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Perché Pannella non voterebbe la fiducia

di Giuseppe Candido

In questo momento in cui la politica è tutta presa dalla caccia al deputato, in questo momento “piuttosto difficile” in cui si parla di tradimenti del partito cerchiamo di spiegare perché Pannella non potrebbe mai votare la fiducia a Berlusconi. Nel Cerchio IX dell’inferno la seconda zona è l’Antenora. Il luogo non luogo dell’immaginario dantesco ove son dannati i “Traditori della Patria” e prende il nome da Antenore, colui che, col suo consiglio, meditò il tradimento della Patria. Ed è nell’Antenora che Dante e Virgilio incontrano il Conte Ugolino e l’arcivescovo Ruggieri. “Tu dèi saper ch’io fui conte Ugolino e questi è l’arcivescovo Ruggieri: or ti dirò perch’i’ son tal vicino”.

Sopra questa frase, nell’angolo dei bugiardi del sito di Marco Pannella ci sono i due nomi dei potenti del mondo: Tony Blair, Georg Bush assieme a quello di Silvio Berlusconi. È in quest’angolo di politica transnazionale che sta scritto il perché Pannella non potrebbe mai votare la fiducia a Berlusconi. Dal 2 ottobre al 22 novembre Marco Pannella ha condotto 52 giorni di sciopero della fame oltre che per le carceri italiane, per chiedere “l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta o almeno una indagine ufficiale sul comportamento del nostro Paese nella vicenda precedente alla guerra in Iraq”. «Il nostro – ha ricordato il leader Radicale – è stato l’unico Paese il cui Parlamento aveva dato mandato al Governo, che lo aveva ufficialmente accettato, di perseguire l’obiettivo dell’Iraq libero come unica alternativa alla guerra, cioè l’obiettivo dell’esilio da proporre e far accettare a Saddam Hussein».

Pannella si ostina a chiedere che venga fatta verità e ipotizza scenari gravi come il tradimento della patria. Oggi anche Wikileaks, il sito di Julian Assange che tanto fa discutere, rende noto un dispaccio in cui si evidenzia che alla Iraq Inquiry, la commissione d’inchiesta britannica sulla guerra in Iraq, fu detto di proteggere gli interessi degli Usa. “La Gran Bretagna promise che l’inchiesta guidata da Sir Chilcot sulla guerra in Iraq avrebbe protetto i “vostri interessi” (degli Stati Uniti) durante l’indagine sulle cause della guerra”. L’Iraq Inquiry dovrebbe presentare le sue conclusioni entro la fine di quest’anno. Nell’attesa di quello che emergerà e per capire di cosa stiamo realmente parlando, per capire perché il leader dei Radicali, Marco Pannella inserisce nell’“angolo dei bugiardi” del suo sito i leader mondiali Blair, Bush e assieme anche a Silvio Berlusconi, è necessario fare un passo indietro e dare un’occhiata alla cronologia dei fatti.

Fatti accaduti otto anni fa, che riguardano l’esplosione del conflitto in Iraq, dettagliatamente evidenziati nel sito pannelliano e che ci riportano indietro di otto anni al 2002 quando – segnala Pannella – il 23 luglio “Dal memorandum del consigliere di Blair, David Manning, emerge che Bush comincia a pianificare la guerra usando come giustificazione il legame tra terrorismo e armi di distruzione di massa”. Poi, il 16 novembre 2002 parte “Il piano di Saddam: esilio per 3,5 miliardi di dollari”, e il 19 gennaio 2003 Marco Pannella lancia l’appello “Iraq Libero, unica alternativa alla guerra”. Un susseguirsi di eventi. Il leader lottatore della nonviolenza si rivolge alla Comunità internazionale, alle Nazioni Unite in primo luogo, “Perché – testualmente – facciano proprie, immediatamente, le affermazioni secondo cui l’esilio del dittatore Saddam Hussein cancellerebbe, per gli Stati Uniti stessi, la necessità della guerra, costituendo il punto di partenza per una soluzione politica della questione irachena”.

Nello stesso giorno la Libia si dice disponibile ad ospitare Saddam. Il 20 gennaio anche The Times titola: “Gli Stati Uniti approvano il piano per l’esilio di Saddam” ma il 29 gennaio Il Ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, rivela: «Questa proposta è progressivamente apparsa come irrealizzabile». Il 30 gennaio Bush di nuovo menziona favorevolmente l’esilio ma il 31 gennaio, secondo un memorandum ufficioso britannico, Bush ha già fissato la data in cui scatenare la guerra: il 10 marzo. Il 4 febbraio Berlusconi dichiara: «O apriamo agli ispettori o esilio e immunità » e il 19 febbraio la Camera dei Deputati del Parlamento italiano vota la proposta “Iraq Libero!”. Una mozione che impegnava ufficialmente il Governo «a sostenere presso tutti gli organismi internazionali e principalmente presso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’ipotesi di un esilio del dittatore iracheno e sulla base dei poteri conferitigli dalla Carta dell’ONU della costituzione di un Governo provvisorio controllato che ripristini a breve il pieno esercizio dei diritti e delle libertà fondamentali di tutti gli iracheni».

