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L’esempio di Antonino Anile per i giovani

Cittadino onesto, generoso, cattolico, colto e assai leale”

L’esempio di Antonino Anile per i giovani

Errammo in politica, perché errammo nella scuola, ed oggi noi abbiamo l’ambizione di riparare a questo errore fronteggiando la concezione esclusivamente utilitaria che domina il contrasto delle classi e spinge con livore caino l’una contro l’altra ed agendo in guisa che la vita, mediante la scuola, si consacri e l’uomo si umanizzi un’altra volta”

di Filippo Curtosi

 

Antonino Anile, scienziato, ministro della Pubblica Istruzione “Poeta di Dio” che, nonostante molteplici referenze, a distanza di 140 anni esatti dalla sua nascita, nacque a Pizzo di Calabria il20 novembre l 869, rimane misconosciuto alla sua stessa città natale che avrebbe l’obbligo civile e culturale di rivalutare l’opera di questo figlio illustre di Calabria, anche perché come scrive Nini Rotolo nel suo volume “Omaggio ad Antonino Anile” la ricognizione del suo pensiero e dei suoi molteplici interessi, della dimensione umana e spirituale e della sua sincera vocazione religiosa e poetica, possa favorire il recupero dei valori più autentici e più sani, presenti nella tradizione meridionale”. Non è semplice tracciare in poche righe il profilo della splendida figura di Antonino Anile, un sacerdote laico straordinario che ha vissuto con intensità ogni stagione della sua vita, stando sempre accanto a qualcuno assetato e bisognoso di speranza. Lo farò seguendo tre tempi della sua vita che riassumerei così: il tempo delle azioni ordinarie, il tempo della rivoluzione della cultura,il tempo della carità e del risanamento dello spirito. La prima parte della vita di Antonino Anile è stata segnata dagli studi, prima a Pizzo, poi a Napoli presso il collegio “Vittorio Emanuele II’” dove frequenta le classi ginnasiali, ma è a Monteleone che consegue la maturità presso il liceo “Gaetano Filangeri”.

Il padre, Leoluca, originario di Briatico gli impone di iscriversi alla facoltà di Medicina e Chirurgia a Napoli, lui avrebbe preferito gli studi umanistici. A 24 anni consegue la laurea, rifiuta di fare il medico condotto a Filandari, un paesino del vibonese e segue il prof. Giovanni Antonelli, una autorità internazionale negli studi di Anatomia. Nel1903 è docente in Anatomia descrittiva, qualche anno dopo consegue la cattedra di Anatomia Artistica, prima a Napoli poi a Roma.Viaggia spesso in Italia ed all’estero per tenere conferenze ed anche come inviato de “Il Giornale d’Italia”, conosce Maria Pekle e la sposa. Vivono a Napoli, non hanno figli. Benedetto Croce è tra i suoi migliori amici.

Il 28 aprile del 1908 va a Cessaniti al funerale del suo migliore discepolo, Pasqualino Cefalà per le laudationes funebres e cioè dei discorsi pronunciate alla morte di un personaggio illustre che, come è noto, affondano le loro radici nella cultura latina di età pre letteraria che celebrano coloro che hanno reso grande un paese e Cessaniti era stato uno dei villaggi della città di Briatico, paese nativo di suo padre.

Le laudationes di Cefalà che furono già pubblicati in un volumetto che è ormai da gran tempo introvabile, stampato in Montelene nel 1905 dalla Tipografia Giuseppe Raho, pronunciate davanti alla vecchia chiesa di San Basilio, al termine della processione nella quale venivano esposte pubblicamente le immagines degli antenati. Gli oratori che illustrarono la vita del defunto, ricordandone le qualità morali e intellettuali furono G. Parise, l’abate Giuseppe Gullotta, Giorgio Assisi.

Da Cicerone sappiamo che gli elogi funebri non andavano perduti “perché le famiglie stesse provvedevano a conservarli come documenti e titoli di orgoglio, sia per le memorie delle glorie familiari, sia per lustro alla propria nobiltà”. Nel caso di Pasquale Cefalà non vi è stato alcun processo di manipolazione o alterazione della verità in quanto al di là dei discorsi celebrativi vi sono documenti e testimonianze come quelle di Antonino Anile che oramai appartengono alla storia nobile di Cessaniti.

Antonino Anile” ricorda di Cefalà molte virtù: “ebbi presto occasione di ammirare le doti rarissime dell’ingegno e del cuore. Egli andava oltre la mia lezione e, come io gli facevo intravedere i pericoli di una preparazione superiore alle esigenze degli esami e non in rapporto con le necessità pratiche della professione, egli mi rispondeva che sentiva vivissimo il bisogno di darsi ragione di tutto e di vedere in fondo alle cose. E però non risparmiava fatica e piegava il suo ingegno a sforzi titanici. L’ammirazione mia per lui, continua il Poeta di Dio” fu così viva che diventammo presto amici, ed egli mi ricambiava la stima e l’affetto che avevo per lui con una devozione fraterna. Pasquale Cefalà sentiva vivissimo il disdegno per ogni bassezza, per ogni transazione, per ogni infingimento. Egli precocemente comprese tutta la nobiltà della vita, che rifulgeva per lui del riflesso di tutti i suoi ideali. E quando sovente mi parlava delle lotte meschine che travolgono nei nostri paesi della Calabria le intelligenze migliori e tanto danno recano, egli fremeva di disdegno per la viltà dei più e per la tracotanza dei pochi. Concepiva l’esercizio della professione come un sacerdozio e mi parlava

delle sofferenze che non trovano conforto e del modo come egli avrebbe voluto comportarsi per alleviarle. Aveva il culto della famiglia ed i suoi genitori erano per lui qualche cosa di sacro. Seppi della sua infermità quando già da parecchi giorni giaceva sofferente a letto. Corsi da lui e non seppi

frenarmi dal rivolgergli un rimprovero per non avermi dato prima avviso.

Egli mi rispose: “temevo che per me aveste potuto tralasciare qualche vostra occupazione”. Questa estrema delicatezza, in quelle condizioni, non potette non commuovermi. La sua morte mi parve un sacrificio volontario. Un sacrificio eroico, conclude Antonino Anile, ch’è il trionfo delle qualità più nobili dello spirito umano, uno di quei sacrifici che la storia non registra, ma che non per questo, cessano di essere semplicemente sublimi”.

Antonino Anile testimoniava così la vita ordinaria e semplice del cristiano e del sacerdote laico”, una vita aperta e disponibile a seguire le vie che gli si aprivano davanti.In questo tempo Anile fu soprattutto un educatore dei giovani e per loro aveva elaborato da ministro della Pubblica Istruzione una particolare attenzione per la riforma della scuola che pubblicava in un volume “Lo Stato e la Scuola”. La politica dello Stato era sbagliata, scriveva Anile: “Errammo in politica, perché errammo nella scuola, ed oggi noi abbiamo l’ambizione di riparare a questo errore fronteggiando la concezione esclusivamente utilitaria che domina il contrasto delle classi e spinge con livore caino l’una contro l’altra ed agendo in guisa che la vita, mediante la scuola, si consacri e l’uomo si umanizzi un’altra volta”. Quanto risulta attuale il monito, ieri come oggi, il problema della scuola, della formazione e dell’educazione come problema di civiltà, di riscatto morale e spirituale, al di sopra dei partiti, di credenti o non credenti. Il dibattito, chiosava Anile, tra scuola laica o scuola confessionale non ha ragione di esistere, una scuola laica, che non riesca a scuotere le energie intime cede al paragone con la più restrittiva scuola confessionale; e questa assume tutto il valore di nobile laicismo se sa dire qualche parola che si ripercuota nella profondità dello spirito”.

Quando nel 1919 don Luigi Sturzo lo candida nelle file del Partito Popolare in Calabria spiega le ragioni: “Antonino Anile è cittadino onesto, generoso, cattolico, colto e assai leale”.

Nel 1920 è chiamato a svolgere il congresso nazionale del partito popolare a Napoli ed in quella occasione mette lo Stato di fronte alle sue responsabilità, di fronte al Nord egoista che fa incetta di mezzi finanziari che spettavano al Sud d’Italia, i cui rappresentanti erano asserviti alla politica che favoriva il Nord, tradendo i loro elettori”.

Bisogna conoscere la storia delle promesse mancate, la continua turlupinatura verso di noi, che si è compiuta con la piena acquiescenza dei rappresentanti che finora la Calabria ha avuto. l paesi e le città calabresi vivono in un marasma economico, in uno stato di isolamento se non di sequestro.

