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Generoso cuore, ferro e libertà: la via calabrese verso l’Italia Unita

a cura di Giuseppe Candido e Filippo Curtosi

Pubblicato su “Abolire la miseria della Calabria” – Anno VI n°1-2-3 G/F/M 2011

Calatafimi, Salemi, Alcamo, Monreale, Palermo passando per il Piano di Renda. Poi lo sbarco a Milazzo dove si combatté per le strade cittadine finché i “regi borbonici preferirono ritirarsi nella fortezza dove furono poi costretti alla resa”. Dopo essere sbarcato a Marsala l’11 maggio del 1860, in due mesi e mezzo Garibaldi si era impadronito dell’Isola. Aveva ripetutamente sconfitto forze di gran lunga superiori alle sue per numero e per armamento; aveva provocato una serie di insurrezioni in tutta la Sicilia rendendola ribelle alla dinastia borbonica ed offrendo ad essa la libertà. Sbarcato a Marsala con soli mille uomini, Garibaldi disponeva ora di una forza decuplicata, ancora numericamente inferiore all’esercito borbonico ma con una consistenza sufficiente per affrontare la nuova impresa: il passaggio dello Stretto di Messina e l’avanzata nel territorio continentale del Regno delle Due Sicilie.

 

Da Melito Porto Salvo a Soveria Mannelli

Un nuovo contingente di ottomila volontari, raccolti da Agostino Bertani, era destinato a sbarcare nello Stato pontificio. Ma il Cavour si mostrò ostile all’iniziativa e riuscì ad ottenere dal Bertani che i volontari venissero condotti in Sardegna e di là in Sicilia da dove sarebbero stati liberi di muovere verso lo Stato romano. Lo stesso Bertani, raggiunse Garibaldi a Messina per invitarlo a recarsi in Sardegna ad assumere il comando della spedizione contro lo Stato pontificio. Mentre il Generale si trovava in navigazione verso la Sardegna, la notte dell’otto agosto del 1860 ci fu il primo sbarco sulla costa calabra: seguendo le disposizioni impartite da Garibaldi, duecento uomini tra i più provati e ardimentosi furono inviati con agili scialuppe ad occupare il fortino di Altafiumara a Villa San Giovanni. Il calabrese Benedetto Musolino aveva garantito di essersi accordato coi sottufficiali del fortino; il drappello era comandato dal Racchetti e tra i componenti vi erano il Missori, il Nullo e Alberto Mario, che da poco aveva raggiunto il Garibaldi in Sicilia. Ma il tentativo non ebbe buona riuscita; i sottufficiali non dettero alcuna collaborazione ed il gruppo dovette desistere e ritirarsi sull’Aspromonte dove riuscì ad ottenere l’appoggio di quattrocento volontari calabresi. Nascevano così i Cacciatori della Sila.

Lo sbarco in Calabria a Mélito Porto Salvo

Rientrato dalla Sardegna, Garibaldi sostò a Palermo da dove ripartì compiendo il periplo dell’Isola e raggiungendo il 18 agosto le coste di Taormina dove ad attenderlo c’era il Generale Bixio con quasi quattromila uomini già pronti per la partenza che avvenne la sera dello stesso giorno; all’alba del 19 agosto la spedizione giungeva sulla costa ionica della Calabria approdando a Mélito Porto Salvo dove lo sbarco ebbe luogo senza conflitti: le navi borboniche arrivarono ad operazioni concluse accontentandosi di affondare una delle due navi ch’erano servite per lo sbarco.

Reggio Di Calabria

La strada costiera da Mélito a Reggio fu il primo tragitto calabrese dei garibaldini che intanto si erano ricongiunti con il gruppo del Racchetti e del Missori discesi dall’Aspromonte a Mélito appena furono avvertiti dell’arrivo di Garibaldi in Calabria. Reggio, d’altronde, era stata la prima città della Calabria che, alla notizia dello sbarco dei Mille a Marsala, aveva proclamato decaduto il dominio borbonico.

Sbarcato all’alba del 19 agosto a Mélito Porto Salvo, Garibaldi ordinò subito la marcia su Reggio presidiata da una nutrita guarnigione sotto il comando del generale borbonico Gallotti, il quale, venuto a conoscenza dell’avvicinarsi di Garibaldi, aveva ordinato al Colonnello Dusmet di apprestare una linea di difesa lungo la cerchia esterna della città. La sera del 20 agosto le camicie rosse aggirarono i Borboni e penetrarono nell’abitato di Reggio Calabria dove si accese una sanguinosa battaglia. Lo stesso comandante borbonico cadde colpito a morte mentre conduceva i suoi all’attacco; la forza degli attacchi dei garibaldini e la morte del Dusmet costrinsero i borbonici a rifugiarsi dentro il castello della città dove aveva preferito restare il Generale Gallotti. Il castello però venne stretto d’assedio da una squadra della colonna Missori capitanata da Alberto Mario e, il 22 d’agosto, il Gallotti fu costretto anche lui “ad alzare bandiera bianca”. Per aiutare i Borboni di Reggio era sopravvenuto, a resa però già avvenuta, anche il generale Briganti; il Garibaldi gli andò incontro a Gallico, un paesino a cinque chilometri a nord di Reggio, disperdendone le truppe dopo una breve mischia.

Il secondo sbarco: Favazzina

Contemporaneamente, durante la notte tra il 21 e il 22 agosto il generale Cosenz portava in territorio calabrese la brigata Assanti e la compagnia dei volontari francesi; la nuova spedizione sbarcava a Favazzina, un paesino di 400 anime, tra Scilla e Bagnara, a Nord Est di Villa San Giovanni. Avanzando verso l’interno la spedizione sosteneva alcuni scontri contro i reparti borbonici dispiegati a presidio di alcune località calabresi. Dopo aver ributtato alcune truppe borboniche a Favazzina si dirigeva per Bagnara verso Solano. Durate uno di questi scontri con cariche “alla baionetta” cadeva pure il comandante dei volontari francesi De Flotte, “uno di quegli esseri privilegiati – scriveva Garibaldi – cui un solo paese non ha diritto di appropriarsi. Così il Garibaldi teneva le posizioni di Reggio e Villa San Giovanni mentre il Cosenz quelle dispiegate tra Villa e Bagnara Calabra.

I corpi borbonici del generale Melendez e quelle del generale Briganti, in vista d’essere accerchiati, si arresero; ma la vera ragione della mancata resistenza delle truppe di Francesco II fu il fenomeno della diserzione che assunse proporzioni enormi e che, quotidianamente, intaccò i contingenti borbonici, togliendo ai comandanti la fiducia delle loro truppe.

Da Reggio di Calabria e Bagnara Calabra a Monteleone e Soveria Mannelli

Dopo la resa di Reggio (21 agosto), dispersi i novemila uomini del Melendez e del Briganti, Garibaldi proseguì lungo la costa del Golfo di Gioia Tauro ed intraprese la sua rapida marcia verso Nord: il 25 agosto arrivò a Palmi, il 26 a Nicotera, e il 27 giunse a Monteleone di Calabria (dal 1928 Vibo Valentia) dove venne accolto trionfalmente dalla popolazione che aveva visto il generale Ghio abbandonare la città con la sua colonna decimata dalle diserzioni. A Monteleone molti patrioti calabresi si aggiunsero alle fila di Garibaldi: Michele Morelli, Luigi Bruzzano, Vincenzo Ammirà sono soltanto alcuni dei nomi di intellettuali che seguirono l’eroe dei due Mondi.

Proveniente da Monteleone, Garibaldi giunse a Maida (CZ) il 29 agosto venendo accolto, anche qui, da una popolazione acclamante: <<Non è tempo di feste>>, disse alla folla da un balcone. <<I dodicimila uomini comandati dal trucidatore di Pisacane, il generale Ghio, ci aspettano sull’altopiano di Soveria>>. E così fu: Garibaldi il 29 sera era arrivato a Tiriolo. Ghio tentò la ritirata verso Napoli ma, proprio a Soveria Mannelli, fu raggiunto da Garibaldi. All’alba del 30 agosto i calabresi garibaldini, “Cacciatori della Sila”, comandati dal barone Francesco Stocco e inviati da Garibaldi avevano preso posizione attorno al paese mentre, da Tiriolo, giungeva l’avanguardia del Cosenz seguito da Garibaldi e dal suo stato maggiore.

Dopo un accenno di resistenza, considerato che i suoi soldati rinunciavano a combattere dandosi alla fuga, il 30 agosto del 1860 Ghio accettò la resa. All’ingresso dei Soveria Mannelli, all’epoca dei fatti cittadina con poco più di duemilacinquecento abitanti, sorge oggi un monumento detto “Colonna Garibaldi” eretto in ricordo della capitolazione del corpo borbonico comandato dal generale Ghio. Esso è realizzato da un obelisco di bella fattura con trofei bronzei e posato su un basamento a gradini

Tre giorni prima, il 27 d’agosto anche il generale borbonico Caldarelli aveva lasciato Cosenza dove la popolazione, appresa la notizia della caduta di Reggio di Calabria (21 agosto), aveva costituito un governo provvisorio. E pure a Catanzaro un governo provvisorio era stato istituito in città dopo la notizia della presa della città dello Stretto.

