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La porcata è fatta

di Giuseppe Candido

Vauro

Mentre lo scriviamo è ancora in discussione ma il processo breve (leggisi prescrizione perché è l’unica cosa abbreviata) è ormai cosa fatta. Anziché diminuire le prescrizioni come l’Europa ci chiede da anni e che già di suo viaggiavano, e a causa della colpevole lentezza della giustizia italiana, a ritmo di 150.000 all’anno, la maggioranza approva la legge che invece dimezzerà i termini di prescrizione per tutti gli imputati, anche di reati gravi, purché non ancora condannati. Il numero dell’ingiustizia come minimo raddoppierà. Anche gli incensurati accusati di reati gravi come la concussione potranno sperare di farla facilmente franca e non essere condannati neanche in primo grado. Sarà solo B. a beneficiare di tutto ciò? No di certo. Ad essere baciati dalla prescrizione breve saranno in parecchi. Tutti gli imputati di concussione che per esserlo, da pubblici ufficiali, dovevano per forza essere incensurati, godranno dello stesso trattamento e le parti civili, quelle parti cioè offese dai reati, vedranno vanificarsi il loro diritto ad essere risarciti del danno subito. Pensiamo, ad esempio, ad un pubblico ufficiale che nell’offrire cariche pubbliche o incarichi istituzionali in cambio di denaro o prestazioni sessuali, se incensurato, godrà lo stesso della prescrizione breve. Non era meglio, allora, fare direttamente un’amnistia? Almeno non avrebbe riguardato soltanto i “colletti bianchi” ma anche i poveri cristi che in prigione ci vanno davvero. Ma tant’è. Evviva l’Italia.

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Calabria: amministrative senza trasparenza

I dati dei patrimoni degli eletti, in Calabria, continueranno a restare top secret

di Giuseppe Candido

 

A circa un anno dalle regionali del 2010 che proclamarono Giuseppe Scopelliti governatore della Regione, in Calabria si torna alle urne per le elezioni amministrative. La scadenza, com’è noto, riguarda importanti città: il capoluogo della regione, Catanzaro, la popolosa Cosenza, Crotone e Reggio Calabria, dove si voterà anche per eleggere il nuovo presidente della Provincia. Le elezioni riguarderanno, inoltre, altri 97 comuni.

Un articolo sulla legge regionale approvata a settembre del 2010

Ma di trasparenza, ancora, non se ne parla nemmeno. Dopo che per 28 anni, i patrimoni e gli interessi finanziari degli eletti al Consiglio Regionale calabrese (oltreché i finanziatori e le spese delle relative campagne elettorali) non sono mai stati resi pubblici, e dopo che la vicenda aveva conquistato le pagine dei quotidiani nazionali grazie alla firma di Sergio Rizzo, nel mese di settembre 2010 è stata adottata la legge regionale che, finalmente, dispone la presentazione e la pubblicazione. Purtroppo però, quella legge non obbliga né i presidenti di provincia, né i sindaci dei comuni Capoluogo o con popolazione superiore a 50.000 abitanti come già prevede la legge nazionale, a fare lo stesso.

Prendiamo ad esempio il comune di Catanzaro dove a maggio si voterà per eleggere il sindaco. Stante la legge nazionale preveda la presentazione e la pubblicazione dei dati patrimoniali da oltre 28 anni anche per i Sindaci e gli assessori comunali, poiché però la leggina regionale approvata in fretta e furia a fine estate dispone la pubblicazione per i consiglieri regionali ma, ahi noi (tranquilli loro), non prevede nulla né per i sindaci degli importanti comuni né per i presidenti di provincia, la partitocrazia locale può stare tranquilla. I loro dati patrimoniali che, se resi pubblici, potrebbero smascherare anticipatamente interessi finanziari occulti, quei dati che potrebbero dimostrare se un politico che si candida di nuovo, nei cinque anni di mandato precedente, ha (o meno) incrementato i suoi redditi e i suoi interessi finanziari, tutti quei dati, in Calabria, continueranno a restare top secret. E la trasparenza rimane un’utopia di qualche radicale. E ciò nonostante la legge nazionale dica chiaramente, dal 1982, che tutti i cittadini hanno il diritto di conoscerli. Non tutti i mali vengono per nuocere però. Paradossalmente, grazie ad un’altra leggina “vergogna”, tutta calabrese, che consente ai nostri consiglieri regionali (e solo ai nostri) di candidarsi come sindaci e come presidenti di province, abolendo il divieto di cumulo di cariche, potremmo almeno conoscere i redditi di quei consiglieri regionali che si candidano già pronti a ricoprire la doppia poltrona.

 

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L’Aquila sia da monito: adeguare il patrimonio edilizio al rischio sismico

di Giuseppe Candido

Il 6 aprile 2009, alle ore 3:32, un sisma di Magnitudo 5.8 della scala Richter devastò l’Aquila, Onna, Paganica e altri piccoli centri della Provincia aquilana. Il terremoto distruggeva l’Aquila e il suo tessuto economico e sociale. Ancora una volta, la mancata prevenzione, l’edilizia fuori norma, l’elusione di controlli e procedure hanno trasformato un evento naturale nella catastrofe che si è offerta agli occhi degli italiani. A due anni da quel terremoto, e guardando i tempi con cui i giapponesi ricostruiscono le strade, qualche domanda sulla ricostruzione è normale. Berlusconi e Bertolaso sventolarono subito le bandiere della celerità. Ma nonostante i proclami e le passerelle televisive, la ricostruzione è proceduta a rilento ed oggi, 37mila aquilani sono ancora sfollati. Ma oltre alle polemiche sulla ricostruzione è chiaro che, se non cambieremo modo di affrontare il problema, ogni terremoto rischia di diventare una catastrofe in termini di vite umane. Il Giappone dovrebbe offrirci spunti di riflessione non soltanto sul nucleare ma anche sul fatto che, per difendersi dai terremoti, l’unica strada è quella di costruire con tecnologie antisismiche adeguate. Nonostante sia stato uno dei terremoti più forti che i sismografi abbiano mai registrato, quello del Giappone ha causato, se si escludono quelli dello tsunami e della conseguente catastrofe nucleare, relativamente pochi danni. Un terremoto di quella stessa intensità che colpisse l’Italia raderebbe al suolo tutto. Non è mai il terremoto che ti uccide ma la casa che ti crolla in testa. Il rischio sismico è sempre il prodotto dell’evento calamitoso che può verificarsi in una data zona e la vulnerabilità sismica degli edifici che in quella zona sono presenti. È chiaro che anche un forte sisma che avvenga in un’area dove i palazzi e le strutture sono ben costruite, avrà un basso rischio di fare vittime. Li, a Tokyo, l’11 marzo i grattacieli hanno oscillato vertiginosamente ma sono rimasti in piedi, in Calabria invece sarebbero state rase al suolo non soltanto le private abitazioni ma anche ospedali, scuole, prefetture ed altri edifici pubblici. Non dimentichiamo che fu la stessa protezione civile che già nel 1999, quand’era guidata dal dott. Franco Barberi, ad eseguire il censimento della vulnerabilità sismica degli edifici pubblici di alcune regioni tra cui l’Abruzzo e la Calabria.

Protezione Civile - CNR GNDT - Edifici pubblici nella Regione Calabria

 

A l’Aquila, due anni fa, sono venuti giù proprio quegli edifici pubblici che erano stati censiti come ad elevata vulnerabilità sismica. In Calabria, il 65% del patrimonio edilizio pubblico è classificato, in quel censimento, come ad elevata o molto elevata vulnerabilità sismica. Negli ultimi cento anni la Calabria ha tremato molte volte: nel 1905 a Reggio Calabria un terremoto di magnitudo del 7,9 grado Richter seguito, nel 1908 dal terremoto di Messina e Reggio Calabria del 7,2 grado Richter. Cosa aspettiamo, nella nostra Regione, per fare qualcosa? Che una prossima scossa devasti tutto? Prevenire è meglio che ricostruire. Perché, allora, non investire nell’adeguamento antisismico delle strutture pubbliche che ne avrebbero bisogno?

Mappa dell'intensità massima risentita in Italia - CNR GNDT

E’ inutile sottolineare che il colore rosso nella mappa indica i luoghi (tra cui Reggio Calabria) dove più alta è stata l’intensità massima risentita

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Persa autorevolezza la politica mostra i muscoli

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “Il Domani della Calabria” del 6.aprile.2011

Stretto tra l’emergenza profughi per quello che Berlusconi stesso ha definito uno tsunami umano e la lega che chiede che gli immigrati vengano portati subito “fuera di ball”, il Parlamento italiano è andato in guazzabuglio. La nostra democrazia parlamentare non è mai stata così fragile come lo è oggi. L’altro giorno alla Camera tra i “vaffa” più o meno trattenuti, i “conigli” sottolineati e le urla “fascista di merda”, gli italiani hanno assistito ad uno spettacolo davvero indecoroso. Il “fanculometro”, così come Annalena Benini lo definisce sul Foglio, del ministro La Russa verso il presidente della Camera è davvero la tragicomica parodia di una realtà che si mischia con la finzione, con l’esagerazione; è il mostrare i denti e i muscoli di una politica che ha perso l’autorevolezza di governare il Paese.