Noi paghiamo tributi, come se fossimo una delle province più ricche d’Italia e ci rassegniamo a constatare che il nostro danaro non serve per noi ma magari per la bonifica delle terre intorno a Ferrara. La Calabria è priva ancora di ogni forma di quelle Istituzioni civili nelle quali ormai ogni Stato misura la sua capacità. Contadini ed operai in stato di grave disagio sono costretti a lasciare la Calabria per trovare nelle lontane americhe la soluzioni dei loro problemi. Dai porti di Napoli e di Genova,sospinta nelle stive oscure dei piroscafi come gregge al macello la gente calabrese lascia la propria terra natia, le case, i familiari per iniziare una avventura senza prospettiva di ritorno. Sono emigranti che mantengono i rapporti con la madrepatria e la soccorrono coi loro risparmi.

La Calabria più che ogni altra provincia d’Italia, vive dolorosamente di questo contrasto: gente umile, salda ancora fisicamente, ed una borghesia corrotta e corruttrice che la tiranneggia, coi favori dello Stato, senza pietà. La classe dirigente calabrese, miope che ha ricevuto nei seminari una cultura a senso unico, autoritaria, classista, formalista, arcaicamente retorica, capace soltanto di sollevare la vanità, l’ambizione, la prepotenza, piuttosto che accendere i cuori e le coscienze a nobili ideali di umanità, di giustizia, di dignità e di libertà. Libertà, non contro lo Stato ma nello Stato; non per porre un monopolio ad un altro, ma perché ogni costruzione monopolistica scompaia; libertà di scuola perché generi la libertà nella scuola. Lo Stato liberale ha tradito la sua idea liberale con la sua illiberalità verso la scuola che ha reso alla nazione il maggior danno persistendo nell’errore di credere che esista una educazione esclusivamente razionalistica rivolta ad un determinato scopo politico. Lo Stato ha avuto così una scuola senza anima, con dei funzionari invece che dei maestri. Dobbiamo prepararci ad una scuola dell’avvenire,una scuola di lavoro senza distinzione tra il lavoro della mente, superiore, aristocratico ed il lavoro del braccio, meccanico, inferiore, rude, plebeo”. Quando nel 1926 insieme ad altri deputati popolari dichiara di accettare il manifesto degli “Aventiniani” che in un primo momento erano con don Benedetto Croce per passare poi al regime fascista, Anile lascia la politica e torna agli studi, si dedicò agli altri con il cuore colmo di pietà e di amore. La sofferenza che incontrava ad ogni passo gli affinava l’amore che gli urgeva dentro. Nel nome della Carità di Cristo fu capace di portare un po’ di luce e di speranza dove il buio del dolore e della violenza sembrano lasciare l’uomo senza fiato.

La breve esperienza del fascismo aveva posto le premesse per la terza fase della vita di Antonino Anile, quella che l’avrebbero reso simbolo della carità vissuta e dedita. Erano gli anni difficili della dittatura. Ritorna all’esercizio della medicina che svolge come apostolato impegnandosi alla restaurazione della persona umana a partire dalla sfida del dolore innocente,cioè dove più è viva la lotta tra la disperazione e la speranza, tra l’amore e la solitudine.

Egli era convinto che non bastava assistere il malato, ma che occorreva come dire “restaurarlo” fino a fargli recuperare la fiducia in se stesso. “La malattia del corpo ha la sua origine nello spirito per cui occorre risanare lo spirito mediante la buona volontà e la intelligenza illuminata per restituire all’organismo ammalato lo slancio della vita”. Scrive: “Tutta religiosa è la vita; contemplate l’ordine stellare e vi sentirete unito a quell’ordine, ma, meglio ancora, studiatelo nella struttura foggiatagli dalla scienza astronomica, e troverete, come necessaria conseguenza, che una intelligenza l’abbia creata e viva in quell’ordine. Questa sete, Signore che ho di te saccresce per ciascuna che mi prende bellezza delle cose, ed è bellezza che si rinnova al sole di ora in ora. Sei Tu che mi richiami da ogni squarcio,tra nuvole, di cielo, e quando l’alba fa del mare un roseto e delle sponde la terra guarda a riprodurlo, e quando a sera il vento del tramonto viene ad annunziarmi il comparir degli astri di che vivo sarei se non ti udissi? Il mio cuore siccome la conchiglia per il mare, ha tessuto le sue fibre a farsi un’eco della tua parola. Fa’, Signore, ch’io t’oda appieno e senta in me fluire la tua voce come d’acqua una vena per un campo asciutto”.

Muore il 26 settembre del 1943 a Raiano, vicino Aquila, i suoi resti mortali si trovano nella chiesa Matrice di San Giorgio del suo paese natio Pizzo Calabro, sul lato sinistro della navata centrale della chiesa una lastra di marmo bianco ricorda “IL POETA DI DIO”.

Il mondo che viviamo ha urgente e patente bisogno di essere partigiani per la giustizia, la pace ed il bene comune; occorre lottare senza se e senza ma per l’amore puro che cerca la gioia dell’altro e per la dignità dell’essere umano e bisogna farlo con coraggio e fiducia.

 

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Carceri illegali e criminalità di Stato

di Giuseppe Candido

 

Sono anni che i Radicali trascorrono il Ferragosto ed il Natale nelle patrie galere coi detenuti; le visite ispettive per denunciare le condizioni disumane in cui sono costretti a vivere detenuti e personale di polizia penitenziaria non si fermano mai. Amnistia per la Repubblica subito non è solo lo slogan che oggi caratterizza la politica del piccolo partito di Pannella ma un’esigenza reale soltanto testimoniata con l’amore per la verità. E il sovraffollamento delle carceri che è sì, come ha sottolineato il Papa, “una doppia pena” non è però l’unico problema: mancano spesso acqua calda, cibo degno di questo nome e condizioni igienico sanitarie minime essenziali oltreché lo spazio stesso per respirare. La detenzione anziché rieducativa diviene afflittiva e la pena inumana non scritta in sentenza ma reale. Una pena che, come ha scritto Patrizio Gonnella sul blog di Micro Mega, “umilia, lede la dignità, trasforma i detenuti in numeri, li rende non persone, li induce alla malattia e alla morte”. Ma il problema carceri, se vogliamo, è ancor più grave perché è lo stesso Stato a non rispettare le proprie leggi e ad essere condannato per questo dalla giurisdizione europea. Dopo aver trascorso anche questo Natale in visita ispettiva al carcere di Regina Coeli, Marco Pannella, nella sua consueta conversazione settimanale da Radio Radicale con Massimo Bordin, ha definito per l’ennesima volta la realtà delle nostre carceri come una realtà di “flagrante opera tecnicamente criminale” da parte dello Stato. “In Italia la democrazia è negata e lo Stato e la Repubblica italiana si trovano dinanzi alla Costituzione, alla legalità e alla giurisdizione europea, dinanzi alla legalità internazionale, in una flagrante opera di carattere tecnicamente criminale”, ha detto testualmente sfidando i giornalisti a scriverlo piombo su carta e dirlo nei telegiornali. Delirio di un ulteriore, anche questo ennesimo, sciopero della fame? Sicuramente parole forti e accuse gravi che non solo intendono sottolineare ancora una volta la “prepotente urgenza” delle carceri, così come lo stesso Napolitano l’aveva definita, ma che contemporaneamente richiamano in causa lo stesso Presidente della Repubblica, quale garante della nostra Costituzione e al quale Pannella ricorda che “potrà – perché Lui lo crede – continuare a predicare che in Italia c’è democrazia e legalità” ma che, sostiene invece il leader radicale, nel nostro Paese c’è “criminalità di Stato e di Repubblica e i diritti umani, quelli semplici, sono letteralmente negati.” Poi, sul tema delle carceri, ai microfoni di Radio Radicale intervengono pure il deputato del Pd, Ezio Giachetti e il parlamentare del Pdl, Alfonso Papa che il carcere l’ha vissuto in prima persona per esservi stato recluso nell’ambito dell’inchiesta napoletana sulla P4 e che vi è ritornato, proprio alla vigilia di Natale, questa volta però anche lui in visita ispettiva da Parlamentare in carica. Giachetti spiega chiaramente che in carcere “si vive in condizioni peggiori d’animali. È difficile rappresentare a parole – aggiunge – quello che qui gli occhi possono vedere e che forse non avrebbero mai immaginato di vedere”. E in effetti la normativa europea consentirebbe di condannare chiunque detenesse animali domestici in tal modo. Ma le parole che più ci fanno riflettere sulla condizione delle carceri italiane sono proprio quelle di Alfonso Papa che, da Deputato della Repubblica non ancora decaduto e al quale, secondo Rita Bernardini, è “stato impedito di svolgere il suo mandato”, si è recato al carcere di Poggio Reale a visitare i detenuti. “Nei desideri di qualcuno – spiega subito l’Onorevole Papa – avrei dovuto passere lì il Natale. Ho avuto la fortuna e l’occasione di trascorrere il Natale con la mia famiglia ma è chiaro che il mio cuore e la mia mente sono rimasti lì. Anche perché, – spiega ancora – in quei cento e uno giorni, ho vissuto un’esperienza incomparabile sia per il dolore sia come esperienza “umana” che rappresentano queste situazioni. E quindi ritengo che sia doveroso, per un rappresentante delle Istituzioni e in particolare per una persona che il caso ha voluto che accadessero le cose che sono accadute (detenzione ndr), testimoniare la vigilia di Natale con questa mia presenza e questa mia vicinanza perché per me comincia, da oggi, un’azione di sensibilizzazione e di battaglia che mi prenderà la vita. Io adesso ho il dovere morale, nei confronti di tutto un mondo che ho conosciuto, di testimoniare la sofferenza e le condizioni nelle quali si vive nelle carceri italiane. È arrivato il momento che tutto l’arco istituzionale, tutti i partiti e tutto il Parlamento abbandonino questo silenzio, che definisco francamente colpevole e falso, per capire il significato di una battaglia che i Radicali, per la verità, da lungo tempo stanno combattendo in assoluta solitudine e che invece, oggi, ha bisogno di vedere coinvolta tutta la parte democratica del Paese”.