Così, alla fine dell’agosto 1860, Garibaldi aveva liberato completamente la Calabria dai Borboni: l’esercito del generale Vial, comandante supremo delle forze borboniche in Calabria, forte di trentamila uomini, era completamente disfatto. Una piccola parte di esso aveva ripiegato su Napoli, ma la maggior parte si era dispersa con la diserzione e casi di interi reparti borbonici calabresi che chiesero di essere arruolati nell’esercito garibaldino.

La situazione era profondamente mutata: <<Italiani! Il momento è supremo. Già i fratelli nostri combattono lo straniero nel cuore dell’Italia. Andiamo ad incontrarli in Roma per marciare di là insieme alle venete terre. Tutto ciò che è dover nostro e diritto, potremo fare se forti. Armi, dunque, ed armati. Generoso cuore, ferro e libertà>>.

 
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Sabotare i referendum? Berlusconi non fa nulla di nuovo

di Giuseppe Candido

Il voto il 12 e il 13 giugno è per tentare di salvare quel briciolo che resta della nostra democrazia

L’articolo 75 della Costituzione sancisce dal 1948 il diritto dei cittadini ad esprimersi sui quesiti referendari. Ma la scheda referendaria, prevista dalla costituzione sin dal primo momento, fu negata ai cittadini per oltre vent’anni salvo poi concederla nel ’70 ai clericali che volevano abrogare la legge sul divorzio. Pure l’articolo 39 della legge n° 352 del 1970 parla chiaro: solo “Se prima della data dello svolgimento del referendum, la legge, o l’atto avente forza di legge, o le singole disposizioni di essi cui il referendum si riferisce, siano stati abrogati, l’Ufficio centrale per il referendum dichiara che le operazioni relative non hanno più corso”. La legge prevede che le operazioni di voto non si tengano più solo in caso di “abrogazione”. E ciò è ancora più evidente se si tiene conto della pronuncia della Consulta del 1978 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 39 della legge rispetto all’art. 75, comma 1, della Costituzione “limitatamente alla parte in cui non prevede che se l’abrogazione degli atti o delle singole disposizioni cui si riferisce il referendum venga accompagnata da altra disciplina della stessa materia, senza modificare né i principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente né i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti, il referendum si effettui sulle nuove disposizioni legislative”.

Ma la partitocrazia ha sempre digerito malissimo i referendum vivendoli come il più grande pericolo per se stessa ed ha sempre operato per ridurne l’efficacia ed eliminare le scelte compiute dagli italiani. Berlusconi, infondo, non ha inventato nulla di nuovo: “si è dimostrato un ottimo allievo dei suoi predecessori che erano abilissimi a cancellare i referendum con un escamotage legislativo” ha dichiarato Emma Bonino che di referendum ne ha visti cancellati parecchi. L’aborto, il nucleare, la depenalizzazione del consumo di droghe leggere, il finanziamento pubblico dei partiti, la responsabilità civile dei magistrati. Nel 1972, per impedire che “il paese si spaccasse in due” per la legge sul divorzio, vennero sciolte anticipatamente le Camere dal Presidente Leone. Nel 1976, per abrogare l’aborto furono sciolte le Camere e il referendum venne poi superato dall’approvazione della legge 194 del ’78. Il referendum che chiedeva l’abolizione degli ospedali psichiatrici fu anch’esso “superato” con l’escamotage della legge Basaglia che però lasciò tali e quali gli ospedali psichiatrici giudiziari che, dopo lo scoop della commissione d’inchiesta sugli errori sanitari, oggi sappiamo in quali condizioni si trovano. “Superati” con legge di riforma anche i due referendum del ’78 e del ’80 rispettivamente sulla Commissione inquirente dei ministri e l’abolizione dei tribunali militari. I referendum sono stati da sempre sistematicamente aggirati, evitati, elusi dai partiti con norme di “superamento”. E quando non si riuscì ade evitare il referendum con scioglimento delle camere o leggine ad hoc, fu la volontà degli elettori a venire disattesa, spesso letteralmente tradita, dai partiti che, almeno in questo, si sono sempre dimostrati uniti. Dopo il referendum del 1987 sulla responsabilità civile dei magistrati di cui oggi si torna tanto a parlare, la volontà degli elettori che chiedevano che i magistrati pagassero per i loro errori come tutti gli altri professionisti, venne aggirata trasferendo allo Stato la responsabilità dei giudici. Ragion per cui, se un cittadino viene ingiustamente detenuto dallo Stato per colpa di un errore di un magistrato si è “ripagati”, con le nostre stesse tasse, sempre dallo Stato, cioè da noi. Cornuti e mazziati. E sulla legge elettorale che i cittadini nel ’93 avrebbero voluto maggioritaria? Anche allora, la volontà chiarissimamente espressa dagli elettori venne disattesa introducendo il famoso “Mattarellum”, la legge elettorale che continuava ad eleggere una parte del parlamento con il sistema proporzionale continuando a garantire alla partitocrazia il potere di accaparrarsi i rimborsi elettorali e stabilire i candidati nei collegi più importanti. Non parliamo dell’abolizione del ministero dell’Agricoltura che venne aggirata mediante l’istituzione dell’acronimo ministero per le politiche agricole. Paradossi italiani. Ne parla da Santoro di finanziamento pubblico abolito con referendum nel ’93 e reintrodotto senza un minimo di pudore col sistema dei rimborsi elettorali ma Beppe Grillo, il giullare della politica italiana, pur di fare dei tutta l’erba un fascio si scorda di nominare i Radicali quale unico partito che aveva raccolto le firme e aveva promosso quel referendum.

Escamotage legislativo anche per il referendum del ’95 sulla privatizzazione della Rai, mai attuata effettivamente ed ancora sotto il palese controllo dei partiti, e quello sulle trattenute sindacali, di fatto sistematicamente ignorato nei contratti collettivi nazionali. Poi la strategia sui referendum cambiò. Sabotarne la volontà diventava sempre meno conveniente per cui la via più facile fu quella di farne fallire il quorum mediante l’azzeramento del dibattito in televisione e gli inviti ad andare a mare che tanto “ghe pensi mi”. Fu così che avvenne per il referendum sulla Legge 40 per la fecondazione assistita per il quale, con lo scopo premeditato di evitare che la gente andasse a votare, il servizio pubblico televisivo, quello che dovrebbe garantirci l’informazione abbondò: propose illegittimamente non due ma addirittura tre posizioni: quella dei Si ai vari quesiti, quella dei No e quella dei “non andate a votare” che alla fine vinse. I clericali poterno, in quel caso, sommarsi agli astensionisti fisiologici e dichiarare chiusa la partita su fecondazione assistita e dar inizio ai viaggi all’estero per molte coppie italiane. Per anni si è cercato di ammazzare i referendum, quello strumento di democrazia diretta e partecipata che i padri costituenti avevano garantito al popolo per renderlo pienamente sovrano. La strage di democrazia dei referendum è in corso ormai da anni. Oggi in televisione il dibattito sui temi referendari è stato completamente cancellato e si vorrebbe far passare il messaggio che, tanto, non vale la pena andare a votare. Proprio per questo, esercitare oggi il voto ai referendum serve non solo a difenderci dal nucleare e dire che la legge è uguale per tutti ma, soprattuto, raggiungere il quorum il 12 e 13 giugno servirebbe a salvare quel briciolo che resta della nostra democrazia.

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Ex dirigente scolastico a giudizio: chiesti dal Pubblico Ministero 3 anni di reclusione

E’ arrivato ormai alle battute finali il processo nei confronti del dirigente scolastico, oggi in pensione, accusato di concussione, tentata violenza e maltrattamenti.

Anche applicando le attenuanti del caso, sono stati richiesti dall’accusa tre anni di reclusione per il dott. Pietro Catanzaro in ordine ai reati di concussione finalizzata all’ottenimento di “favori sessuali” e tentata violenza. Ad un anno esatto dal rinvio a giudizio, sentiti tutti testi dell’accusa e della difesa, secondo il sostituto procuratore Alberto Cianfarini, ci sarebbe “sufficiente materiale probatorio” per chiedere la condanna dell’ex dirigente. “Un continuo di atteggiamenti” – ha sottolineato il Pm – che sarebbero “inequivoci” e tutti finalizzati al “raggiungimento del disegno criminoso“.

Il pm, nella sua requisitoria, ha pure evidenziato “l’alta credibilità della parte offesa dimostrata in tutta la vicenda processuale” e che l’accusa si concussione “è stata riscontrata dall’esame del teste F. C.” parte terza nella vicenda che, anche davanti hai giudici, ha riferito quelle parole ascoltate. parole che, secondo l’accusa che le ha ripetute letteralmente durante la requisitoria, inchioderebbero l’imputato alle sue responsabilità: “Se non sei compiacente con me ti faccio fare la supplenze”.