Silvio Berlusconi – da Presidente del Consiglio – dichiarò alla Camera dei Deputati: «Stiamo operando ed abbiamo operato per questa soluzione; non soltanto per questa soluzione, ma anche per cercare il modo di poter offrire, a chi dovesse accettare la via dell’esilio, opportune garanzie, con l’autorevolezza di enti internazionali che le possano poi mantenere. Abbiamo operato per certi sistemi di
disvelamento delle armi e degli arsenali, che ancora non sono stati evidenziati; abbiamo operato, e stiamo operando, per convincere il dittatore a dare garanzie precise alla comunità internazionale: per esempio, dando spazio all’opposizione entro un periodo di tre mesi, garantendo libere elezioni entro un periodo determinato, garantendo i diritti civili ed i diritti umani. Tutto questo lo stiamo facendo in un ambito di riservatezza – che è d’obbligo – non soltanto con un paese arabo, che si è offerto per la mediazione, ma con diversi paesi, tenendo costantemente informati al riguardo l’Amministrazione americana ed il Presidente di turno del Consiglio dell’Unione europea Kostas Simitis». Per Pannella però è proprio quell’impegno ufficiale che fu tradito. Due giorni prima del discorso alla Camera, Berlusconi riceve una lettera dal Presidente degli Stati Uniti d’America, George W. Bush che venne pubblicata dal Corriere della Sera:

“Caro Silvio

mentre stiamo affrontando una minaccia senza pari, desidero esprimere la gratitudine del popolo americano per lo straordinario sostegno che Tu e il Tuo Governo avete dato alla guerra globale contro il terrorismo. Ti sei schierato con noi e noi non lo dimenticheremo. Nel corso degli anni, come è accaduto nei Balcani e con l’operazione Enduring Freedom, voi ci avete fornito un sostegno determinante, non solo di uomini e mezzi ma anche un sostegno morale, umanitario e costruttivo. Lo spiegamento della fanteria leggera degli Alpini in Afghanistan e i, vostri sforzi per promuovere le riforme giurisdizionali in quello stesso Paese, sono due esempi straordinari del vostro contributo alla guerra contro il terrorismo.

Apprezzo profondamente tutto ciò che Tu e l’Italia avete fatto. A causa della sfida posta alla comunità internazionale da parte di Saddam Hussein, una prova importante può attenderci nel prossimo periodo. Apprezzo la disponibilità dell’Italia a fare appello ancora una volta alle proprie risorse per combattere il terrorismo e l’illegalità internazionale e contribuire a ricostruire un futuro stabile e più democratico in quella regione.

La leadership, come sai bene, consiste nella capacità di affrontare le sfide. In questo nuovo secolo, il mondo si trova dinnanzi ad una grave sfida determinata dalla combinazione tra anni di distruzione di massa, il flagello del terrorismo e gli Stati che sostengono o che si rendono complici del terrorismo. Credo che nessuna nazione, da sola, possa sconfiggere questi nemici.

Il successo dipende da una collaborazione internazionale quanto più ampia possibile. Questa è la mia convinzione e il mio impegno. Il contributo dell’Italia in questo sforzo è veramente determinante. Come Ti ho detto nella nostra recente conversazione, sono enormemente grato per i contributi dell’Italia e per il Tuo sostegno ed impegno personale in questo momento critico. Cordialmente“.

Ma nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera due anni dopo il 31.5.2005 col titolo «La guerra in Iraq non la volevo» si evincerebbe il contrario. Il catenaccio dell’articolo è ancora più chiaro: Berlusconi: «Ho tentato di convincere Bush. Con Gheddafi cercate altre vie per evitare l’attacco militare»

ROMA – L’alleato di ferro di George W. Bush riteneva che la guerra «preventiva» si poteva e si doveva evitare. A quasi due anni dai primi bombardamenti su Bagdad si scopre ora che Silvio Berlusconi ci ha provato in ogni modo a convincere il presidente americano che non sarebbe stato giusto scatenare l’offensiva militare in Iraq. A dirlo è proprio il premier in una intervista esclusiva a La7: «Io non sono mai stato convinto che la guerra fosse il sistema migliore per arrivare a rendere democratico un paese e a farlo uscire da una dittatura anche sanguinosa». Parole di cui si ha notizia nelle ore in cui si allungano ombre sul governo italiano per il caso del Cia-Gate e il giorno prima della visita ufficiale a Washington del presidente del Consiglio.

Nell’intervista che sarà trasmessa integralmente lunedì prossimo Berlusconi entra nei dettagli di quella è una clamorosa e inattesa rivelazione. «Ho tentato di trovare altre vie e altre soluzioni anche attraverso un’attività congiunta con il leader africano Gheddafi. Non ci siamo riusciti e c’è stata l’operazione militare». «Io ritenevo – prosegue Berlusconi – che si sarebbe dovuta evitare un’azione militare». Nell’intervista Berlusconi si è espresso anche sulla politica internazionale e sui suoi rapporti con gli altri premier: «Tony Blair – aveva sottolineato – non è il leader dell’Ulivo mondiale. Non c’è nulla nella politica di Tony Blair e in quella di Silvio Berlusconi che sia in contrasto». «Dissento – affermò Berlusconi – anche nella classificazione di Vladimir Putin come un comunista nel senso ortodosso del termine. È difficile passare da una dittatura durata settanta anni ad una piena democrazia, perché esistono delle situazioni che non possono essere cancellate con un colpo di bacchetta magica».