Un’amnistia servirebbe quindi non solo per umana pietà nei confronti di tutti quei detenuti lasciati vivere in condizioni inumane, ma un’amnistia sarebbe necessaria per riformare la giustizia e per ridare credibilità repubblicana ad uno Stato che, sotto quest’angolazione, non c’appare civile né di diritto ma contro il diritto stesso, quello scritto sulla nostra Carta fondamentale, e contro i diritti più elementari, quelli umani, dei cittadini. Una amnistia giusta e mirata a quei reati socialmente poco rilevanti consentirebbe di avere una giustizia più giusta, in grado cioè d’impedire quell’altra amnistia nascosta, perché tenuta nel silenzio, e di classe perché ottenibile soltanto da chi ha i soldi per permettersi buoni avvocati e che si chiama prescrizione. Poi, volessimo dare retta a Patrizio Gonnella, bisognerebbe riflettere anche sul perché le carceri si riempiono a dismisura e sull’eventuale modifica della legge sulle droghe targata Gianfranco Fini e Carlo Giovannardi e che tratta il consumatore di marijuana alla stregua del narcotrafficante. Riflettere su tutto, serenamente e pacatamente senza preconcetti e pregiudizi intavolare una discussione, questo sì, sarebbe un bell’inizio per il nuovo anno e un bell’augurio anche per la Repubblica.

 

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Questione meridionale, la storia del pane, la rivoluzione di Tommaso Campanella e uno speciale di 4 pagine sul terremoto in Calabria del 1905

Sono questi i contenuti dell’ultimo numero di Abolire la miseria della Calabria che, da oggi, uscirà solo in versione pdf e, a breve, completamente rinnovato nella grafica
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Abolire la miseria forse non conviene

di Giuseppe Candido

Articolo pubblicato il 15/12/2011 su “Il Quotidiano della Calabria”

Abolire la miseria, ci dicono, ch’è un sogno, una visione. Già Ernest Bloch sosteneva che, “porre fine alla miseria per un tempo incredibilmente lungo non suonò per nulla normale, al contrario era una favola … ”. La possibilità di creare un mondo più giusto o, quanto meno, uno Stato più equo abolendo la miseria, come sostiene però lo stesso Bloch, può entrare nel nostro campo visivo “solo come sogno a occhi aperti”. E allora, in questo momento di crisi in cui l’Italia rischia assieme all’Europa e all’euro il suo tracollo finanziario, facciamolo questo sogno ad occhi aperti: un sogno di uno Stato più equo e di una Patria europea come quella che sognavano i suoi padri fondatori. È certo che, per uno Stato più equo è necessario, ma non sufficiente, uno Stato che almeno rispetti le sue stesse leggi. E questo non è certo il caso delle nostre carceri che l’Europa condanna ogni due per tre e che lo stesso Capo dello Stato il 28 luglio scorso ha definito una “prepotente urgenza”. Mentre si parla di decreto svuota carceri l’amnistia sarebbe non soltanto atto di clemenza invocato pure da Wojtyla oltreché di ripristino della legalità costituzionale repubblicana, ma anche e soprattutto un atto finalizzato all’ottenimento di una Giustizia più giusta; a differenza che con l’indulto, con l’amnistia si perderebbe il carico pendente di milioni di processi e vedrebbe cessare l’inesorabile flusso di prescrizioni che viaggia al ritmo di 200.000 all’anno e che qualcuno definisce, quella sì, “amnistia strisciante di classe e di regime”. Poi, dopo la “prepotente urgenza” c’é la non meno prepotente necessità di risanare il bilancio dello Stato. In questo senso, strettamente economico-finanziario, considerato che il debito pubblico è stato direttamente generato (e non creato) dai partiti e dalla politica che non solo hanno disseminato per decenni pensionamenti baby e stipendi d’oro assieme ad auto di blu, ma che, dal ’94 al 2008, hanno letteralmente sottratto dalle casse dello stato oltre 2,2 miliardi di euro a titolo di rimborsi elettorali dopo che i cittadini avevano abolito, con referendum, il finanziamento pubblico dei partiti. Si parla di abolire i costi della politica come se questi fossero causati principalmente dagli stipendi di parlamentari ed eletti a tutti i livelli. Ma non è così: il vero maltolto della partitocrazia, il vero e proprio furto dalle casse dei cittadini è costituito proprio dai rimborsi elettorali che salassano le casse patrie con un prelievo di quasi 500 milioni di euro all’anno. Poi c’è la vicenda delle frequenze del passaggio al digitale regalate e non messe all’asta come pure si potrebbe fare recuperando, stimano i tecnici, da un minimo di 2 sino ad un massimo di 10 miliardi di euro. Si potrebbero abolire, come hanno fatto notare durante la trasmissione “piazza-pulita”, quelle ulteriori spese militari per oltre dieci miliardi di euro evitando di acquistare una manciata di aerei da caccia e sommergibili. Tralasciando i regali fiscali fatti con lo scudo al 5% che, pare, sia un contratto immodificabile, c’è però l’ici (o imu) non chiesta e tutte le altre esenzioni (Ires, ecc.) alla Chiesa cattolica che, sommate al miliardo di euro l’anno percepito con il meccanismo dell’otto per mille, potrebbero aiutare a far quadrare i conti se adeguatamente rimodulate. E invece no, questo governo se pur di tecnici è un governo che è sostenuto da una maggioranza politica e a Berlusconi non fa certo comodo né l’assegnazione delle frequenze del digitale terrestre con gara regolare né, tanto meno, una patrimoniale vera sui grossi capitali. Per cui la manovra dovrà essere pagata dai soliti noti, pensionati e lavoratori; gli evasori ed i proprietari di grossi capitali possono stare tranquilli e abolire la miseria resterà ancora un sogno ad occhi aperti.

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Vittorio De Seta …era anche cittadino di Briatico

di Franco Vallone

Vittorio De Seta a Briatico durante la consegna della cittadinanza onoraria
Vittorio De Seta a Briatico durante la consegna della cittadinanza onoraria

Era arrivato a San Costantino di Briatico in un assolato pomeriggio d’estate, accompagnato dal suo fidato amico Giuseppe Candido, intellettuale e suo compaesano di Sellia Marina. Lui, il regista siculocalabrese Vittorio De Seta , il mitico maestro del cinema documentaristico, uomo taciturno, schivo e assai riservato ma con gli occhi sempre vispi, attenti, con uno sguardo aperto a 360 gradi, in quella serata da mito di due anni fa avanzava sicuro con passo veloce, salutava cordialmente e velocemente tutti coloro che erano arrivati fin qui per conoscere lui e il suo sguardo magico, per un autografo, una foto ricordo con il regista. Davvero una serata da mito quella vissuta dal piccolo paese di San Costantino di Briatico. La piazza intitolata al folklorista Raffaele Lombardi Satriani era stracolma di gente con il Maestro seduto in prima fila nell’attesa di ricevere la cittadinanza onoraria del comune di Briatico. Ed in quella bella piazza, tra i relatori sulla pedana e tra gli ospiti della numerosa platea, c’era anche un filo rosso che univa, nel rispetto delle più assolute diversità culturali, di passioni, di lavoro e di percorsi. Tanta cultura si era incontrata quella sera a San Costantino di Briatico sotto un cielo stellato e sotto l’antico palazzo baronale che era, ed è, esso stesso, baluardo della cultura con un vissuto stracarico di personalità forti e generazionali della famiglia Lombardi Satriani che da sempre traccia il territorio, con Alfonso fotografo colto e appassionato, con Nicola, con Raffaele uno dei pionieri della ricerca demologica, ed oggi con l’antropologo Luigi M. Lombardi Satriani.