Dopo indagini durate più di due anni, lo scorso 30 aprile 2010, il Giudice per le udienze preliminari presso il tribunale di Catanzaro, dott.ssa Emma Sonni, ne aveva disposto il rinvio a giudizio imputandolo di tentata violenza sessuale (art. 609 bis c.p.), maltrattamenti (art.572 cp) commessi nei confronti di un’insegnante a lui sottoposta e di concussione (art. 317 c.p.) perché, secondo l’accusa, “sempre nella qualità di incaricato di pubblico servizio, abusando dei suoi poteri, mediante l’adozione di provvedimenti dal contenuto pregiudizievole nei confronti dell’insegnante, e comunque abusando della sua qualità, ossia tenendo nei confronti della stessa insegnante una condotta discriminatoria e prevaricatrice, compiva atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere e/o indurre la predetta a concedergli indebitamente favori di tipo sessuale, evento non verificatosi per cause indipendenti dalla propria volontà, segnatamente a cagione dei reiterati dinieghi della persona offesa”. La difesa, per “motivi di salute” di uno degli avvocati, ha poi chiesto un rinvio dell’udienza che è stata fissata per il prossimo primo di luglio.

Come si legge tra le carte che ne avevano disposto il rinvio a giudizio, è utile ricordare che tutti i fatti contestati al dott. Catanzaro risultano aggravati perché commessi dall’imputato, nella sua qualità di pubblico ufficiale, durante l’esercizio delle proprie funzioni di preside. Nella richiesta di rinvio a giudizio si legge testualmente che “il Dottor Pietro Catanzaro, in qualità di dirigente scolastico dell’Istituto Comprensivo di Cropani, con violenza ed abusando della propria autorità, tentava di costringere l’insegnante a compiere e a subire atti sessuali contro la sua volontà”. Alla prossima udienza oltre alla parte civile rappresentata dall’avvocato Natalina Raffaelli, sarà la volta della difesa. Poi si andrà sentenza.

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Svelatura con brivido all’Affruntata di Sant’Onofrio

un uomo scivola sul selciato travolto durante l'indietreggiare della Madonna

di Franco Vallone

In ogni rituale dell’Affruntata la fase più critica e delicata è la cosiddetta svelatura o svelazione della Madonna. È il momento più veloce e più complesso di tutta la sacra rappresentazione, per le componenti ritualizzate del tramandare, per il passo da coordinare tra i portantini, per l’andatura da sincronizzare in rapporto con le altre due statue presenti sulla scena. L’incontro è il momento più simbolico, un antico rito di passaggio, di superamento di una vera e propria soglia che ridisegna, sulle nostre strade di casa, l’incontro tra il Cristo Risorto e la Madonna Addolorata ammantata di nero. Nella svelazione c’è la vittoria della vita sulla morte e da centinaia di anni, proprio in questo particolare frammento di tempo sacro, vengono assorbiti dalla comunità numerosi segni, simboli interpretati e da interpretare, prelevati dall’accadimento delle cose come elementi di previsione per la vita di tutto l’anno e come documenti da ricordare, testimoni di protezione simbolica e apotropaica per tutto il paese e per tutta la stessa comunità. Il 24 aprile di quest’anno, giorno di Pasqua, anche a Sant’Onofrio un brivido dietro la schiena corre nei tanti che si sono accorti di quanto stava succedendo. Un attimo dopo ed il brivido collettivo si tramuta in urlo che diventa l’urlo di tutti, forza della voce della comunità di Sant’Onofrio che cerca di arrestare il momento critico in atto. Un uomo, componente dell’organizzazione, viene improvvisamente travolto dall’indietreggiare della statua della Madonna e dei suoi portantini, un’azione ritualizzata e consolidata e da sempre prevista dal rito. L’uomo, con la divisa blu e gialla della Protezione Civile, scivola e cade a terra, finisce quasi sotto i portantini e la stessa Madonna, poi, grazie ai riflessi veloci di alcuni suoi colleghi, viene recuperato senza per fortuna gravi conseguenze. Ancora un attimo e subentra la consapevolezza di un incidente superato che poteva provocare la caduta della statua della Madonna e dei portantini. Passato il brutto momento tutto rientra e si risolve con urla di gioia ed applausi, si ripercorre la festosità del rito che si realizza nel pieno della sua secolare bellezza estetica, con la musica della banda, i fuochi d’artificio e migliaia di auguri scambiati, tra vicinanze di paesani e lontananze di parenti emigrati tornati solo per la festa, in una comunità con addosso i simboli e le ritualità che scendono sin nel profondo della storia cristiana.
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Cercano di sabotare i referendum

di Giuseppe Candido

25 anni esatti dal disastro di Chernobyl in Ucraina. Il più grave incidente nucleare, l’unico di livello 7, insieme a quello dello scorso 11 marzo a Fukushima dove però, più che l’errore umano, è stato il violento terremoto e, ancor peggio, il conseguente tsunami ad aver causato il disastro.

A Chernobyl furono violate invece tutte le regole di sicurezza e di buon senso e, paradossalmente, tutto ciò avvenne proprio durante un test di sicurezza: un brusco e incontrollato aumento di potenza del reattore causò l’aumento di temperatura dell’acqua di raffreddamento e la sua conseguente scissione in idrogeno e ossigeno. L’aumento di pressione fece il resto, il contatto con l’idrogeno e la grafite incandescente causarono l’esplosione con conseguente emissione di una nube di materiali radioattivi su vaste aree intorno alla centrale. 336.000 persone furono evacuate per sempre e reinsediate altrove. Le nubi radioattive raggiunsero l’Europa orientale, la Finlandia e la Scandinavia arrivando, con livelli di contaminazione via via minori, anche in Francia e in Italia. Le vittime accertate, riconosciute dalle organizzazioni internazionali come direttamente collegate a tumori contratti per l’incidente, sarebbero 65 e 4.000 invece le presunte ma Greenpeace parla di 6 milioni di vittime in tutto il mondo. Il ricordo di quel disastro, cifre a parte, non può non richiamarsi con l’attualità. Tre anni più tardi, anche in considerazione di quel disastro, gli italiani avevano denuclearizzato il paese rinunciando al nucleare con un referendum nel 1989.

Adesso, dopo averlo reintrodotto “alla grande”, il governo pur di evitare che si voti il referendum cerca di metterci una toppa con l’annunciata moratoria per un anno. Un provvedimento che, in realtà, semplicemente posticipa la scelta ad un “successivo momento” condizionandola a quelle che si definiscono genericamente “le verifiche fatte dall’Unione europea”. Non sarà, per caso, che si vuole evitare il referendum? Anche perché, sull’acqua, d’improvviso c’è la proposta del sottosegretario allo Sviluppo Economico che, mediante l’istituzione di un autority, vorrebbe evitare pure quel referendum. Insomma, tutto sa di boicottaggio finalizzato a che non si votino quei referendum. L’articolo 75 della Costituzione sancisce il diritto dei cittadini ad esprimersi, informati, sui quesiti referendari. E pure l’articolo 39 della legge n° 352 del 1970 parla chiaro: solo “Se prima della data dello svolgimento del referendum, la legge, o l’atto avente forza di legge, o le singole disposizioni di essi cui il referendum si riferisce, siano stati abrogati, l’Ufficio centrale per il referendum dichiara che le operazioni relative non hanno più corso”. La legge prevede che le operazioni di voto non si tengano più solo in caso di “abrogazione”. E ciò è ancora più evidente se si tiene conto della pronuncia della Consulta del 1978 che, addirittura, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di questo articolo rispetto all’art. 75, comma 1, della Costituzione “limitatamente alla parte in cui non prevede che se l’abrogazione degli atti o delle singole disposizioni cui si riferisce il referendum venga accompagnata da altra disciplina della stessa materia, senza modificare né i principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente né i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti, il referendum si effettui sulle nuove disposizioni legislative”. Del tutto evidente, nel caso del nucleare, che un semplice rinvio non può impedire che il referendum si voti. E lo stesso vale per i due quesiti sull’acqua volti ad abrogare alcuni aspetti del decreto Ronchi e su cui si vorrebbe intervenire con un decreto a 50 giorni dal voto a campagna in corso. Un decreto che dovrebbe poi essere sottoposto al voto parlamentare. È evidente che, neanche in questo caso, ai sensi della legge e della sua interpretazione fornita dalla Consulta, il voto referendario può essere annullato. Probabilmente, anzi sicuramente, il fatto che non ci siano ragioni valide per evitare i referendum su acqua e nucleare è noto anche a Palazzo Chigi. Per cui, se non si possono evitare i referendum, il vero obbiettivo sarà quello di farne fallire il quorum. E ciò lo si fa attraverso due diverse strategie: da un lato si evita che la gente venga informata mediante l’assenza totale di dibattito nelle televisioni del servizio pubblico televisivo. Dall’altro canto si fanno continui proclami ed annunci in merito alla moratoria del nucleare e l’istituzione di un’autorità di garanzia per l’acqua, in modo da far passare tra la gente il messaggio che, tutto sommato, le questioni referendarie non sono così importanti visto che il governo, appunto, ci ha già pensato lui, ragion per cui si può tranquillamente andare a mare. D’altronde la partitocrazia, sia di destra sia di sinistra, ha sempre digerito malissimo i referendum vivendoli sempre come il più grande pericolo per se stessa ed ha sempre operato, a volte anche contro costituzione, per ridurne l’efficacia ed eliminare le scelte compiute dagli italiani. Bisogna ricordare che la scheda referendaria, prevista dalla costituzione, fu negata ai cittadini per oltre vent’anni salvo concederla ai clericali che volevano abrogare la legge sul divorzio. Poi, dinnanzi alla possibilità aperta nel paese dai referendum radicali (aborto, nucleare, depenalizzazione droghe leggere, finanziamento pubblico dei partiti, responsabilità civile dei magistrati ecc.) furono più volte sciolte le camere pur di evitare il voto referendario o fecero leggine per sovvertire le scelte degli italiani. Valga ad esempio quanto fatto dai partiti sul finanziamento pubblico abolito per referendum e reintrodotto, neanche dopo un anno, mediante il sistema dissennato e truffaldino dei rimborsi elettorali non legati alle spese effettivamente documentate ma concessi in base ai consensi riportati. Bisogna quindi andarci a votare e cercare, nel silenzio colpevole e doloso del servizio pubblico televisivo, di far raggiungere il quorum. Andare a mare non conviene anche perché, se ci pensano loro, di sicuro fanno danno.
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Perché non possiamo sostituire il 25 aprile con un’altra data

