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Black bloc, indignados e la rivolta nonviolenta

di Giuseppe Candido

Rivolta in nord Africa, rivolta in Grecia, rivolta degli indignados in tutto il mondo e in Italia. Rivolta per la libertà, rivolta dei “No Tav”, rivolta per lo stipendio che si perde, rivolta per il lavoro e il futuro che non c’è. È rivolta la parola chiave: una parola inquietante, singolare, che però serpeggia diffusamente sulle pagine dei giornali e dei telegiornali. E di rivolta si parla anche quando i lavoratori perdono il lavoro nella nostra terra di Calabria: allora si sale sui tralicci e si fanno scioperi della fame per richiamare l’attenzione dei media. Dell’indignazione di tanti giovani che non trovano un lavoro qualificato per quello che hanno studiato non ci si può disinteressare anche se qualcuno vorrebbe spiegarci che trattasi di “bamboccioni che non vogliono rimboccarsi le maniche”. Non soltanto faticano lustri a trovare un lavoro ma quando lo trovano è un lavoro precario che non consente di progettare un futuro, di pensare ad un mutuo. Black bloc e violenti cretini a parte, fanno tenerezza i tentativi di protesta non violenta di quei giovani che inscenano l’applauso silenzioso agitando, senza sbattere, le mani. Fanno tenerezza perché ignari dell’esistenza di un metodo, quello della nonviolenza gandhiana, quella scritta senza spazio e senza trattino che va oltre il semplice rifiuto della violenza. Oggi sarebbe importante parlare di rivolta ricordando che per farla esistono due metodi: la violenza e la nonviolenza. Purtroppo la storia ci ricorda che il primo metodo è stato quello troppo spesso scelto in preferenza dai grandi rivoluzionari del passato ma è la stessa storia a ricordarci che Gandhi riuscì a liberare l’intera India con il metodo della nonviolenza. Molto spesso sentiamo dire, specialmente dai più ferventi sostenitori della rivolta coi forconi, che “i fini giustificano i mezzi” e che “il nonviolento è un codardo mentre il rivoltoso che si batte contro il potere braccio armato ha coraggio”. Sul rapporto tra fini e mezzi bisognerebbe però ricordare le parole di Aldo Capitini su come la nonviolenza contribuisce positivamente indicando chiaramente che “il fine dell’amore non può realizzarsi che attraverso l’amore, il fine dell’onestà con mezzi onesti, il fine della pace non attraverso la vecchia legge di effetto tanto instabile “Se vuoi la pace, prepara la guerra”, ma attraverso un’altra legge: Durante la pace, prepara la pace”. A chi sosteneva che “i mezzi in fin dei conti sono mezzi”, Gandhi rispondeva che “i mezzi in fin dei conti sono tutto”. Quali i mezzi, tale il fine. La convinzione che non vi sia rapporto tra mezzi e fini è per Gandhi un grave errore: “Per via di questo errore, anche persone che sono state considerate religiose hanno commesso crudeli delitti”. E insisteva: “Il vostro ragionamento equivale a dire che si può ottenere una rosa piantando un’erba nociva (…) il mezzo può essere paragonato a un seme, il fine a un albero; e tra mezzo e fine vi è appunto la stessa inviolabile relazione che vi è tra il seme e l’albero”. Bisognerebbe dire a quei giovani indignados che, a differenza del metodo della guerriglia violenta che vede impegnati solo uomini, forti e coraggiosi, la nonviolenza gandhiana è un metodo per tutti: “ha il pregio” – come sostiene Aldo Capitini in Tecniche della nonviolenza – “di stabilire una perfetta eguaglianza, perché se la libertà deve essere condivisa in modo uguale da tutti – anche il più debole, il paralitico, lo zoppo – essi devono poter contribuire in egual modo alla sua difesa. Lo sa bene Martin Luther King quando nel suo volume “Why we can’t wait” nel 1964 scriveva: “Nell’esercito della nonviolenza c’è posto per tutti coloro che vogliono arruolarsi. Non ci sono distinzioni di colore, non ci sono esami da sostenere né garanzie da dare, senonché, come un soldato degli eserciti della violenza deve controllare e tener pulito il suo fucile, così i soldati della nonviolenza sono tenuti a esaminare e a rendere belle le loro armi: il cuore, la coscienza, il coraggio e il senso della giustizia”. E, per rispondere a chi dà del codardo al non violento, bisogna dire che non è un caso che M.L.K. parli di coraggio quale arma della nonviolenza. “Il metodo di lotta nonviolenta creato da Gandhi” (Satyagraha – che vuol dire forza e amore per la verità) – come sottolineava Joan V. Bondurant nel suo volume Conquest of Violence – “è fondamentalmente un principio etico, l’essenza del quale è una tecnica sociale di azione (…) L’introduzione del metodo gandhiano in qualsiasi sistema sociale politico effettuerebbe necessariamente modificazioni di quel sistema. Altererebbe l’abituale esercizio del potere e produrrebbe una ridistribuzione e una nuova strutturazione dell’autorità. Esso garantirebbe l’adattamento di un sistema sociale politico alle richieste dei cittadini e servirebbe come strumento di cambiamento sociale”. Rivolta, dunque, di rivolta e di cambiamento sociale, politico e morale c’è bisogno, c’è bisogno di alterare l’esercizio del potere si, ma c’è necessità di una rivolta nonviolenta che, con il proprio metodo, non comprometta il fine della giustizia sociale e della verità. Bisognerebbe rileggere il volume Tecniche della nonviolenza, di Aldo Capitini che nel 1967, dopo aver fondato la marcia della Pace di Assisi, pubblicò questa guida che non ebbe però la diffusione e l’influenza che avrebbe meritato. Il respiro sociale del metodo nonviolento, l’influenza che esso potrebbe esercitare come una rivoluzione permanente, la garanzia che dà di amministrare pubblicamente in modo che valga il controllo dal basso e che la prospettiva metta in primo piano l’educazione e l’onestà individuale sono evidenti. Oggi che il degrado morale, civile e sociale del nostro Paese è sempre di più sotto gli occhi di tutti, causa ed effetto del degrado partitocratico e del cinismo della sua classe dirigente, la lettura del volume di Capitini potrebbe davvero suggerire a quei giovani indignados idee su come comportarsi nei confronti di un potere che, nella sua dilagante corruzione, sembra sempre di più avere la capacità di corrompere tutto ciò che tocca, di coinvolgere tutte le opposizioni, di vanificare tutte le reazioni, di anestetizzare tutte le possibili opposizioni.

 

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Incompatibile la carica di Sindaco con quella di Parlamentare

di Giuseppe Candido

Anche il Sindaco di Catanzaro, On. Michele Traversa, dovrà scegliere se restare sulla poltrona di deputato o, dimettersi, e continuare il suo mandato di primo cittadino del capoluogo calabrese?

Oggi sappiamo chiaramente che la carica di parlamentare è incompatibile con quella di sindaco. Lo ha sancito la Corte Costituzionale con sentenza del 21 ottobre 2011, n. 277. La suprema Corte ha infatti dichiarato l’illegittimità costituzionale degli articoli 1, 2, 3 e 4 della legge 15 febbraio 1953, n. 60 (incompatibilità parlamentari), proprio nella parte in cui questi articoli non prevedono espressamente l’incompatibilità tra la carica di parlamentare e quella di sindaco di un Comune con popolazione superiore ai 20.000 abitanti sancita dalle normative successive.

Mentre la “Casta” calabrese dei consiglieri regionali faceva notizia sulle pagine dei quotidiani nazionali lo scorso gennaio per aver cancellato il divieto di cumulo di cariche oggi sappiamo che non vietare espressamente il cumulo delle cariche istituzionali di un certo rilievo è addirittura anticostituzionale. E poi, con questi chiari di luna, il cumulo di cariche già lautamente retribuite con stipendi, indennità e rimborsi spese stratosferici, è davvero un insulto alla miseria!

 

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La chiesa dia il buon esempio sui costi da tagliare

Se la chiesa non dà il buon esempio allora c’è un problema. “Dopo la breccia di Porta Pia, bisogna fare una breccia fiscale negli enti ecclesiastici che mascherano vere e proprie attività commerciali dietro la fede e il culto”. È con queste parole che inizia la conferenza stampa dei Radicali italiani nei quali si danno le prove dell’evasione dell’ici da parte di istituti ecclesiastici che svolgono attività commerciali.

Nell’infinita novella agostana che in Italia chiamiamo “manovra finanziaria”, sono state annunciate, salvo poi ritirarle, le proposte più infelici. Ne abbiamo ascoltate davvero di tutti i colori – perfino l’idea di un’imposta di bollo sulle rimesse degli immigrati irregolari! – ma d’intervenire sui privilegi del Vaticano risulta un tabù inviolabile. Lontana da chi scrive l’idea di far pagare un solo centesimo alle attività di culto o assistenziali ma per quelle che svolgono attività commerciali sarebbe giusto, sacrosanto. Come suggerisce Emma Bonino da Radio Radicale, “E’ stato sufficiente” che la pattuglia dei Radicali in Senato proponesse con “un emendamento il taglio di alcuni di questi privilegi affinché la politica, in modo bipartisan, nascondesse la testa sotto la sabbia”.

È accaduto la scorsa settimana in Commissione Bilancio del Senato quando l’emendamento volto a recuperare entrate valutate dall’Anci tra i 400 e i 700 milioni di euro l’anno – a firma dei radicali Perduca, Poretti, Bonino e Chiaromonte (Pd) – con l’abolizione dell’esenzione dell’Ici per le attività commerciali del Vaticano è stato respinto all’unanimità, al netto del voto favorevole di 3 senatori del Pd: Agostini, Carloni e Vita.

Anche se le polemiche sono subito esplose, non erano però le attività di culto ad essere prese di mira bensì quelle commerciali come alberghi, case di cura e scuole private su cui, come ha ammesso lo stesso “Avvenire, quotidiano della C.E.I., l’area di elusione non è affatto irrilevante.

Se a questo si aggiunge che gli enti ecclesiastici già godono di una riduzione dell’Ires (imposta sul reddito delle società) del 50%, sommandola all’esenzione dell’Ici si arriva a 2 miliardi di euro l’anno. In barba alle più elementari regole della concorrenza si tratta di veri e propri aiuti di stato a favore di chiunque faccia profitti da attività immobiliari, turistiche, sanitarie e scolastiche e che sono ora, proprio per questo, all’esame della Commissione europea.

Poi c’è l’otto per mille: negli ultimi venti anni è aumentato di cinque volte, passando dai 210 milioni di euro del 1990 al miliardo di euro all’anno di oggi, spesi dalla Chiesa, come ricorda Emma Bonino, “soprattutto per pagare gli stipendi ai sacerdoti, costruire nuove chiese, finanziare i Tribunali della Sacra Rota, nonché le varie iniziative politico-culturali della Conferenza episcopale e la galassia di associazioni protagoniste della guerra al referendum sulla Legge 40 e contro Welby e Englaro”. “Non c’è dubbio che le autorità vaticane” – insiste Emma Bonino – “abbiano ottenuto dal concordato revisionato nel 1985 molto di più di quanto lo Stato italiano abbia previsto in sede di sua elaborazione”.