La riforma epocale (e urgente) di una giustizia che oltre ad essere caratterizzata da tempi elefantiaci che l’Europa sanziona e che ha prodotto (e ancora produce) migliaia di casi “Enzo Tortora”, si è trasformata nell’ennesima leggina ad personam: il processo (leggi prescrizione) breve. Una legge che, qualora fosse approvata, non soltanto salverebbe Berlusconi da una condanna certa in primo grado ma, cosa ancora più grave, farebbe aumentare il numero, già elevatissimo, di prescrizioni allargando quella che è, di fatto, un’amnistia di classe e di regime. Senza però aumentare di una virgola la velocità dei processi e lasciandone inalterato il carico. I Magistrati dovranno continuare a svolgere anche quei processi che si sa andranno prescritti. Niente di epocale dunque, soltanto una vistosa e plateale perdita del senso del decoro. È lotta continua tra “gli estremi (e già falliti) rimedi per sottrarre il Cav. alla gogna delle procure” e gli “estremismi antiberlusconiani di piazza e di Parlamento” che molto bene Giuliano Ferrara pubblica sul Foglio. Una radicalizzazione del confronto politico in cui non si sa davvero che scegliere e tra cui, speriamo, non essere costretti a dover scegliere. Anche perché, a guardarli attentamente, è vero che entrambe le gambe del regime, come scrive Staderini, sono giustizialiste. “Per esigenze di potere collegate al giudiziario” una. “Per esigenze di repressione necessarie a coprire l’incapacità di affrontare le grandi questioni del nostro tempo” l’altra. Entrambe sorreggono il medesimo corpo della democrazia malata, sempre più corrotta, dalla partitocrazia. Come dar torto, poi, a Ritanna Armeni che scrive che fosse lei in Parlamento non voterebbe “una legge proposta da chi ha un suo personale interesse a volerla”. Ma il problema del PD e dell’opposizione in genere non è minimamente paragonabile a quello di una grande squadra come il Barcellona che gioca male perché difronte ad una “squadra scarsa che gioca scorretto”. Il problema è di più ampio respiro. È l’intera classe dirigente che, dopo sessant’anni di partitocrazia e asfissiata dall’assenza di ricambio, ha perduto la sua autorevolezza e, come scrive Michele Ainis, tenta disperatamente di “recuperarla gonfiando i bicipiti”. Le nazioni muoiono di impercettibili scortesie, diceva Giraudoux ricorda Aines ma, è bene ricordare anche che, come sosteneva Montesquieu, “Lo Stato perirà nel momento in cui il potere legislativo sarà più corrotto dell’esecutivo”.

Per cui accade di tutto. Mentre le carceri, nell’assenza di Stato di diritto, straripano di immigrati clandestini e mentre le procure si ritrovano con registri indagati che sembrano elenchi telefonici, il Ministro della Difesa (in guerra con la Libia) manda tranquillamente a quel paese il Presidente della Camera. Ma è “il mancato ricambio delle classi dirigenti” individuato da Michele Ainis la causa principale della “deriva pericolosa” delle Istituzioni parlamentari cui stiamo assistendo? Il Professor Massimo Salvadori insiste anche lui a parlare di un “sistema politico bloccato” nel suo saggio (Ed. Laterza) intitolato “Democrazia senza democrazia”. Ma probabilmente, per definire il vero male della nostra democrazia parlamentare, è più corretto parlare di una vera e propria “Peste italiana”, come fa a chiare lettere il volume di Radicali Italiani non ancora definitivamente edito e dedicato a futura memoria (se la memoria avrà futuro). “Dal primo gennaio 1948, nel momento stesso della sua entrata in vigore, inizia immediatamente il processo di snaturamento e svuotamento della Costituzione; da qui i partiti” – si legge nell’introduzione del volume – “cominciano a impadronirsi del sistema politico e a cancellare lo Stato di diritto; da qui parte la negazione dei fondamentali diritti civili e politici dei cittadini italiani”. Nel volume, viene citato, tra l’altro, il discorso del Presidente del Consiglio dimissionario Giuliano Amato del 22 aprile 1993: “Quella che noi chiamiamo la degenerazione progressivamente intervenuta nei partiti italiani, quel loro lasciare vuota la società, quel loro divenire poco alla volta erogatori di risorse disponibili attraverso l’esercizio del potere pubblico, questa degenerazione” – affermava allora il dottor. Sottile – “è stata il ritorno o la progressiva amplificazione di una tendenza forte della storia italiana e che nella storia italiana era nata negli anni Venti e Trenta, con l’organizzazione di ‘quel’ partito”. “È dato di fatto che il regime fondato su partiti che acquisiscono consenso di massa attraverso l’uso della istituzione pubblica è un regime che nasce in Italia con il fascismo e che ora viene meno. E non a caso. Nello stesso momento viene meno quel regime economico fondato sull’impresa pubblica che era nato negli anni Trenta. Ed è un regime economico e un regime di partiti che attraversa per certi aspetti pure un cambiamento importante, pure fondamentalissimo, come quello del passaggio tra quel regime e la Repubblica e che viene meno ora”. Dovremmo rileggerle quelle parole perché assai attuali. Anche ora, mentre i tanti nessuno vivono credendo nell’Unità e nelle Istituzioni con la (i) maiuscola, anche oggi quella conquista di democrazia repubblicana fondata e fondamento di uno Stato di diritto ci sembra lontana. E per farci l’idea della gravità del momento dovremmo ricontare, ad uno ad uno, tutti i referendum in cui i cittadini erano riusciti ad esprimersi abrogando delle leggi ma che, con qualche leggina ad hoc, sono stati traditi dal Parlamento. Dal finanziamento pubblico dei partiti a quello della riforma elettorale in senso maggioritario passando per quello sulla responsabilità civile dei magistrati. Per non parlare del nucleare. E dovremmo anche analizzare la storia di una Repubblica fondata sul regime dei partiti e delle loro oligarchie, che hanno stravolto la democrazia. Solo con queste premesse potremmo davvero interrogarci su come risolvere quella che è giusto definire, forse, la più grande ed irrisolta questione sociale del nostro Paese e ridare senso alle istituzioni parlamentari scegliendo magari, come Costituzione richiederebbe, i migliori “nessuno” piuttosto che i soliti noti, a sedere negli scranni parlamentari.

 

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Scorie nucleari: una bomba per le future generazioni

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “il Domani della Calabria” del 01 aprile 2011

Mentre a Fukushima il disastro nucleare annunciato si è ormai conclama salendo nella classifica al grado 7, il più alto della scala, attribuito in passato al disastro nella centrale ucraina di Chernobyl, e mentre Angela Merkel inverte la rotta a 180 gradi annunciando l’uscita della Germania dal nucleare che punterà tutto su rinnovabili (eolico e fotovoltaico), qui in Italia, nel paese dei Dante e dei Leonardo, nel Paese dove il sole spacca in due i sassi, il Governo italiano, dopo l’accordo italo francese sull’acquisto di centrali atomiche e il mega pacchetto anti crisi che avevano confermato il “ritorno alla grande” dell’Italia al nucleare, oggi sentiamo di una generica “moratoria” per un anno per fare una “pausa di riflessione”.

A calcio diremmo che così si fa melina per perdere tempo, sbollentando gli animi e magari invitando gli elettori a disertare il referendum che il prossimo 12 di giugno ci chiederà se vogliamo o meno confermare la dissennata scelta del governo di un “ritorno al nucleare”. Ricordiamolo ancora una volta, il nostro è un territorio, a differenza di quello della Francia e della Germania, assai pericoloso dal punto di vista sismico e che, già nel recente passato, abbiamo visto verificarsi eventi catastrofici, tsunami di Reggio Calabria compreso nel 1908. E non dimentichiamo che, rischio sismico a parte, il vero problema del nucleare (e anche il suo vero costo noscosto) di cui spesso però ci si dimentica è quello delle scorie, la monnezza nucleare che non si sa dove mettere. La spediamo sulla luna? Nell’Italia dei veleni industriali finiti sotto le questure e le scuole, delle navi a perdere e delle infinite e prorogate emergenze rifiuti, proprio le scorie di quel carburante nucleare diventerebbero, per centinaia o forse anche migliaia di anni, la vera e tragica bomba ecologica per le future generazioni. E anche la guerra con la Libia e tutta la situazione d’instabilità nel mondo arabo, ci dovrebbe indurre a riflettere su quale tipo d’energia dovremo puntare per il futuro del nostro Paese convincendoci del fatto che, se lo fa la Merkel in Germania dove il sole scarseggia pure, un’Italia cento per cento rinnovabile è pure possibile. Fotovoltaico ed eolico ma non solo: geotermico a bassa entalpia per il riscaldamento domestico sino alle biomasse di compost prodotto con un ciclo integrato dei rifiuti. Per questo, senza contare su moratorie inedite ed anche per evitare di ammazzare del tutto lo strumento referendario che i padri costituenti ci avevano regalato, è giusto che, il 12 e il 13 giugno prossimi, ognuno di noi si rechi a votare per impedire di far scegliere ad altri il nostro domani e, soprattuto, quello dei nostri figli.