di Giuseppe Candido

Con il lunedì dell’Angelo che quest’anno cade proprio il 25 d’aprile la festa della liberazione è passata in secondo piano restando miserevolmente relegata all’editoriale di Giampaolo Pansa su Libero nella giornata della Santa Pasqua. Un editoriale che, forse provocatoriamente, sosteneva che sarebbe meglio festeggiare la ricorrenza il 18 di aprile anziché il 25 per ricordare la vittoria, in seno all’assemblea Costituente, dei Democristiani di De Gaspari. Un po’ superficiale come analisi e sicuramente trascurata la ricostruzione storica. La Resistenza italiana, chiamata anche Resistenza partigiana o “Secondo Risorgimento”, fu l’insieme dei movimenti politici e militari che dopo l’8 settembre 1943 si opposero al nazifascismo nell’ambito della guerra di liberazione italiana. La lotta di liberazione da un invasore straniero, l’insurrezione popolare e la guerra civile tra antifascisti e fascisti, o il tentativo di rivoluzione da parte di alcuni gruppi partigiani socialisti e comunisti?

Il movimento della Resistenza – storicamente inquadrabile nel più ampio fenomeno europeo della resistenza all’occupazione nazifascista – fu caratterizzato in Italia dall’impegno unitario di molteplici e talora opposti orientamenti politici (cattolici, comunisti, liberali, socialisti, azionisti, monarchici, anarchici), in maggioranza riuniti nel Comitato di Liberazione Nazionale i cui partiti componenti avrebbero più tardi costituito, insieme, i primi governi del dopoguerra.

Piero Calamandrei, nei suoi scritti, paragona le origini delle Resistenza all’improvviso sbocciare delle primavera: “Quasi un miracolo da paragonarsi ai miracoli della natura che fanno spuntare i fiori e le gemme in un giorno dato”. È forse l’immagine più bella che ne viene data ma, in verità, quella “primavera” italiana, destinata a durare 20 mesi, fu preparata nel “lungo inverno del fascismo”. La Resistenza maturò nelle tenebre della cospirazione, nell’isolamento dell’esilio, nell’odore di muffa delle carceri e dei luoghi di confino, e richiese il sacrificio di numerosi patrioti. Non si può comprendere il significato della Resistenza nei venti mesi durante occupazione tedesca senza guardare alla “resistenza lunga” che vi fu nei venti anni del regime fascista. Basta leggere un qualunque testo scolastico (non tra i più recenti dove la parola Resistenza tende ad essere cancellata) per intuire che non è possibile comprendere il significato della Resistenza nei venti mesi dell’occupazione tedesca senza rifarsi alla “resistenza lunga” durata 20 anni nel regime fascista. Senza questo legame col ventennio la Resistenza italiana un mero episodio militare, importante ovviamente, ma certamente secondario rispetto al dispiegamento di forze che condussero alla fine del nazismo. Se la si legge così, se si leggono i soli venti mesi di Resistenza “breve”, quel movimento politico che portò alla liberazione resta schiacciato ad un semplice contraccolpo, interno alla vita della Penisola, di quel rovesciamento di fronte che portò l’Italia dall’alleanza con Hitler alla co-belligeranza con gli alleati. La Resistenza diventa un momento drammatico di lacerazione e guerra civile, dominato dalla violenza e dalla crudeltà. In quest’ottica i GAP, i gruppi di azione patriottica che liberarono Pertini e Saragat, diventano per Pansa dei “terroristi di città”.

La Resistenza italiana
La Resistenza italiana di Renato Guttuso

Se ci si limita superficialmente a quest’analisi si fa presto a sostenere che è inutile festeggiarla, che è inutile ricordare quell’atto di liberazione e si conviene sulla possibilità di spostare la data al 18 aprile per ricordare, come propone Pansa, la vittoria nel ’48 di Alcide De Gasperi sui comunisti.

Solo se invece si guarda al suo legame con la ventennale opposizione al regime fascista, la Resistenza assume il suo pieno significato storico: momento culminante di sviluppo e di affermazione di una nuova coscienza civile e politica che troverà nella Costituzione repubblicana la sua espressione giuridica.

Solo in quest’ottica la Resistenza diviene, assieme all’antifascismo, il presupposto essenziale della Repubblica italiana che, in questa matrice, trova il suo connotato storico più marcato.

Per capirlo bisognerebbe rileggere attentamente, e Pansa dovrebbe farlo per primo, il volume “La Resistenza italiana, dall’opposizione al fascismo alla lotta popolare” edito, in occasione dei trent’anni della liberazione, da Mondadori nel 1975 per cura del Ministero della (allora) Pubblica Istruzione. “La Resistenza, vista sotto questa luce, non quale episodio isolato ma nel suo rapporto da un lato con l’antifascismo che l’ha preparata e dall’altro con la Repubblica che da essa è nata, acquista tutta la sua rilevanza nella del nostro Paese: per un verso essa si ricollega alla tradizione risorgimentale perché si ispira a quegli stessi valori d’indipendenza nazionale e di libertà che hanno guidato la nostra formazione unitaria; ma per altro verso supera la tradizione risorgimentale e la integra nella misura in cui rappresenta un momento di più profonda partecipazione popolare, di inserimento delle classi operaie e contadine nella vita di uno Stato nato essenzialmente dall’iniziativa di ceti sociali più elevati”.

Una lotta tra “minoranze”? Gli italiani non parteciparono né coi fascisti né coi partigiani come sostiene Pansa? Forse è vero. Però bisognerebbe ricordare pure che non soltanto la Resistenza, ma tutta la storia dell’Italia unita, dai moti del 1848 sino alla Costituente repubblicana, è stata percorsa dall’esigenza di una maggiore partecipazione dei ceti popolari alla vita dello Stato. “Il progressivo allargamento del suffragio elettorale, l’espandersi delle organizzazioni operaie e contadine, lo sviluppo del sindacalismo, la progressiva affermazione dei grandi partiti popolari sono i segni di questo processo di crescita della società italiana”. Un’esigenza di maggiore partecipazione popolare alla vita dello stato che, probabilmente, grazie anche al mancato ruolo svolto proprio da partiti secondo quanto previsto dall’articolo 49 della nostra Costituzione, ancora esiste. Lo Stato liberale mazziniano, anche attraversando contrasti e conflitti drammatici, aveva dato spazio a questa “crescita civile” della società italiana. Un processo che però s’interrompe coll’affermazione del fascismo che nega ogni diritto di libertà ai cittadini e piega al servizio del Partito dominante il potere dello Stato.

Pietro Scoppola, storico, docente e politico, considerato uno dei principali esponenti italiani del cattolicesimo democratico che dal ’74 al ’78 fu capo redattore della rivista Il Mulino, nel contributo al volume citato scrisse che “il 25 di Aprile del 1945 il primo e più immediato obiettivo della Resistenza è raggiunto: tutto il Paese è libero dai tedeschi, il fascismo è sconfitto. Ma la strada che resta ancora da percorrere è lunga e piena di ostacoli …”.

“Al 25 aprile” – dichiarava in un’intervista Giorgio Amendola – “non siamo arrivati da trionfatori, ma con l’acqua alla gola. Quello che mi irrita, invece, è la rappresentazione schematica della Resistenza che avrebbe potuto fare e disfare a suo piacimento, e non fece per pavidità della direzione politica”.