C’era anche lui, quella sera, a raccontare e relazionare proprio sotto casa, davanti al portone blasonato, sotto finestre e balconi illuminati dalle quali s’intravedono testimonianze di culture passate, libri, icone e stampe antiche, giganti, quadri, sculture, terrecotte e ritratti di avi antichi. In platea tantissima altra bella gente, cultori, studiosi, appassionati di cinema e ricercatori. C’era Teresa Landro del circolo del cinema di Parghelia, il glottologo Michele de Luca, la regista Ella Pugliese, autrice de “I Gigantari” e reduce di un film girato nella lontana Cambogia, c’era il ricercatore Michele Romano, Vera Bilotta del Circolo del Cinema Lanterna Magica di Pizzo e tanti altri, tra studenti universitari, ricercatori e appassionati della Calabria. L’associazione di Volontariato Culturale “Non Mollare” di Pannaconi di Cessaniti assieme al Comune di Briatico, con la collaborazione de “Le Stanze della Luna” di Vibo Valentia, dell’Associazione “Eleutheria” di San Costantino di Briatico e del Centro Servizi per il Volontariato di Vibo Valentia, sono riusciti ad organizzare e concretizzare, quella sera, davvero un importante evento culturale che aveva come traccia “Il Mondo Perduto”, un omaggio al regista cinematografico, al Maestro De Seta. A presentare quella serata la giornalista Rita Taverna, a  porgere i saluti Francesco De Nisi, Presidente della Provincia di Vibo Valentia; l’allora sindaco di Briatico con l’Assessore alla Cultura, Agostino Vallone, il vice presidente dell’Associazione Eleutheria e il sindaco junior Maria Joel Conocchiella; Tra gli interventi quello dell’antropologo Luigi M. Lombardi Satriani, dello stesso De Seta, della regista Ella Pugliese; dell’ex assessore al turismo della Provincia di Vibo Valentia, Lidio Vallone e di Giuseppe Candido e Filippo Curtosi. Nel corso della serata erano stati proiettati in piazza alcuni documentari di Vittorio De Seta, a cura di Giuseppe Imineo, l’ultimo cinematografaro itinerante della Calabria, arrivato a San Costantino con il suo vecchio furgone sgangherato ma attrezzato di tutto punto per proiettare sul telo bianco steso al vento e alle stelle delle notti estive calabresi, un furgone con tanto di trombe amplificate montate sul tettuccio che servivano per richiamare la gente in piazza, per amplificare l’audio delle proiezioni e per pubblicizzare ancora una volta il film in programma: “stasera in piazza proietteremo “il Mondo Perduto”, una bella raccolta di film del grande Vittorio De Seta”.

 

Vittorio De Seta e Luigi Maria Lombardi Satriani a Briatico durante la proiezione dei documentari de "Il Mondo perduto"
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Doveva essere più equa

di Giuseppe Candido

È stata subito positiva la reazione dei mercati alla manovra del Governo Monti: nella mattinata di lunedì, mentre il Presidente del Consiglio annunciava i provvedimenti alla stampa estera, lo spread è sceso sotto la quota psicologica di 400 punti base e il Mib Ftse, l’indice che da qualche anno caratterizza la borsa nostrana, è andato su del + 2,9%.

Da gennaio 2012 tutti in pensione col sistema contributivo e, già da subito, le donne andranno in pensione a 62 anni e gli uomini a 66. Volontariamente, per i prodi lavoratori che vorranno aiutare le casse dell’Inps, l’uscita dal lavoro potrà essere posticipata tra i 63 e 65 dalle donne e dai 67 ai 70 anni dagli uomini. Torna pure l’imposta sulla prima casa sotto le velate spoglie dell’Imu, l’imposta municipalizzata unica, e con estimi catastali rivalutati del 60%. Su tutti i prodotti finanziari è stata messa un’imposta di bollo e, sui capitali rientrati con lo scudo fiscale, una tassa aggiuntiva dell’1,5%. E pure sui pagamenti è stato posto inesorabile divieto ad effettuarne in contanti per importi superiori ai mille euro. Anche per l’Iva è previsto, a partire dal secondo semestre del 2012, l’aumento dell’aliquota dal 21 al 23 %. Insomma, ce n’è per tutti tant’è che Monti, per meglio far ingoiare la pillola, assieme al taglio delle giunte provinciali e alla riduzione a 10 del numero dei Consiglieri, ha tagliato il suo stipendio di primo ministro e di ministro ad interim dell’economia. Monti c’ha poi rassicurato che nei provvedimenti si è posta attenzione a non favorire la criminalità (come invece fatto in passato ndr) e che, per porre un equilibrio tra nuove tasse e aiuti, sono state previste agevolazioni alle imprese. I sindacati, ritrovata l’unità, sono sul piede di guerra.

Ma le valutazioni sui singoli provvedimenti della manovra, come ha ricordato il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, spettano alle Camere: “Non ho mai commentato le scelte dei governi”, ha detto. Che però la manovra “doveva essere più equa” l’ha fatto sapere, a stretto giro di posta, la CEI. E, se vogliamo dirla tutta, non ci sembra proprio esser stata efficace sul piano della lotta all’evasione né su quello della tassazione delle rendite di capitali. L’introduzione di un bollo per l’acquisto di prodotti finanziari non ci sembra colmare una grande disparità patente di questo Paese. Vogliamo insistere su quest’ultimo punto perché riteniamo che proprio la tassazione delle rendite da capitale potrebbe rappresentare un forte fattore di equità e assieme di sviluppo. Tanto per fare un esempio, se hai un capitale di 10 milioni di euro e lo investi in un’attività che ti rende, in un anno, diciamo 300.000 euro netti, questo guadagno che per esser fatto ha già dato del lavoro ed ha già fatto girare l’economia, sarà tassato con una aliquota del 43% o del 45%. Se invece lo stesso capitale di 10 milioni il signor X lo tiene immobilizzato percependone la sola rendita, al 3%, guadagnerebbe gli stessi 300.000 euro che però vedrà tassati al 12% salvo pagare qualche spicciolo in più se, nel cambiare fondi o azioni, acquisterà qualche nuovo prodotto finanziario. Ciò è semplicemente assurdo. Chi investe il proprio capitale per fare un’impresa sa che verà tassato rispetto a quello che si vedrebbe tassato stando tranquillamente al sole a godersi le rendite del capitale in banca. Mantenere questa stortura mentre si tagliano i diritti a chi stava per andare in pensione e mentre si reintroduce la tassa per la prima casa, è intollerabile. E poi, sui costi della politica, se davvero si voleva dare un taglio e non soltanto un segno, si potevano tagliare drasticamente i rimborsi elettorali, reintrodotti in modo truffaldino dai partiti contro la volontà referendaria che ne aveva abolito il finanziamento pubblico. Un rimborso che annualmente ci costa 468 milioni e 853.675 euro e che, in dieci anni, è stato in grado di sottrarre dalle casse dello Stato oltre due miliardi di euro.