Ma stiamo ai fatti: dal 19 febbraio e dalla mozione alla Camera si arriva al 22 febbraio 2003 quando Bush – in base al testo della conversazione intercettata e poi pubblicata da El Pais nel 2007 – in conversazione con Aznar, avrebbe affermato: «Gheddafi ha detto a Berlusconi che Saddam se ne vuole andare».

Quattro settimane prima dell’invasione dell’Iraq, il presidente George Bush incontra nel suo ranch di Crawford, in Texas, l’allora premier spagnolo José Maria Aznar e lo informa che è giunto il momento di attaccare l’Iraq. Il capitolo in questione si apre col vertice della Lega araba “sabotato da Gheddafi” quando l’1 marzo il colonnello manda a monte il Summit arabo.

Nella famosa conversazione tra Aznar e Bush pubblicata da El Pais si legge:

Bush: «Gli Egiziani stanno parlando con Saddam Hussein. Sembra che abbia fatto sapere che è disposto ad andare in esilio se gli permetteranno di portare con sé un miliardo di dollari e tutte le informazioni che desidera sulle armi di distruzione di massa. Gheddafi ha detto a Berlusconi che Saddam se ne vuole andare». Aznar: «È vero che esistono possibilità che Saddam Hussein vada in esilio?». Bush: «Sì, esiste questa possibilità. C’è anche la possibilità che venga assassinato». Aznar: «Esilio con qualche garanzia?». Bush: «Nessuna garanzia. È un ladro, un terrorista, un criminale di guerra. A confronto di Saddam, Milosevic sarebbe una Madre Teresa. Quando entreremo, scopriremo molti altri crimini e lo porteremo di fronte alla Corte internazionale di giustizia de L’Aja. Saddam Hussein crede già di averla scampata. Crede che Francia e Germania abbiano fermato il processo alle sue responsabilità. Crede anche che le manifestazioni della settimana scorsa (sabato 15 febbraio, ndr) lo proteggano. E crede che io sia molto indebolito. Ma la gente che gli sta intorno sa che le cose stanno in un altro modo. Sanno che il suo futuro è in esilio o in una cassa da morto». Aznar: «In realtà, il successo maggiore sarebbe vincere la partita senza sparare un solo colpo ed entrando a Baghdad». Bush: «Per me sarebbe la soluzione perfetta. Io non voglio la guerra. Lo so che cosa sono le guerre. Conosco la distruzione e la morte che si portano dietro. Io sono quello che deve consolare le madri e le vedove dei morti. È naturale che per noi questa sarebbe la soluzione migliore. Inoltre, ci farebbe risparmiare 50 miliardi di dollari». Questa i termini della discussione. Poi si seppe la verità. Gli Emirati Arabi a Marzo del 2003 avevano pronto un documento proposto ed accettato da Saddam. È il New York Times il 2 novembre del 2005 a titolare: “Marzo 2003 – Gli Emirati Arabi avevano raggiunto l’accordo con Saddam. Dopo 4 visite a Bagdad. Il 12 marzo quell’Appello era stato sottoscritto da 37 nomi illustri, compresi cinque ex ministri, per chiedere l’esilio di Saddam e un’amministrazione ONU ad interim in Iraq. Il 17 e il 18 marzo del 2003 avviene un’importante “rivolta” a Westminster contro Tony Blair: dal suo governo si dimettono ben quattro ministri laburisti. Il 18 marzo si va avanti inesorabilmente: la Casa Bianca dichiara che le truppe americane e i loro alleati «entreranno in Iraq in ogni caso», con la forza o in modo pacifico. Il 19 marzo lo Stato del Bahrain ufficializza la proposta di esilio per Saddam ma il 20 marzo, com’è ormai tragicamente alla storia, i bombardamenti iniziarono su Baghdad. Con le conseguenze tragiche e nefaste che sappiamo. Una guerra che si poteva evitare? Un impegno – quello di sostenere la via dell’esilio di Saddam – tradito? Peggio: secondo Pannella “Bush e Blair, contro la sicura pace possibile, scelsero la guerra in Iraq impedendo l’esilio a Saddam”. Un’accusa gravissima. Una verità che – sostiene Pannella – ancora si tenta di confondere con l’omicidio, per condanna a morte, dell’ultimo testimone: Tareq Aziz. Per Pannella, Silvio Berlusconi fu complice di quella scelta e tradì l’impegno preso davanti al Parlamento italiano a sostenere l’esilio. Come potrebbe oggi votare – per amore della verità – la fiducia a colui che pone nell’angolo dei bugiardi?

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Un nuovo filo rosso calabrese nel cinema di Lucia Grillo

Il film Ad Ipponion

Intervista all’attrice, regista, produttrice calabroamericana a New York

di Franco Vallone

Stati Uniti d’America, Europa, Italia, New York, Calabria… le strade di Lucia Grillo diventano sempre più lunghe, larghe e indefinite nella loro simbolica definizione, ma portano, sempre più spesso, alle strette strade di casa, ad una casa simbolica della memoria collettiva per i tanti italiani in America.

Come mai questa scelta?

Le strade di casa…. mi ci sono trascinata per queste strade per anni, in cerca della mia vera casa culturale e identificativa. Perché, sempre più spesso, non mi sentivo ne americana ne italiana e nemmeno italoamericana. Volevo scoprire quanto ero italiana con, come metro di misura, l’esperienza del vivere nel luogo dove sono nati i miei, dunque la Calabria. Per il resto ho vissuto in tutti questi luoghi. A New York, dove sono nata, in Galles, a Los Angeles, e in Italia (a Roma e in Calabria), per motivi di lavoro, come attrice e saltuariamente come modella, poi, ancora, come regista e docente di recitazione e cinema.