L’Assemblea Costituente, che in massima parte era composta proprio dagli esponenti di quei partiti (comunisti, socialisti, azionisti, anarchici e democratici) che avevano dato vita ai Comitati di Liberazione Nazionale, fondò la Costituzione repubblicana sulla sintesi tra le diverse tradizioni politiche e l’spirò ai princìpi della democrazia e dell’antifascismo. La scelta di celebrare la fine di quel periodo funesto il 25 di aprile fu scelto dal CLNAI “con la data dell’appello per l’insurrezione armata della città di Milano, sede del comando partigiano”. È vero, la Resistenza italiana fu il primo atto del “periodo costituzionale transitorio”. La seconda parte terminerà invece il 1º gennaio 1948, giorno dell’applicazione della nuova Costituzione Italiana. Davvero vorremmo cambiare per questo la data della celebrazione del 25 aprile del ’45 e sostituirla con quella del 18 aprile del ’48? Proprio nel clima politico in cui oggi viviamo, il richiamo alla Resistenza e all’antifascismo si fa meravigliosamente denso di significati.

Anche oggi, il richiamo alla Resistenza che sta nella data del 25 aprile non può essere considerato il modo di “tornare, in un momento di evasione, ad une evento lontano ed estraneo ormai dal nostro mondo e alla nostra realtà”. Anche oggi, che da quella data di anni ne sono passati più di cinquanta, ricordare il 25 aprile ha il significato di “ritrovare, attraverso una critica riflessione sul passato, motivi e criteri di orientamento nel cammino che stiamo percorrendo e per le scelte che sono ancora nelle nostre mani”.

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Giuda, pentimento e perdono, cose su cui riflettere

di Giuseppe Candido

Pubblicato su il Domani della Calabria del 24 aprile 2011

Nella storia della letteratura e delle tradizione la figura di Giuda è stata riproposta con infinite variazioni. L’orientamento è stato quello di cercare una giustificazione trascendente al suo atto. A sostenere questa tesi, nel 2007 in un’intervista rilasciata a Repubblica, fu il Cardinale Gianfranco Ravasi, già prefetto della biblioteca ambrosiana di Milano, “chiamato” a scrivere, con Benedetto XVI, i testi delle meditazioni lette durante le solenne Via Crucis del Venerdì Santo.

“E’molto probabile” – sostiene Ravasi – “che Giuda abbia tradito per una delusione politica. Lui aveva sognato forse di vedere in Gesù un messia di tipo nazionalistico. Poi vede che quest’uomo scardina le strutture più all’interno che all’esterno. Quello che vuole mutare sono le coscienze degli uomini”. Così Giuda tradisce, poi si dispera e, infine, si toglie la vita. Qualunque atto immaginario ci induce quindi a collocare Giuda, il suicida, nel girone dantesco dei traditori. Ma, suggerisce ancora Gianfranco Ravasi, “Questo non possiamo dirlo come non potremmo mai dichiararlo di nessuno. Nell’assoluto momento di solitudine che è l’istante supremo della morte, quando si è tra il tempo e l’infinito, resta ancora una possibilità di scegliere”. Ravasi scorge, nelle ultime ore della tragedia interiore di Giuda e nello scagliare i trenta denari e che anche Mel Gibson ha rappresentato nella sua Passione, “il fiorire del pentimento”. Un pentimento che, ricorda il giornalista, è sempre “presente nella tradizione cristiana”. Anche Caterina Fieschi Adorno, considerata grande mistica e meglio conosciuta come Santa Caterina da Geneva, racconta della visione in cui le appare Cristo e in cui essa esprime la sua curiosità chiedendo a Gesù: “Che ne è stato di Giuda”. Allora Cristo le risponde sorridendo: “Se tu sapessi che cosa io ho fatto di Giuda …”, dimostrando che Giuda era stato “riassorbito nell’amore redentore di Cristo”. È il filone del pensiero teologico secondo cui, “nel momento ultimo non possiamo mai giudicare quale sia la scelta di una persona”.

La linea che va nella direzione della riabilitazione di Giuda fiorisce nel romanzo Un modesto, modestissimo libro, scritto idealmente dal figlio di Giuda di Jerey Archer. Giuda Iscariota è “strumento di Dio finché si possa compiere il percorso terreno di Gesù, fino alla sua crocifissione. Ma Giuda non è neanche una marionetta “usata da Dio”, in modo “crudele”. Jaques Bosset, vescovo e grande predicatore del ‘600, sosteneva che “Dio scrive dritto nelle righe storte degli uomini” potendo trasformare “un atto negativo in un disegno superiore”. D’altronde è proprio Gesù Cristo che, contro ogni regola di allora e di oggi, introduce la scelta del perdono: il suo ultimo gesto sulla croce è infatti il perdono del ladrone che, convertitosi, dice a Gesù: “Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. Dopo Giuda, un’altro malfattore da riabilitare a cui Gesù risponde: “Oggi sarai con me nel regno di Dio”. Potremmo ricordarcelo anche noi, in questi giorni di Pasqua che spesso viviamo tra un’agnello e una colomba, che è il perdono, non la rivendicazione e la vendetta, la vera strada per cambiare il mondo.
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Venerdì Santo: La donna con le Stigmate a Briatico

di Franco Vallone

Briatico, paese della provincia di Vibo Valentia, ore 15.00 di ieri, venerdì santo 2011. Il rione è il più antico del paese, proprio alle spalle del calvario a tre croci ancora allestito con palme e rami d’ulivo benedetto. Lei, la signora dalla pelle rosea con le stigmate rosse e scure è a letto, incosciente di tutto ciò che le succede attorno, dentro una delle piccole case basse del rione. La sua casa è aperta, la porta spalancata al mondo che una volta l’anno l’invade completamente e la fa diventare il luogo speciale da visitare. La gente arrivata a Briatico per essere vicina alla donna con le stigmate quest’anno è davvero tanta e la piccola casa non riesce a contenerla tutta. Sono arrivati in tanti, puntuali come al solito, ed anche da lontano. Amici paesani, parenti e conoscenti, poi ci sono i fedeli credenti ed anche numerosi altri arrivati solo per curiosità, ci sono fotografi, qualche operatore video che immortala il tutto e poi ricercatori, psicologi, alcuni medici ed anche don Salvatore, il giovane prete del paese. Tutti assieme, stretti stretti dentro la piccola casa, per osservare, in silenzio e con tanto rispetto, e per cercare di comprendere il perché di questo grande mistero e di tutti quei segni sulla pelle. Poi lei, la donna di Briatico dalla pelle rosea, si risveglia con la puntualità di un orologio biologico, stanchissima e provata racconta a tutti i presenti, con voce flebile, del suo lungo viaggio, delle sue visioni, dei suoi incontri onirici, dei luoghi e dei tempi del sacro visitati e dei messaggi ricevuti dall’alto. Poi, ancora più lentamente, riacquista le forze, recupera vitalità e a sera riprende la vita quotidiana di sempre, con i suoi rituali nelle processioni della Settimana Santa, i suoi canti nelle processioni dietro il Cristo e la Madonna ammantata di nero, i santi, le messe e la sua intima cristianità. Quello che anche quest’anno possiamo mostrarvi sono le foto della sua mano, del suo braccio con le stigmate e quello che possiamo raccontarvi è che anche in questo pomeriggio lei ha accolto con un sorriso e un saluto tutti coloro che hanno, in qualche modo, saputo lo stesso. Le porte della sua casa aperte ai tanti che hanno voluto essere testimoni della sua sofferenza intima ma visibile, collettiva, tangibile anche attraverso i segni che le si manifestano ritualmente sulle sue mani e su altre parti del corpo. Lei, la donna di Briatico, ha oggi sessantadue anni, è una nonna, una madre e una sposa normale, ed è straordinario detentore umano, una volta l’anno, di stigmate e ulcerazioni dalle simbologie cristiane dove forme di grani di rosario, di una croce e altri disegni sacri si materializzano lentamente nelle sette settimane di Quaresima per uscire fuori, sanguigni e scuri sulla sua pelle rosea, il venerdì prima di Pasqua. Anche per quest’anno non possiamo mostrarvi il suo volto, sempre sereno, carico di misticismo e di straordinaria accettazione per quello che annualmente le accade e per adesso non possiamo nemmeno dirvi il suo nome e cognome, per rispetto alla sua volontà di sempre, quella di essere discreta e silenziosa testimone della sofferenza cristiana.