Per raccogliere prove del fatto che gli enti ecclesiastici esentati dall’Ici svolgano, di fatto, attività commerciali, Mario Staderini, segretario del partito Radicale, si è presentato sotto mentite spoglie in una casa del clero in pieno centro di Milano, nei pressi del teatro della Scala, e alla cui direzione ha chiesto una stanza per motivi di lavoro: gli è stata assegnata immediatamente per la somma di 50 euro a notte. Risultato identico in una casa per studenti dove una stanza viene affittata per 45 euro.

“È evidente” – ha sottolineato Staderini nella conferenza stampa di presentazione dell’inchiesta – “che in alcune situazioni l’attività alberghiera è nettamente prevalente su quella dell’accoglienza per ragioni di culto. Non è comprensibile come in questi casi gli enti ecclesiali debbano essere esonerati dal corrispondere quanto dovuto alla collettività”.

D’altronde è proprio nel Vangelo (Matteo 10, 7 – 13) che leggiamo testualmente: “Non procuratevi oro, né argento, né moneta di rame nelle vostre cinture, né bisaccia da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché l’operaio ha diritto al suo nutrimento”. Se la Chiesa fa beneficenza è utile che goda di esenzioni ma quando svolge attività commerciali è giusto che contribuisca a pagare le tasse se non altro per dare il buon esempio.

Quando il Vaticano, o qualsiasi altro ente ecclesiastico, costruisce lauti profitti con il proprio patrimonio immobiliare, attraverso il turismo, con le cliniche e le università private, non c’è ragione che non paghi le stesse tasse come si chiede a tutti. I Radicali per questo sono “nemici” della Chiesa? Il diavolo politico da cui tener lontano i cittadini attraverso la censura? “Di anti cristiano” – ha spiegato candidamente Emma Bonino – “c’è solo l’uso del denaro a fini del potere”. Quel potere che, secondo la leader storica dei Radicali, “rende meno libera la stessa comunità religiosa rispetto alla sua reale vocazione”. Se ciò vuol dire essere nemici della Chiesa, forse allora nemico della chiesa lo era anche San Francesco.

 

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Tagliare i costi della partitocrazia e non quelli della democrazia

di Giuseppe Candido

Articolo pubblicato su “Il Quotidiano della Calabria” del 27 agosto 2010

Non c’è dubbio, la questione dei costi della politica e del funzionamento delle istituzioni, anche quelle regionali, è un punto che, in un momento come questo in cui il governo centrale impone una manovra finanziaria lacrime e sangue, tocca profondamente la sensibilità dei cittadini. Ed anche al palazzo Campanella del consiglio regionale si pensa ai tagli. Ma sarà sufficiente ridurre il numero delle commissioni e dei relativi presidenti, diminuire di qualche spicciolo i finanziamenti ai gruppi consiliari e limare le consulenze di giunta e consiglio? E siamo davvero sicuri che tornerà utile alla democrazia rappresentativa, ridurre il numero degli assessori e dei consiglieri regionali? O tutto ciò, ancora una volta, si tradurrà nell’ennesima beffa verso i cittadini ed il rafforzamento della partitocrazia? Sia a livello nazionale sia sul piano delle istituzioni regionali si fa finta di non sapere che il vero costo della politica che i cittadini avevano inteso abolire con la scelta referendaria dell’aprile del 1993, è quello del finanziamento pubblico dei partiti: nel clima di sfiducia che seguì lo scandalo di tangentopoli, il 90,3% dei cittadini si era chiaramente espresso a favore dell’abrogazione. Oggi si limano i costi delle consulenze, si pensa a diminuire il numero di eletti che, tra l’altro, renderebbe ancora più basso il rapporto degli eletti con gli elettori, ma neanche lontanamente si pensa a dimezzare stipendi, indennità e rimborsi elettorali. Secondo chi scrive sono infatti condivisibili le parole di Bobo Craxi quando afferma che “dimezzare il Parlamento equivale a dimezzare la democrazia. La democrazia italiana – ricorda ancora Craxi – è stata già abbastanza lesionata per prestare il fianco a demagogiche ristrutturazioni con l’alibi del risparmio”. Già, perché solo di alibi si tratta e non di vero risparmio. Dopo alcuni scandali del ’65 e del ’73, il Parlamento intese rassicurare l’opinione pubblica che, attraverso il sostegno dello stato, i partiti non avrebbero avuto bisogno di collusioni con i grandi poteri economici. Il finanziamento pubblico ai partiti venne introdotto dalla legge Piccoli nel maggio 1974 ed interpretava il sostegno all’iniziativa politica come puro finanziamento alle strutture dei partiti presenti in Parlamento, con l’effetto di penalizzare le nuove formazioni politiche: si ebbe l’effetto di rafforzare gli apparati burocratici interni dei partiti disincentivando la partecipazione interna. Già nel giugno del 1978 si tenne il primo referendum indetto dai Radicali per l’abrogazione della legge 195/1974. Nonostante l’invito a votare “no” da parte di tutti i partiti che rappresentano il 97% dell’elettorato, il “si” arrivò al 43,6% dei consensi. Secondo i promotori del referendum lo Stato avrebbe dovuto favorire tutti i cittadini attraverso i servizi, le sedi, le tipografie, la carta a basso costo e quanto necessario per fare politica, non garantire le strutture e gli appartati di partito, che invece devono essere autofinanziati dagli iscritti e dai simpatizzanti in maniera trasparente sul modello di quanto avviene in America e in Inghilterra. Ma l’Italia, si sa, non è un Paese anglosassone e la partitocrazia conta più della democrazia. Nel 1981 con la legge n°659 vengono raddoppiati i finanziamenti pubblici e vengono eliminati i divieti, per partiti ed eletti, di ricevere finanziamenti dalla pubblica amministrazione. I Radicali manifestarono in aula facendo ostruzionismo per bloccare la proposta di aumento dei finanziamenti ed ottenere maggiore trasparenza dei bilanci dei partiti nonché dei controlli efficaci. Ma è nell’aprile del 1993, sull’onda degli scandali e del relativo clima di sfiducia di tangentopoli, che il nuovo referendum abrogativo proposto dai Radicali Italiani raggiunse il quorum con il il 90,3% dei voti espressi a favore dell’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti che avrebbero dovuto ristrutturarsi e autofinanziarsi col sostegno dei propri iscritti e simpatizzanti. Niente di tutto questo: già nel dicembre del ’93, appena otto mesi dopo il referendum, la partitocrazia aggiorna, con la legge n°515, la già esistente norma sui rimborsi elettorali definiti “contributo per le spese elettorali”. Subito applicata con le elezioni del 1994, per l’intera legislatura vengono erogati ai partiti la bellezza di 47 milioni di euro in un’unica soluzione. La stessa cosa avviene due anni dopo per le elezioni politiche del 1996. Non ancora soddisfatta dalla fame di soldi, nel 1997 la partitocrazia inventa il 4 per mille ai partiti politici di fatto reintroducendo il finanziamento pubblico ai partiti. La legge n°2 del 2 gennaio del 1997 prevede infatti la possibilità per i contribuenti di destinare il 4 per mille dell’imposta sul reddito al finanziamento dei partiti e movimenti politici (pur senza poter indicare a quale partito destinarli), per un totale massimo di circa 57 milioni di euro da erogarsi ai partiti entro il 31 gennaio di ogni anno. I Radicali, promotori di quel referendum che, appena quattro anni prima, aveva abrogato il finanziamento pubblico tentarono il ricorso rispetto al tradimento dell’esito referendario ma, pur essendo stato riconosciuto in precedenza come potere dello Stato, gli viene negata dalla Corte Costituzionale la possibilità di depositare tale ricorso. Il furto di democrazia si completa nel giugno del 1999 con la legge n°157 che dietro all’altisonante titolo “Norme in materia di rimborso delle spese per le consultazioni elettorali e referendarie” nasconde, ma neanche troppo, la reintroduzione di un finanziamento pubblico dei partiti poiché quello che viene chiamato “rimborso elettorale” non ha nessuna attinenza diretta con le spese effettivamente sostenute per le campagne elettorali. Applicata per la prima volta durante le elezioni politiche del 2001 la norma prevede ben cinque fondi: per l’elezione della Camera, per il Senato, per il Parlamento europeo, per le elezioni Regionali e per i referendum, erogati in rate annuali, per un totale di 193.713.000 € in caso di legislatura completa. Ma al peggio non vi è mai limite e, nel 2002, con la legge n°156 del 26 luglio il fondo diventa annuale, il quorum per ottenere il rimborso scende dal 4% al 1% e l’ammontare complessivo da erogare, per Camera e Senato, nel caso di legislatura completa balza dai precedenti 194 milioni di euro circa a 468.853.675 euro. Il paradosso totale per il finanziamento pubblico ai partiti abolito per referendum e reintrodotto dalla finestra si raggiunge con la legge n°51 del 23 febbraio dei 2006 che prevede che l’erogazione annuale del fondo è dovuta ai partiti per tutti e cinque gli anni di legislatura indipendentemente dalla sua durata. Per cui, con la crisi del 2008 e le nuove elezioni politiche i partiti iniziarono a percepire il doppio dei fondi giacché intascano simultaneamente, le quote annuali relative alla XV e alla XVI Legislatura.

Va benissimo il dimezzamento delle commissioni regionali, dei relativi presidenti e delle loro auto blu. Bene pure il taglio delle consulenze e la riduzione dei componenti di strutture speciali di giunta e consiglio regionale. Ma il dimezzamento del numero dei parlamentari (ed anche quello dei consiglieri regionali), determinando collegi troppo ampi, non solo porterebbe ad un risparmio minimo rispetto alla grossa fetta dei rimborsi elettorali e, tale scelta, vanificherebbe persino l’introduzione di un sistema elettorale uninominale maggioritario, dal momento che il rapporto tra elettori ed eletti diventerebbe troppo elevato, impedendo l’effettivo controllo dei secondi da parte dei primi. Siamo sicuri che, per tagliare i costi che la politica fa gravare sui cittadini, si debba per forza tagliare anche la rappresentanza democratica?

 

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Rifiuti, epopea di un disastro annunciato

di Giuseppe Candido*

Chiude la discarica di Alli: è emergenza rifiuti” è titolo che ci dà la notizia come se si trattasse di un castigo divino nei confronti dei calabresi e non già, invece, l’epopea di un disastro annunciato da molti anni e di cui la politica calabrese ha gravi responsabilità. Il tema dei rifiuti e della sua colossale emergenza che in Calabria perdura da oltre tredici anni si interseca, infatti, con quello dei costi della politica e degli sprechi che ad essa sono consentiti sotto quel “camice bianco” dell’emergenza rifiuti che da anni consente la deroga stessa della legalità.

Costata circa 28 miliardi di vecchie lire nel 2001, la discarica di Alli, in Catanzaro, secondo le previsioni progettuali, avrebbe dovuto consentire lo smaltimento dei rifiuti sino al 2018. Invece, a causa di una mai decollata raccolta differenziata “porta a porta” che ha visto scaricare in discarica l’87% dei rifiuti indifferenziati, già nel 2009 l’impianto di Alli era stato considerato saturo e per questo se ne decise l’ampliamento stanziando ulteriori 7 milioni di euro. Ampliamento che, proprio in forza di quel commissariamento che dura da quasi tre lustri ed in deroga alle normative sugli appalti pubblici, si aggiudicò la ditta stessa che da anni gestisce l’impianto: Enerambiente spa.