Ma poi ha scelto di ritornare a New York…

Ho scelto di tornare a New York per due motivi: perché avevo raggiunto il mio obiettivo in Italia, quello di fare ricerca e di scrivere il mio primo lungometraggio, e poi perché mi mancava tanto il palco teatrale newyorkese.

La sua è una tematica affrontata in modo non retorico, mai folcloristico, sempre più globalizzato da una cultura internazionale e di successo, anche quando lei scende in particolari davvero macroscopici o quando affronta le difficoltà linguistiche del dialetto locale. È il caso della sua penultima opera filmografica. Ad Ipponion inizia con “Canto sull’ode antica la tua luce, o terra dei miei padri, o vaga Ipponio”… la citazione, proveniente della poesia “Ad Ipponion” di Pasquale Enrico Murmura, sconosciuto a molti anche nella stessa Vibo Valentia… Altra scelta difficile.

Cercavo una poesia per una scena in cui la fidanzata del protagonista, Vincenzo, è costretta a leggere una poesia in classe. Facendo una ricerca su internet, scoprì Murmura tra gli archivi della Biblioteca Comunale di Vibo Valentia, dove il poeta è nato, ed ho utilizzato la poesia come ode dolce-amaro e ironico per tutto il film.

Nei suoi progetti futuri vi è il suo primo lungometraggio che si ambienta tra Calabria e New York. Ci parli di questo ambizioso progetto, quando diventerà realtà tangibile, film.

È il mio primo lungometraggio da sceneggiatrice. Ho fatto anni di ricerca per il soggetto e siamo attualmente in fase di sviluppo.

Lei è nata come attrice ma oggi irrompe nella vita culturale internazionale anche come regista di se stessa, produttrice di lavori cinematografici e televisivi, ed anche come manager di… Lucia Grillo. È forse un metodo per guardarsi simbolicamente dal di fuori e dal di dentro e per esplorare spazi introspettivi.

Tutto ciò che ha menzionato è nato da necessità. Allo stesso modo di come Frida Khalo dipingeva autoritratti per la mancanza di modelli. Non che mi paragono alla grande Khalo, solo per dire, si che mi sono laureata come attrice alla New York University ed è assolutamente vero che la mia prima passione è lavorare come attrice, ma fino a questo punto solo il mio ruolo come la madre della piccola protagonista in “A pena do pana (The Cost of Bread)” può essere considerato introspettivo, e poi solo nel senso genealogico e genetico, perché quel ruolo è basato sulla mia nonna materna. Poi una ragioniera spesso non va da un’altra ragioniera per prepararle la cartella delle tasse, almeno non deve, semplicemente perché la sa fare da se.

Alcuni dei lavori più belli di Lucia Grillo hanno location calabresi ed anche quando i luoghi prescelti sono in America, la Calabria è elemento ricorrente, prorompente e centrale.

Sono i luoghi della memoria e del passato, del racconto e della fiaba ascoltata e ripetuta, sono luoghi e tempi ricordati e mai dimenticati. I nonni, i genitori emigrati, le loro esperienze e le loro storie, elemento centrale di altre storie da recuperare, inventare e interpretare, rinnovare e materializzare in un film. Rendere i rimasugli di memoria elementi da duplicare attraverso la luce del cinema per non dimenticare. Il viaggio e l’andare via per lavoro, come racconto indimenticabile, la nuova vita lontano da tutto e da tutti, il viaggio in Calabria come ritorno, recupero, a risolcare il racconto ricevuto, uno vero e proprio scavo culturale e antropologico nel proprio io e nell’appartenenza identitaria. Ecco allora che il ritmo filmico, narrativo e inedito, senza alcuna retorica, con una pulizia linguistica sempre originale e ricca di sonorità perdute, entra nei linguaggi colti del cinema con sottotitoli in inglese.
L’abilità di realizzare le sue attività fanno si che, oltre al lato artistico, oggi Lucia Grillo debba essere anche manager di se stessa e nella gestione di budget di produzione. Arte ed economia si conciliano sempre nella sua esperienza professionale?

No, assolutamente! (ride) Magari… Beh, dipende da quale aspetto della mia esperienza professionale… Nel lavorare come attrice con produzioni grandi e con registi come Spike Lee e Tony Gilroy, sì, sempre. Infatti, Ad Ipponion l’ho fatto solo perché parte del premio vinto da A pena do pana al Roma Independent Film Festival era una settimana di utilizzazione di attrezzatura dalla Panalight Roma. Massimo Proietti è stato gentilissimo a fidarsi di me e lasciarmi portare il tutto giù, in Calabria, forse perché gli ho promesso di fare un’altro corto… vincente (Ad Ipponion, tra altri, è stato al Short Film Corner del prestigioso Cannes Film Festival questo anno). Ora due dei quattro corti che ho fatto finora, A pena do pana (The Cost of Bread) e Ad Ipponion (Ode to Hipponion) sono disponibili insieme su un DVD ma gli offro solo perché c’è stata una grande richiesta dalla parte del pubblico. Non è per motivi economici che una fa cortometraggi.

Cultura italiana e managerialità americana. Si fondono bene le due realtà nella tipicità cinematografica?