 

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Trischene, una città immaginata

Il cronista si imbarca in un volo etimologico facendo derivare il toponimo Uria dal presunto greco attico Ur, col significato di “adorazione”

di Francesco Santopolo

Tra medioevo e rinascimento, era consuetudine affidare ad autori di cronache il compito di “costruire” storie per dare lustro ad un casato o ad una città.
Questo ha costretto la storiografia successiva ad un difficile lavoro di ricerca per dimostrare l’attendibilità delle “invenzioni” di alcuni fantasiosi cronisti.
Da una di queste è nata la storia di Trischene città che, secondo le cronache, sarebbe stata edificata tra il Simeri, l’Alli e l’Uria e avrebbe subito l’attacco di corsari saraceni tra l’865 e l’875 (U. Ferrari, 1971), dando luogo ad un trasferimento in massa della popolazione scampata al massacro, il cui nucleo più consistente avrebbe fondato la nuova città di Taverna.
Le cronache, infatti, non erano interessate alle vicende di Trischene, quanto alla glorificazione di Taverna che si pretendeva esserne stata l’erede naturale.
Anche in ricostruzioni storiche recenti (U. Ferrari, 1971; M. Barberio, 1975), le vicende di Trischene, sono solo un passaggio per ricostruire la storia di Taverna.
Tuttavia, proprio perché le cronache più antiche hanno contribuito a creare un circuito cumulativo di inesattezze che hanno messo in secondo piano una ricostruzione storica del territorio, pensiamo che la vicenda meriti un approfondimento e una riflessione che, a partire dalle caratteristiche dell’area in cui la fantasia cronachistica avrebbe immaginato Trischene, ci permetta di capire se ci fossero le precondizioni perché sorgesse una colonia autonoma o una “dipendenza”, durante la grande colonizzazione greca o subito dopo. La storia inizia con la comparsa di un manoscritto del ‘200 che ha interessato, a vario titolo, diversi scrittori in epoca successiva (G. B. Nola- Molise, 1649; F. Ughelli, 1743-1762; G. Franconeri, 1891; G. Minasi, 1896; F. Lenormant, 1976, vol. II).
Nella cronaca, il cui titolo completo è “Chronica Trium Tabernarum, et quomodo Catacensis civitas fuerit edificata, quando Goffredus illustrissimus Catacensis Comes pro restauracione et edificacione Trium Tabernarum Episcopatus Greca undique et vetera coadunavit scripta et privilegia” (in Lenormant, l. c., corsivo nel testo), si narra di una città denominata Trischene, e “Si pretende che ne sia stato autore un certo Ruggiero (Ruggero Carbonello, in M. Giovene, Simeri e i suoi casali, 2000, n.d.r.), diacono e canonico di Catanzaro, il quale avrebbe dedicato il lavoro a Guglielmo II, duca di Puglia” (F. Lenormant, l. c.).
Secondo il cronista, Trischene “era ripartita in tre distinte membra di sito, l’un là ove abbiamo l’Uria, l’altro sotto a Simmari e ‘l terzo sotto Catanzaro”(in M. Barberio, 1975).
E qui il cronista si imbarca in un volo etimologico facendo derivare il toponimo Uria dal presunto greco attico Ur, col significato di “adorazione” (in M. Barberio, l. c.). In realtà, Uria è termine di origine preistorica (G. Rolhfs, 1975), probabilmente legato alla presenza dell’omonimo uccello di cui sopravvivono solo alcune specie come Uria lomvia, Uria grylle o colombo di mare, o dal greco Ũria con cui si designava una specie di anitra o, ancora, dalla radice araba al-hūr che significa “fanciulla dagli occhi neri”.

 

Taverana (Cz)

Ma potrebbe anche collegarsi alla presenza di grosse mandrie di Bos primigenius, Uro per l’appunto, progenitore della razza bovina Podolica, ancora diffusa nel territorio.
Nella versione tramandata dalle cronache, si accrediterebbe l’ipotesi che, tra l’865 e l’875 (U. Ferrari, 971) la città di Trischene, fino ad allora sotto il dominio di Costantinopoli, avesse subito l’assalto di corsari saraceni che avrebbero distrutto i tre siti in cui era ripartita e ucciso gli abitanti che non riuscirono a trovare scampo nella fuga. La maggior parte dei superstiti si spostò in quella che sarebbe diventata Taberna montana o Tabernarum, altri si rifugiarono a Simeri, Catanzaro e Sellia (in M. Barberio, l. c.). Ad avvalorare l’importanza di Trischene nella geografia politica di Costantinopoli, il cronista immagina che, dopo la morte del Duca longobardo, il generale Niceforo Foca inviasse in Calabria il Magister militiae Gorgolano che trovò Tabernarum ricostruita e popolosa (in M. Barberio M. l. c.), la riconobbe unica erede di Trischene e le restituì la sede episcopale (U. Ferrari, l. c.; F. Lenormant, l. c.). La ricostruzione storica successiva non si occupa più del sito di Uria che sarà abbandonato per la posizione facilmente espugnabile.
Nel 1450 Ferrante Galas, nella “Cronaca di Taverna composta per messer F. G. di S. Pietro nel 1450”, compie un ulteriore sforzo di fantasia per risalire alle origine di Trischene, immaginando che “Antenore, fuggendo da Troia distrutta, conducesse con sé tre sorelle di Priamo: Astiochena, Medicastena ed Attila. Giunte in vista di un ampio golfo decisero di sbarcare presso la foce di un grande fiume per un breve riposo” (in Giovene, l. c.). Ma poiché non vi era luogo “migliore di sito né di temperie più soavi, né di campi più ameno, né di biade più fruttifero, né di boschi al di sopra più comodo, né di monti vicini ed aggiogati più sicuro, né di acque più abbondanti” (G. Franconeri, 1891) decidono di fermarsi, mentre Antenore proseguirà il suo viaggio, secondo la Chronica per fondare Mantova ma in realtà fonderà Padova (J. Berard, 1963; R. Graves, 1983).
Il luogo in cui fecero scalo era tra il Crocchio e il Simeri. Nel sito di Uria, Astiochena fondò una città e la chiamò Palepoli, in onore della dea Pale, nume tutelare della pastorizia, dea nella mitologia romana, dio in quella etrusca.
Medicastena, in onore di Hera, fondò Erapoli, alla foce del fiume Crocchio o su quella del Crotalo (Alli), luogo in cui, secondo quanto riferisce Stefano di Bisanzio, Ecateo di Mileto avrebbe immaginato la mitica città di Crotalla. Attila fondò una città alla foce del Simeri e, in onore di Atena, la chiamo Atenapoli, per saldare un debito verso la dea che invano aveva cercato di proteggere Troia.
Per la sua posizione. in prossimità della foce del Simeri, Atenapoli divenne il centro dell’attività commerciale. Nei mesi di aprile e maggio di ogni anno si svolgeva una fiera che richiamava mercanti anche dall’Africa e dal vicino Oriente e costituì la premessa per il formarsi di una forte comunità ebraica.
Presumibilmente si trattava della Floralia o Sacrum Florale che si teneva dal 28 aprile al 3 maggio in onore dell’antica divinità italica Flora, cui si attribuiva la fecondità delle donne e la protezione delle piante da frutto al momento della fioritura. Marziale, Varrone e Seneca parlano di Flora, Ovidio la identifica con una ninfa di origine greca (in L. Biondetti,1997) e Catone scrisse il De Re Flora, opera andata perduta ma ricordata da Gellio.
“Nel 238 a. C., in occasione della fondazione del tempio di Flora sul Quirinale” (A. Ferrari, 2008) la Floralia fu istituita anche a Roma (cfr. anche Plinio il Vecchio, 1972, vol. I).
Sia le date che i personaggi citati nelle “Cronache” vanno riesaminati. La pretesa del cronista che, per liberare Trischene, fosse venuto uno dei tre imperatori bizantini (Niceforo Logoteta, Niceforo Foca o Niceforo Botoniate), è, per l’appunto, solo una pretesa.
Più probabile che questo incarico fosse affidato al generale Niceforo Foca, del quale è certa la venuta in Calabria nell’885 (Ferrari U., l. c.).
Niceforo Foca trovò i nuclei scampati ai Saraceni dispersi nell’interno, lontano dalle zone costiere. La presenza del generale contribuì al rafforzarsi di questi nuclei in villaggi e città.
Fu così che nacquero o si rafforzarono Catanzaro, Settingiano, Simeri, Belcastro, Taverna e altre città (U. Ferrari, l. c.), almeno fino al ritorno degli Arabi che assediarono e conquistarono Squillace, costituendo un emirato indipendente durato fino al 922 (U. Ferrari, l. c.) e da qui mossero per espugnare Tiriolo, Simeri, Taverna, Belcastro e Catanzaro.
Secondo la cronaca, alcuni fuggiaschi, guidati da Giulio Catimeri, raggiunsero Catanzaro, si sistemarono sul monte Zaracontes, il cui nome deriverebbe dal torrente Zarepotamo che corrisponde all’attuale Fiumarella (G. Rolfs, 1974) e il nuovo sito, assegnato loro dal generale Niceforo Foca, si chiamò “Rocca di Niceforo” (l’attuale Bellavista). Trischene prese il nome di Taberna e poi Taverna, chi dice per attirare le popolazioni latine, chi sostiene che non esistendo più le tre chiese non c’era motivo di mantenere la vecchia denominazione (U. Ferrari, l. c.).
Taberna montana o Tabernarum o, più semplicemente, Taverna, accolse il maggior numero di fuggiaschi ed ebbe uno sviluppo iniziale maggiore, rispetto a Catanzaro.
Giovanni Filanzio, nella numerazione dell’Apogrifario dell’anno 1000, riporta 1.232 case e 5.288 abitanti, tra cui 53 sacerdoti, 6 monaci e 28 monache basiliane (M. Barberio, l. c.).
Ancora nel 1601, la distanza tra le due città era minima: Taverna contava 2.064 fuochi, Catanzaro 2.296 (M. Barberio, l. c.).
Circa l’attendibilità storica della Chronica, “Nessun dubbio che colui che la scrisse creò di sana pianta i fatti che racconta, frammischiandoli con mostruosi anacronismi e con documenti impudentemente falsificati”(F. Lenormant, l. c.) e, probabilmente, la ricostruzione di una città denominata Trischene o Trischine è “solo una miserabile supposizione, inspirata da pretese senza valore di vanità locale” (F. Lenormant, l. c.), poiché “nessun antico autore ricorda una città di Trischene o Trium Tabernarum nel Bruzio; nessun cronista autentico, né latino né greco né arabo, attesta la distruzione dell’uno o dell’altro nome ad opera dei Saraceni” (F. Lenormant, l. c.).
La tendenza a “costruire” falsi, anche clamorosi, tendenti a magnificare un sito o un personaggio e la scarsità di fonti, contribuiscono a creare delle nebulose tra le quali è difficile districarsi.
“Questa cronaca- aggiunge un altro cronista- è un vero guazzabuglio d’impostura, di notizie false e contraddittorie, un disordinato racconto di favole, come disordinato e confuso dovea essere il vivere del popolo delle Tre Taverne” (G. Minasi, 1896).
Poiché l’intento del cronachista era anche quello di dimostrare la presunta antichità delle chiese di Catanzaro, il Minasi aggiunge che il “cronista confondendo Giovanni vescovo di Squillace coll’omonimo di Velletri, a cui S. Gregorio Magno affidava nel 502 il governo della chiesa delle Tre Taverne (antica città del Lazio sulla via Appia, ove oggi incontrasi un paesetto chiamato Cisterna) senza badare ad altro, tosto spaccia, che la supposta diocesi delle Tre Taverne in Calabria fu unita nel 502 da S. Gregorio alla chiesa di Squillace” (G. Minasi, l. c.). Altri storici hanno messo in dubbio questa ricostruzione della Chronica (F. Ughelli, l. c.) e anche il Lenormant colloca le Tre Taverne nel Lazio.
Quanto, poi, alla pretesa dello sbarco di Antenore con le tre sorelle di Priamo sulle rive del Crocchio o del Simeri, ci sembra una altra colossale invenzione.
Bisogna ricordare che “Sebbene troiano, Antenore era amico dei Greci […] prendeva sempre le difese dei Greci nei dibattiti e possiamo immaginare che avesse interessi economici, parentele e legami matrimoniali che lo legavano ai Greci” (Strauss, l. c.). Così ce lo presenta Omero: “Primo il saggio Antenòr sì prese a dire: Dardanidi, Troiani, e voi venuti in sussidio di Troia, i sensi udite che il cor mi porge. Rendasi agli Atridi con tutto il suo tesor l’argiva Elèna. Vïolammo noi soli il giuramento, e quindi inique le nostr’armi sono. Se non si rende, non avrem che danno. Così detto, s’assise. (Iliadie, VII)