 

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Abbiamo i politici più vecchi d’Europa

di Giuseppe Candido

pubblicato domenica 4 dicembre 2011 nella rubrica “lettere al quotidiano” de Il Quotidiano della Calabria

Teniamoci stretti i nostri vecchietti. Mentre la pesante manovra prende corpo è forse questo, in sostanza, il concetto chiave che sembra suggerire la composizione del Governo Monti che, con il suoi 64 anni d’età media, la più alta in Europa e la più alta anche in Italia dal 1948, indica che l’autorevolezza perduta della politica italiana necessaria per affrontare la crisi possa essere recuperata nell’esperienza e nella saggezza dei 17 ministri stessi. Il mini rapporto “I Tecno-Professori” curato dall’Associazione Openpolis non soltanto evidenzia come il Governo presieduto dal neo Senatore sia quello con l’età media più alta in Europa ma che “ordinando tutti i ministri europei per età, nelle prime 10 posizioni troviamo 3 italiani e il ministro Giarda con 75 anni risulta essere il più anziano dell’Unione”. Dall’altro capo della classifica, manco a dirlo, è invece occupato per lo più da politici baltici e scandinavi. E mentre in Italia si decide di affidare la riforma delle pensioni a chi la pensione ce l’ha già o l’avrà a breve, il rapporto nota come, negli altri Paesi europei in diversi casi invece “a ministri giovani siano state affidate competenze importanti”. Mentre in Italia la gerontocrazia impera scopriamo che ben 11 Paesi dell’Unione Europea sono attualmente guidati da premier quarantenni e “in diversi casi”, come si legge testualmente nel rapporto, “a ministri giovani sono state affidate competenze importanti”. Per esempio, nelle materie economico-finanziarie, “ci sono ministri trentenni in 5 Paesi (Germania, Portogallo, Finlandia, Lituania, Lettonia) mentre i quarantenni sono 8 (in Regno Unito, Francia, Bulgaria, Lussemburgo, Paesi Bassi, Estonia, Svezia, Malta)”. In Danimarca, il premier ha 44 anni, il titolare dell’economia 26 e quello della salute 28. Certo non è con il solo svecchiamento anagrafico di una classe dirigente che si svecchia un Paese. Per farlo servono riforme e politiche per i giovani, servono investimenti e non tagli nei settori strategici come istruzione, ricerca e sicurezza. La sanità e la spesa sanitaria andrebbero svecchiate e riformate seguendo il motto “più salute e meno sanità”; criterio secondo cui più sanità quasi mai corrisponde a una maggiore tutela della salute dei cittadini come dimostrano regioni come la Calabria dove, pur in presenza di professionalità e menti eccellenti, a fronte di una spesa sanitaria pro capite tra le più alte in Italia, si registrano i peggiori casi di mala sanità. L’ambiente e la salvaguardia del territorio, del patrimonio artistico culturale e storico del nostro Paese dovrebbero essere messe al centro delle iniziative di questo Governo perché da esse possono nascere occasioni di sviluppo e di rilancio della nostra economia oltreché di necessaria tutela delle vite umane che troppo spesso periscono in torrenti di fango e alluvioni.

 

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Vittorio De Seta: si è spento un grande regista

Antico e aspramente contemporaneo, la forza delle immagini riusciva a far parlare alberi, animali, vento, mare, a tradurre in racconto il rumore, ora lieve ora travolgente della vita


di Giuseppe Candido

articolo pubblicato su “Il Quotidiano della Calabria” del 1 dicembre 2011

Quandu nescisti tu, spingula d’uoru

Quattru tuorci a lu cielu s’addumaru

Ancora una volta resto colpito, ammirato, dalla bellezza, vastità, importanza della nostra cultura popolare, dallo zelo, dalla tenacia di quei pochi che si preoccuparono di registrarla, salvarla”. Vittorio De Seta amava la Calabria, la sua cultura popolare ed aveva usato proprio queste parole per descrivere la sensazione che aveva avuto nello scorrere e leggere i canti, le novelle e le leggende popolari raccolte da Luigi Bruzzano nella rivista “La Calabria” (Monteleone, 1888-1902).

Magro e col volto scavato dalla fatica di una vita, Vittorio De Seta, il grande maestro del film documentario italiano, si è spento nel silenzio della sua tenuta a Sellia Marina. Martin Scorzese l’aveva definito “antropologo” e “poeta”; Roberto Saviano aveva parlato di “Sabbia negli occhi” per descrivere letteralmente la sensazione che i film e i documentari di Vittorio riescono a trasmettere.

Ricordarne la vita e le opere non è saggistica. Nel 1953 De Seta aveva iniziato collaborando come aiuto regista ne “Le village magique” di Jean Paul Le Chanois e, sempre nello stesso anno, affiancò Mario Chiari in un episodio di “Amori di mezzo secolo”. A partire dal ’54 sino al ’59 scrive e dirige una serie di documentari cortometraggi considerati oggi veri e propri capolavori del cinema mondiale: Lu tempu di li pisci spata (1954 min 10′.04” ); Isole di fuoco (1954 min 09′.02” ); Surfarara (1955 min 09′.39”); Pasqua in Sicilia (1955 min 08′.12” ); Conrtadini del mare (1955 min 09′.24” ); Parabola d’oro (1955 min 09′.39” ); Pescherecci (1958 min 10′.02” ); Pastori di Orgosolo (1958 min 09′.54” ); Un giornoin Barbagia (1958 min 09′.27” ); I dimenticati (1959 min 16′.56”). Straordinari documenti originariamente in Ferraniacolor e Cinemascope oggi digitalizzati e ripubblicati ne “Il mondo perduto” assieme a “La fatica delle Mani”, una raccolta di scritti su Vittorio De Seta a cura di Mario Capello che accompagna il dvd e in cui spiccano “La sabbia negli occhi” di Roberto Saviano, “Su Banditi a Orgosolo” di Martin Scorsese, “Una conversazione con Vittorio De Seta” di Goffredo Fofi, “Il metodo verghiano di De Seta” di Vincenzo Consolo, “De Seta: la Grande del documentario” di Alberto Farassino, “L’arcaico e la trasmissione della conoscenza” di Marco Maria Gazzano, “Un lungo viaggio verso il mondo perduto” di Gian Luca Farinelli.

Nel 1961 Vittorio De Seta esordì col 35 mm nel lungometraggio con “Banditi a Orgosolo” (Italia, 1961 – 98 min., 35 mm b/n). Seguono poi “Un uomo a metà” ( Italia, 1966 – 93 min., 35 mm, b/n) osteggiato dalla critica ma che ottenne riconoscimenti a Venezia e lodi da parte di Pierpaolo Pasolini e Moravia, “L’invitata” ( Italia-Francia, 1969 – 90 min., 35 mm, col.); Diario di un maestro” ( Italia, 1973 – 270 min. 4 episodi , 16 mm, col.) evidenzia la problematica della scuola italiana e il vero scopo della scuola non finalizzata all’ottenimento di una promozione o di un diploma ma piuttosto come preparazione alla vita, la formazione del carattere e della personalità. Tutti temi ripresi in “Quando la scuola cambia” ( Italia, 1978 – 240 min. 4 episodi , 16 mm, col.) con cui De Seta, rispondendo a chi gli sottolineava dopo l’uscita di Diario che quel maestro era finto e che non poteva attuarsi quel tipo di scuola, descrive quattro casi di scuola d’avanguardia, in Lombardia e in Puglia, a dimostrazione della sua tesi.

Successivamente Vittorio De Seta gira “La Sicilia rivisitata” ( Italia, 1980 – 207 min. 4 episodi , 16 mm, col.), “Hong Kong, la città dei profughi” ( Italia, 1980 – 135 min. 3 episodi , 16 mm, col.), “Quando la scuola cambia” ( Italia, 1978 – 240 min. 4 episodi , 16 mm, col.), “Un carnevale per Venezia” ( Italia, 1983 – 56′ min., 16 mm, col.).

Ma è con il film documento “In Calabria” ( Italia, 1993 – 83′ min., 16 mm, col.) che Vittorio De Seta era ritornato alle tradizioni, al “racconto della realtà ancestrale in cui un paese, un villaggio erano una comunità”. Poi, con “Lettera dal Sahara” ( Italia, 2004 – 123′ min., col.) De Seta ci ha raccontato il fenomeno dell’immigrazione nel mondo di oggi attraverso la storia di Assan, un senegalese sbarcato a Lampedusa e che, in meno di sei mesi, risale l’Italia passando per Napoli, Prato, Torino e cambiando ogni volta un lavoro.

E proprio sul tema del lavoro, in occasione del sessantesimo anniversario della dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo, Vittorio De Seta aveva girato, a Pentedattilo in provincia di Reggio Calabria, il cortometraggio sull’articolo 23 della dichiarazione: “Articolo 23. Pentedàttilo” che è stato poi presentato il primo dicembre 2008 al Teatro Argentina in Roma.

Il maestro del film documentario era nato a Palermo 88 anni fa da una nobile famiglia di origini calabresi e, dopo essersi iscritto alla facoltà di Architettura nel 1941 era stato allievo ufficiale dell’Accademia Navale di Livorno. Antico e aspramente contemporaneo, la forza delle immagini dei cortometraggi che riescono a far parlare alberi, animali, vento, mare, a tradurre in racconto il rumore, ora lieve ora travolgente della vita.