Non so se proprio attribuire “cultura” e “managerialità” ad una nazionalità o l’altra. In ogni Paese ci sono buone e cattive gestioni. La mia “cultura” non è italiana ne americana, neanche italoamericana. Mi considero solo un’essere umano in questo mondo, ed ho cercato la cultura italiana per capire meglio da dove provengo, come punto di partenza per capire meglio il mondo. La “managerialità” per necessità: se una persona vuole raggiungere un’obiettivo e non è nata con le risorse, deve lavorare per ottenerlo. Detto questo, non potevo fare niente senza il sostengo morale e l’aiuto lavorativo enorme e generoso sia da parte dei miei familiari e degli amici, sia in America che in Italia. Questo forse fa parte dell’aspetto magico della tipicità cinematografica, del quale tante persone vorrebbero far parte, oppure dall’empatia umana che conduce le persone a cercare di aiutare qualcuno che ha un grande bisogno di realizzare un sogno.

Attrice, regista, produttore. America e Italia. Convivono bene in Lucia Grillo?

Si! Se mi posso permettere di dire, convivono benissimo proprio perché mi permettono di utilizzare ogni angolo del mio cervello: la parte creativa, la parte passionale, quella di secchiona, quella matematica e organizzativa, quella che deve essere pronta ad improvvisare…
I suoi cortometraggi hanno sempre un significato altro, rinviano al senso storico, antropologico ed etnologico dell’Italia e degli Stati Uniti e del rapporto lontananza geografica, vicinanza di cuore e passionalità. Si sente parte attiva e compartecipativa utile alla conservazione delle tradizioni e della lingua dialettale del Sud Italia, della Calabria, della Calabria in America?

Mi sento parte attiva quando sono in produzione, post produzione e poi quando mi guardo attorno nella sala e osservo le reazioni del pubblico, dialogare con loro e sentire quello che hanno da dire. Cerco di essere più accurata nella ricerca e nella rappresentazione dei dettagli, ma posso solo sperare di essere utile alla conservazione della storia, delle tradizioni e della lingua.

Ha intenzione di approfondire la comprensione della vita degli emigrati attraverso le loro culture ancora in pratica sia nella Calabria che in luoghi multietnici come New York?

Tramite l’esplorazione della vita degli emigrati nell’ultimo corto “Terra sogna terra”, quello che hanno superato e quello che provano ancora oggi, vorrei che tutti i figli, nipoti, parenti, amici di emigrati nel mondo –che lo siamo tutti , in un modo o nell’altro- si ricordano che le condizioni che portano gli emigrati a lasciare i propri paesi e i propri cari sono quelle condizioni che costringono a farlo per sopravvivenza, e sono risultati derivati direttamente da una sistema mondiale che va contro i diritti degli esseri umani. Quello che mi – ci – hanno dato gli intervistati è non solo un pezzo delle loro anime, è proprio una testimonianza di prima mano, e in più è un’implorazione di queste persone che vivono un rapporto viscerale con la Terra, di apprezzamento della Terra.

Può servire anche un’opera filmica per superare gli ostacoli che si possono presentare in luoghi lontani, in nuovi Paesi con lingue, modi e costumi diversi. Per la sua opera filmica Lucia Grillo è, e deve essere, anche antropologo, nel suo lavoro serve sempre un’approfondita ricerca che precede la lavorazione filmica per essere poi, il più possibile, accurati nei dettagli storici e socio-economici dell’epoca, affrontata dalla scrittura e dalla sceneggiatura. Le opere di Lucia Grillo vogliono continuare ad esplorare la pratica degli usi e dei costumi, delle tradizioni storiche e attuali in Calabria e a New York, dove vi è, sempre più, un’ interesse rinnovato nelle pratiche degli emigrati, nell’eterna continua ricerca di un legame di identità etnica, un sottile filo rosso in mano ad ogni gruppo di emigrati ed ai loro successori generazionali.
Franco Vallone

Tutti e due i corti sono ora disponibili insieme su un DVD che, fino al 1/1/2011, sono in offerta da Calabrisella Films*.

Per acquistarlo online sul sito Amazon Usa.

*(il prezzo modificato da $24.99 a $19.99 verrà notificato al checkout di Amazon)

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Chi ha paura di Wikileaks?

di Giuseppe Candido

Il libertario blasfemo Julian Assange è stato finalmente arrestato, o meglio, il “Bill Aden” della notizia si è consegnato spontaneamente alla polizia londinese che lo ricercava a causa di un mandato di cattura internazionale emesso dall’Interpol su richiesta della procura di Stoccolma che lo accusa di molestie sessuali perché sarebbe stato denunciato da due giovani svedesi con cui l’australiano Assange ha avuto rapporti sessuali. Denunciato per stupro? Macché, Assange era ricercato – con mandato di cattura internazionale – a causa di un reato previsto dalla legislazione svedese, figura giuridica sconosciuta al nostro Paese, che è il “sex by surprise”. “Si è rotto il profilattico” scrive Alessandro Oppes che ricostruisce per il Fatto quotidiano “L’accusa di Stoccolma”. Le due donne – prima consenzienti – a novembre decidono di rivolgersi alla giustizia.

