 vittime), nel 1915 ad Avezzano (M=6,9 – I=XI – 33.000 vittime), nel 1930 Irpinia (M=6,7 – I=X – 1.404 vittime), nel 1976 Friuli (M=6,6 – I=X – 965 vittime), e nel 1980 Irpinia-Basilicata (M=6,8 – I=X – 3.000 vittime).

Poi nel 2009 il terremoto in Abruzzo e mentre trema l’Emilia, anche la Calabria ci ricorda la sua pericolosità.

Ma la vera notizia è che “L’Italia,” – come si legge testualmente nel dossier dell’Istituto – “se paragonata al resto del mondo, non è tra i siti dove si concentrano né i terremoti più forti né quelli più distruttivi. La pericolosità sismica del territorio italiano può considerarsi medio-alta nel contesto mediterraneo e addirittura modesta rispetto ad altre zone del pianeta”. Insomma, il nostro problema è il patrimonio edilizio assai vulnerabile.

Il Gruppo Nazionale per la Difesa dai Terremoti (GNDT), assieme alla Protezione Civile, già nel1999 aveva effettuato uno studio per la rilevazione della vulnerabilità sismica del patrimonio edilizio pubblico: un censimento degli edifici pubblici, strategici e speciali di oltre 1500 comuni di sette regioni, tra cui Abruzzo e Calabria. Premesso che quelli censiti come vulnerabili, in Abruzzo, sono venuti giù, abbiamo cercato di capire come stesse la nostra regione, la Calabria che è assai più sismica dell’Emilia Romagna.

La risposta che abbiamo trovato è sconcertante: dei 3.975 edifici pubblici destinati all’istruzione della nostra regione, ben 2.397 (pari al 60,3 %) sono classificati ad alta (1.049) o medio-alta (1.348) vulnerabilità sismica. Di 785 edifici pubblici destinati alla sanità calabrese, censiti nel lavoro del Gruppo Nazionale per la Difesa dai Terremoti, ben 492 (il 62,7 %) risultavano classificati ad alta (208 edifici) o medio alta (284) vulnerabilità. E non era migliore la situazione degli edifici pubblici civili (sedi comunali, province, regione e prefetture): dei 1.773 edifici censiti dallo studio, 517 venivano classificati con grado di vulnerabilità sismica “medio alta” e 325 quelli ad “alta vulnerabilità”. In Calabria, se venisse oggi un terremoto, vi sarebbero numerosi edifici pubblici, troppi, attualmente non in grado di resistere alle scosse. Stiamo parlando di scuole, dove mandiamo i nostri figli e di ospedali che invece dovrebbero garantirci le cure anche dopo l’emergenza.

Nel 1999, il professor Vincenzo Petrini del CNR-GNDT nella sua presentazione del volume Rischio sismico di edifici pubblici scrive testualmente: “La risposta più ovvia alla constatazione della presenza di situazioni notevolmente a rischio è l’avvio di specifici programmi di adeguamento del patrimonio edilizio ai livelli di sismicità delle varie zone del paese: ma non è certo l’unica possibile”. “L’abbassamento dei livelli di rischio può essere uno degli obiettivi della programmazione di investimenti della pubblica amministrazione e può, in alcuni casi, contribuire a qualificare la spesa pubblica”. Senza contare che programmi pluriennali di interventi di riduzione del rischio, opportunamente distribuiti nello spazio e nel tempo secondo priorità definibili in anticipo, potrebbero avere, proprio nella situazione attuale di crisi, effetti collaterali positivi in termini di sviluppo “non drogato” dell’occupazione.

 

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Un’amara e fortemente indignata riflessione, da cittadina calabrese e da malata oncologica

di Enza Talarico

Sellia Marina, 10 febbraio 2012 – Con immenso dispiacere apprendiamo solo oggi che due giorni or sono che è venuta a mancare all’affetto dei suoi cari, nella sua casa di Petronà (CZ), l’insegnante Enza Talarico, docente modello presso la scuola elementare di Belcastro (CZ) e paziente oncologica che, a Settembre del 2010, ci aveva inviato una lettera aperta sulla sua esperienza personale da paziente oncologica relativamente alla situazione sanitaria calabrese. Lei stessa l’aveva definita “Un’amara e fortemente indignata riflessione, da cittadina calabrese e da malata oncologica” sulla questione della chiusura del Polo Oncologico calabrese in cui si raccontavano errori ed orrori sanitari. Una riflessione amara ma ben ragionata che però i principali quotidiani d’informazione regionale calabresi, anche quelli che percepiscono fondi pubblici per il sostegno all’editoria e si vantano di svolgere un servizio pubblico, non ritennero allora di pubblicare o di darvi grande risalto come notizia. Noi ovviamente la pubblicammo immediatamente allora, quando la lettera ci venne inviata dalla professoressa Enza Talarico, e lo rifacciamo anche oggi, a due giorni dalla sua scomparsa, perché riteniamo il suo contenuto, un grido di dolore ragionato ed ancora estremamente attuale, sperando che sia da monito per evitare il ripetere di “orrori” sanitari che umiliano la dignità umana dei cittadini calabresi.