Ma senza la raccolta differenziata porta a porta uscire dall’emergenza è diventata una missione impossibile: in base al disposto del D.Lgs 152/2006 il piano regionale dei rifiuti della Calabria del 2007 introduceva delle sostanziali novità rispetto al precedente piano di gestione del 2002. In particolare, proprio per quanto riguardava la raccolta differenziata, il piano aveva recepito l’obiettivo, previsto dal suddetto decreto, di raggiungere il valore del 65% al 2012. Tanto per rendersi conto del fallimento di una classe politica ed amministrativa che avrebbe dovuto governare i processi e non lo ha fatto basti ricordare che oggi, in Calabria siamo al 13-14% di raccolta differenziata: tutto il resto viene buttato via tal quale in discarica o va in inceneritore. Di trattamento meccanico biologico neanche se ne parla. Le discariche si riempiono molto prima del previsto, l’emergenza prosegue, si aggrava, e la normativa (sugli appalti) continua ad essere elusa, evitata, non rispettata per tentare di farne rispettare un’altra: quella sui rifiuti. Paradossale. E paradossale è che tutto ciò duri da anni. Non dimentichiamo: l’8 febbraio del 2007, sul Corriere della Sera, la Calabria campeggiò in prima pagina. A fare notizia quella volta fu la relazione del prefetto Ruggiero che, nel dimettersi dal suo ruolo di Commissario delegato per l’emergenza rifiuti in Calabria, parlò di “41 dipendenti fantasma, parcelle ad avvocati amici, bilancio su foglietti”. “Calabria, ambiente e il gioco di 864 milioni” fu il titolo scelto per l’articolo di Gian Antonio Stella che mostrava ai calabresi e agli italiani tutti le “Denunce e le accuse” contenute “nella relazione del commissario Antonio Ruggiero”. Un uomo serio che dimettendosi smascherava il misfatto. Fu il paradigma del fallimento della partitocrazia calabrese nella gestione dei rifiuti. Il giornalista si chiedeva allora se avesse ancora senso analizzare “una situazione amministrativa al confine tra la sciatteria e la criminalità”. Bisognerebbe rileggerle quelle parole prima di dire, ora in Calabria, che è emergenza. L’emergenza qui perdura da tantissimo. In quell’articolo Gianantonio Stella sottolineava come il Prefetto Ruggiero nella sua relazione ricostruiva “la sua esperienza alla guida dell’organismo voluto nel ’97, dopo l’ennesima emergenza”. “Sette capi ha avuto, in una manciata di anni, quel Commissariato. Quattro presidenti regionali e tre prefetti. Con proroghe su proroghe di poteri speciali usati, stando anche all’inchiesta giudiziaria intitolata a «Poseidone», malissimo. Al punto che, tra i numerosi indagati per una serie di reati che vanno dalla truffa aggravata all’abuso d’ufficio, finì anche l’ex governatore Giuseppe Chiaravalloti”. “Come finirà l’iter processuale si vedrà”, scriveva Stella nel 2007. Il processo è ancora in corso e noi, a distanza di tre anni, tocca ripeterlo. Ma quel rapporto del Prefetto Ruggiero, al di là degli aspetti penali, diceva già tutto allora e quanto avvenuto oggi ad Alli non è altro che la diretta conseguenza del perdurare di un’emergenza che, evidentemente, a qualcuno pur conviene. Quanto conviene? “Dal 1998 al 2006”, scriveva ancora Stella, il Commissariato “figura aver avuto entrate complessive per 692 milioni e mezzo di euro e uscite per quasi 645 milioni, tanto che al passaggio di consegne fu detto al nuovo commissario, con una «certificazione da parte della Tesoreria provinciale dello Stato» (sic) che c’era perfino un saldo di cassa di 45 milioni di euro. Una bufala: neanche il tempo di metter mano ai conti e saltava fuori «una pesante situazione debitoria»: oltre 223 milioni. Che non figuravano «né nei vari passaggi di consegne né nelle precedenti rendicontazioni».” Cos’altro avranno fatto dal 2006 ad oggi lo sapremo, forse, tra qualche anno. Sta di fatto che Alli chiude, l’ampliamento si è riempito pure lui prima del previsto a forza di rifiuti portati da tutta la Calabria, la raccolta differenziata è all’anno zero e l’emergenza, alla faccia del significato semantico stesso della parola, tragicamente continua. Quello che da cittadini, oggi, è necessario constatare oltreché l’acuirsi di una situazione emergenziale per la chiusura della discarica di Alli, è il fallimento totale della politica nella gestione commissariale, in deroga e in barba alle leggi vigenti e la necessaria urgenza di un ritorno alla legalità.

* articolo pubblicato su “Il Quotidiano della Calabria” del 19.08.2011

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Francesco Barbieri, l’anarchico di Briatico

L’utopia accende una stella nel cielo della dignità umana, ma ci costringe a navigare in un mare senza porti

 

Care amiche e amici di Abolire la miseria della Calabria,

è con immensa soddisfazione che annunciamo l’uscita del volume

Francesco Barbieri, l’anarchico di Briatico

Francesco Barbieri, l'anarchico di Briatico
Link in libreria

(Non Mollare edizioni, Agosto 2011, euro 10,00 (3,50 solo pdf), Pp 117, ISBN 9788890504013).

“Una vita rivoluzionaria. Un combattente per la libertà, la democrazia e la giustizia” sono le parole scelte per caratterizzare la prima pagina rigorosamente nera con scritte rosse per tre quarti e rossa con scritta bianca nella parte alta dove si leggono i nomi dei tre autori: Giuseppe Candido, Filippo Curtosi e Francesco Santopolo. Un lavoro a “sei mani e tre teste” che ha portato, dopo adeguate ricerche, ad un’analitica ricostruzione delle vicende storiche che coinvolsero l’anarchico calabrese antifascista e libertario, Francesco Barbieri.

Se è vero che la memoria collettiva è alla base dell’identità di un popolo, è altrettanto vero che un evento, per essere ricordato, necessita di un percorso di ricostruzione che permetta di segnare le linee di demarcazione tra ciò che vale la pena ricordare e ciò che può essere rimosso e consegnato all’oblio.

La società mediatica limita il tempo della memoria: gli eventi si accavallano con tempestività e tendono ad acquistare un’apparente neutralità che ne banalizza il significato e li priva di contenuto storico. Non è stato così per i subalterni la cui rimozione è stato un esercizio costante che il potere ha esercitato da sempre.

Così è stato per l’antifascista calabrese Francesco Barbieri (Briatico, 14 dicembre 1895- Barcellona 5 maggio 1937) detto “Cicciu u’ professuri”, schedato come “sovversivo anarchico” e, per questo, da rimuovere e cancellare e con lui il grande contributo che “i dannati della terra” (F. Fanon, 1961) hanno dato per la costruzione di una società a misura d’uomo”.

È con queste parole che si presenta ai lettori il saggio storico su Francesco Barbieri, l’anarchico di Briatico. Nell’ambito del progetto di valorizzazione del patrimonio storico e culturale calabrese, l’associazione di volontariato culturale Non Mollare, con la pubblicazione del volume su Francesco Barbieri, intende continuare a promuovere la conoscenza dei calabresi meno noti o, qualche volta, perlopiù ignoti ma che alla Storia hanno dato un loro personale contributo.

Nato in Calabria a San Costantino di Briatico, la storia di Francesco Barbieri, combattente antifascista, conosciuto col nomignolo di “Cicciu u’ professuri”, ha percorso i primi quarant’anni del ‘900. Partito da S. Costantino di Briatico a 26 anni, vi tornerà casualmente dopo l’estradizione dall’Argentina per riprendere subito il suo viaggio per il mondo, legando le sue vicende a quelle di grandi intellettuali come Camillo Berneri e Carlo Rosselli. Per Francesco Barbieri, l’Internazionalismo Proletario è stata una ragione di vita, fino all’estremo sacrificio consumato davanti alla canna di un mitra imbracciato da quelli che riteneva fossero della stessa parte.

Per sopravvivere, avrebbe dovuto scegliere: tra diventare ‘ndranghetista” o sbirro; Barbieri non sceglie né l’uno né l’altro: diventa libertario, socialista rivoluzionario, radicale e anarchico, con una pronta e decisa avversione al fascismo.

Un rivoluzionario libertario, assassinato da quelli che erano con lui a Barcellona per difendere la giovane repubblica, è l’evento più tragico che si consegna alla storia.

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A Vibo Marina, Pizzo e Francavilla Angitola concluse le manifestazioni per la Festa della Gente di Mare in onore di San Francesco di Paola

di Franco Vallone

Si sono svolte, nei giorni scorsi, le manifestazioni per la 18° Festa della gente di mare che per l’edizione 2011 hanno interessato le location di Vibo Marina, Pizzo e Francavilla Angitola. Uno dei momenti principali della festa è stata l’accoglienza ufficiale, presso il molo del porto di Vibo Marina, del pattugliatore d’altura “Luigi Dattilo”- CP 903, sotto il comando di Francesco Bove. Per l’occasione era presente alla cerimonia la signora Carlotta Dattilo, figlia di Luigi, Medaglia d’argento al Valor di Marina e madrina della nave al momento del varo. Hanno fatto gli onori di casa il capitano di fregata, Luigi Piccioli, comandante della Capitaneria di Porto di Vibo Marina, la sua vice Romanazzi, il comandante Domenico Malerba, della Guardia Costiera di Pizzo, il comandante Fausto De Caria, della Guardia Costiera di Amantea. Graditissimo ospite Giuseppe Galdoporpora, responsabile della confraternita di Benincasa di Vietri sul Mare, luogo dove è custodita la Sacra Reliquia della “Salvietta” di San Francesco da Paola. Presenti alla cerimonia il tenente colonnello della Guardia di Finanza, Giovanni Legato; una delegazione del Comune di Francavilla Angitola con il sindaco Carmelo Nobile, il vice sindaco, Antonella Bartucca e l’assessore Angelo Curcio e una folta delegazione dell’Associazione Marinai di Pizzo. Commovente il momento della consegna di un prezioso mosaico artistico raffigurante la “Nave Luigi Dattilo messa sotto la protezione di San Francesco di Paola” e realizzato dai giovani della cooperativa “La Voce del Silenzio” di Pizzo diretta da Adriana Maccarrone . Un gruppo di giovani della cooperativa, guidato da Francesco La Torre, direttore del centro di riabilitazione psichiatrica di Pizzo, ha proceduto alla consegna del mosaico nelle mani del comandante Bove, dopo la benedizione da parte del parroco di Vibo Marina, Saverio Di Bella. Il giorno successivo si è svolta la tanto attesa e tradizionale traversata, da Marina di Pizzo al Lido Colamaio 2, a bordo di barconi, gommoni e motovedette scortati dalla nave “Luigi Dattilo”. Filippo Di Francia , parroco di Pizzo Marina, ha benedetto la statua di San Francesco e la “Barchetta” a bordo dei barconi. Alla traversata hanno partecipato anche alcuni devoti calabro-australiani provenienti da Melbourne, luogo dove il santo paolano è molto venerato. Durante la traversata una doverosa sosta in ricordo del giovane subacqueo napitino, Giorgio Stingi, tragicamente scomparso proprio in quel tratto di mare. Allo sbarco è stata pronunciata la preghiera del marinaio con la benedizione e il lancio in mare di una corona d’alloro in onore di tutti i caduti. A Olivara di Francavilla Angitola, presso il viadotto di San Francesco di Paola, sono stati consegnati riconoscimenti a Lucrezia Galati da Sant’Onofrio e a Concetta Ciliberti Pungitore di Francavilla Angitola e al termine della cerimonia sono stati conferiti i Crest commemorativi realizzati dall’artista Giuseppe Farina. La “Festa della Gente di Mare ” organizzata , grazie all’impegno di Vincenzo Davoli, Gianfranco Schiavone e Giuseppe Pungitore, curatori del sito internet www.francavillaangitola.com, di Giovanni Bianco, e Emanuele Stillitani, della Proloco di Pizzo, di Franco Di Leo del Centro Italiano Protezione Civile di Pizzo, di Francesco La Torre , responsabile del reparto di Riabilitazione Psichiatrica di Pizzo, di Adriana Maccarrone, presidente della Cooperativa Sociale “La Voce del Silenzio” Onlus di Pizzo, con il sostegno del Vescovo di Mileto, dei Padri Minimi e del clero diocesano, di varie associazioni di volontariato e protezione civile e con la collaborazione della Guardia Costiera, enti e autorità civili e religiose, risulta essere, secondo gli organizzatori, la più importante festa della gente di mare organizzata in Italia.