 

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C’é un problema d’informazione

Anatomia del delitto della democrazia reale

di Giuseppe Candido

Non c’è dubbio che alla base di una vera democrazia ci sia, durante il processo elettorale, il libero formarsi dell’opinione pubblica secondo un plurale e altrettanto libero sistema dell’informazione.

Pubblicato su “Il Domani della Calabria” del 28.93.2011

Dagli anni ’70 ad oggi per questo motivo sono state emanate diverse leggi in materia di informazione, di comunicazione politica e “pluralismo” nel sistema radiotelevisivo italiano: dalla Legge 103 del 14 aprile 1975, passando per la “Legge Mammì” del 1990 e la “legge Gasparri” del 2004, fino al Testo Unico della radiotelevisione del 2005, tutti i regolamenti sono stati mirati a disciplinare il sistema radiotelevisivo su principi di obiettività, completezza, imparzialità e parità che avrebbero dovuto garantire il rispetto del requisito della verità, fondamento del diritto di cronaca.

Imposta nei programmi di comunicazione politica indipendentemente dal periodo in cui vengono trasmessi, la “par condicio” detta le regole per l’informazione durante i periodi elettorali disponendo, testualmente, la “parità di condizioni nell’esposizione di opinioni e posizioni politiche, nelle tribune politiche, nei dibattiti, nelle tavole rotonde, nella presentazione in contraddittorio di programmi politici, nei confronti, nelle interviste e in ogni altra trasmissione nella quale assuma carattere rilevante l’esposizione di opinioni e valutazioni politiche”. Ma al tempo stesso specifica che la norma “non si applica alla diffusione di notizie nei programmi di informazione”. Insomma, parità d’informazione sì, ma con la possibilità di poterla violare sistematicamente nei così detti format di approfondimento come le trasmissioni “Annozero”, “Ballarò”, “Porta a porta” ecc.

Il tutto condito dal fatto che sono completamente sparite le tribune politiche in cui, un tempo, i leader delle varie forze politiche, si confrontavano.

PORTA A PORTA
I dati di ascolto della trasmissione Porta a Porta di Bruno Vespa

Nato il 20 febbraio del 1981 da un’idea di Marco Pannella per dimostrare l’utilità e la necessità di un sistema di monitoraggio televisivo, il Centro d’Ascolto dell’informazione radiotelevisiva presenterà a giorni un rapporto, curato dal direttore del centro Gianni Betto, il cui titolo è chiarissimo: “Anatomia del delitto neo-goebbelsiano della democrazia reale”. Sottotitolo: “Dal minuto all’ascolto… verso gli ascoltatori”.

Bisognerebbe ricordare ai cittadini d’oggi, come giustamente fa Gianni Betto, che nel 1968 e nel 1972 il Partito radicale denunciò l’illegalità delle elezioni politiche, non presentò propri candidati ed invitò gli elettori a votare scheda bianca.

In pochi anni, ricorda ancora Betto, si ottennero una serie di riforme storiche, molte delle quali ancora in vigore: “l’accesso alle tribune politiche dei partiti non rappresentati in Parlamento; la garanzia dell’equal time per tutti i competitori elettorali; il sorteggio dell’ordine di intervento; l’accesso alle tribune dei rappresentanti dei Comitati promotori dei referendum (ottenuto in occasione del referendum sul divorzio dopo 78 giorni di digiuno di Marco Pannella)”.

“Sempre grazie a uno sciopero della fame e poi della sete di Marco Pannella, alle elezioni politiche del 1976 viene riconosciuto per la prima volta il principio della “riparazione” per soggetti politici cui è stato illegittimamente impedito l’accesso. È da quel momento che Rai e Commissione parlamentare di vigilanza avviano l’opera di smantellamento progressivo delle tribune ponendole in fasce orarie di scarso ascolto, riducendone il tempo complessivo e adottando format che le rendono prive di interesse. Contemporaneamente, dinanzi all’importanza assunta dalle consultazioni referendarie, gli spazi di accesso sono contratti, negando la peculiarità del Comitato promotore e diluendone la presenza con l’ammissione paritaria di decine di altri soggetti, tra partiti e comitati, ivi inclusi gli astensionisti”.

dati ascolto Ballarò
I dati di ascolto della trasmissione "Ballarò"

Come stanno oggi le cose, invece, è sotto gli occhi di tutti ma forse, guardando il delitto in tv, non ci si rende conto del movente e del mandante. Per capire quali siano le reali responsabilità del sistema radiotelevisivo italiano nel delitto, continuato e perpetuato, di uccisione della democrazia è necessario leggere i dati snocciolati, in maniera sistematica, nel rapporto del Cd’A. Tanto per fare qualche esempio, nel mense di novembre 2010, nei tempi dedicati all’informazione politica dai TG Rai nel loro complesso (6 ore, 19 minuti e 3 secondi con 2.673 milioni d’ascolti), ben il 40,85% totale del tempo (566 milioni d’ascolti pari al 21,2% degli ascolti) è stato dedicato al Popolo delle Libertà, il 19,58% del tempo (548 milioni d’ascolti pari al 20,5% degli ascolti) è stato dedicato al Partito Democratico. Seguono poi Futuro e Libertà (11,91% del tempo, 355 milioni d’ascolti pari 13,3% degli ascolti), l’Unione di Centro (8,31% del tempo e 319 milioni d’ascolti pari al 11,9% degli ascolti), la Lega Nord (7,01% del tempo e 330 milioni d’ascolti pari al 12,3% degli ascolti). Al sesto posto c’é l’IdV di Antonio Di Pietro col 49,98% del tempo e l’8,2 % degli ascolti (233 milioni). Seguono poi, dopo la voce “Altro” non meglio specificata, SEL (0,47% del tempo e 54 milioni d’ascolti pari al 2 % del totale), Alleanza per l’Italia di Rutelli che con 17 milioni ha raggiunto lo 0,6% del totale degli ascolti, Federazione della Sinistra (che con 2 minuti e 47 secondi ha raggiunto 28 milioni d’ascolti pari al 1,0 % del totale), Radicali Italiani-Lista Bonino con lo 0,51% di tempo (1 minuto e 55 secondi d’informazione) sono riusciti a raggiungere 35 milioni d’ascolti (1,3%), il Movimento per l’Autonomia di Lombardo con lo 0,31% del tempo e con 19 milioni d’ascolti (0,7%), mentre la Destra di Storace è riuscita a parlare solo a 21 milioni d’ascoltatori con lo 0,27 % del tempo dedicatogli. Ancora più giù, nella classifica della mancata informazione politica paritaria Democrazia Cristiana con 16 milioni d’ascolti e UDEUR-Popolari e Federazione dei Verdi chiudono con 3 milioni d’ascolto ciascuno. Questo per quanto riguarda le formazioni politiche nei TG della Rai che, quale concessionaria per il servizio pubblico radiotelevisivo, avrebbe per legge il compito di garantire il pluralismo dell’informazione politica.

dati d'ascolto Annozero
I dati di ascolto della trasmissione Annozero di Michele Santoro

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i dati di ascolto di "In mezz'ora"
I dati degli ascolti della trasmissione "In mezz'ora" di Lucia Annunziata

 

 

“Le nuove forze che potrebbero turbare o concorrere a modificare gli equilibri della vita politica italiana” – scrive a ragione il giornalista nell’introduzione del volume – “sono così escluse dal dibattito pubblico e negate alla conoscenza dei cittadini”.

Se viene meno il diritto dei cittadini a conoscere per deliberare, se l’enaudiano motto non trova applicazione, allora la democrazia è davvero cosa lontana.

Se poi si legge la classifica dei leader politici cui è stato dato spazio ci si rende meglio conto della completa e sistematica cancellazione di alcune formazioni politiche: le prime cinque posizioni sono occupate, manco a dirlo, rispettivamente da Silvio Berlusconi, Pierluigi Bersani, Pierferdinando Casini, Gianfranco Fini e Antonio Di Pietro. Seguono Cicchitto, Maroni, Bocchino, Gasparri, Della Vedova e il Ministro Maria Stella Gelmini. La lista prosegue. Al 16° posto c’è Vendola, al 18° il Ministro Alfano seguito da Schifani, Veltroni, Letta Enrico, Maurizio Lupi e Tremonti. D’Alema è al 25° posto, 27° per Piero Fassino mentre chiude la classifica Gianni Letta. Ma nei primi trenta posti nessun radicale è presente. Pur ricoprendo, Emma Bonino, il ruolo di vice presidente del Senato e pur essendo i temi Radicali, riforma della giustizia in primis, prioritari nell’agenda del Paese. E le cose non vanno meglio se si osservano i tempi delle presenze politiche nelle trasmissioni Rai di approfondimento giornalistico come Annozero, Ballarò e Porta a Porta. In quest’ultima trasmissione, solo per fare un esempio, dal 29 marzo 2010 al 17 gennaio 2011, in 64 puntate, al PdL sono state garantite ben 82 presenze (126,3 milioni d’ascolti), 49 al PD (79,4 milioni d’ascolti), 29 presenze alla Lega Nord (46,3 milioni d’ascolti) e 22 a Futuro e Libertà per l’Italia (32,2 milioni d’ascolti). Segue l’IdV con 14 presenze e 24,6 milioni d’ascolti, l’UDC con 12 presenze e 18,7 milioni d’ascolti. Chiudono tristemente la classifica Sinistra Ecologia e Libertà di Vendola con 5 presenze (8,2 milioni d’ascolti), 4 presenze per l’API di Rutelli (8 milioni d’ascolti) e il PSI (1 presenza e 1,6 milioni di ascolti). Nessuna presenza invece per i Radicali e per la Federazione dei Verdi che, evidentemente, non sono graditi al salotto del pungiglione nazionale. Ma se la cosa si fermasse a Vespa e ai TG forse non si potrebbe parlare, come invece emerge, di vero e proprio genocidio di una forza politica, nel particolare dei Radicali che, pur essendo presente nel Paese da oltre mezzo secolo con continuità e con grandi battaglie civili, dal nucleare alla giustizia passando per l’eutanasia, che sono di grandissima attualità. Purtroppo zero sono anche le presenze dei Radicali nelle 28 puntate di Ballarò dal 30 marzo 2010 al 18 gennaio 2011 e nelle 23 puntate di Annozero dal 1 aprile 2010 a quella del 20 gennaio 2011.