Io ho fatto il lavoro manuale, sono stato due anni prigioniero”, ci ha rivelato una sera quando gli chiedemmo cosa fosse diventato oggi il lavoro. “Una volta il lavoro in un certo senso era creativo”, ci spiegò: “Perché il lavoro manuale è creativo. Uno fa un lavoro. Vengono qui gli operai, una siepe, è finita e la vedi. Ma l’alienazione consiste nel fatto che ci sono degli operai in certe fabbriche meccaniche, che fanno dei pezzi che non sanno neanche che cosa sono, dove vanno. Se sono pezzi d’automobile o pezzi di un qualsiasi altro meccanismo. Perché ormai è fatto tutto per appalti. La fiat non è che produce, appalta tutte le parti. la cosa non può funzionare. Non fosse altro che per il fatto che per quattro milioni di anni si sapeva che cosa si faceva. Capito? La vita media poteva essere, che ne so, quarantacinque anni, mortalità infantile, gravidanze, ….figuriamoci, malaria, tubercolosi. Ci siamo liberati da questo, però si è perso un qualche altra cosa che era fondamentale. E che si sarebbe potuto mantenere”.

Esattamente tre anni or sono, nell’ottobre del 2008, Vittorio ci aveva gentilmente concesso un’intervista i cui contenuti sono ancora straordinariamente attuali. Alla domanda in cui gli chiedemmo se il “De Seta” regista scandagliasse il fondo delle cose e dell’animo umano della cultura popolare, la sua risposta era stata candida e chiara: “Si, in sostanza, la cultura contadina che è la cultura popolare, è stata buttata a mare”. E per render più chiaro il concetto ci propone un paragone: “Si parla dell’Uomo da 4 milioni di anni. 42.000 secoli sono come i metri della maratona che sono 42.195 metri. Il progresso prende soltanto gli ultimi due metri. Nessuno parla mai di questo”, ci aveva detto. “Il nostro cervello si era sviluppato lentamente fino al 1827 quando è entrata in campo la locomotiva, tanto per stabilire una cosa. E li c’è stato un movimento. Un’accelerazione esponenziale. Per cui io sento che noi non facciamo più fronte. La vita è proprio cambiata. I documentari ripropongono quell’esperienza di vita che poteva avere un uomo siciliano di cinquant’anni fa. E quindi quella di sempre. Mi segue? E quindi gli odori, i sapori, i suoni. Tutto. Noi siamo stati privati di questo patrimonio in cambio del progresso. Però a questo punto io dico che il frigo e questo telefonino (prendendo in mano il suo cellulare) l’abbiamo pagati troppo caro”.

Che rapporto aveva De Seta con la Fede? Anche questo ci aveva spiegato la sua posizione con parole semplici e chiarissime: “Io non riesco a rinunciare alla ragione. Se la fede è rinuncia alla ragione”, aveva aggiunto, allora non ho fede”. E ancora: “Ho una grande devozione, come dire, un’ammirazione immensa per Gesù. Per l’autentica dottrina di Gesù. Però non credo che Gesù abbia mai espresso i concetti che son riassunti nel credo. Cioè questa revisione, questo abbandono totale. Questa deve essere roba…, Tolstoj l’ha approfondito in questo libro che ho ma è in inglese e non riesco a leggere. Si chiama Critica della teologia dogmatica. I discorsi diventano troppo lunghi. In sostanza, Tolstoj mi ha insegnato che al di la della versione chiesastica, diciamo, esiste la dottrina di Gesù. Che si riassume nel credo, che è stata annunciata a Nicea nel 300 d.C.. Al di la di questo, la dottrina di Gesù è un’altra cosa, contrasta enormemente”.

Gli avevamo domandato se Vittorio De Seta fosse innamorato di San Paolo: “Si, ma soprattutto di Gesù perché lui è stato falsato. E forse non si poteva fare altro. San Paolo lo stesso. Praticamente Gesù è un profeta, infatti Lui dice(va) sempre: “è stato detto occhio per occhio ma, Io vi dico …..”. Quindi Lui era venuto a cambiare. Quella frase che c’è nel vangelo: “Sono venuto soltanto a compiere” non è vera”. Era così che Vittorio De Seta riassumeva il suo rapporto con la fede: “C’è un grosso equivoco di base. La dottrina di Gesù viene sempre espressa come un qualcosa di meraviglioso ma di astruso, inattuabile, metafisico. Mentre invece no: Tolstoj mi ha insegnato che è profondamente razionale. Quando Gesù dice quei paradossi, che sembrano paradossi, “ama il tuo nemico”. In realtà è giusto, è vero. E la gente lo sente tant’è vero che a questa dottrina la gente aderisce. Però poi è invalsa la consuetudine di dire: va bene, però questi sono sogni, la realtà è un altra. E quindi, per esempio, il Male. La chiesa riconosce il male, mentre invece Gesù non lo riconosceva. Oppure lo riconosceva come diminuzione del bene, ecco, non come entità autonoma.”

Sulla questione relativa alla vita e alla morte, quando gli avevamo chiesto di esprimersi sul caso di Eluana Englaro ci aveva freddati dicendoci che “Gesù sarebbe stato per l’eutanasia”.

Detto proprio in soldoni: la chiesa quando dice così tradisce perché Gesù, credo che nel vangelo è riportato tre o quattro volte, dice: “voglio misericordia e non sacrificio”. E’ tutto li. Mantenerla in vita sarebbe un sacrificio. Per lei (Eluana ndr), per la famiglia, per tutto. Io credo che Gesù sarebbe stato per l’eutanasia perché è la cosa logica, è razionale. Non c’è niente di irrazionale, niente di astruso, niente di metafisico nella dottrina di Gesù. Se tutti facessimo così credo che vivremmo in pace meravigliosamente.”

Ma il maestro De Seta, in quell’intervista che fu proprio una bella chiacchierata ci aveva detto di più. Ci aveva spiegato come fare a liberarsi dal senso di colpa: “Capendo”.


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Viva la patrimoniale

Già nel 1952 qualcuno scriveva che il libero mercato, la libera concorrenza e la stessa libertà di accesso al mercato sono “condizioni permanentemente a rischio”, che vanno create e mantenute da “apposite regole, il cui rispetto deve essere garantito da organi pubblici dotati di poteri penetranti di vigilanza e di sanzione”.

Il Governo presieduto dal Professor Mario Monti si appresta a somministrare la cura all’Italia e, tra i provvedimenti allo studio, c’è il ritorno dell’Ici forse anche per le prime case e conglobata all’imposta municipale unica. Certo, con questi chiari di luna e la crisi economica che incalza, chi potrebbe dirsi contrario a far pagare l’obolo anche ai grandi patrimoni immobiliari esentati da Berlusconi? Nel paese dei grandi evasori, in cui si stima che le imposte sfuggite al fisco siano attorno ai 180 miliardi l’anno, l’anomalia grave rimane però la differenza tra quanto viene tassato il reddito proveniente dalle rendite finanziarie dei grossi capitali e quanto, invece, viene tassato il reddito di chi lavora ed investe il proprio capitale per intraprendere un’iniziativa economica. Un capitalismo che permette questo è un capitalismo inquinato. Oggi, oltre a mancare effettive autorità di vigilanza che garantiscano la libera concorrenza e cricche di ogni genere possono farla da padroni, abbiamo una grossa distorsione di fondo che rallenta la nascita e la crescita di nuove imprese. Ovviamente nessuno penserebbe di tassare ulteriormente i piccoli patrimoni sotto, ad esempio, una data soglia che qui potremmo quantificare in 500.000 euro e che rappresenterebbe la quota di coloro che, lavorando una vita, hanno messo da parte la propria liquidazione. Ma le rendite finanziarie derivanti dagli interessi percepiti sui grandi capitali, magari già “scudati”, e tenuti in banca solo per ricavarne legittimo interesse, queste dovrebbero essere tassate assai di più rispetto al reddito proveniente dal lavoro o da impresa. Invece in Italia accade l’esatto contrario: chi possiede un patrimonio, ad esempio, di una decina di milioni di euro, con un tasso minimo d’interesse del 2%, guadagnerà in un anno 200.000 euro d’interessi sui quali pagherà soltanto il 12%. Se lo stesso guadagno di 200.000 euro, lo stesso signore lo facesse invece investendo il suo denaro in un’impresa e, magari, assumendo qualche dipendente, la tassazione complessiva sarebbe attorno al 40%. E’ paradossale: in queste condizioni, in una società così organizzata, chi penserebbe ad affrontare il rischio d’impresa se tenendo tutto in una banca e stando lautamente con la pancia al sole può essere tassato molto meno sui propri guadagni? Ecco perché parlare di patrimoniale sulle rendite dei grandi capitali potrebbe avere il senso non solo di sacrificio chiesto a chi ha di più, ma anche il senso di un provvedimento per il rilancio dell’economia e dell’imprenditorialità nel nostro Paese.