 

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Il mare inquinato, la bandiera nera e la fitodepurazione

di Giuseppe Candido

Ancora una volta i dati impietosi di Goletta Verde presentati lo scorso 21 luglio smentiscono i tentativi dell’Arpacal di esaltare la “balneabilità” del mare calabrese e certificano tragicamente la situazione di forte inquinamento del mare e la criticità del sistema della depurazione calabrese. Non militiamo del “partito” del mare sporco a tutti i costi ma, ancora una volta nostro malgrado, affianco alle bandiere blu per alcuni e rari lidi di eccellenza siamo costretti tristemente ad esporre su molti dei nostri litorali la bandiera nera e piratesca per il forte inquinamento. Ci spiace dover leggere sui giornali che, anche quest’anno, il nostro mare risulta inquinato, o addirittura fortemente inquinato proprio a causa di una scarsamente efficiente depurazione. A ridosso della bandiera nera di Legambiente, la Regione stanzia finalmente 38 milioni di euro, ma cosa ne sarà di questi soldi? Altri depuratori che non risolvono e non convengono per gli elevati costi di gestione? Sulla costa ionica catanzarese, solo per fare un esempio stretto sulla realtà che ci sta sotto gli occhi, dai dati presentati da Goletta emerge come Sellia Marina e Cropani abbiano le aree fortemente inquinate proprio nelle zone antistanti le foci delle fiumare Uria e Scilotraco su cui scaricano i due depuratori comunali. Enterococchi ed Escherichia coli fanno da padroni. Ed anche io personalmente, dopo i primi bagni, ho dovuto combattere contro un’infezione oftalmica. Quello che si palesa anche quest’anno nei dati di Legambiente è la assai forte criticità dei sistemi depurativi calabresi che, proprio durante i periodi di picco delle presenze estive, risultano in molti casi sotto-dimensionati e non in grado di svolgere adeguatamente il compito di depurare le acque prima di immetterle nel corpo recettore, sia esso fiume, suolo o direttamente in mare. Eppure una soluzione, un metodo di depurazione alternativo e integrativo a questo evidente “fiasco” tecnico-istituzionale ci sarebbe e si chiama Fitodepurazione: un metodo innovativo per integrare la depurazione tradizionale con un sistema a più bassi costi sia di realizzazione sia, soprattutto, di gestione. Come presidente del “Comitato di tutela dell’ambiente di Sellia Marina”, lo scorso mese di dicembre, in tempi non sospetti ed utili, per l’amministrazione comunale di Sellia Marina per realizzare un intervento concreto avevamo organizzato un convegno-dibattito sul tema “Fitodepurazione: conviene? Risolve?” assieme ad una raccolta di firme per una petizione per chiedere al Sindaco Giuseppe Amelio di Sellia Marina di valutare la possibilità di adottare un sistema fitodepurativo ad integrazione dei due impianti di depurazione già esistenti e che, soprattutto durante il periodo estivo, risultano fortemente sotto-dimensionati. La fitodepurazione rientra fra i trattamenti di “depurazione naturale” suggeriti dalla vigente normativa (Allegato n°5 alla parte terza del D.lgs. 152/06 che purtroppo, nella nostra Regione, risulta scarsamente utilizzato solo per il trattamento di reflui provenienti da piccole comunità (perlopiù insediamenti rurali), mentre tali tecnologie non vengono ancora applicate al trattamento, o affinamento, di acque reflue provenienti da agglomerati urbani di medie dimensioni. Ciò probabilmente a causa proprio dei suoi bassi costi di realizzazione e di gestione che non consentono di lucrare in progettazioni ed appalti. Il dott. Fausto Caliò, geologo responsabile delle autorizzazioni agli scarichi per tutta la provincia di Catanzaro pur non potendo partecipare a quel convegno per ragioni personali ci aveva confortato con una sua nota nella quale si leggeva testualmente che qualora fosse realizzato l’impianto fitodepurativo proposto nella petizione collegata a tale convegno, esso costituirebbe certamente un interessante prototipo per la nostra provincia, da monitorare attentamente per ulteriori simili applicazioni”. Purtroppo ciò nonostante da allora nulla si è mosso e nulla ancora si muove negli uffici comunali: non un progetto, non uno studio di fattibilità per valutarne concretamente i costi di realizzazione e trovare i fondi per finanziare il potenziamento degli impianti. Tutto ciò, pensato per Sellia Marina e la costa ionica del catanzarese ma facilmente estensibile a quasi tutti i comuni in cui la depurazione in estate fa tilt, ci dà in effetti la misura dell’incapacità di una classe politica interessata ed impegnata soltanto a fabbricare consenso, a gestire aziende partecipate, ma non già a risolvere i problemi concreti della gente come il mare inquinato e raccolta differenziata dei rifiuti.

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Cibo, cultura, evoluzione: la straordinaria storia del pane

di Francesco Santopolo

Premessa

La storia proposta in queste note non ha inteso seguire l’intero percorso di un cibo che ha accompagnato l’uomo nel suo cammino ma si ferma nel punto in cui la panificazione inizia a presentare una sostanziale omologazione di processo, fatta eccezione per alcune differenze che ancora resistono in varie parti del mondo, conservando specificità ascrivibili alla storia dell’uomo, dei luoghi in cui vive e delle risorse di cui dispone.

Per l’Europa, questo momento si può far coincidere con il Medioevo, quando la tecnica panificatoria è già definita nelle sue linee essenziali, pur facendo registrare adattamenti tecnologici in età moderna e contemporanea. È parere di chi scrive che la tecnologia, nel passaggio da una manifattura artigianale ad una manifattura industriale, non abbia modificato il processo ma si sia limitata ad imprimervi un’accelerazione e ad introdurre sistemi di controllo, a partire dal momento in cui le biotecnologie sono passate dall’applicazione affidata a metodi e tradizioni della cultura popolare (Pre- Pasteur Era), a quella legata alle scoperte di Pasteur sui microbi come agenti attivi della fermentazione (Pasteur Era) e alla scoperta degli antibiotici (Antibiotic Era).

In sostanza, poiché in molti passaggi il lavoro umano è stato sostituito dalle macchine, sono cambiati gli “attori” del processo ma questo è rimasto sostanzialmente invariato, salvo la perdita di alcuni caratteri organolettici che solo la manualità può conferire al prodotto.

Cibo come cultura

Sebbene si tenda a relegare l’alimentazione e il cibo nell’ambito ristretto delle esigenze fisiologiche, non v’è dubbio che essi rappresentino un punto di osservazione privilegiato, tanto per etnologi e antropologi, quanto per gli storici. Questo perché, le relazioni tra cibo, modo di procurarselo e modo di consumarlo, sono in stretta connessione con le risorse dei luoghi abitati dagli uomini, dei rapporti sociali, della cultura e degli atteggiamenti mentali di ogni popolazione e rappresentano uno dei tratti evolutivi che hanno accompagnato l’uomo nel suo cammino.

Facciamo un esempio estremo: le larve del Punteruolo rosso, che preoccupano il nord del mondo perché considerate una minaccia per la sopravvivenza delle palme, per alcuni popoli della Papua Nuova Guinea rappresentano una fonte importante di ferro e zinco e soddisfano fino al 30% del loro fabbisogno proteico (Martin et al., 2000).

Non è per caso che Claude Lévi-Strauss abbia “costruito” la sua Mitologica sul cibo e sulle connessioni tra questo e le altre funzioni vitali (espellere, fecondare, riprodursi) e che storici e antropologi abbiano fornito testimonianze importanti su queste interconnessioni e su come e perché la storia dell’alimentazione può essere “un buon punto di osservazione per ricostruire le condizioni di vita della popolazione e verificare l’incidenza concreta, quotidiana, che una certa struttura economico- sociale ebbe sulla vita degli uomini. A patto, s’intende, di non considerare il tema del consumo alimentare in modo aneddotico ma di coglierlo nella dimensione sociale- come a dire, storica- che gli è propria” (Montanari, 2004).

Res non naturalis definirono il cibo medici e filosofi antichi, a cominciare da Ippocrate, includendolo fra i fattori della vita che non appartengono all’ordine «naturale», bensì a quello «artificiale» delle cose. Ovvero, alla cultura che l’uomo stesso costruisce e gestisce” (Montanari, 2004). Il cibo è cultura quando si produce, è cultura quando si trasforma, è cultura quando si consuma e questi atti, considerati singolarmente o come insieme, riflettono i valori di riferimento di un popolo e ne tracciano la storia.

Una storia che parte da lontano

Tra 3,7 (Tobias) e 5 milioni di anni fa (Jhoanson e White), dalle prime scimmie antropomorfe, comparse verso la fine dell’Era Terziaria, emergerà il genere Homo. Punto di partenza di questa fase evolutiva era stato il Ramapithecus che si era evoluto nell’Australopithecus afarensis.

A tre milioni di anni si genera un “cespuglio” genetico: gli Australopiteci vanno ad imbucarsi in due “nicchie” senza sbocco: da una parte A. africanus e A. robustus, dall’altra A. aethiopicus e A. boisei. Sul terzo ramo si colloca l’Homo habilis, seguito dall’Homo erectus e dall’Homo sapiens e, infine, dall’Homo sapiens sapiens che dovrebbe identificarsi con il nostro stadio evolutivo, salvo, ovviamente, alcune debite eccezioni che si muovono nel segno della regressione. Le ricerche e i ritrovamenti fossili non consentono ancora di stabilire con precisione come e perché sia avvenuto il passaggio dal Ramapithecus agli Austrolopiteci e alla specie Homo.(R. Leackey et al. 1979) ma sono state trovate sufficienti tracce per seguire l’evoluzione dell’Homo erectus, tra l’altro ricostruite magistralmente da Roy Lewis (1992) nel romanzo “Il più grande uomo scimmia del Pleistocene”.

Protagonisti del romanzo di Lewis, sono Edward e la sua famiglia.