Contrariamente alle speranze di chi invece lo definisce “un uomo che vuol distruggere il mondo” e paragona le pubblicazione su wikileaks dei dispacci della diplomazia americana all’attacco alle torri gemelle dell’undici settembre, i fatti per i quali Assange è accusato risalgono al mese di agosto 2010 quando era a Stoccolma per un seminario e sono in realtà collegati alla particolare legislazione svedese sulla violenza sessuale applicabile “a qualunque atto di costrizione vincolato al sesso”.

La giornalista Anna Ardin che organizzava l’ufficio stampa del convegno si offrì di ospitare Assange nel proprio appartamento e con lui ebbe un rapporto sessuale consenziente durante il quale però – sia Assange sia l’Ardin lo riconoscono – il preservativo si ruppe. Sul momento – scrive ancora Oppes nel suo articolo – “La giornalista non diede grande importanza al fatto e continuò ad ospitare Assange a casa, e organizzo anche una festa in suo onore”. Affianco a questo episodio c’è la recidiva: si chiama Sofia Wilden, una ragazza che si presentandosi ad Assange come sua fan sarebbe riuscita ad invitarlo a casa dove i due poi hanno un rapporto. Fanno sesso due volte: la prima volta con, poi senza il protezione ma, a detta di Assange, in maniera consenziente. “Niente di grave ma, tornata a Stoccolma, la giovane ci ripensa, si spaventa e – spiega il giornalista del Fatto – parla con la Ardin scoprendo che anche lei ha avuto l’incidente del condom rotto. E a questo punto che le due donne si coalizzano – spiega ancora Oppes – e decidono di presentarsi in tribunale. Violenza, stupro? No, niente di tutto questo – conclude l’articolo – l’unico rimprovero che viene fatto ad Assange è quello di essersi rifiutato di sottoporsi, dopo i rapporti avuti con le due ragazze, ad una prova per vedere se era affetto dall’Hiv o da altre malattie veneree”.

Insomma, non si tratta di stupro (perché il sesso era sempre consenziente) come hanno ripetuto i tg all’unisono e nemmeno di un arresto legato all’attività di pubblicazione dei cabli. L’arresto “internazionale” arriva per un preservativo rotto, anzi due.

Senza fare quindi grandi analisi sui file pubblicati da Assange su Wikileaks e che piano piano emergeranno dalla rete, mentre il libertario che non si vuol far fare il test dall’hiv a Stoccolma si fa arrestare a Londra, una domanda noi garantisti liberali dovremmo almeno porgercela. Perché quest’uomo diventa addirittura l’uomo più temuto dai potenti? Paura della o delle verità che potrebbero emergere ancora in quei cabli e nei prossimi 2.700 file riguardanti l’Italia che dovrebbero essere a breve resi disponibili? Perché chi è da sempre garantista afferma invece che Assange “non deve essere processato solo per stupro ma anche per gli altri gravi reati che ha commesso”. Ma se c’è un reato collegato alla fuga di notizie, è il giornalista che le pubblica che commette il reato o chi le ha trafugate? Perché, dunque, come lo stesso Ministro Frattini spiega, si ha paura che “lo stillicidio di rivelazioni” continuerà? Cosa c’é nei 2.700 file che riguardano – dal 2000 al 2010 – l’Italia e di cui ci si preoccupa tanto da voler oscurare il sito wikileaks ed arrestare Assamge? Perché si temono così quei dati tanto da invocare il carcere duro per il libertario impenitente? Nella qualità di giornalista Assange forse da fastidio perché fa luce su fatti e misfatti che, se pur veri e documentati, secondo alcune logiche di “stato”, dovrebbero restare “segreti”, sconosciuti ai più. Oggi la rete permette invece, ai dati ed alla conoscenza di essere divulgati anche senza il consenso censorio dei potenti. Sappiano però, coloro che spererebbero di arrestare la diffusione di quei cabli che questi, giunti ormai in rete, sono stati duplicati su centinaia di siti mirror, siti definiti specchio perché replicanti fedelmente quei dati, e l’ondata di notizie non è più arrestabile. Dopo gli attacchi moltiplicatisi contro il sito Wikileaks, i suoi contenuti, i suoi finanziamenti e il suo fondatore, la rete si sta mobilitando e persino il Partito Radicale di Pannella, che da sempre si batte per la libertà d’informazione nel mondo, ha “raccolto l’appello di Wikileaks a ripubblicare il materiale sotto attacco”. Più di centomila utenti sono oggi in grado di rimetterli in rete qualora si riuscissero a spegnere contemporaneamente tutti i siti replicanti. Tentare ora di metterci una pezza ponendo sotto attacco il sito, non è servito e non servirà ad impedire che quelle stesse informazioni vengano lette, analizzate, divulgate e ripubblicate. La fluidità e la dinamicità della rete è inarrestabile e se la notizia c’è non si ferma. In fondo, e meno male, anche questa oggi è la stampa, bellezza!