 

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La voce del diritto e della libertà: le gazzette nemiche dei tiranni

La nascita e l’evoluzione di una nuova, importante, esperienza culturale

di Giuseppe Candido e Filippo Curtosi

Da quando furono impiantate le prime officine tipografiche anche la Calabria ebbe allora i suoi giornali e il primo di essi fu stampato a Monteleone Calabro

 

Nell’era digitale in cui i giornali e le riviste diventano documenti elettronici in formato portatile (pdf) e quando la televisione tradizionale, che già predominava, sbarca oggi su internet e sul satellite, parlare di “vecchi” giornali, della loro nascita e della loro prima diffusione, farsi domande sul loro ruolo nella politica nazionale e locale potrebbe essere visto come anacronismo puro.

D’altronde ne è passato di tempo da quando, alla fine del ‘700 dopo che era stata concessa la pubblicità dei dibattiti parlamentari in Inghilterra Edmund Burke, filosofo e politico conosciuto come il “Cicerone britannico”, rivolgendosi ai giornalisti presenti alla camera dei Comuni, disse loro: «Voi siete il quarto potere». Quando lo fece era appena nato il quotidiano più famoso del mondo: il Times. Proprio perché politica e libera, l’attività giornalistica era allora circondata, in Inghilterra, da un rispetto che invece sul Continente, “impastoiata dalla censura, e limitata alla rissa letteraria”, non riuscì mai meritare. Allora, agli albori della stampa quotidiana, i pubblicisti erano temuti, ricercati, spesso adulati, ma mai amati. Svolgevano un’insostituibile funzione: divulgavano le conoscenze artistiche e scientifiche, aiutando il successo dell’Illuminismo e preparando indirettamente le rivoluzioni; ma proprio gli Illuministi – come gli storici ricordano a più voci – ne furono i critici più severi. Oggi che in Italia il tema della censura alla libertà di stampa è diventato drammaticamente attuale e che, allo stesso tempo, l’informazione di massa viola sistematicamente ai cittadini il diritto di “conoscere per deliberare”, ritrovarsi tra le mani un vecchio e polveroso numero della storica rivista Storia Illustrata che, nel settembre del 1962, pubblicava un articolo di Carlo Casalegno dall’attualissimo titolo “Le gazzette nemiche dei tiranni”, è davvero da considerarsi fortunosa e, per certi versi, incredibile. Un giornalista che, dopo aver svolto specifici studi, rievocava magistralmente le origini della stampa periodica documentandone meriti e limiti.

Le statistiche di 50 anni fa evidenziavano, già allora, la presenza di oltre 7000 quotidiani stampati in tutto il mondo, con una tiratura complessiva che si aggirava attorno alle 220 milioni di copie anche se, già allora, mancando i dati precisi della Cina era difficile fare un calcolo preciso. Nel 2007, secondo le statistiche attuali, si era a quota 6580 quotidiani stampati in tutto il mondo per una tiratura complessiva di 395 milioni di copie al giorno. E anche se internet, il giornale in formato elettronico e gli altri media che la rete mette a disposizione, tendono a diffondersi in modo esponenziale, la carta stampata rimane ancora il business principale dell’informazione secondo solo a quello della tv. Nato nel 1702 come organo d’informazione, il giornale quotidiano divenne in breve tempo, come sostenne a chiare lettere il Casalegno, “la voce del diritto e della libertà”. Ma la storia delle “gazzette nemiche dei tiranni” comincia assai prima. “Nel giudizio corrente, – scriveva il Casalaegno – i pionieri del giornalismo furono i Romani con i loro troppo famosi Acta diurna; ma anche in questo campo, come per la polvere da sparo o la stampa tipografica o tante altre diavolerie, sembra che la priorità cronologica spetti ai cinesi”. E questo perché, par fondato che già ai tempi di Muzio Scevola – fra il 600 e il 500 a.C. – “nel Celeste Impero usciva un bollettino con le notizie ufficiali: il Ti-Pao (Notizie di Corte)”. Ma se ciò è vero, altrettanto vero è che la stampa moderna Cinese è oggi d’imitazione occidentale. Nella tabella dedicata ai primi venti quotidiani pubblicati nel mondo spiccavano i nomi del Daily Courant e del London Daily Post (Londra – 1702). Al quarto posto La Gazzetta di Parma (1735) nata come settimanale, poi divenuta quotidiano nel 1800. Più in basso, al 16° posto, La Gazzetta di Venezia e al penultimo La Gazzetta di Mantova. Soltanto più tardi, in Italia, nascevano altri quotidiani che avrebbero avuto più o meno fortuna: nel 1824 viene pubblicato il primo numero de Il Corriere Mercantile, nel 1848 vede la luce La Gazzetta del Popolo, nel 1859 La Nazione e nel 1860 il Giornale di Sicilia. Nel 1861, mentre l’Italia era appena nata, a luglio viene stampato il primo numero de L’Osservatore Romano; seguivano Il Sole (1865), La Stampa e il meno noto L’Arena (1866). Soltanto 10 anni dopo, nel 1876, vedeva a luce anche il Corriere della Sera.

E anche in Calabria la stampa fermentava di riviste, giornali e giornalisti: La Voce Pubblica (1862), La Verità (1870), L’Avvenire Vibonese (1882) diretto da Eugenio Scalfari e La Calabria (1888) diretta da Luigi Bruzzano sono soltanto alcune delle più famose testate tra le tante vibonesi che si possono citare. Già durante il decennio della dominazione francese, subito dopo l’istituzione delle Intendenze (1806), – come ci ricorda Mario Grandinetti nell’articolo “Periodici del Risorgimento in Calabria1” – furono impiantate nelle regioni che ne erano prive, “le prime officine tipografiche, e con esse, in ogni capoluogo di provincia, nacquero i primi «Giornali», destinati alla pubblicazione di atti ufficiali di governo”. Anche la Calabria, sottolinea il Grandinetti, “ebbe allora i suoi giornali, ed il primo di essi fu quello stampato a Monteleone Calabro dal tipografo Giuseppe Veriente, sotto la data del 18 gennaio 1808, col titolo di Giornale dell’Intendenza di Calabria Ultra.

E proprio a Monteleone di Calabria, oggi Vibo Valentia dove a breve si ricostituirà il circolo della Stampa Vibonese, cominciò una nuova, importante, esperienza culturale, che, “dopo aver conosciuto momenti di fortuna alterna nel periodo del Regno borbonico, si affermò in modo notevole solo dopo il conseguimento dell’Unità d’Italia”. In tutta Europa, Penisola tricolore compresa, durante il periodo che abbraccia l’ultimo decennio dell’Ottocento ed i primi venticinque anni del Novecento, suscitarono grande interesse le cronache elettorali, le quali, com’è risaputo, rappresentarono allora uno dei mezzi più efficaci di propaganda a disposizione dei candidati e ispirarono un grandissimo numero di periodici locali di cui costituirono il tema principale. Anche a Monteleone Calabro “conobbero gli onori della stampa giornali di varia ispirazione. E se pure tra il proliferare di testate vi furono quelle che si occuparono di cronaca da caffè a Monteleone di Calabria molti giornali videro impegnati, come redattori o collaboratori o anche semplici ispiratori, “il fior fiore di intellettuali della Città e del circondario. Molti dei temi trattati ebbero, anzi, un grande spessore culturale, che riuscì alla fine ad affermarsi sul piano politico, in nome dei grandi principi ideali. Il grande amore per la letteratura, anche quella popolare, per le scienze, la storia, la filosofia, per l’arte, archeologia e le tradizioni popolari furono i motivi ispiratori di molte pagine, comprese quelle, e ve ne erano molte, satiriche e umoristiche come La Zanazara fondato da Gabriele Ionadi nel 1913 come giornale “Satirico, umoristico, illustrato”.