Edward è il prototipo della ricerca evolutiva. Arriverà ad “inventare” il fuoco, semplicemente trasportandolo all’accampamento con un ramo acceso alla fiamma di un vulcano in eruzione, “fonderà” il matrimonio esogamico, la politica e la retorica. Accanto ad Edward troviamo altri due prototipi: il reazionario zio Vania che rifiuta l’innovazione e sceglie di continuare a vivere sugli alberi e il fratello Ian, tornato da un viaggio in Francia, Cina, India e Arabia e in procinto di ripartire per l’America (Lewis, l. c.). L’immaginazione letteraria di Lewis si basa su un dato accertato.

Circa un milione di anni fa, l’Homo erectus cominciò la sua lunga marcia spostandosi dall’Africa all’Asia e poi in Europa, mosso da una spinta evolutiva che lo porterà ad esplorare nuovi spazi e a sperimentare le proprie capacità di adattamento e acquisire nuovi caratteri (Leackey et al., l. c.)

Questa non è la sola eredità che ha lasciato il nostro antenato. Questo ominide aveva anche iniziato ad osservare la natura e ad utilizzarne i prodotti spontanei. Scoprì i cereali, cominciò a nutrirsene e, presumibilmente, dopo averne consumato per molto tempo i semi crudi che inumidiva nella bocca, iniziò a frantumarli fra due pietre e a bagnarli per renderne più agevole la masticazione.

Ma la fantasia dell’Homo erectus non si fermò al semplice rudimentale impasto e, casualmente, imparò che posto a riposare su una pietra esposta al sole, acquistava un sapore particolare.

Con la scoperta del fuoco imparò a cuocerlo regolarmente, come già aveva iniziato a fare con la carne degli animali abbattuti. Senza entrare nella controversia tra natura e cultura, possiamo convenire che il passaggio dal crudo al cotto rappresenta “il momento costitutivo e fondante della civiltà umana”(Montanari, l. c.). E non c’è alcuna contraddizione se con Il crudo e il cotto (1974) Lévi-Strauss fa emergere una contrapposizione tra stato di natura e stato di cultura e con Dal miele alle ceneri (1970) compie una svolta e mette in relazione un cibo già pronto (il miele) con uno che deve essere bruciato (il tabacco) perché questo “non toglie che nella rappresentazione simbolica che gli uomini hanno storicamente dato di sé, il dominio del fuoco e la cottura degli alimenti siano stati percepiti come il principale elemento di costruzione dell’identità umana e di evoluzione dallo stato «selvatico» alla «civilizzazione»”(Montanari, l. c.). L’uomo è il solo animale che “costruisce” il proprio cibo e anche quando si nutre di prodotti naturali tal quali, lo fa “preparandoli” (verdure condite con altri ingredienti) per renderli più nutrienti o appetibili o, semplicemente, per ostentare uno status (macedonie, dolci). Dalle prime esperienze dell’Homo erectus, la storia dell’uomo e del pane riparte con la scoperta e la successiva domesticazione dei cereali, processo che ha segnato il passaggio da una società di cacciatori- raccoglitori nomadi ad una società stanziale dedita all’agricoltura. Si può tentare di dare un senso a questo mistero evolutivo, ricostruendo per sommi capi la nascita dell’agricoltura che la maggior parte degli studiosi fissa a circa 8-9000 anni a. C. (Anderlini, 1981; McKibben, 1989; Leakey et al., 1979 e 1980), mentre per altri si sposta di qualche migliaio di anni (Bairoch, 1999, vol. I; Diamond, 2006). La differente datazione è legata a problemi di metodo (1) ma, in linea di massima, uno scostamento di mille- duemila anni in un tempo così lungo, non infirma la possibilità di tentare un esame comparato che ricostruisca il rapporto e il complesso di relazioni che l’uomo riesce a stabilire con l’ambiente e con gli altri organismi viventi con i quali divide spazio e risorse trofiche.

Questa ricostruzione deve necessariamente partire dalla scoperta dell’agricoltura, momento che si fa convenzionalmente coincidere con la fine della preistoria.

McCorriston e Hole (1991) sostengono che l’agricoltura sarebbe comparsa tra gli 80 e i 150 km dal Mar Morto attorno a 10.000 anni fa, ossia -8.500/-8.000 nel Medio Oriente, -6.000/-5.000 nell’Asia propriamente detta, – 5.000 in Africa, -7.000/-6.500 nelle Americhe -6000/-6500 in Europa (Bairoch, l. c.). Questo processo potrebbe aver seguito due vie: scoperta spontanea e diffusionismo.

Nonostante le discussioni che ancora affascinano alcuni ricercatori, crediamo che le due ipotesi coesistano, piuttosto che collidere. In Italia, per esempio il modello fu portato da immigrati che provenivano dall’oriente nel 5500 a. C. circa (Rossini et al., 1987) ma in zone del mondo lontane tra loro si hanno quasi contemporaneamente segni dell’inizio di un processo che doveva cambiare il modello di vita dell’uomo. Tracce sono state trovate alle foci dell’Indo, nella penisola di Shantung, tra Pechino e Nanchino, alle foci del Fiume Giallo (Leakey et al., 1979). Tuttavia, quando si dice che l’agricoltura si affermò nella Mezzaluna fertile, si intende che qui ebbe un carattere di continuità mentre in altre zone subì vicende alterne, come in Mesoamerica dove si tornò più volte all’economia di caccia e pesca e l’agricoltura, pur essendo comparsa da circa 10.000 anni, dovette aspettare 6-7.000 anni per diventare un modello stabile, con la coltivazione di mais, zucche e fagioli (Leakey et al., l. c.).

Il nuovo modello doveva determinare altri cambiamenti. Primo, fra tutti, la crescita demografica.

Si stima che, fino al 12- 10.000 a. C., nel mondo si contassero poco meno di un milione di abitanti e solo dalla rivoluzione neolitica in avanti, la popolazione mondiale comincia a crescere, sia pure lentamente, raggiungendo circa duecento milioni nel primo anno dell’era cristiana.

Con la nascita dell’agricoltura gli uomini potevano disporre di nuove risorse alimentari e si spostavano frequentemente alla ricerca di nuove specie vegetali da domesticare e di luoghi più adatti per coltivarli. La scoperta dell’allevamento ha consentito di percorrere la stessa strada, allargando gli orizzonti dell’uomo e fornendogli sufficienti risorse per riprodursi.

Questi eventi, solitamente indicati come spartiacque tra storia e preistoria, hanno fatto intravvedere nella nascita dell’agricoltura la fine della preistoria ma, in realtà, la storia non coincide con la produzione di beni ma con quella del surplus e degli scambi perché, quando alla “produzione di mezzi di sussistenza, di generi per l’alimentazione, di oggetti di vestiario, di abitazione e di strumenti necessari per queste cose ha corrisposto [] la riproduzione degli uomini stessi: la riproduzione della specie” (Engels, 1963) che porterà, da una parte, alla produzione di surplus da scambiare e, dall’altra, alla divisione del lavoro.

L’uomo non è più soggetto alla natura ma inizia a dominarla per i propri interessi iniziando un percorso che doveva portarlo verso le società moderne.

Il dominio dell’uomo sulla natura comincia con la domesticazione di piante e animali:

Domesticazione indipendente di piante e animali indigeni:

Località Piante Animali Data*
Vicino Oriente Grano,piselli,olivo Pecora, capra 8.500 a.C
Cina Riso, miglio Maiale, baco <7.500 a.C
Mesopotamia Mais.fagiolo,zucca Tacchino <3.500 a. C.
Ande/Amazzonia Patata,manioca lama, cavia <3.500 a.C
USA est Girasole,chenopodio Nessuno 2.500 a:c.
Sabel (?) Sorgo,riso Gallina faraona <5.000 a. C.
Africa equatoriale Igname, palma Nessuno <3.000 a. C.
Etiopia (?) Caffè, teff Nessuno Non nota
Nuova Guinea (?) Banana, canna da zucchero Nessuno 7.000 a. C. (?)

E, analogamente, l’uomo fece con specie non indigene:

Località Piante Animali Data*
Europa ovest Papavero, avena Nessuna 6-3.500 a.C
Valle dell’Indo Sesamo, melanzana Bovini asiatici <7.000 a.C
Mesopotamia Mais, fagiolo,zucca Asino, gatto <6.000 a. C.

*Data più antica

Fonte: Diamond, l. c.. Modificato.

A supporto di una società in evoluzione compariranno “in varie parti del mondo i primi villaggi, i primi insediamenti umani certi in Nordamerica. Finisce, con l’ultima glaciazione, il Pleistocene e inizia l’era geologica più moderna, chiamata Olocene o Postglaciale” (Diamond, l. c.).

Siamo ancora in una fase in cui la densità della popolazione è molto bassa, varia con le condizioni climatiche e sarà solo dopo la comparsa dei primi villaggi che, con l’economia del surplus, si creeranno le premesse per la nascita delle città databile, almeno in Mesopotamia, attorno al 6-5000 a. C. (Sjoberg, 1980), perché “L’esistenza di un vero e proprio centro urbano non presuppone semplicemente un surplus alimentare, ma anche la possibilità di immagazzinare e scambiare questo surplus” (Bairoch, l. c.).

La nascita delle città, che gli Australiani hanno definito “tirannia della distanza che si aggiunge alla tirannia dell’agricoltura” (Bairoch, l. c.), riduce il valore economico del surplus. I costi e le difficotà di trasporto, abbinati alla bassissima densità di popolazione delle società preneolitiche, spiegano perché non fosse possibile la comparsa di città vere e proprie prima di questi eventi.

Quasi contemporaneamente alle città nasceranno la scrittura (Godart, 1992) e la matematica (Kline, 1999), come strumenti indispensabili per regolare gli scambi e supportare il nuovo modello.

All’inizio l’uomo è concentrato sui prodotti essenziali per la sopravvivenza (farro, grano, mais, riso) ma, quando con il surplus di produzione, cominciano gli scambi e fanno la loro comparsa i consumi di status, legati alla maggiore disponibilità di risorse, l’interesse si sposta su altri beni.

Con gli scambi ha inizio un massiccio ricorso all’emigrazione che, sebbene in tempi storici abbia assunto caratteri peculiari, è un fenomeno antico nella storia dell’uomo, anzi è iniziato nelle società pre- umane con l’Homo erectus. I gruppi di Homo erectus che, circa un milione di anni fa, attraversando una piccola striscia di terra arida, si spostarono dall’Africa in Asia e poi raggiunsero l’Europa se, da una parte, “rappresentavano le avanguardie della definitiva conquista della terra da parte della popolazione umana” (Leakey et al.,1979), dall’altra non può essere considerata soltanto “la migrazione di un popolo alla conquista di nuovi spazi” (Leakey et al., l.c.) se consideriamo che alla vigilia della rivoluzione neolitica, si stimava una densità di 9 abitanti per km quadrato per le aree tropicali, di 0,1 per l’Europa occidentale e di 1 ogni 150-350 per le zone artiche (Bairoch, l. c.)

È lecito, piuttosto, convenire che “La diffusione di Homo erectus nei continenti settentrionali fu [] la conseguenza inevitabile di un particolare sforzo evolutivo” (Leakey et al.,l. c.).