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Leggi l’intero rapporto del Centro d’Ascolto radiotelevisivo

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Una rosa rossa per l’inferno dei dimenticati

di Giuseppe Candido

Pubblicato su il Domani della Calabria del 25.03.2011

 

Mentre in Libia scoppia la guerra della comunità internazionale contro il dittatore sanguinario, e in Giappone aumenta il rischio nucleare assieme al bilancio delle vittime del terremoto e dello tsunami, c’è una notizia, tutta italiana, che rischia tragicamente di passare in secondo piano. Nell’Italia impegnata dalle celebrazioni per i suoi centocinquanta anni d’Unità, nell’Italia dove si discute sì, di una necessaria riforma della giustizia ma dove la situazione carceraria è, in generale, divenuta anticostituzionale per il sovraffollamento e le inumane condizioni di detenzione, la misura vera dell’assenza pressoché totale di uno Stato di diritto ce la dà la Commissione parlamentare d’inchiesta sugli errori sanitari che ha verificato, con un’ispezione a sorpresa, e denunciato le inaccettabili condizioni di vita negli ospedali giudiziari psichiatrici. “Rinchiusi senza nessun motivo per esserlo”. Condizioni inumane e disumane: molto peggio del “puzzo di piscio e segatura” che racconta Simone Cristicchi in Ti regalerò una rosa.

È una denuncia durissima quella che arriva dalla commissione parlamentare d’Inchiesta sugli errori sanitari presieduta dal Senatore Ignazio Marino del Pd che scuote le coscienze. Nella scorsa settimana la commissione ha visitato gli ospedali psichiatrici di Aversa e di Barcellona Pozzo di Gotta (Sicilia) trovandosi difronte ad una realtà sconvolgente che ha superato ogni immaginazione. Sono le immagini di un video shock che, durante la conferenza stampa tenuta lo scorso 16 marzo, raccontano le indegnità subite diversamente inenarrabili. Una vicenda che, come italiani, ci dovrebbe fare letteralmente vergognare. Una “procedura inusuale” per il Senato della Repubblica e per una commissione d’inchiesta, quella della presentazione mediante un video, ma ch’è stata appositamente utilizzata proprio “per far sentire sulla pelle di tutti le emozioni e le sofferenze degli internati che la commissione ha incontrato nel suo viaggio negli ospedali psichiatrici giudiziari”. Se anche la legge Basaglia nel 1978 modificò la normativa dei manicomi, queste degli ospedali psichiatrici giudiziari sono strutture invece, rimaste inalterate dal 1930 (Codice Rocco) e dove ci si entra per due motivi: o perché si ha una condanna, o perché si viene tecnicamente prosciolti perché incapaci d’intendere e di volere e, avendo pure una malattia psichiatrica, si viene affidati a queste strutture per essere guariti, curati con lo scopo di venire poi restituiti alla vita normale. Invece le immagini shock raccontano di persone affidate in cura allo Stato e legate nude su letti senza materassi e con dei buchi nel pavimento dove far cadere gli escrementi. In tutto ciò c’è l’istituto della proroga a complicare le cose. Perché può allora capitare che si abbia scontato la propria pena ma che, non avendo nessuno cui affidarti, la proroga della cura si trasforma in una sorta di ergastolo bianco. E anziché per essere curati si rimane in questi istituti per essere isolati dal resto della vita, dalla società. Lo Stato li ha dimenticati, li ha lasciati lì, abbandonati di proroga in proroga, senza un fine pena e, paradossalmente, senza neanche un medico psichiatra ad occuparsi di loro. E siccome lo Stato siamo noi, siamo noi che li abbiamo dimenticati. Abbiamo preferito, senza né una “rosa rossa per dipingere ogni cosa” né “una rosa bianca per dimenticare ogni piccolo dolore”, cancellarli dalla società rilegandoli in veri e propri lager. Se di gente chiusa per quarant’anni dentro i manicomi perché “credeva di parlare col demonio” ci racconta la canzone, di un malato psichiatrico rinchiuso da 25 anni perché 25 anni fa ha compiuto una rapina con la mano in tasca simulando di avere una pistola, ci parla la tragica realtà. Una realtà fatta da trecentocinquanta tra detenuti e internati. Venti minuti al mese con uno psichiatra e dieci internati per cella in strutture che dell’ospedale hanno ben poco. “Non possiamo tollerare, nel nostro Paese, che delle persone vengano trattate in questo modo”, ha spiegato il Senatore Ignazio Marino, “Vogliamo arrivare ad un superamento definitivo di questi istituti. E soprattutto in questo momento la commissione è impegnata nel cercare di portare a casa, di restituire alle aziende sanitarie locali per la cura, 376 persone che sono chiuse in questi luoghi, molte da decenni, senza avere nessuna pericolosità sociale”. Una ferita gravissima non solo al senso umano e cristiano ma anche alla nostra stessa Carta fondamentale, la Costituzione, che prevede espressamente che sia illegittimo rinchiudere una persona, privarla della libertà, senza che ve ne sia una motivazione di legge. Senza contale le condizioni oggettivamente disumane in cui queste persone sono mantenute. “Su questo c’è bisogno” – ha spiegato Marino nella conferenza stampa dello scorso 16 marzo – “di coinvolgere tutti, dai giornalisti alla gente, perché negli scorsi mesi di 376 persone si è risusciti a sistemarne solo 65”. Il Senatore Michele Saccomano del PdL, membro anche lui della Commissione d’Inchiesta sugli errori sanitari, ha usato parole chiarissime sulla motivazione della conferenza stampa: “C’è bisogno della percezione popolare. Siamo venuti a gridare in pubblico ciò che vogliamo che tutti percepiscano come un fatto importante. Non è una questione burocratica. Stiamo parlando di qualcosa di cui dobbiamo vergognarci. E vorremmo che a vergognarsi non sia solo qualcuno ma che tutti ci vergognassimo perché abbiamo, in Italia, situazioni di questo tipo”. L’obiettivo è quello di ottenere, con la collaborazione di governo e regioni, il superamento di questi ospedali giudiziari psichiatrici, vere e proprie carceri nelle carceri, a favore di un’affidamento di queste persone a strutture riabilitative che, nel rispetto della dignità della persona umana, si occupino di queste persone. Nel 2008 un decreto del Presidente del Consiglio segnava il passaggio di queste strutture dalla Sanità penitenziaria alla Sanità del servizio sanitario nazionale ma, al 2011, rimangono ancora da individuare i bacini di utenza di Puglia, Basilicata, Sicilia e Calabria. E anche questa segnalazione è per chi non sa parlare per difendersi, e pur senza avere una calligrafia da prima elementare, è per chiedere alle istituzioni, Regioni e Aziende sanitarie in primis, di farsi carico di queste persone per riportarci, tutti, a livelli di più umana civiltà.

 

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Il dibattito sul nucleare non è sciacallaggio

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “Il Domani della Calabria” del 18 marzo 2011