Guerriera Guerreri ci dà notizia delle testate nel volume “Periodici calabresi dal 1811 al 1974”. Nel 1871 nella tipografia di Giovanni Troyse nasce La Ghirlanda, giornale scientifico, letterario e artistico; dalle stesse presse vedono la luce poi, nel 1875, L’Imparziale, giornale politico, giuridico, letterario e, nel 1876, Cronaca Vibonese di Nicola Misasi. L’Avvenire Vibonese, diretto da Eugenio Scalfari dal 1882, oltre alla pubblicazione settimanale, con periodicità annuale pubblicava le “Strenne de L’Avvenire Vibonese” per le quali ebbe fama proprio per l’elevato livello culturale.

L’elenco dei giornali e delle riviste calabresi che, a partire dall’Unità d’Italia e sino all’inizio del ventennio, venivano pubblicate a Monteleone Calabro è davvero lungo. Il Primo Passo, che iniziò le pubblicazioni pure nel 1882 fu definito “Giornale degli studenti. Organo di propaganda democratica, anticlericale, lontano dal servilismo ufficiale e privato, contro ogni istituzione ostile al benessere sociale”. Era la tipografia di Francesco Raho una delle più attive della Monteleone post unitaria. Qui, nel 1888, cominciò le sue pubblicazioni anche La Calabria, rivista di letteratura popolare diretta dal Professor Luigi Bruzzano che, se pur poco apprezzata dai suoi contemporanei, fu molto rivalutata in seguito proprio per gli illustri collaboratori. Vi scrivevano infatti personaggi del calibro di Carlo Massinissa Preesterà, Ettore Capialbi, Antonio Julia, G.B. Marzano, Ottavio Ortona, Carlo Giuranna, Eugenio Scalfari e Raffaele Lomabrdi Satriani. Nel primo numero del settembre del 1888, Luigi Bruzzano presentò la sua rivista con queste parole: “Tre anni fa, quando io col mio amico Ettore Capialbi pubblicavo nella quarta pagina de “L’Avvenire vibonese” i racconti greci di Roccaforte, pochi fannulloni, miei concittadini, assordarono di grida la redazione del giornale, per indurla a smettere la pubblicazione di tutte quelle nostre chiacchiere … Le belle e dotte recensioni, che uomini illustri e miei maestri scrissero di quei racconti nell’Archivio per le tradizioni popolari e nella Rivista di filosofia e letteratura d’Italia e provenienti da taluni professori della stessa Grecia, dettero … torto a quei dottoroni da caffè, che tuttavia ci guardavano con un sorriso di scherno e di compassione. Ora pubblico a mie spese una rivista di letteratura popolare, nella quale saranno inserite in gran numero novelline greche ed albanesi inedite, e scritti che riguardano gli usi e i costumi di queste contrade. Tale impresa … sarà proseguita con coraggio, se i miei colleghi calabresi vorranno darmi una mano e se avrò il compatimento di quegli uomini illustri, che altra volta si occuparono a scrivere dei racconti greci, raccolti da me e dal mio amico Capialbi”. Nel 1889 fino alla fine dell’Ottocento nacquero a Monteleone Calabro, nelle tipografie Raho e Passafaro, molte altre testate: La luce, La Sentinella, Il Mefistofele (con un numero unico), La vendetta, La Falce, Il Risorgimento, L’Indipendente, La voce del popolo, il Presente, La Risposta, La Leva, Il Corriere di Monteleone, Sveglia, Il Risveglio, La piccola Brezia, Il Piccone, La Caldaia, Il vespro e Pro Calabria pubblicato come supplemento de Il Piccone.

Poi, nel 1900, nascono nelle tipografie di Raho e Passafaro, Il Piccolo, corriere settimanale di Calabria e Il Savoia, Gazzetta di Monteleone. Nel 1901 viene stampato Monteleone a Garibaldi, un numero unico dedicato all’eroe dei due mondi. Nello stesso anno vede la luce pure Il Vibonese, rivista di letteratura, scienze ed arte. Nel 1902, nella tipografia di Francesco Raho, nasce Libertas, periodico settimanale che sulla testata reca due citazioni: “La verità ci rende liberi” di Gesù e “La libertà ci renderà veraci” di Giordano Bruno. Nel 1903, nella stessa tipografia, viene fondato pure Lucifero. Entrambi hanno come Gerente responsabile Salvatore Licastro. Nel 1904, presso la tipografia Giuseppe La Badessa, vengono stampati i primi numeri de La Lotta, Il fuoco, nell’arte, nella vita, nell’umorismo, gazzetta politica amministrativa che aveva ben due direttori responsabili: G. Mele e A. Scabelloni. Nella tipografia Passafaro, sotto la direzione di Giuseppe Montoro, viene fondato Vita Nuova, gazzetta politica amministrativa del Circondario che si pubblicava ogni domenica. Allora la tipografia di Giuseppe La Badessa pubblica un numero unico di un giornale dal singolare titolo che evidenzia la rivalità tra le diverse testate: Risposta al giornale Vita Nuova. Esilarante, un fermento culturale eccezionale terminato soltanto con l’avvento del fascismo e della relativa censura. Nel 1905, diretto dal Francesco Ranieri nasce, nella tipografia del La Badessa, il settimanale studentesco Iride; lo stesso anno e nella stessa tipografia vengono stampati per la prima volta Il gazzettino vibonese (numero unico), Il Moto, Il Riscatto (numero unico) e Il mentore vibonese, mensile religioso letterario diretto ed amministrato dalla Parrocchia di S. Michele con l’approvazione dell’autorità ecclesiastica. Sempre nel 1905, presso la tipografia di Passafaro, prende vita La rivista vibonese, giornale radicale del Circondario che si pubblicava ogni domenica.

Il fervore culturale e la rivalità tra le officine tipografiche proseguono a Monteleone pure nel 1906 quando nascono Il Tamburo, La Gazzetta Valentina, La parola degli onesti e Il Marchio. L’anno successivo vengono fondati L’Agitazione, settimanale d’interessi regionali, Il Pane, giornale socialista per i senza pane diretto da Michele Pittò, e Il Randello.

Poi, nell’ottobre 1908, viene stampato il numero unico de A Garibaldi la Massoneria di Monteleone. Dal 1909 al 1920, in poco più di un decennio, vedono la luce, soltanto a Monteleone Calabro, altre ventitré testate: Il Crogiuolo, Il Faro (1909), Il Foro valentino (1910), La Difesa, La Difesa degli interessi del Circondario, Juvenilia (1911), Il Paese e L’Ambiente (1912); La Zanzara (1913), Il Pensiero del Circondario e Libera parola (1914); Il Pennello, L’Avvenire, La Fiaccola (dall’ambizioso titolo sotto testata: “Organo per la difesa dei supremi interessi della Scuola e della Calabria”) e La Fronda (1915); Nel 1918, in occasione della fine del conflitto mondiale, presso la tipografia di G. Raho venne stampato un “numero unico” de I Nostri Eroi con l’evidente intento di celebrare e commemorare i caduti della nostra Terra durante la guerra. Nel 1919 nascono poi Il Giornale di Monteleone, La Favilla, La libera Calabria, ed il quindicinale della gioventù Satana. Nel 1920, per cura della Sezione socialista di Monteleone, viene fondato il “Quindicinale per la propaganda socialista” Calabria Rossa e, presso la tipografia di Giuseppe La Badessa il Gloria! Giornale del fiumanesimo in Calabria.

L’attività giornalistica continuò a fervere a Monteleone e in tutta la Calabria, dal Pollino allo Stretto, nascevano giornali e riviste di cui ha senso custodire oggi la memoria. Immaginiamo un archivio unico dei giornali calabresi magari consultabile anche on line attraverso le nuove tecnologie di internet. Anche perché, alcune di quelle domande che Casalegno si poneva nel 1962 sono ancora oggi assai attuali per il ruolo e il futuro del giornalismo. I giornali furono “strumento d’interessi governativi, nazionali, economici? Oppure rappresentano una vera manifestazione di libertà di parola? Semplice mezzo di propaganda o vero interprete dell’opinione pubblica? Furono insomma, arma passiva in mano al potere politico, o riuscirono ad essere autentico «quarto potere»?

Considerate le condizioni in cui versa oggi sia la stampa locale sia quella nazionale, per chi affronta la professione giornalistica e per chi ancora crede che l’informazione sia davvero il “quarto potere”, sarebbe necessario porsi oggi queste domande, magari proprio mentre si scrive un articolo o mentre si conduce un’inchiesta.

1In «Rassegna storica del Risorgimento», a. LXXIX (1992), Fasc. I, p. 3

 

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