Il pane entra nella storia

Le prime sperimentazioni di coltivazione in Medio Oriente risalgono almeno al 7.000 a. C., ma è con l’arrivo dei Sumeri che l’agricoltura farà un grande balzo in avanti, grazie alla loro abilità nell’uso dell’acqua per l’irrigazione. A partire dal periodo di Uruk, venne introdotto l’aratro a trazione animale e l’irrigazione estensiva, favorendo così una ricca produzione agricola.

Per superare i problemi di siccità, i campi erano realizzati nelle aree adiacenti ai canali e posti più in basso rispetto a questi, per permettere all’acqua di defluire naturalmente.

I campi erano sistemati con il lato corto vicino al canale e venivano irrigati e arati in senso longitudinale disponendo le coltivazioni a “doppio pettine”. Il ricorso alla rotazione biennale (riposo/coltivo), consentiva economia di acqua e mantenimento della fertilità. Le zone adiacenti ai canali erano destinate alla coltivazione di cipolle, aglio, legumi e palme da dattero e solo i terreni non irrigabili venivano destinati a cereali, principalmente orzo e frumento. Alcuni campi venivano abbandonati per eccessiva salinizzazione dovuta al pessimo drenaggio che portava all’accumulo di sali nello strato arabile. Questo spiega perché nei territori pianeggianti del sud mesopotamico predominava l’orzo, notoriamente più resistente alla salinità, mentre nella parte settentrionale c’era un sostanziale equilibrio fra orzo e frumento. Per la semina dei cereali che, in generale, si effettuava contemporaneamente, veniva usata una seminatrice, mentre la mietitura prevedeva l’impiego di gruppi di tre uomini: uno per falciare, uno per formare i covoni e un terzo, probabilmente, per guidare l’attività degli altri due. Dopo la mietitura passavano i carri trebbiatori per separare le spighe dal culmo e un carro per raccogliere i chicchi. Il riparto del prodotto era pari a 1/3 per il coltivatore e 2/3 come riserva da portare nel magazzino del tempio o del palazzo.

Già nel terzo millennio a. C. si consumavano focacce, come è stato possibile rilevare da una tavoletta di Nippur in cui è scritto: «Quando mi alzavo presto la mattina, mi volgevo a mia madre e le dicevo: “Dammi la colazione, devo andare a scuola!”. Mia madre mi dava due focacce e io uscivo; mia madre mi dava due focacce e io andavo a scuola».

Importanti ritrovamenti archeologi, ci dicono che, già nel 4000 a. C., in Egitto si usava panificare in diverse varietà, tra cui il pane dolce e un’antenata della pizza.

La contemporanea disponibilità di orzo, farro e avena portava gli Egizi ad utilizzarli macinandoli e impastandoli contemporaneamente. Plinio il Vecchio (1984) ricorda che in Egitto si otteneva farina anche dall’olira” (la terza specie di spelta, n. d. r.).

L’iscrizione “io coltivai il grano, venerai il dio del frumento in ogni valle del Nilo. Nessuno ha mai conosciuto fame o sete durante il mio regno”, attribuita al faraone Amenemhat I (XII dinastia, circa 2040 a.C.), rende l’idea di come l’agricoltura fosse l’attività più importante dell’antico Egitto e la coltivazione del frumento quella cui si affidava la prosperità del paese.

L’inondazione corrispondeva per gli Egizi alla fase Alchet, quella successiva, quando il Nilo si ritirava lasciando i campi generosamente fertilizzati, era la fase Peret,. La terza fase,detta Shonon, corrispondeva al periodo meno piovoso dell’anno. Gli strumenti utilizzati erano l’aratro di legno, la zappa con una larga lama di legno e la falce per mietere.

La razione dei soldati reali comprendeva circa due chili di pane a testa ma il consumo maggiore era riservato alle classi più umili, tanto che gli Egizi erano stati soprannominati dai greci artophagoi (mangiatori di pane).

L’alimentazione era integrata con cipolle, porri, meloni, cetrioli, fagioli, sedano, fave, ceci, lenticchie e lattuga. Per l’irrigazione gli Egizi non avevano attinto alla scuola sumerica e il loro sistema consisteva nel trasportare l’acqua nelle giare, anche se, dal contatto con la Siria avevano appreso lo Shaduf che era un metodo per sollevare le acque

Gli Egizi, per fare mattoni, utilizzavano anche la paglia pressata, tagliuzzata, mischiata a fango e seccata al sole.

La macina del grano era affidata alle donne e con la farina ricavata si facevano pane e focacce salate o arricchite con semi di sesamo o di papavero. Con l’aggiunta di uva o miele, si facevano i dolci.

Tornando al pane, dopo i primi passi si trattava di affinare ulteriormente la tecnica e dopo qualche secolo si scoprirono casualmente gli effetti della fermentazione (5.000 a. C.) che si avviava spontaneamente se l’impasto veniva lasciato per un giorno all’aria prima di cuocerlo, anche se una leggenda riferisce che la fermentazione si era avviata accidentalmente quando le acque del Nilo avevano inondato i magazzini in cui era conservata la farina.

Gli Egizi utilizzarono ugualmente la farina bagnata ed ebbero modo di scoprire gli effetti della fermentazione.

Poi si passò alla frantumazione dei semi di cereali in un mortaio e alla separazione al setaccio della parte nutritiva del chicco dall’involucro che lo racchiude. Più tardi la cottura cominciò ad essere fatta al chiuso, in un vaso o in una buca scavata nel terreno e riscaldati dal fuoco.

Quando la temperatura era abbastanza alta, il fuoco veniva spento e, tolta la cenere, si introduceva il pane, prima di chiudere il vaso con un coperchio o la buca con una grossa pietra.

Poi vennero i primi forni in argilla che avevano forma conica. Sulla parte esterna veniva poggiato il pane che cadeva a terra quando la cottura si era completata.

Anche la lievitazione fu una scoperta casuale.

Il primo fattore lievitante utilizzato, oltre alla pasta acida, sembra essere stata la birra che una serva egizia avrebbe versato inavvertitamente sull’impasto. La paura di essere punita, la indusse a tacere sull’accaduto ma l’incidente consentì di ottenere un pane più soffice e fragrante che portò ad adottare la lievitazione come prassi normale nella preparazione del pane e la pratica fu in seguito adottata in Mesopotamia, Creta, Grecia e Magna Grecia.

Un’altra versione vorrebbe che siano stati i cuochi alla corte dei Medici di Firenze a utilizzare il lievito di birra per migliorare la lievitazione del pane, e che questa pratica sia poi stata esportata in Francia da Maria de’ Medici, moglie di Enrico IV (Barbieri, 2006).

Successivamente si affinò la tecnica di cottura con la costruzione di forni internamente divisi in due parti: nella parte inferiore ardeva il fuoco, in quella superiore cuoceva il pane.

Dalla Mesopotamia e dall’Egitto, che erano state culla di civiltà dal Neolitico in avanti, il modello del pane cominciò a farsi strada in altre parti del mondo.

Secondo Strauss (2009), al tempo in cui gli storici collocano la guerra di Troia (ca. 1.200 a. C.), i Greci si nutrivano ancora di lenticchie e orzo tanto da osservare con meraviglia e invidia la piana di Troia coperta di messi di grano. Ma è solo la congettura di uno storico che tende a connotare di arretratezza la cultura alimentare e l’agricoltura greche, le cui caratteristiche generali si muovevano già attorno alle colture mediterranee: cereali, vite e olivo (Gallo, 1997) e “Per quanto riguarda i cereali, che hanno un ruolo di primo piano nel consumo alimentare (secondo una stima attendibile, forniscono il 70-75 per cento del fabbisogno calorico complessivo), ancora predominante in epoca classica […] è la coltivazione dell’orzo, che resiste meglio ai mutamenti climatici e assicura rendimenti più elevati” (Gallo, l.c.).

In realtà, la Grecia ha pochi terreni coltivabili e “La più limitata diffusione del frumento, che è il cereale più adatto alla panificazione […] è del resto sottolineata dalla marcata specializzazione regionale di tale coltivazione, che, ad eccezione della Tessaglia, appare per lo più tipica di aree situate al di fuori della madrepatria greca (la Libia, la Tracia e, soprattutto, il Ponto)” (Gallo, l. c.).

Disponiamo, però, di altre notizie che confermano che in Grecia si faceva uso di grano almeno tre secoli prima della guerra di Troia. Si tratta delle tavolette in Lineare B trovate a Pilo e Cnosso.

In “Una fondamentale tavoletta di Pilo [si] indica in quantità di semenza di grano” (Musti, 1989). Ritroviamo il pane e la focaccia in Aristofane (I Cavalieri, 424 a. C.), quando Salsicciaio dice ”E io giuro sui pugni e le coltellate che ho preso fin da ragazzo, che ti batterò invece, se no, inutilmente sarei cresciuto a tozzi di pane” e Demostene risponde“A tozzi di pane come un cane?” Poi, Paflagone dice a Salsicciaio: “Ti porto una focaccia impastata con l’orzo di Pilo” e Demostene “L’altro giorno avevo impastato a Pilo una focaccia laconia”. Per inciso, la focaccia laconia era fatta con grano comune (cfr. Plinio il Vecchio, l.c.).

Il nutrimento base della popolazione greca era costituito da cereali impastati con acqua e cotti per fare “polente” e minestre, oppure cotti direttamente sul fuoco in forme di pani e focacce.

Generalmente si accompagnavano a frattaglie cotte di animali, trippa arrostita in pentola; oppure a verdure crude o cotte condite con olio, insalata o formaggi. Da tutte le fonti (tra cui l’Odissea) risulta che nella Grecia antica si fece grande uso di frumento e di orzo.

I greci avevano ben 72 tipi di pane e il compito della panificazione era affidato alle donne, per divenire un lavoro maschile quando si cominciò a panificare di notte perché al mattino si potesse disporre di pane fresco.

Passando ad altre aree, nel Lazio, in piena età del ferro, non si coltivavano grani superiori a cariosside nuda ma orzo, il cui pappone sarà poi denominato polenta e, soprattutto, farro (far o adoreum) che in realtà era il Triticum dicoccum (Scrk.) e non il Triticum spelta (L.).come erroneamente è stato identificato da qualcuno (Pucci, l. c.).

Tuttavia, “poiché le due specie sono distinguibili con difficoltà all’analisi botanica, converrà limitarsi a dire che nei contesti più arcaici di Roma finora studiati (una ventina) farro e/o spelta assommano complessivamente al 58 per cento della produzione del Lazio tra X e VII secolo” (Pucci, l. c..) e, nonostante avessero a disposizione un territorio fertile per la coltivazione di cereali più pregiati, si dedicavano alla coltivazione del farro, da cui il termine farina per indicarne il prodotto di frantumazione. Carattere distintivo dell’agricoltura del Lazio, rispetto ad altre regioni, era la prevalenza dei cereali inferiori mentre in Etruria, per esempio,”si coltivavano le specie più nobili” (Pucci, l. c.). “Dovunque si poteva, diverse specie di cereali erano coltivate insieme [per] limitare il rischio di un cattivo raccolto [e] questo insieme di cereali, che comprendeva anche il miglio, il panico, l’avena e la segale (lo stesso che in età medioevale sarà chiamato mestura) costituiva la farrago” (Pucci, l. c.).