A Tokyo la radioattività fa paura, 20 milioni di abitanti sono al centro dell’incubo nucleare. Mentre continuano le scosse di assestamento di quello ch’è stato un evento sismico tra i più disastrosi e quando è ancora aperta la profonda cicatrice lasciata dalla grande onda, le esplosioni nei reattori nucleari si susseguono. Il Giappone e il rischio di una catastrofe nucleare hanno riaperto il dibattito sullo sfruttamento di tale fonte d’energia non soltanto in Italia dove, tra l’altro, si voterà a breve (e di nuovo) un referendum. La discussione s’è riaperta negli Stati Uniti e, soprattutto, in Europa. In un editoriale del New York Times pubblicato col titolo “Le calamità multiple del Giappone” si spiega come, dopo i morti e gli sfollati per il terremoto e lo tsunami, le centinaia di migliaia di senza tetto, ora la paura è di un’altra catastrofe, quella nucleare, con l’ipotesi di conseguente contaminazione radioattiva. “La tragedia in corso in Giappone”, si precisa nell’editoriale, “deve spingere gli americani a rivedere i loro piani per gestire i disastri naturali e i potenziali incidenti nucleari. Abbiamo già visto quanto povere – prosegue l’editoriale – sono le nostre difese con l’uragano Katrina che ha distrutto New Orleans e quanto la follia industriale abbia arrecato in termini di danni con la perdita di petrolio nel golfo del Messico dello scorso anno. È triste, scrive ancora il N.Y.T., che queste calamità possano danneggiare in questo modo il Giappone, un paese tecnologicamente avanzato e che mette grande enfasi alla riduzione dei danni provocati dai disastri”. Anche i muri protettivi in mare si sono rilevati inadatti per proteggere dallo tsunami che ha trascinato via i sistemi di sicurezza che dovevano proteggere dal surriscaldamento e dalla fusione i reattori nucleari. “È troppo presto per comprendere la magnitudo di ciò che è accaduto ma per ora questi giorni di crisi in Giappone corrispondono al peggior incidente nucleare da Chernobyl nel 1986”. Le notizie allarmanti che raccontano un Giappone che rischia la fusione dei reattori colpiti con conseguenze sconosciute, catastrofiche probabilmente, si incrociano con le celebrazioni del 150° dell’Italia unita. Negli Stati Uniti è fondamentale riaprire il dibattito sugli standard di sicurezza mentre il paese, dopo decenni di stagnazione, sta per ampliare il proprio programma nucleare; 30 centrali in America sono come quelle oggi in crisi in Giappone e molte si trovano su faglie geologicamente attive e, poiché vicine alla costa, anche a rischio tsunami. Ma il dibattito sul nucleare si riapre anche al di qua dell’oceano. In Germania, ad esempio, il premier Angela Merkel ha decretato una moratoria sulla durata delle attività delle centrali atomiche e anche la Svizzera annuncia la sospensione delle procedure relative alle domande di autorizzazione per le nuove centrali nucleari. Persino in Francia la questione energetica è di nuovo al centro del dibattito nella “sinistra”, tra gli ecologisti e i socialisti, anche se il Presidente Nicolas Sarkozy, per la verità, ha escluso l’ipotesi d’uscita dal nucleare del suo Paese. Quindi non è sciacallaggio mediatico chiedersi se, al nostro Paese, che aveva abolito la scelta del nucleare con un referendum, convenga davvero il così detto “ritorno” al nucleare. Mentre tutto il mondo s’interroga sulla sicurezza delle centrali nucleari che hanno già in casa, mentre persino il ministro dell’Ambiente francese Nathalie Kosciusko-Morizet afferma con chiarezza che la situazione in Giappone “è molto grave” e che “il rischio di uno scenario da catastrofe non può essere scartato”, nel nostro Paese il governo tira dritto e in settimana, dopo la pausa celebrativa dei 150 anni, la Commissione Industria del Senato dovrebbe cominciare l’esame dell’atto relativo alla disciplina della localizzazione degli impianti nucleari in Italia. Senza farci condizionare dal “momento emozionale” e senza fare “sciacallaggio” vorremmo però far notare due aspetti di questa vicenda che, speriamo, facciano riflettere. Il primo è che il sisma registrato in Giappone la scorsa settimana è stato un evento di magnitudo di gran lunga superiore a quella massima risentita in passato in quell’area e che, avendo avuto l’epicentro nell’oceano a poca distanza dalla costa, ha provocato un’onda anomala enorme che si è subito abbattuta sulle località costiere dove, travolgendo villaggi e mettendo in crisi i reattori nucleari. Dunque non soltanto sappiamo oggi che i terremoti possono avere un’intensità superiore a quella del passato, quella che cioè viene definita come massima intensità risentita ed è utilizzata per il dimensionamento delle strutture, ma dovremmo chiederci pure se, anche nel nostro territorio, siano possibili degli tsunami che mettano in crisi eventuali centrali o depositi di scorie radioattive. Ad esempio, nel 1908 a Reggio e Messina, dopo che il grande terremoto aveva provocato lutti e distruzione fu l’onda dello tsunami a causare l’apocalisse vera. E se non si vuol riflettere per prudenza lo si faccia almeno per interesse. Siamo sicuri che l’uranio convenga davvero? Siamo sicuri, cioè, che l’atomo sia la strada giusta per risolvere la nostra dipendenza dal petrolio e dalle crisi magrebine piuttosto che moscovite? Un fondamentale principio d’economia energetica afferma che “la migliore energia è quella a più basso costo, purché si aggiungano ad essa anche tutti i costi indiretti”. Costi indiretti, che spesso definiti externalities. Dopo aver ascoltato le parole di Umberto Veronesi che ci rassicura dicendoci che lui vivrebbe vicino una centrale o un deposito di scorie nucleari, prima di rimetterci a costruire nuovi impianti che entreranno in funzione, se andrà tutto bene, tra una ventina d’anni e che, tra l’altro, troppo nuovi e sicuri non lo sono, sarebbe opportuno rileggere le parole del Prof. Carlo Rubbia, premio Nobel per la fisica, che d’ideologico non hanno nulla: “Tra il 2000 ad oggi i prezzi dell’ossido di uranio sono cresciuti dai 7 dollari/libra a 130 e cioè circa di un fattore 20”. La preoccupazione cresce ulteriormente – sostiene Rubia – “se si tiene conto che circa un terzo dell’uranio utilizzato proviene oggi da stock militari esistenti e in via di esaurimento. La situazione dell’uranio, ricorda quindi terribilmente quella del petrolio”. Insomma, si rischia che dalla padella del petrolio si passi alla brace dell’uranio. In quell’intervento Rubbia aggiunge che: “Non si può evitare il confronto con le nuove energie rinnovabili da diffondere su larga scala, come il solare a concentrazione ad alata temperatura”, il così detto CSP, di cui quasi mai si parla. Impianti che, al contrario delle grandi centrali nucleari, sarebbero “realizzabili in tempi brevi, tra 16 e 24 mesi per impianti di grandi dimensioni, con costi che, pur essendo oggi ancora più elevati, sono nel processo di rapida riduzione che li porterà a valori del tutto compatibili con i costi dei fossili in meno di un decennio. Il costo dell’elettricità per un impianto CSP è perfettamente prevedibile. Il prezzo dell’uranio tra trent’anni, a metà strada dei tempi di vita di un reattore, è assolutamente imprevedibile”. Ma la cosa che davvero non può permettersi l’Italia è un ritorno al nucleare alla cieca, senza che un vero dibattito venga aperto nel paese e senza una vera informazione dei cittadini. Ma su questo e su altri temi, il servizio pubblico radiotelevisivo dov’è?

 

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Una indegnità centenaria

a cura di Filippo Curtosi e Giuseppe Candido

Monteleone, paese devoto all’inerzia e all’apatia

Un corsivo al veleno in occasione del centenario garibaldino

 

Il primo centenario garibaldino trascorse in Monteleone di Calabria, <<paese devoto all’inerzia e all’apatia>> (oggi la città è conosciuta col nome di Vibo Valentia) senza un palpito che, anche fievolmente, accennasse alla sua vita civile. A ricordarcelo è il Pane! Giornale socialista “peri i senza pane” che, nel numero 3 dell’anno I del 21 luglio 1907, a firma di Michele Pittò, allora gerente responsabile, pubblica un’articolo quanto mai attuale. “Assenteismo ufficiale, meno qualche rara bandiera monarchica al municipio, alle caserme, agli uffici fiscali, alle rivendite di privative, etc. – assenteismo nel popolo, il quale” – spiegava il giornalista – “ha vissuto quel sacro giovedì 4 luglio, come vive tutte i giorni dell’anno. Oltre le rare bandiere, pregiavano scarsamente le mura cittadine il manifestone della Massoneria romana e un manifestino anonimo, invitando con libera parola il popolo ad accorrere in Piazza Minerva per assistere alla commemorazione dell’eroe. Eppure Monteleone- ironizza ancora il giornalista – ha una numerosa schiera di massoni, una numerosissima scolaresca, la quale trova sempre, quando vuole, il tempo per fare delle dimostrazioni, una società operaia, della quale fanno parte moltissimi lavoratori, un manipolo di garibaldini più o meno autentici, una borghesia che si vanta di essere evoluta. Ebbene, tutte queste forze, negative sempre quando non si tratti di accompagnare il cadavere di qualche fratello “trepuntini” al cimitero, di far del chiasso per qualche articolo di regolamento scolastico, di gareggiare nelle manifestazioni festaiole per la Madonna di Pompei,per San Leoluca o per Sant’Antonio, con intervento di pratori sacri, più o meno celebri pei loro sofismi, socialistoidi a base di religione capitalistica e capestruola, che fa andare in solluccheri tanti signori con tanto di “aplomb” cittadino. Oggi queste parole volte alla città calabrese, viste le numerose polemiche su le celebrazioni per il 150° dell’Italia Unita, potremmo usarle per andare oltre le polemiche e sollecitare le riforme necessarie per mantenere uno stato unitario, non “centralistico”, ma basato su un sistema di autonomie locali autenticamente federale.