Per Omero, la figura di Antenore è quella di un eminente troiano che più volte si schiera con le ragioni dei greci, riconoscendone la fondatezza.
Infatti, per diritto consuetudinario, il rapimento di una regina equivaleva ad una dichiarazione di guerra, per cui l’unica via per la pace sarebbe stata quella di riparare al torto di Paride restituendo Elena a Menelao.
Inoltre, in quanto padre di 15 figli maschi, Antenore temeva per la loro vita (durante la guerra ne periranno 10 per mano di Agamennone, Achille, Neottolemo, Aiace Telamonio. Filottete e Megeo).
Ma Antenore era anche uomo del suo tempo e quando va a trattare la pace con Agamennone, cerca di trarre vantaggio da una guerra che considera perduta. In cambio del suo aiuto dall’interno, chiede il regno e la metà del tesoro di Priamo (Ditti Cretese, IV 22 e V 8, in Graves, l. c.), aggiungendo che si poteva contare anche sull’aiuto di Enea (Graves, l. c.).
Ma se, secondo Ellanico, Ditti Cretese e Triflodoro, Antenore tradì i Troiani e, qualche secolo dopo, Dante Alighieri chiamerà Antenora la zona dell’Inferno in cui colloca i traditori della patria: («Or tu chi se’ che vai per l’Antenora,/percotendo» (Inferno, XXXII), Enea non seguì la stessa sorte e sarà immortalato come un eroe nell’omonimo poema di Virgilio. Secondo Tito Livio, invece, Antenore ottenne la libertà grazie al ruolo moderato svolto durante la guerra, e arrivato nel Veneto, fondò Padova che fu chiamata Antenorea (cfr. anche Berard, l. c.).
A parte il diverso itinerario di fuga da Troia distrutta e documentato da storici attendibili, ci sembra assolutamente fantasiaso che Antenore possa essersi preoccupato di salvare le tre sorelle di Priamo, visto il ruolo che gli si attribuisce nelle vicende di Troia.
Resta aperto il problema della possibilità che nell’area in questione possa esserci stata una colonia greca o italiota, o una dipendenza da altra colonia (Crotone, per esempio).
Partiamo dalle cause della colonizzazione greca la cui interpretazione “è rimasta a lungo impantanata nella falsa alternativa tra l’interpretazione delle fondazioni come colonie commerciali e quella che ne fa colonie agrarie e di popolamento” (D. Musti, 1989), tanto da aver dato origine a due scuole di pensiero.
La prima privilegiava la pressione demografica nella terra natale che spingeva verso la conquista di nuovi spazi e la fondazione di colonie. La seconda privilegiava l’aspetto mercantile dell’economia greca, incentrata sulla produzione di beni e sugli scambi. Sul finire degli anni ’60 del secolo scorso, fu quasi del tutto eliminato il termine “pre- colonizzazione” con cui si designavano i contatti precedenti alla fondazione delle colonie (B. D.Agostino, 1985). In sostanza, i contatti tra il mondo greco e gli indigeni in epoca anteriore, sono da ascriversi ad iniziative individuali di mercanti, sul modello dell’emporia comune anche ai Fenici (B. D.Agostino, l- c.), mentre la fondazione di colonie corrisponde ad un disegno politico, di cui sono testimonianza concreta il loro assetto giuridico ed economico, come risulta evidente per la fondazione della colonia di Turi, dopo la distruzione di Sibari, riportata con dovizie di particolari da Diodoro Siculo nella Storia Universale.
L’adozione di uno schema geometrico che tende a segregare i campi coltivati da quelli incolti o destinati a pascolo (E. Sereni, 1987), è affidata a magistrati che operano in base ad un piano, come è stato possibile rilevare dalla Tavole di Eraclea, attraverso le quali Kaibel ha ricostruito la pianta delle terre di proprietà del tempio di Atena Polliade (E. Sereni, l. c.).
In realtà, sull’interpretazione delle cause della migrazione dei greci per fondare colonie fuori dalla madre patria, ha pesato molto un modello di emigrazione noto in epoca moderna e contemporanea, con il quale il modello greco non ha niente in comune, come hanno osservato Finley (1976) e Lepore (1978). Secondo Platone i coloni scaturiscono da una popolazione “divenuta eccedente in rapporto alla possibilità di alimentazione tratta dalla terra” (Leggi, 1967) oppure quando “accade anche che un intero partito di un solo stato sia costretto altrove in esilio per la dura necessità della lotta civile” (Platone, l. c.). Aristotele (Politica, 1973) aggiunge “la limitazione del numero dei cittadini, sul controllo delle nascite, sul mantenimento dei lotti familiari tramite l’adozione e sulla proibizione di alienare la proprietà terriera, in particolare i lotti attribuiti originariamente alla famiglia” (L. Cordano, 1985). In sostanza, “non si tratta di un numero eccessivo di abitanti, ma di un numero troppo grande di aventi diritto, rispetto alla disponibilità fondiaria” (L. Cordano, l. c.).
Quanto all’idoneità del territorio perché potesse sorgere una colonia greca o italiota, vale ricordare che Simeri e l’area attorno a Simeri, percorsa da due fiumi navigabili (Plinio il Vecchio, l. c.), era stata un luogo di traffici, se già nel 14°-13° sec. a.C. vi si lavorava il ferro e alla stessa epoca risalgono ritrovamenti di reperti ellenistici.
Questi contatti erano già iniziati nel XIII secolo a. C., quando le coste calabresi cominciavano a diventare meta di viaggiatori, Fenici e Greci.
Dei Fenici, prima delle guerre puniche, si hanno notizie certe in alcuni toponimi.
Il più noto è sicuramente “Botri”, che significa “fosso” o “burrone”, di cui Plinio riporta un solo toponimo ai piedi del Libano (Plinio il Vecchio, l. c.).
Botro è un toponimo in prossimità del Crocchio, Botricello il centro abitato che vi sorge attorno. Molto più ricca la toponomastica greca per la quale rinviamo alle opere di Gerald Rohlfs.
Il nome dei due torrenti, Scilotraco di Sellia, vicino al Simeri e Scilotraco di Rocca, vicino al Crocchio, ricordano l’antica abitudine di trasportare il legname proveniente dalla Sila.
Scilotraco significa, appunto, “portatore di legna” (G. Rohlfs, l. c.) e il termine deve avere una sua collocazione antica se dobbiamo credere a Strabone quando scrive che il legname “non presenta difficoltà di trasporto, né si trova lontano dai luoghi dove abbisogna, ma è facilmente trasportabile e lavorabile, grazie ai numerosi fiumi” (sta in C. Ampolo et al., 1989).
I motivi per cui si può ragionevolmente ritenere che l’area potesse avere interesse per i coloni greci o italioti sono tanti.
L’area risultava largamente trafficata da almeno 2 secoli prima della grande colonizzazione greca e i territori indicati nelle cronache, per essere territori costieri con un vasto entroterra pianeggiante e collocati lungo il corso di due fiumi navigabili (Semirus e Crotalus), non potevano sfuggire all’interesse dei coloni greci o dei coloni italioti;
Si chiamasse Trischene o in un altro modo, c’era spazio per una colonia ubicata in posizione felice tra Crotone e Palepoli Scolacium, a sua volta ubicata in prossimità di un altro fiume navigabile, il Carcinus (Corace).
Infine, è impensabile un vuoto antropico tra Skylletion-Scolacum e Crotone considerando che oltre che dal Semerus e dal Crotalo, il territorio è attraversato dal Thagines (Tacina), altro fiume navigabile.
Ma le conferme più importanti ci vengono dai ritrovamenti archologici.