La farrago che, inizialmente, costituiva il cibo base dell’alimentazione umana, “col tempo decadde a foraggio per gli animali, e come tale viene trattata dagli scrittori de re rustica” (Pucci, l. c.).

Fino alla scoperta del maggese (tra VIII e VI secolo), le popolazioni del Lazio adottarono “i sistemi più elementari del «campo ad erba» ossia del campo abbandonato fino a che non ricostituisce la sua fertilità, o quello del debbio, per il quale si disbosca e poi si brucia il legno per fertilizzare la radura, coltivandola fino al suo esaurimento” (Pucci, l. c.).

Dalle focacce salate ricavate dalla farina di farro i Romani, a contatto con i greci, passarono al pane di frumento lievitato e costruirono i primi forni pubblici in cui lavoravano fornai greci portati a Roma come schiavi.

Ma “È noto tuttavia che per un lungo periodo i Romani si cibarono di puls e non di pane” (farinata ottenuta facendo bollire cereali macinati in acqua o latte, n. d. r.). e che “di tutti i cereali presso il popolo romano per 300 anni fu usato solo il farro” (Plinio il Vecchio, l. c.).

L’alimentazione antica di Roma e dei territori contermini era basata sui “cereali a cariosside vestita [che], per essere consumati, devono essere prima private delle glume. Perciò essi erano usualmente torrefatti” (Pucci l. c.) e “La preparazione della farina di farro […] presenta nella società arcaica un’importanza politico- sociale direttamente proporzionale all’importanza politico- religiosa di questo alimento” (Pucci, l. c. Si veda anche F. Toubert, 1973).

Per il suo carattere rituale, la preparazione della farina di farro era affidata alle Vestali, con un procedimento particolare: “I chicchi venivano prima torrefatti, poi battuti e infine macinati. Con la farina così ottenuta e il sale si preparava la mola salsa, indispensabile per ogni genere di sacrificio, immolare, ossia cospargere di mola salsa la vittima, divenne sinonimo di sacrificare” (Pucci, l. c.).

In febbraio si celebravano i Fornacalia, feste dedicate alla dea Fornax per celebrare la torrefazione del farro e l’immissione al consumo del prodotto dell’anno precedente (Pucci, l. c.), nota, anche, come Festa degli sciocchi “perché nei tempi antichi i coloni erano inesperti, tostavano troppo il farro e talvolta bruciavano anche le loro capanne” (Ferrari, l. c.).

Il farro da utilizzare per la semina non doveva essere tostato.

Nel mito di Ino, moglie di Atamante, si dice che abbia fatto tostare i chicchi destinati alla semina. Naturalmente il grano non spuntò e Ino fece accusare del misfatto, per sbarazzarsene, i figli di primo letto del marito, (Ferrari, 2008)

Per la panificazione, i romani utilizzavano due tipi di lievito.

Il primo consisteva di miglio mescolato al vino dolce e lasciato a fermentare per un anno, il secondo di crusca di frumento lasciata a macero per tre giorni nel vino dolce e poi fatta essiccare al sole (Plinio il Vecchio, l. c.).

In questo periodo erano già state messe a punto le macine di pietra di lava che si facevano ruotare con la forza motrice degli schiavi o degli animali. A Vitruvio si deve l’invenzione del mulino ad acqua ma la tecnica si diffuse solo dopo che Quinto Candido Benigno fece costruire in Francia otto mulini mossi contemporaneamente dall’acqua.

In epoca feudale i contadini, in cambio del lavoro nei campi, ricevevano una parte del raccolto ma erano obbligati a cuocere il pane nel forno del padrone.

Il pane del contadino era fatto con poca farina e molta crusca. Spesso venivano utilizzati cereali minori come il miglio e il pane destinato ai poveri si chiamava “pan rozzo”, mentre ricchi, nobili e “cittadini” consumavano carne e pane bianco di cereali.

Nel Medioevo, quindi, l’agricoltura comincia ad identificarsi con i cereali e questa scelta traccerà un preciso spartiacque che delinea lo status sociale.

Il frumento viene coltivato solo per i ricchi e i cittadini, per i poveri e i contadini vengono utilizzati in misura massiccia i cereali minori.

Questo non denota “la decadenza della coltura del frumento e il predominio assunto dai grani inferiori” (Montanari, 1979) ma rappresenta una scelta determinata dal fatto che la maggior parte della popolazioni è costituita dai poveri cui sono riservati la segale, il miglio, l’orzo e l’avena che, nei dati del polittico di Santa Giulia di Brescia, rappresentano il 72% delle riserve, con la segale che, da sola, occupa il primo posto con il 40% dei “grani” conservati (Montanari, l. c.).

Il sistema più diffuso di macinazione era quello romano con i mulini ad acqua e si dovette ricorrere a regole severe per tutelare i mugnai.

Coloro che utilizzavano i mulini dovevano pagare una tassa (tassa sul macinato). Il mugnaio doveva pesare il grano prima di macinarlo, restituire al proprietario la giusta quantità di farina e veniva retribuito in natura. Per assumere la qualifica di fornaio era necessario un lungo tirocinio come garzone e, raggiunta le necessaria esperienza, si doveva giurare davanti alle autorità di cuocere pane a sufficienza e di non barare sulla qualità e quantità di pane prodotto.

Ai garzoni competeva l’onere di trasportare il pane in una gerla e consegnarlo casa per casa e il consumatore era tutelato dall’obbligo del fornaio di produrre e consegnare pane ben cotto, pena un’ammenda in denaro e il risarcimento con un’altra infornata.

In giro per il mondo

Se il processo di panificazione ha raggiunto una certa standardizzazione (frantumazione di cereali, impasto, fermentazione, cottura), permangono ancora differenze, tanto in ordine agli ingredienti da cui si ricava la farina, quanto in alcuni valori simbolici.

Partiamo dalla definizione canonica del pane come prodotto ottenuto dalla lievitazione e cottura in forno di un impasto a base di farina di cereali e acqua, per avviare una riflessione.

La definizione proposta ha il vantaggio di un impatto immediato nel nostro immaginario ma, non v’è dubbio, che è tutta dentro una spirale culturale eurocentrica che afferisce al sistema di valori del mondo occidentale e non tiene conto che forme e modo di consumare il pane, sono il risultato delle risorse disponibili, dei rapporti sociali nelle diverse aree del mondo e rappresentano l’identità dei popoli e la loro storia,

Nel sud- est asiatico (India, Cina, Giappone) si fa uso di farina di riso, in Africa e nei Paesi Arabi farina di miglio o di sesamo, in Etiopia e in Eritrea farina di Teff (Eragrostis tef), nei paesi freddi del nord Europa farina di segale, in Mesoamerica farina di mais, quinoa, patata.

Queste differenze, sebbene riconoscibili nella tradizione, sono anche il risultato delle condizioni ambientali che hanno determinato l’elaborazione di specifici modelli alimentari.

L’uso del riso nel sud-est asiatico, non è una scelta determinata dalla maggiore diffusione e disponibilità di questo cereale ma trova le proprie ragioni nelle cause stesse che hanno determinato la domesticazione di questa pianta, qualche millennio dopo che nella Mezzaluna fertile era già stato domesticato il frumento.

Nel caso specifico, ma in tutti gli altri casi, prima di indagare sul processo di domesticazione, bisognerà indagare sui processi di selezione naturale che hanno determinato la struttura ecologica in un ambiente dato.

In altri termini se, per definizione, l’ecologia studia “tutte le relazioni o i modelli di relazione tra gli organismi e il loro ambiente” (Odum, 1988), l’azione antropica è preceduta dalla selezione naturale che determina la biocenosi di un ambiente dato.

Nel caso della Cina, l’agricoltura nasce e si sviluppa in un ambiente naturale difficile che ha richiesto grandi lavori di sistemazione e di bonifica.

La selezione è avvenuta sugli altipiani in cui predomina il loess che è “un suolo formato dall’accumulo millenario, durante il Pliocene, di sabbia e limo portati dal vento “ (Saltini, 2009)

V’è da aggiungere che “Il clima della regione del loess è quello tipico del monsone: d’estate i venti dell’Oceano portano precipitazioni copiose e continue, d’inverno spirano dalla Siberia venti freddi e asciutti” per cui si formavano “dopo le piene del monsone, isole galleggianti dalle quali dispiegavano i culmi” (Saltini, l. c.) di quelli che i paleobotanici hanno dimostrato essere i progenitori del riso, specie risultata vincente nella competizione con altre specie per l’adattamento a vivere nell’acqua.

La segale è il cereale più diffuso nel nord Europa, ma anche nell’Italia continentale, per la sua rusticità e perché adattato ai climi freddi..

Il Teff, cereale coltivato e utilizzato nell’alimentazione umana da 7.000 anni, è una pianta erbacea annuale che presenta semi di diametro inferiore a 1 mm e questo lo rende adatto alla vita seminomade delle popolazioni che ne fanno uso, dal momento che in una pugno si può trasportare un numero di semi sufficiente a seminare un intero campo.

Prima che fosse conosciuto il pane di frumento, nelle Americhe si consumava solo pane di farina di mais, cui si aggiungeva, nelle zone montane delle Ande, quello di farina di Quinoa (Chenopodium quinoa) che ha costituito un alimento base per quelle popolazioni, tanto che per gli Inca era la «chisiya mama» (madre di tutti i semi).

Dopo la conquista spagnola, la cultura andina dovette fare i conti con l’eurocentrismo cattolico che considerava sacro solo il pane di frumento, per cui la coltivazione della quinoa venne scoraggiata, se non proprio combattuta, fino a quando, anche l’ottuso fondamentalismo religioso, non dovette ammettere che l’ambiente andino è poco adatto alla coltivazione del grano, mentre la quinoa si avvantaggia dello sforzo di adattamento di migliaia di anni di storia evolutiva.

Nei momenti di crisi gli andini facevano ricorso a farina di patata, ottenuta con un procedimento singolare per ottenere quello che gli Inca chiamavano chuňu

Il procedimento consisteva nel lasciare le patate a gelare all’aperto e schiacciarle con i piedi al mattino per allontanare l’acqua. Il procedimento andava avanti per cinque giorni, finche il chuňu, completamente disidratato, poteva essere conservato integro o trasformato in farina bianca e leggera che poteva essere conservata per anni (von Hagen, l. c.), che è un bel risultato se consideriamo che “La patata fu messa al bando per tre secoli dagli europei, in quanto ritenuta causa della lebbra” (von Hagen, l. c).

Pane e conflitti

In questa rapida ricostruzione non vengono presi in considerazione i conflitti legati a momenti particolari della storia (economia di guerra) ma solo quelli che sono esplosi quando la disponibilità di pane è stata utilizzata come strumento di lotta politica e di repressione sociale.

A Roma, per esempio, l’istituzione dello schiavismo e la disponibilità di manodopera a basso costo, aveva indotto molti proprietari terrieri a trasformare i fertili territori del Lazio e di altre regioni italiane in orti e frutteti, per cui l’approvvigionamento di grano dell’impero dipendeva dalle province (Sicilia, Egitto, Africa).

Questo rendeva vulnerabile il potere centrale che, a partire dal VI secolo a. C. cominciò ad avere seri problemi di approvvigionamento e fu travagliato dallo spettro di carestie ricorrenti.

Nel 273 Firmo bloccò le forniture dall’Egitto per indebolire il potere di Aureliano.