 

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L’Ottocento, un secolo cruciale

di Giovanna Canigiula*

L’Ottocento è un secolo cruciale nella storia dell’Italia e della Calabria ma, val bene ricordarlo, è preparato, sotto la spinta della rivoluzione francese, dal triennio 1796-1799, in cui si gettano le basi di un ritrovato nazionalismo e si ridefiniscono i termini della vita politica italiana, poiché sono sul tappeto le grandi questioni degli anni a venire: libertà, democrazia, indipendenza, unità. Agli inizi del secolo Napoleone, dopo aver creato la Repubblica Cisalpina, col proclama di Schoenbrunn dichiara finita la casata borbonica, costringe Ferdinando IV alla fuga in Sicilia, mette sul trono il fratello Giuseppe Bonaparte, quindi dà mandato al generale Massena di occupare il Regno di Napoli e al generale Reynier di ridurre al dominio francese una Calabria già prostrata dal violento terremoto del 1783 e dalla dura repressione, seguita alla breve parentesi della Repubblica partenopea del 1799, ad opera del cardinale Ruffo, sbarcato a Reggio in qualità di Vicario Regio.

Gioacchino Murat

 

A Monteleone i francesi sono accolti a braccia aperte, ma il controllo del territorio non è facile, in quanto le truppe borboniche hanno l’appoggio di bande di briganti che ostacolano le comunicazioni, depredano i villaggi, uccidono. Nel monteleonese il brigante Bizzarro1, a capo di 400 uomini, mette a dura prova il generale Messana che chiede inutilmente, con un bando, la resa pacifica delle armi. La situazione si normalizzerà, infatti, solo dopo la dura repressione del francese Manhès nel 1810.

Con Gioacchino Murat, salito al trono nel 1806, la Calabria è divisa in due province: quella Citeriore, con capoluogo Cosenza, e quella Ulteriore, con capoluogo Monteleone che, dopo tre secoli, cessa di essere feudo e diventa, grazie anche alla posizione strategica, un centro di grande rilievo.

La fine dell’Età napoleonica e, in Calabria, della centralità di Monteleone, è segnata dal congresso di Vienna del 1815, che riconsegna il regno di Napoli a Ferdinando IV, col titolo di Ferdinando I Re delle due Sicilie. Inizia, con la Restaurazione, un periodo di decadenza economica e sociale che dura fino al 1860 e oltre, come testimonia anche il vistoso calo della popolazione. Tuttavia, a dispetto del declino, il fermento culturale e politico del periodo è intenso. Già alla fine del Settecento avevano cominciato a circolare, fra gli intellettuali monteleonesi, le idee liberali della Rivoluzione francese e della Massoneria che, perseguitata a più riprese da Carlo III e Ferdinando IV, aveva attecchito perché auspicava la fine di principati e sacerdozi, in quanto compromissori della libertà che Dio ha dato all’uomo2.

Ettore Capialbi

 

Dopo il 1815, inoltre, si vanno diffondendo in tutta Italia le “vendite carbonare”, col parziale contributo di quel ceto borghese che aveva visto ridimensionate, con la caduta di Napoleone, le proprie prerogative. Senza un reale programma politico, esse legano la loro vicenda nazionale a quella europea, sulla base dell’idea che libertà individuale e libertà dei popoli siano incontestabilmente collegate. A Monteleone sono attive, in questi anni, due “vendite”, quella della Valle del Mesima e quella della Valle d’Angitola, vecchi nomi di significativa derivazione massonica. Il malcontento della popolazione, del resto, è enorme: le tasse sono esiziali, il commercio è danneggiato dalle imposte doganali, la proprietà rustica è deprezzata. In Calabria la repressione dei carbonari è violenta: donne, vecchi e bambini vengono torturati perché facciano i nomi degli affiliati alle sette.

Né va meglio da Napoli a Torino: i moti del 1820-21, che non registrano la partecipazione del popolo e neppure delle classi medie, falliscono. Diversi, tuttavia, i calabresi che vi partecipano e, fra questi, il monteleonese Michele Morelli che, a Nola, è catturato e subito ucciso3.

Delude anche il biennio 1831-33, nonostante la discesa in campo della borghesia.

Comincia, così, un periodo di relativa stasi in cui si riflette sul fallimento dei moti e si prepara, sotto l’egida di Mazzini e dei liberali, ora in sintonia ora divergenti, una nuova idea d’Italia. Parole d’ordine: indipendenza, unità, libertà. Strumenti: educazione e insurrezione. Necessità individuata: mobilitazione popolare. A Monteleone, che conta ormai meno di ottomila abitanti, gli anni Trenta sono tempo di rinascita: si apre l’ospedale civile sui resti dell’antico convento carmelitano, giunge in visita Ferdinando II che promette la costruzione di un orfanotrofio e di un istituto agrario, fioriscono attività artigianali e opifici come quello per la lavorazione della seta, lavorano diverse tipografie, è presente una scuola pittorica4 che, aperta nel Seicento, continua a produrre tele su committenza non solo religiosa ma anche privata.

Uno svizzero, Didier, nel resoconto del suo viaggio in Calabria, parlerà della Monteleone di questi anni come di un centro che va europeizzandosi, a dispetto di ciò che si vede nel resto della regione5. Certo, l’istruzione è ancora per pochi: trascurata dai francesi, è volutamente negata dai Borboni, secondo cui il popolo non deve pensare ma è sufficiente che conosca i rudimenti dell’alfabeto. Alle bambine, ad esempio, si richiede essenzialmente di saper lavorare a maglia e di avere una buona formazione cristiana. E tuttavia, nei primi anni Quaranta, è attivo un gruppo di giovani di idee liberali, come Musolino (fondatore a Napoli dei Figli della Giovane Italia, cui aderisce Luigi Settembrini), Presterà, Santulli, Morelli, Nicotra, Ammirà, Capialbi, che si riuniscono a casa di Cordopatri o al caffè Minerva.

Falliscono però, e tragicamente, i moti di Cosenza del 1844 e di Reggio del 1847.

A Cosenza un giovane Plutino, reduce dal Comitato centrale di Napoli, aveva riferito agli aderenti alla Giovane Italia la decisione dei vari partiti costituzionali e dei repubblicani di Çpiegar le bandiere di fronte ai vitali interessi della nazioneÈ: Mazzini, in sostanza, aveva offerto la corona d’Italia a Carlo Alberto perché guidasse la lotta contro l’Austria e solo una futura costituente nazionale avrebbe deciso la forma di governo migliore. La rivolta, scoppiata il 15 marzo del 1844, è subito repressa, ma la notizia non giunge a Corfù da dove i veneziani Bandiera, ex ufficiali della marina austriaca, partono per portare il loro aiuto. Sbarcati a Crotone, guidati da quello che considerano un profugo politico, in realtà il brigante Meluso, vengono traditi, catturati nei pressi di San Giovanni in Fiore e condannati a morte.

Tre anni dopo, in una Reggio che ritiene maturi i tempi, rientrano diversi studenti da Napoli, Palermo, Torino per fare propaganda rivoluzionaria. Ancora una volta le decisioni arrivano dal Comitato napoletano di liberazione: l’insurrezione dovrà partire, contemporaneamente, da Cosenza e Palermo. Ma i siciliani non ci stanno: vogliono la costituzione solo trattando pacificamente col re. é un nativo di Santo Stefano d’Aspromonte, Romeo, a decidere: toccherà a Messina e Reggio insorgere per attirare le truppe borboniche in maniera da consentire ai rivoltosi, attraverso la via dei monti, di raggiungere Palermo e Napoli. A Messina la rivolta è subito sedata. A Santo Stefano d’Aspromonte, benedetta la bandiera dal parroco e accorsi aiuti da tutti i paesi limitrofi, si insorge al grido di Çviva il re costituzionale, viva la libertàÈ. Ma si perde tempo, a vantaggio del generale Nunziante che, da Pizzo, risale via via fino a Monteleone e oltre, riuscendo ad accerchiare i rivoltosi costretti sui monti: chi non muore, è condannato al carcere duro6.

Francesco Stocco
Francesco Stocco

 

E’ il 1848 la data cruciale per l’Europa: i popoli si ribellano ai governi assoluti; da una Sicilia che ha anima separatista parte l’insurrezione che presto infiamma l’intero napoletano; Venezia e Milano sono teatro di rivolta contro gli austriaci. La partecipazione dei calabresi è grande. Rientra, dopo un esilio di circa trent’anni, quel Guglielmo Pepe che prima aveva combattuto al fianco di Murat contro gli Austriaci e poi partecipato ai moti del 1820. A Reggio gli studenti scendono in piazza. Ferdinando II, messo alle strette, è costretto a concedere la costituzione, che prevede l’istituzione di una Commissione dei Pari in cui entrano due monteleonesi, Taccone e Gagliardi. L’esempio sarà seguito in Piemonte, in Toscana, a Roma. Il disaccordo tra re e Parlamento sulla formula del giuramento, però, induce Ferdinando II a sciogliere la Camera dei deputati riunita a Monte Oliveto. Il 15 maggio è guerra civile. La notizia raggiunge la Calabria dove i Comitati per la salute pubblica di numerosi centri insorgono. A Cosenza si forma un governo provvisorio che dichiara rotto ogni patto tra il re e il popolo e chiede aiuto ai siciliani nella lotta per l’indipendenza; Catanzaro è in subbuglio; a Reggio si vivono ore di attesa; a Sant’Eufemia d’Aspromonte convergono i patrioti reggini guidati da Plutino, Romeo, Cuzzocrea, Di Lieto che, con 500 volontari, formano il Corpo dell’esercito calabro-siculo. Si appellano, con volantini, al popolo, “carne venduta alle voglie di ogni dispotico capriccio”, perché riprenda in mano il suo destino senza più affidarsi al sovrano. A Monteleone la gendarmeria borbonica è disarmata, ma lo sbarco del generale Nunziante pone subito fine all’insurrezione in tutte le province. Ricominciano, cos“, le trattative.