Nel 1880, nel corso di scavi per la costruzione di una strada, in località “Donnumarcu” venne allo scoperto una tomba contenente “fibule di filo di ferro cilindrico girato a spirale, dei braccialetti, un anellino, delle catenelle, una cuspide di lancia e dei resti di ossa combuste” (M. Giovene, l. c.), mentre a Timpa delle Gallinelle fu rinvenuta una scure di bronzo e, probabilmente, altri oggetti andati perduti.
Sempre in “località Donnumarco, tra il 1881 e il 1884, furono scoperte altre tre tombe che, oltre al solito corredo, contenevano alcuni scarabei” (M. Giovene, l. c.).
Due degli scarabei ritrovati sono probabilmente di origine egizia e potrebbero essere stati oggetti di scambio nel corso di una Floralia o nelle attività di emporia.
Per concludere, se la pista di una città immaginata- a meno di ritrovamenti storico- letterari meritevoli di approfondimento- non può più essere ragionevolmente riproposta, resta la convinzione che i territori attorno al Simeri siano stati abitati da coloni greci a partire dalla grande colonizzazione o anche prima.
Per provarlo in via definitiva, al di là dei deboli indizi di cui disponiamo, sarebbe necessario ripartire con un lavoro di ricerca e di scavi che invece di dare corpo alle invenzioni, si muova sul terreno scientifico della ricerca storica e archeologica.

Bibliografia Alighieri, D. (2011), Inferno, Milano, Mondadori. Ristampa.
Aristotele (1973), Politica.Trattato sull’economia, Bari, Laterza.
Barberio, M. (1985), Da Uria a Mattia Preti, in Calabria Letteraria, n.10/11/12.
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Ughelli, F. (1743-1762), Italia sacra sive de Episcopis Italiae, Venezia.

 

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L’ideologia dell’indipendenza nazionale e la fine di Schengen

di Giuseppe Candido

Sottoscritto il 14 giugno 1985 fra il Belgio, la Francia, la Germania, il Lussemburgo e i Paesi Bassi l’accordo di Schengen intendeva eliminare progressivamente i controlli alle frontiere comuni e introdurre un regime di libera circolazione per i cittadini degli Stati firmatari, degli altri Stati membri della Comunità o di paesi terzi.
Successivamente, la convenzione di Schengen firmata il 19 giugno 1990 dagli stessi cinque Stati membri e successivamente entrata in vigore nel 1995, completò quell’accordo definendo “le condizioni di applicazione e le garanzie inerenti all’attuazione della libera circolazione”.
Obiettivi dichiarati della convenzione adottata poi da tutti i paesi membri erano l’abolizione dei controlli sistematici delle persone alle frontiere interne, il “rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne, la collaborazione delle forze di polizia e la possibilità, per esse, di intervenire in alcuni casi anche oltre i propri confini. Inoltre la convenzione prevedeva il coordinamento degli stati dell’Unione nella lotta alla criminalità organizzata di rilevanza internazionale come ad esempio mafia, traffico d’armi, droga e immigrazione clandestina.
Era il sogno degli Stati Uniti d’Europa che avrebbe dovuto concretizzarsi con un esercito degli Stati Uniti d’Europa, un Ministro degli Esteri europeo in un’Europa federale e federalista.
“L’ideologia dell’indipendenza nazionale” si legge nel Manifesto di Ventotene, “è stata un potente lievito di progresso; ha fatto superare i meschini campanilismi in un senso di più vasta solidarietà contro l’oppressione degli stranieri dominatori. Essa portava però in sé” i germi del nazionalismo imperialista, che la nostra generazione ha visto ingigantire fino alla formazione degli Stati totalitari ed allo scatenarsi delle guerre mondiali”.
Le cose però cambiano, i contesti divergono e l’Europa non è quella che i suoi più alti Padri costituenti avrebbero voluto. Gli Stati nazionali continuano a soffocare la Patria europea. Dopo aver fatto sparire la Bandiera blu con le stelle e dopo aver abolito l’Inno alla gioia come inno europeo oggi assistiamo alla morte della libertà di circolazione. A che punto sia oggi quel trattato, dopo la crisi Italia-Francia per la gestione degli immigrati, è sotto gli occhi di tutti. Non parliamo poi i quel sogno europeo. L’Onda dei migranti apre una crisi nell’Unione europea, è il titolo con cui apre in prima pagina nei giorni scorsi El Pais.
La valanga di migranti provocata dalle rivolte arabe ha aperto una nuova spaccatura nell’Unione europea. L’Italia ha accusato la Francia, sottolinea il noto quotidiano spagnolo, di violare i principi base dell’Unione dopo che le autorità francesi hanno bloccato il passaggio dei treni provenienti da Genova per impedire l’ingresso di tunisini. E che “Parigi blocca i migranti tunisini alla frontiera italiana” se ne accorge lo stesso Le Monde che però si spinge ben oltre nell’analisi.
“Ad una settimana dal vertice Franco-Italiano del 26 Aprile, i due Paesi hanno aggiunto un nuovo soggetto di discordia a quelli che già li oppongono, bloccando la circolazione dei treni tra Ventimiglia e la Costa Azzurra. Domenica, si legge ancora sul quotidiano d’oltre Alpe, Parigi ha provocato la reazione indignata del Governo italiano che ha denunciato questa misura come illegittima.” In causa, ovviamente, è la decisione presa dall’Italia di accordare un permesso di soggiorno provvisorio per circa 20.000 tunisini arrivati a Lampedusa dopo la caduta del regime di Ben Ali. Per il Governo Italiano, spiega Le Monde, questi permessi temporanei, in base agli accordi Schengen, devono permettere agli immigrati, che per la maggior parte vogliono andare in Francia, la loro libera circolazione. Per Parigi, invece, gli immigrati devono giustificare una residenza in Francia, un titolo di trasporto (cioè un biglietto) e delle risorse economiche per l’auto sostentamento.
Domenica scorsa, un centinaio di tunisini muniti di un permesso di soggiorno provvisorio, accompagnati da 250-300 militanti francesi ed italiani, avevano preso posto su quello che Le Monde definisce il “treno della libertà”. Da Genova verso la Francia, con l’obiettivo di “sfidare i blocchi dei governi e garantire il libero accesso al territorio europeo e ricordare che “nessun essere umano è illegale”. Parigi ha però deciso di bloccare il convoglio alla frontiera di Ventimiglia, ufficialmente, “in ragione dei rischi per l’ordine pubblico”. Unica causa per cui l’accordo di Schengen poteva essere sospeso temporaneamente.
Forse, in un momento come quello che oggi l’Italia sta vivendo, parlare di regressione del processo d’integrazione europea e di morte dell’Unione intesa come unione di popoli e non solo unione commerciale, può sembrare inutile, quasi velleitario. Eppure il tramonto di quel sogno, il declino di un’idea d’Europa unita non solo da un’unica moneta e dall’abolizione dei dazi sulle merci, ma anche dalla condivisione di territori, di culture e di tradizioni, proprio nel momento in cui i nazionalismi, dal Belgio alla Finlandia passando per i Paesi Bassi, si affermano e si rinforzano, dovrebbe costituire una preoccupazione seria per classi dirigenti del nostro Paese.

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