Nel 397 in Mauretania, la ribellione capeggiata da Gildone ebbe come conseguenza immediata il blocco dei rifornimenti di grano e la conseguente carestia che mise in ginocchio l’impero.

Nel 409 Eracliano bloccò il rifornimento di grano per indebolire Prisco Attalo e nel 412 utilizzò lo stesso espediente contro Flavio Onorio.

Lo stesso farà nel 423 Bonifacio nei confronti di Primicerio.

In precedenza, quando il problema si era presentato, non erano mancate misure “illuminate” per venire incontro alle esigenze del popolo.

Nel 123 a.C. Caio Gracco aveva imposto il prezzo politico e la distribuzione gratuita ai poveri.

Augusto aveva istituito l’Annona per distribuire gratuitamente grano a circa centomila persone.

Queste misure, però, non portarono alla soluzione del problema e si rese necessario il sempre più frequente ricorso a cereali minori come orzo e segale e, qualche volta, piselli e fave.

Nei secoli successivi, la produzione di grano riprese con relativa abbondanza ma l’esplosione endemica della ruggine del grano (2) e della segale cornuta (3) riportarono di nuovo lo spettro della fame, parzialmente soddisfatta con le piante alimentari importate dalle Americhe.

Patate e mais posero fine alle carestie e furono alla base dell’esplosione demografica.

Ma altri conflitti erano in agguato.

Nel 1630 ci fu la rivolta dei milanesi che assaltarono i forni per procacciarsi grano e farina.

Nel 1748 Benedetto XIV emanò norme per la liberalizzazione del commercio, revocò alcuni privilegi delle classi egemoni ed emise un bando contro le privative.

Con l’Unità d’Italia e l’istituzione di una nuova moneta, il peso calmierato del pane fu fissato a 16 libbre e il prezzo a 20 centesimi al pezzo ma, nel 1868, l’istituzione di una nuova tassa sulla macina di 2 lire/quintale per il frumento e di 1 lira/quintale per il frumentone, vanificò la politica dei prezzi.

Tra il dicembre del 1868 e il gennaio del 1869, esplosero i “moti del macinato” finiti davanti ai fucili dei soldati che lasciarono “237 morti, 1099 feriti, 3.788 arrestati” (Foa, 1973).

Solo a S. Giovanni in Persiceto si contarono 10 morti.

A connotare, ancora, l’importanza del pane come alimento, vale ricordare il termine cumpanaticum con cui si indica ogni altro alimento che ne accompagna il consumo. Su questo binomio sono nate alcune espressioni popolari, come “mangiara pana e curteddu” (mangiare pane e coltello), usata dai braccianti meridionali per fornire un’immagine della propria povertà, sottolineata dalla mancanza di companatico, o ancora il proverbio contadino “col pane asciutto si fanno i bei bambini”, con la variante calabrese “Salute e pane asciutto”, amara consolazione dei poveri.

Conclusioni e un’appendice

Concludiamo qui la nostra storia per evitare il rischio di scivolare nell’aneddotica, ricordando che, se il cibo è linguaggio, il pane, cibo per antonomasia, si presenta con codici di comunicazione diversi, assumendo valori simbolici come il pane azzimo (Matzah) che gli Ebrei consumano per ricordare l’esodo dall’Egitto o come la complessa simbologia ancora riscontrabile nella tradizione calabrese. In Calabria si aggiungono- e questo giustifica la breve appendice proposta- oltre ai molti valori simbolici che afferiscono alla straordinaria ricchezza di capitale sociale che, attorno al pane, conserva una forte simbologia del dono attraverso lo scambio di pane o di pasta madre tra vicini, anche molti proverbi che aiutano a tracciare la storia dei subalterni.

Alcuni sono precetti come “Chi vô mangiàri pane e viviri vino simmina jermànu (segale) e chianta erbino (vite selvatica)” (Spezzano, 1992).

Altri esprimono lo stato di miseria dei poveri come “‘A casa ‘e pezzienti’un mancanu tozzi” (Caligiuri, 1999) che indicano anche l’ospitalità dei poveri e la loro capacità di adattamento perché “Chine ha pane e ‘jermanu ‘un more de fame” (Caligiuri, l. c.).

Altri ancora, sono espressioni di ribellismo sociale come “A chine te caccia llu pane, càcciacci la vita” (Caligiuri, l. c.), perché, come ebbe a scrivere Vincenzo Padula, “Il popolo calabrese è agricolo [] quando dunque gli mancano le terre irrompe violentemente nella Sila coi suoi strumenti rurali, o vi irrompe coi suoi strumenti da brigante” (Padula, 1878) e decide che è “megliu n’annu tauru ca cent’anni voe!” (è meglio un anno toro che cent’anni bue).

Il pane tradizionale in Calabria è identificato con due termini equivalenti: Pana ‘e casa o Pana casaloru. La valenza culturale del pane è evidente dalle tradizioni che si conservano e dal loro valore simbolico. Dal pane a cuddhura del periodo natalizio a quello pasquale, alla pitta ‘nchiusa, alla pitta collura per la commemorazione dei defunti, al pane di S. Antonio e a quelli che celebrano la nascita, il battesimo, il matrimonio.

Normalmente prodotto con farina di frumento tenero e duro, nei periodi di carestia si ricorreva anche a cereali minori come mais, orzo, avena, miglio, farro oppure a patate, castagne, ghiande o a prodotti ancora più poveri come il lupino e il grano saraceno, a riprova che la storia del pane in Calabria è anche storia della fame e della miseria delle popolazioni che hanno imparato a surrogare l’ingrediente principale con quanto la natura poteva offrire.

La fantasia femminile ha fatto il resto inventando il pane aromatizzato con sesamo, finocchio selvatico o peperoncino per fornire sapore e dignità al cibo dei poveri.

Dalle varie miscele di farina di cereali sono nati pani tipici come la pizzata di Nardodipace, il biscotto di grano di Reggio Calabria, il pane ai semi di finocchio di Serra S. Bruno, il pane di grano duro di Mangone, il pane con la giuggiulena (sesamo) di Reggio Calabria, il pane a cuddhura (ciambella) decorato con figurine a rilievo, la focaccia ai fiori di sambuco.

Il pane di Cutro e il pane di Donnici, pur nel passaggio dalla produzione artigianale a quella industriale, conservano caratteristiche organolettiche uniche ma il solo Pane di Cerchiara- è un nostro parere personale- conserva qualità non riproducibili, legate a tradizioni secolari sostanzialmente non modificate dalla nuova tecnologia di processo.

Per la lievitazione del pana ‘e casa si usa la pasta madre o pasta acida, conservata appositamente dalla panificazione precedente.

L’impasto consistente in farina, acqua, sale marino, pasta madre ed eventuali erbe aromatiche, si esegue in una vasca di legno detta maidda o maiddra.

Una volta formate le pagnotte, si stende la metà di una tovaglia sul timpagnu (piano di legno), si posano le pagnotte e si ricoprono con l’altra metà della tovaglia sulla quale si stende una coperta di lana per facilitare la lievitazione.

Segue un rituale religioso che consiste nell’imprimere su ogni pagnotta un segno a forma di croce e recitando: “Crisci, crisci pasta, comu nostru Signuri ‘nta la fascia”.

Finita questa operazione si imprimono tre segni di croce equidistanti sull’impasto rimasto nella maddra, si baciano una per una con la mano, facendosi ogni volta il segno della croce.

Per la cottura si usa legna di bosco del genere Quercus ma il pane più fragrante e aromatico si ottiene con rami secchi di olivo e di arancio.

 

Note

(1) Di norma, la datazione al radiocarbonio (14C), applicato a tutti i materiali trovati che lo contengono, si basa sul fatto che l’isotopo, decade molto lentamente a 14N, isotopo stabile dell’azoto. Il 14C si produce continuamente nell’atmosfera in un rapporto con il 12C pari a 1:1 milione. In 5.700 anni, il 50% del 14C diventa 12C ed è diventato troppo scarso nel reperto da analizzare. Il metodo più attendibile è quello di datarlo in base al rapporto tra 14C e 12C. Questo metodo si chiama “calibrato” e si va affermando l’uso di scrivere le date non calibrate in tondo e quelle calibrate in maiuscoletto. (Diamond, 2006).

(2) L’agente di malattia della ruggine del grano è il fungo Puccinia graminis, definito dai romani maxima segetum pest.

(3) L’agente di malattia della segale cornuta è il fungo Claviceps purpurea, responsabile dell’ergotismo. Dalle ife di questo fungo si è partiti per sintetizzare LSD.

 

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2 anni di reclusione e interdizione dai pubblici uffici per l’ex dirigente scolastico di Cropani, Pietro Catanzaro

Concussione finalizzata all’ottenimento di favori sessuali: 2 anni di reclusione e interdizione dai pubblici uffici per l’ex dirigente scolastico di Cropani, Pietro Catanzaro.

“È un segno che la giustizia in Italia esiste ancora”. Soddisfatta la parte civile offesa che a caldo afferma: “Sono contenta che la giustizia abbia riconosciuto le responsabilità penali in tempi accettabili. Per una donna denunciare queste molestie sul posto di lavoro non solo è possibile ma, con l’esperienza personale, posso affermare che è necessario farlo e, soprattutto, è necessario farlo in tempi rapidi”.

E’ giunto a sentenza il processo di primo grado che ha visto come imputato il dottor Pietro Catanzaro, l’ex dirigente scolastico dell’Istituto Comprensivo di Cropani accusato di concussione, tentata violenza e maltrattamenti (difeso dagli avvocati Funaro e Casalinuovo).

A seguito di indagini durate oltre due anni e su richiesta del Pubblico Ministero Simona Rossi, durante l’udienza preliminare dello scorso 30 aprile 2010, il GUP presso il tribunale di Catanzaro, nella persona della dott.ssa Emma Sonni, aveva disposto il decreto di rinvio a giudizio dell’ex dirigente scolastico, dott. Pietro Catanzaro imputandolo di tentata violenza sessuale (art. 609 bis c.p.) e maltrattamenti (art.572 cp) commessi nei confronti di un’insegnante a lui sottoposta.

Anche applicando tutte le attenuanti generiche del caso, e disposta “l’improcedibilità per difetto di querela” in merito all’accusa di tentata violenza, sono stati comminati dal collegio giudicante due anni (anziché tre come richiesto dall’accusa) di reclusione e relativa interdizione dai pubblici uffici in ordine al reato di concussione continuata e finalizzata all’ottenimento di “favori sessuali” di cui al capo b) dell’imputazione ritenendo accorpato il capo c) dell’imputazione (maltrattamenti).

A poco più di un anno dal rinvio a giudizio, sentiti tutti testi dell’accusa e della difesa, secondo il collegio giudicante composto dalla dottoressa Mastroianni, la dottoressa Pezzo e dal Dott. Battaglia (Presidente), ci sono sufficienti prove per condannare l’ex preside. “Un continuo di atteggiamenti” – aveva sottolineato il Pm nella sua requisitoria dello scorso 30 aprile – che sono stati ritenuti “inequivoci per il raggiungimento del disegno criminoso” anche dal collegio giudicante che ha condannato in primo grado il dottor Pietro Catanzaro anche al pagamento delle spese processuali e a 15mila euro di risarcimenti morali e materiali per la parte offesa.

 

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