Il re fissa, per il 15 giungo, i comizi per l’elezione dei deputati; il Parlamento inizia i suoi lavori a luglio ma, l’anno che segue, è denso di tensioni finché, nel giugno del 1849, sciolto il Parlamento, tolta la coccarda tricolore dalla bandiera bianca, ricomincia l’ondata delle persecuzioni. Si assiste, nei tre anni successivi, a una serie di processi farsa a danno dei liberali, in cui il nuovo Procuratore Generale, Morelli, detto la “jena”, contribuisce alla distorsione dei fatti per favorire le condanne. I ricorsi degli imputati vengono rigettati dalla Corte Suprema di Napoli e solo la protesta popolare fa s“ che le condanne siano mitigate: sei su 49 i condannati, con pene da sette a trent’anni.

Nel 1852 Ferdinando II scende di nuovo in Calabria, di nuovo Monteleone lo ospita, ma il clima resta teso: si susseguono vendette, persecuzioni, perquisizioni. La magistratura è sotto pressione, gli studenti sono tenuti d’occhio. é di questi anni l’arresto del monteleonese Ammirà che, processato per la sua attività di diffusione delle idee liberali, è accusato persino di offendere il buon costume in quanto tiene in casa una copia del Decameron di Boccaccio. Non è comunque venuta meno, nonostante le batoste, l’azione dei liberali monteleonesi. Lo stesso re rischia la vita per mano di un calabrese, Agesilao Milano, che, dopo la leva, riuscito con uno stratagemma ad entrare nel corpo dei Cacciatori, durante la parata dell’8 dicembre del 1856 a Campo Capodichino, riesce a raggiungere Ferdinando II e a colpirlo col calcio del fucile.

Intanto, mentre il dibattito nazionale divide l’ipotesi mazziniana di una rivoluzione popolare dalla proposta monarchico-governativa di Cavour, le vicende precipitano e le due soluzioni finiscono col trovare una sintesi. Nel 1857 fallisce la spedizione a Sapri di Pisacane, che ha al fianco i calabresi Nicotera e Falcone. Mazzini sacrifica definitivamente l’idea repubblicana alla libertà degli italiani, i franco-piemontesi combattono contro gli austriaci, crollano i ducati di Toscana ed Emilia, nasce il regno dell’Italia del nord.

I successi infiammano il sud: a Reggio, nella bottega di un barbiere, si radunano a più riprese i rivoltosi.

La spedizione in Sicilia è uno dei momenti chiave dell’unità d’Italia: nel 1859 Francesco II subentra al padre, fiuta la tristezza dei tempi e si affretta a concedere la costituzione, ma è tardi e tutti lo abbandonano. L’anno successivo Garibaldi sbarca a Marsala, sbaraglia i borbonici, raggiunge da liberatore Palermo e si appresta ad attraversare la Sicilia mentre a Reggio Calabria sono pronti i comitati insurrezionali, che arruolano volontari allo scopo di formare un campo in Aspromonte. E’ l’uomo giusto, pragmatico e capace di animare il popolo, senza necessariamente avere lo spessore del maestro Mazzini poi rinnegato.

Luigi Bruzzano
Luigi Bruzzano (1838-1902)

La sua impresa aveva messo in moto i calabresi che vivevano a Torino e a Genova e che subito avevano avviato un’affannosa colletta di soldi ed armi. Da Quarto si erano imbarcati con lui nove cosentini, sei catanzaresi e altrettanti reggini. Destinazione Sicilia, dove tuttavia l’insurrezione era fallita sul nascere. Le tappe del generale erano state trionfali: Calatafimi, Palermo, Milazzo, Messina. Sotto la guida di Musolino e Plutino, ai calabresi era stato affidato il compito di occupare il forte di Altafiumara, sullo stretto, per facilitare il passaggio del generale. Il piano, però, era mutato e i patrioti erano risaliti sui monti per attirarvi le truppe borboniche della costa. A San Lorenzo, in duecento e ben accolti dalla popolazione, il 16 agosto danno il via all’insurrezione e, il giorno successivo, si ricongiungono con Garibaldi a Mileto. Intanto, le truppe borboniche di stanza a Monteleone sono allertate e, proprio mentre Garibaldi e Bixio raggiungono Mileto, il generale Ghio prepara la ritirata a Napoli. Il 21 agosto, dopo aspri scontri, Reggio è conquistata e a Londra giunge la notizia che il Regno di Napoli è ormai cancellato dalle carte d’Europa.

Ricomincia la salita. I paesi insorgono. Garibaldi raggiunge una Monteleone sguarnita che lo accoglie trionfalmente e vi sosta, ospite del marchese Gagliardi, dal balcone del cui palazzo incita la gente venuta ad ascoltarlo: “Se un popolo risponde al grido di libertà – dice – esso è degno d’averla è. Proprio a Monteleone c’era stato un precipitoso quanto inutile cambio di guardia: il maresciallo Vial, preoccupato dalle notizie che giungevano, si era dimesso e da Pizzo, con un migliaio di soldati, si era imbarcato alla volta di Napoli; il suo successore, il generale Ghio, non aveva potuto far altro che abbandonare il paese e mettersi in marcia verso Tiriolo. Intanto, Catanzaro, Maida, la stessa Tiriolo vengono liberate. Da Maida Garibaldi chiede aiuto contro le truppe di Ghio ferme a Soveria Mannelli. Ed è a questo punto che la storia del poeta e patriota Luigi Bruzzano e quella della sua terra si intrecciano: il 30 agosto, a Soveria Mannelli, poco più che ventenne, prende parte allo scontro tra i garibaldini guidati dal generale Scocco, che aveva organizzato un suo gruppo, i Cacciatori della Sila, e i borbonici guidati da Ghio che, vistosi circondato dalle truppe nemiche posizionate sulle alture e incalzato frontalmente da Garibaldi, si arrende insieme ai suoi 10.000 uomini. Il resto del tragitto, fino a Salerno, è un passaggio attraverso rivolte già compiute.

Nella cittadina campana Garibaldi incontra altri due calabresi, Salazar e Piria, lo stesso che di lì a poco, su incarico di Cavour, avrebbe preparato il plebiscito in Calabria. Poi la cronaca: in ottobre, a Teano, il Dittatore dell’Italia Meridionale consegna a Vittorio Emanuele II le due Provincie continentali delle Due Sicilie che, come ratificherà nel documento a sua firma dell’8 novembre successivo, lo hanno scelto quale loro Sovrano Costituzionale, unendosi alle altre Province d’Italia, con 1.302.064 di voti a favore e 10.312 contro. Fra i parlamentari del nuovo Regno un monteleonese, Musolino e, fra i senatori, quel marchese Gagliardi che aveva finanziato l’impresa garibaldina7.

Gli ultimi decenni dell’Ottocento sono di grande fermento politico, economico, sociale e culturale in Italia, ma il Sud da subito arranca. Alla Camera il deputato del collegio di Melito Porto Salvo, Agostino Plutino, protesta ripetutamente contro la cattiva amministrazione regia, propensa a “piemontesizzare” i territori liberati da Garibaldi. Ovunque si chiede Roma capitale, ma la Francia si oppone e il governo Rattazzi scontenta tutti. Così Garibaldi, nel 1862, torna in campo, risale da Palermo verso Napoli ma è fermato e ferito dai Forestali, sull’Aspromonte, nel corso di uno scontro con i sessanta battaglioni che, guidati dal generale Cialdini, gli sono stati mandati contro, mentre a Reggio la Giunta Municipale, il Consiglio Comunale e gli ufficiali della Guarda Nazionale si dimettono.

Garibaldi ritornerà in Calabria, ammalato, nel marzo del 1882, per raggiungere Palermo e partecipare alla commemorazione dei Vespri. Il viaggio in treno è lentissimo: dappertutto, lungo i binari, folle di calabresi giunte a salutarlo. Il legame con Reggio è forte, la città non l’ha mai dimenticato, nel decennio successivo alla spedizione gli ha conferito una medaglia, lo ha eletto presidente onorario della Società Operaia di Mutuo Soccorso, gli ha mandato un assegno di mille lire annue nel momento in cui lo ha saputo in difficoltà8.

Eppure, masse intere di contadini ridotte in miseria gli rimproverano di non aver mantenuto la promessa di una riforma agraria: l’agognata unità ha prodotto un ulteriore arretramento nelle loro condizioni di vita, provocando periodiche insurrezioni e acuendo il fenomeno del brigantaggio. é un piccolo esercito composito quello che si ribella, fatto di braccianti esasperati dallo sfruttamento dei latifondisti, dall’eccessiva tassazione, dalla privatizzazione delle terre demaniali, dalla vendita dei beni ecclesiastici, dall’obbligo del servizio di leva e poi di pastori, ex garibaldini, ex soldati dell’esercito borbonico, malviventi, latitanti: sono, per la gran parte, i “cafoni” di Salvemini in guerra contro i “galantuomini” locali e l’industrializzazione del nord. La repressione, affidata al generale Cialdini, è dura: la legge Pica del 1863, che gli conferisce poteri speciali, consente di colpire non solo i presunti briganti ma anche parenti e semplici sospettati.