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La morte di Monicelli e il dibattito sulla dolce morte

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “il Domani della Calabria” del 7 dicembre 2010

Dopo le polemiche suscitate dall’intervento di Mina Welby e Beppino Englaro che hanno raccontato le vicende di Piergiorgio ed Eluana alla trasmissione di Fabio Fazio, Vieni via con me, è il suicidio del regista Mario Monicelli che ha nuovamente scatenato il dibattito non solo parlamentare sull’eutanasia. Lo scontro parte dalla Camera, e manco a dirlo, avviene tra la deputata radicale Rita Bernardini che chiede, con Maria Antonietta Farina Coscioni, di “aprire una riflessione sull’eutanasia, su chi non ce la fa più ed è costretto a lasciare la vita in modo violento anziché morire con i propri familiari vicino con il metodo della dolce morte” e la teodem Paola Binetti dell’Unione di Centro che replica veemente: “Basta con spot a favore dell’eutanasia partendo da episodi di uomini disperati. Monicelli era stato lasciato solo, il suo è un gesto tremendo, di solitudine, non di libertà”. Ma a Piergiorgio Welby che chiedeva una morte opportuna, dignitosa, si negarono i funerali. La famiglia del regista Monicelli, ovviamente, smentisce che sia stato lasciato solo e il dibattito diventa paradossale. La notizia non è il “fatto” ma diventano le dichiarazioni sul fatto. Solitudine e abbandono negate dai familiari e anche dai medici non bastano. Chi lo conosce da anni parla di un gesto razionale, voluto, “Scelto imbrogliando persino la moglie per rassicurarla”. Però sulla linea dell’uomo lasciato solo non c’è soltanto la teodem Binetti. Anche la sottosegretaria alla salute Eugenia Roccella dice “No a strumentalizzazioni. Nessuno può affermare che si tratta di una scelta libera e consapevole o di disperazione”. E il ministro Rotondi contesta il modo come è stato trattato dai media l’argomento. Temo – dice Rotondi – sia passato un messaggio non di carità ma di ammiccamento a scelte che non debbono essere un esempio.

E su questo argomento, sul dibattito generato dalla tragica morte del maestro Monicelli, intervengono in molti: da Adriano Sofri a Filippo Facci e Renato Farina. Una serie di firme che si spendono sull’argomento: dolce morte si, dolce morte no. Il Professore Severino e il professore Reale, due filosofi con due visioni differenti, si esprimono su questo intervistati entrambi dal Corriere della Sera. “Eutanasia, i Radicali usano anche Monicelli” è il titolo che fa Avvenire, il quotidiano dei Vescovi. Ma forse il titolo più lugubre lo fa il Giornale con l’articolo in prima pagina di Marcello Veneziani che titola: “Monicelli e gli avvoltoi del suicidio. La tragedia del regista strumentalizzata in Parlamento da chi vuole che la morte sia passata dalla mutua”. Come al solito i Radicali diventano il partito della morte contro quello della vita e passano per quelli che strumentalizzano le vite delle persone: è stato detto di Piergiorgio Welby che invece chiedeva un’indagine conoscitiva sull’eutanasia clandestina e una morte opportuna per se; è stato detto di Luca Coscioni, di Eluana Englaro. Tutti “strumentalizzati” dai Radicali, demoni dell’autodeterminazione. Le parole incriminate della Bernardini sono due: “dolce morte”. E a questo ragionamento si aggiungono le considerazioni del liberale “Secolo d’Italia” che titola: “Se Monicelli diventa uno spot sull’eutanasia” che spiega, equidistante da entrambe le posizioni, come “la Radicale Bernardini e la cattolica Binetti trasformano il suicidio in una surreale polemica sul fine vita”. Questa polemica sembra però un’operazione truffaldina nei confronti di una semplice ma tragica verità: Monicelli – afferma Maria Antonietta Coscioni – ha deciso di smettere di soffrire perché nessuno lo ha aiutato a non soffrire. Il vero problema è chiedersi – spiega la deputata Radicale – se Monicelli avesse chiesto a qualche sanitario di aiutarlo a non soffrire. Se lo avesse fatto e non lo avrebbe ottenuto ci si potrebbe tutti costituire parte civile in un processo contro chi si è rifiutato di dargli questo aiuto”.

Ma se il Presidente della Repubblica si limita ad affermare che bisogna “rispettare la sua volontà”, la figlia del regista novantacinquenne malato di tumore rende forse la riflessione che tra le tante parole dette sembra senz’altro la cosa più sensata: “Papà – spiega Valeria Monicelli – non è mai stato solo. Ha solo scelto il come e il quando andarsene”. E se ci fosse stata una legge sull’eutanasia? La morte non può mai essere dolce. Semmai, in alcuni casi, la morte può diventare solamente una “scelta opportuna”, maturata, ma in nessun caso può essere dolce. Una scelta sofferta di chi, come Piergiorgio Welby e come Monicelli, forse, ha deciso di porre fine liberamente e consapevolmente alle sofferenze. Una scelta che può magari essere considerata “peccato” ma che non è, almeno nel nostro ordinamento giuridico, perseguibile penalmente come reato. È l’autodeterminazione che consente ai diversamente credenti di rifiutare alcuni trattamenti vitali come trapianti e trasfusioni ai quali nessuno può essere obbligati. Ma per sapere veramente cosa pensava Mario Monicelli sull’autodeterminazione nelle scelte di fine vita sarebbe sufficiente riascoltare l’intervista rilasciata dallo stesso regista il 28 novembre del 2006 ai microfoni di Radio Radicale durante la lotta di Piergiorgio Welby per chiedere a Napolitano l’eutanasia: “ La morte è un tema che si potrebbe scegliere e benissimo trattare con la commedia all’italiana. Una commedia – continua il maestro Monicelli – perché si va a trattare il dramma ironizzando con quelli che pensano che questo disgraziato debba rimanere lì, a soffrire per grazia non si sa di chi o per la deontologia del medico. Si potrebbero fare dei film divertenti, drammatici ma che dicano qual’è la realtà. Sono i più convincenti e il cinema italiano ha seguito sempre questa via. È stato sempre dalla parte di chi voleva liberarsi dalla fame, dalla malattia, dalla sofferenza o dalla miseria”.