 

Lettera aperta

L’ultimo regalo fatto dalla Giunta Loiero ai calabresi è una di quelle notizie che non hanno bisogno di commenti, si commentano da sole. Solo un’amara e fortemente indignata riflessione, da cittadina calabrese e da malata oncologica. Il polo Oncologico del Ciaccio chiude battenti tra silenzio e indifferenza. Un altro di quegli errori (io li chiamo “orrori”) di cui sicuramente la nostra già martoriata Regione avrebbe fatto a meno. Ancora una volta viene lesa la dignità della persona e particolarmente la dignità dell’ammalato. E tutto questo perseguendo una logica che sfugge ai comuni mortali e maggiormente sfugge al malato (forse per risanare uno dei tanti buchi di bilancio inspiegabilmente sempre ereditati?!). E’ facile decidere comodamente seduti su una poltrona senza aver vissuto o vivere il dramma quotidiano di chi si trova a lottare contro il cancro. E quando nella nostra Regione, dove si hanno professionalità e risorse umane, ma mancano le strutture, ne appare una che può vantarsi di essere chiamata Polo Oncologico, che ha dimostrato di essere un importante punto di riferimento per professionalità, calore umano ed esperienza e che limita fortemente i cosiddetti viaggi della speranza fuori Regione, che si fa? Non solo non la si sostiene e potenzia, ma addirittura la si chiude. Mandando i tanti, troppi malati tutti in un unico presidio: come pecore al macello! Alla faccia del rispetto della dignità umana! Forse non si coglie che l’ammalato non può e non deve essere considerato un numero e che non è solo curando la malattia che si guarisce. E non per ultimo, mi chiedo: tutti i soldi spesi per ammodernare il vecchio ospedale Ciaccio? Chi se ne frega, tanto sono soldi pubblici! Quasi sicuramente questa mia resterà “voce di uno che grida nel deserto”, qualcosa da leggere, magari condividere, ma tutto qui. Sento, però, la necessità di uscire dalla massa e dare voce alla sofferenza e all’indignazione di tutti coloro che sfortunatamente condividono il mio percorso. Resto, però, testa dura calabrese e non voglio e non posso non confidare nel buonsenso e nell’oculatezza del neo eletto governatore Scopelliti, al quale desidero rivolgere un invito: si rechi nel Presidio Ospedaliero Ciaccio così da verificare di persona quale importante punto di riferimento possa essere. Magari, potrà anche dare un volto a quelli che sono numeri su fogli scritti a tavolino. Non permetta che ancora una volta, in una società che si dice civile, vengano lesi i diritti dei più deboli e particolarmente quello inviolabile di essere curato nel migliore dei modi e soprattutto a casa propria. Non chiuda gli occhi e le orecchie, ma veda e ascolti quell’universo che può sembrare lontano da ciascuno di noi, ma le assicuro che ci si può trovare catapultati improvvisamente dentro. E’ la malattia, è il cancro.

Enza Talarico

Petronà (Catanzaro), settembre 2010


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A loro insaputa

di Giuseppe Candido

Non ne sapeva nulla Scajola mentre gli compravano l’appartamento; non ne sapeva nulla Penati e, con estrema disinvoltura, anche Francesco Rutelli non ne sapeva niente mentre il suo amico Lusi si fregava i soldi dalle casse del partito della Margherita. Davvero una vergogna d’abolire. Se alla Fiat o alla General Motors avessero fatto sparire 13 milioni di euro se ne sarebbero accorti la mattina dopo: alla Margherita no. Rutelli ha candidamente affermato che non ne sapeva niente fino a quando i magistrati non glie lo hanno riferito. Premesso che delle due una può essere vera: o Rutelli sapeva tutto e mente oppure, se è vero che non si è accorto di nulla allora non può essere capace di amministrare i soldi pubblici e dovrebbe, secondo un principio di responsabilità, andare a casa. Ma il problema vero non è Rutelli: quello che sarebbe immediatamente d’abolire è l’intera partitocrazia che, ladra di soldi dei cittadini e ladra di verità sulla loro volontà chiaramente espressa con un referendum, nel ’93, di abolire il finanziamento dello Stato ai partiti lo ha reintrodotto copiosamente con la legge – truffaldina – dei rimborsi elettorali. Truffaldina perché non solo tradisce la volontà degli elettori ma anche perché non lega i rimborsi erogati a spese realmente documentate dai partiti. No, la legge in vigore dal 97, rimborsa i partiti in base ai voti espressi nei loro confronti dagli elettori. Ogni voto si prendono 4 euro e li spendono poi senza rispettare neanche l’obbligo, costituzionalmente previsto, di rendere pubblici i loro bilanci. Quando venne abolita nel ’93 col referendum il meccanismo in essere distribuiva 59 milioni di euro di finanziamento e poco più di 656 mila euro di rimborsi elettorali. Ma da quando la quota del finanziamento è stata abolita la quota rimborsi è salita vertiginosamente di legislatura in legislatura in maniera esponenziale fino ad arrivare, con le elezioni del 2006, ad un rimborso di oltre 200 milioni di euro all’anno per ogni anno di legislatura per cinque anni anche se la legislatura ne dura soltanto due. L’ennesima vergogna per cui la Margherita, ancora oggi dopo essersi fusa coi DS nel PD, continua a prendere i suoi soldi dei rimborsi relativi alle elezioni del 2006 mettendoli nella cassa del tesoriere di turno. Una pioggia di soldi che ogni anno si riversa sulla partitocrazia e che, dal 2008, è arrivata alla straordinaria cifra di oltre 600 milioni per ogni anno di legislatura. Perciò, quando si parla di abolire i soldi alla casta si lasci perdere la decurtazione del loro numero che, oltretutto, diminuirebbe ancor di più, a discapito della trasparenza e del controllo, il rapporto eletto-elettore. Si pensi piuttosto ad abolire, immediatamente, il sistema dei rimborsi legandolo, magari, a spese realmente sostenute ed adeguatamente documentate.

 

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