In Calabria, la rottura dell’isolamento ha creato le condizioni per l’avvio di una situazione stabile di marginalità economica. L’apertura di un mercato nazionale e l’estensione del gravoso sistema fiscale piemontese, grazie alle cinque leggi Bastogi che si sono susseguite tra il 1861 e il 1862, hanno colpito le poche industrie esistenti. Fino alla metà dell’Ottocento, infatti, la regione, nei territori del cosentino e del marchesato crotonese, produce il 70% della liquirizia consumata sul territorio nazionale e questo è l’unico prodotto che ancora a fine secolo riesce ad esportare in Belgio, Gran Bretagna e Olanda. A Catanzaro, Cosenza e Villa San Giovanni è stata a lungo attiva la manifattura della lana. Funzionavano bene i comparti alimentare e meccanico, la lavorazione di cuoio e pelli, le industrie estrattiva e metallurgica. Già alla vigilia degli anni Settanta e nel ventennio successivo cambia tutto: la crisi agraria, conseguenza di un mercato libero che trova le campagne impreparate a competere con i paesi europei, determina il crollo di settori trainanti come quello granario e vinicolo; declinano le industrie e le piccole unità produttive di tipo artigianale; prende il via il fenomeno migratorio, unico in grado di determinare quel flusso di risorse che può dare respiro alla bilancia dei pagamenti e consentire, a molte famiglie, di sottrarsi alla miseria9.

Il malumore è enorme: il Sud si sente tradito e depredato da chi avrebbe dovuto sanare le strutture feudali lasciate dai Borboni e, invece, adotta una politica di rapina. Nessun governo pare realmente interessato alle sorti della parte più debole e arretrata del paese: è di Depretis la tassa sul grano, come di un meridionale, Crispi, quella politica protezionistica che va ad intaccare la piccola coltura vinicola ingrassando le entrate del Nord e i latifondisti del Sud, ben rappresentati in Parlamento e favoriti da un sistema elettorale che esclude dal diritto di voto chi non sa leggere e scrivere. Salvemini invoca il federalismo come unica faticosa via d’uscita10; ancora negli anni Venti del nuovo secolo Gramsci denuncerà il “patto mostruoso” tra la classe liberale e progressista del Nord e i latifondisti reazionari del Sud voluto da Crispi che, alla domanda di terra dei contadini meridionali, risponde con la facile promessa delle conquiste coloniali11.

Appare lontanissimo quel Nord insieme al quale si è lottato per l’indipendenza e l’unità.

Lì crescono i poli industriali; si forma un proletariato industriale con ansie e istanze diverse da quelle degli operai che, lavorando in fabbriche avvantaggiate dal protezionismo, godono di miglior trattamento salariale; cresce una coscienza operaia di classe che avanza le sue rivendicazioni non più solo attraverso la rete solidale delle Società Operaie di Mutuo Soccorso ma anche attraverso l’Associazione Internazionale degli Operai, di matrice anarchica. Si discute e, nella Milano del 1882, si giunge alla costituzione del Partito Operaio Italiano, subito ridotto alla clandestinità dalla parte più conservatrice della borghesia.

E, però, il fiume è inarrestabile: si diffonde il marxismo; nel 1889 delegati italiani del Partito Operaio partecipano, a Parigi, alla Seconda Internazionale; le diverse categorie dei lavoratori si organizzano in federazioni; si costituiscono le prime Camere del Lavoro; nasce a Genova, nel 1892, il Partito Socialista, che tenta di mediare tra socialdemocrazia e spinte rivoluzionarie. La crisi del ’93, che segna un regresso delle condizioni di vita di operai e contadini, non trova impreparati e, alla fine degli anni Novanta, sono proprio gli operai a scendere in piazza, da soli e senza grossa organizzazione, intanto che i socialisti tentano la via della mediazione e si spaccano. Il secolo si chiude con lo sciopero generale di Genova12.

Diffuso è il pregiudizio, anche in ambiente operaio e favorito dal riformismo socialista, che l’arretratezza del Mezzogiorno sia legata all’inferiorità della sua razza13. Quando Gramsci affronterà la questione meridionale – individuando nell’alleanza tra la borghesia settentrionale e i grandi proprietari terrieri del sud le ragioni dell’immobilismo semifeudale del Mezzogiorno ridotto, insieme alle isole, a “colonia di sfruttamento” – inviterà il proletariato industriale del nord ad allearsi con i contadini del sud e a guidare la lotta per l’emancipazione14.

E tuttavia, nei piccoli centri calabresi, sia pure con forte caratterizzazione locale, non manca il fermento culturale che si respira nel resto del paese. A Monteleone di Calabria, all’indomani dell’Unità, si succedono come sindaci gli uomini che avevano guidato idealmente il rinnovamento, come Cordopatri, Gagliardi e Capialbi; scrivono e pubblicano figure versatili come Cordopatri, Morelli, Santulli, Pignatari, Lumini, Morabito, Ammirà, Marzano, Gasparri, Mele; uno dietro l’altro vedono la luce diversi fogli periodici, in cui è dato grande risalto ai problemi locali e alle tradizioni popolari e che meriterebbero maggiore approfondimento: “La Voce pubblica”, “La Verità”, “La Ghirlanda”, “Folklore calabrese”, “Cronaca Vibonese”, “Il primo passo”, l’“Avvenire Vibonese” di Eugenio Scalfari e, dal 1889 al 1902, “La Calabria. Rivista di letteratura popolare” di Bruzzano. Luci e ombre, comunque: il secolo qui si chiude, infatti, con l’arresto dei fratelli Raho, nella cui tipografia si stampavano giornali democratici e socialisti. Muta poco nei primissimi anni del Novecento.

Ancora fogli e periodici, testate di destra o socialiste, testimoniano un vivissimo pullulare di idee e interessi. Bruzzano, che si era dedicato al recupero delle tradizioni popolari in un momento particolarmente difficile per le masse del sud, muore nel 1902 e la sua cittadina si avvia al ventennio fascista tra alti e bassi.

Vitalità politica e culturale, scavi archeologici e pubblicazioni di grande interesse come quelle di Umberto Zanotti Bianco e Paolo Orsi15, personalità di spicco come Lombardi Satriani e, poi, l’altra faccia della medaglia, che racconta il disastro di due terremoti, la miseria e l’emigrazione, le cattive condizioni igieniche, la malaria.

Giovanna Canigiula

1F.S. Nitti, Eroi e briganti, Longanesi, Roma-Milano, 1946, pp. 43-44 2A. Dito, Storia della massoneria calabrese. Cosenza, Catanzaro e Reggio Calabria, Brenner, Cosenza, 1980 3R. Giraldi, Il popolo cosentino e il suo territorio: da ieri a oggi, Pellegrini Editore, Cosenza, 2003, p. 165 e ss 4 C. Carlino – G. Floriani, La “Scuola”di Monteleone. Disegni dal XVII al XIX secolo, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2001 5 A. Borello (a cura di), Cronistoria di Vibo Valentia. 1830-1899, in “Sistema bibliotecario vibonese”, “Biblioteca digitale”, 2000, p. 263 e ss 6F. Aliquò Taverriti, La Calabria per la storia d’Italia, “Corriere di Reggio”, Reggio Calabria, 1960, p. 41 e ss 7F. Aliquò Taverriti, op. cit. 8F. Aliquò Taverriti, op. cit. 9 V. Daniele, Ritardo e crescita in Calabria. Un’analisi economica, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2005. Dello stesso autore è possibile consultare Una modernizzazione difficile. L’economia della Calabria oggi, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2001. Notizie sulle industrie nel Regno di Napoli si trovano in M. Petrocchi, Le industrie del Regno di Napoli dal 1850 al 1860, Edizioni R. Pironti, Napoli, 1955. Il periodo di crisi è sintetizzato da A. Placanica, Storia della Calabria dalle origini ai nostri giorni, Meridiana libri, Catanzaro, 1993, p. 348 e ss 10 G. Salvemini, Il federalismo, in R. Villari (a cura di), Il Sud nella storia d’Italia, vol. II, Laterza, Roma-Bari,1977, p. 348 e ss 11 A. Gramsci, Il Mezzogiorno e la rivoluzione socialista, in R. Villari (a cura di), op. cit., p. 535 e ss. Sullo stesso tema cfr. A. De Viti De Marco, Il miraggio della Libia, in R. Villari (a cura di), op. cit., p. 424 e ss 12M. Michelino, 1880-1993. Cento anni di lotte operaie, Edizioni Laboratorio politico, Napoli, 1993. 13A. Gramsci, op. cit. 14N. Colajanni, Per la razza maledetta, in R. Villari (a cura di), op. cit., p. 431 e ss. 15M.A. Romano, L’archeologia di Paolo Orsi a Monteleone Calabro. 1912-1925, Qualecultura, Vibo Valentia, 2006.

*Intervento tratto da La Calabria, antologia della rivista di Letteratura popolare diretta da Luigi Bruzzano a cura di Filippo Curtosi e Giuseppe Candido, – Città del Sole edizioni

 

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