A risentirle quelle parole ci viene da pensare che Monicelli abbia davvero messo in scena il suo dramma per liberarsi dalla sofferenza, il suo ultimo capolavoro di verità che forse, con una legge che rendesse legale l’abbandono di questo mondo per i malati terminali, se l’eutanasia fosse stata legale, il maestro Monicelli avrebbe potuto scegliere di andarsene senza buttarsi giù dal balcone.

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Se la scure taglia la cultura allora c’è un problema

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “il Domani della Calabria” del 30 novembre 2010

Mentre Giorgio Parisi, uno tra i più autorevoli fisici dei nostri tempi, padre della “teoria del caos”, intervistato da Caterina Perniconi per il Fatto quotidiano, spiega il perché questa riforma universitaria sia “un bel disastro” e che reputa “giustissima” la protesta degli studenti, il ministro dell’istruzione Maria Stella Gelmini liquida invece le proteste affermando che «Gli studenti che contestano le riforme del governo rischiano di difendere i baroni, i privilegi e lo status quo». E anche Futuro e Libertà, che inizialmente aveva solidarizzato con gli studenti salendo sul tetto della facoltà di Architettura di Roma, corregge ora il tiro e annuncia che invece voterà “la riforma che premia il merito”. Sicuramente è vero: in Italia, la qualità delle università non luccica. Ed è vero che c’è bisogno di una riforma che premi il merito. Basta dire che tra le prime 100 della classifica internazionale delle università soltanto due sono italiane e abbiamo dei corsi di laurea con pochissimi iscritti e delle cattedre seguite da un numero di studenti che si conta sulla punta delle dita di una mano. Ma in un Paese che già di suo, e molto meno dei suoi omologhi europei, investe solo una briciola del proprio prodotto interno lordo per l’istruzione e la ricerca, il rischio che con i tagli ora effettuati pure le università italiane dovranno aumentare le tasse è concreto. Per il 2011 è previsto un forte taglio al fondo di finanziamento ordinario di 276 milioni di euro con un probabile conseguente aumento delle tasse stimato tra i 1200 e i 3000 euro nei prossimi cinque anni. Già tra le tasse regionali uguali per tutti (circa 300 euro) ma variabili da regione in regione e tasse proporzionate in base al reddito, l’università costa almeno 1.000 euro l’anno e per chi è fuori sede ci sono da aggiungere i costi (spesso salatissimi) degli alloggi e il vitto oltre l’acquisto dei libri di testo. E se l’intento lodevole è quello di premiare il merito c’è da ricordare però che l’agenzia nazionale che dovrebbe effettuare tale valutazione delle Università non è ancora neanche in funzione e che, tagliando indiscriminatamente sui fondi del diritto allo studio, molti ragazzi con talento, la vera forza di questo Paese per affrontare il domani, non potranno più permettersi gli studi. Le borse di studio saranno tagliate drasticamente. E infatti, per difendere e spiegare agli studenti questi tagli dei fondi alla legge sul diritto allo studio ridotti da 250 milioni all’anno a soli 25 milioni di euro, il ministro Gelmini manda In onda, alla trasmissione di Luca Telese su La7, nientemeno che il ministro della difesa La Russa e il “suo” valente sottosegretario Guido Crosetto. Difese però che non convincono il rappresentante degli studenti presente in trasmissione. Si spiega invece, che l’aumento dei fondi alle scuole private serve “a garantire libertà di scelta” dei cittadini.

“La coperta è corta” e i centri di spesa vanno tagliati e la difesa della riforma. In tutto ciò di tagliare il finanziamento pubblico della partitocrazia non se ne parla nemmeno. Si tagliano i fondi alla cultura, si tagliano gli stanziamenti agli enti locali che, anche loro, a breve dovranno aumentare le tasse sui servizi (trasporti, sanità e istruzione per primi), si tagliano i fondi alle università e alle scuole ridotte al lumicino, ma i rimborsi elettorali non si toccano. Tanto con la cultura, dice qualcuno, non si mangia con i rimborsi forse qualcuno sì. Bisognerebbe però ricordare a chi effettua i tagli dicendo che la coperta è troppo corta che, a fronte di spese realmente dimostrate di 579 milioni di euro, dal 1994 al 2008 i partiti hanno letteralmente “rubato” dalle tasche dei cittadini ben 2,25 miliardi di euro, con un utile di ben 1,67 miliardi di euro, attraverso il meccanismo dei rimborsi elettorali. Cifre da capogiro su cui non si è tagliato neanche un centesimo anzi, c’è il concreto rischio, con le elezioni anticipate, i nuovi rimborsi si andranno a sommare a quelli delle elezioni del 2008 come quelli del 2008 si sommarono a quelli del 2006.

Una vera e propria truffa ai danni dei cittadini, grazie alla quale, ben 500 milioni di euro di finanziamento pubblico finiscono ogni legislatura nelle casse dei partiti a fronte di poco più di 100 milioni di spese effettivamente documentate. Per intervenire su questo capitolo era stato presentato, dai deputati Radicali, un emendamento alla manovra che intendeva limitare i rimborsi elettorali alle sole spese effettivamente documentate. Un provvedimento che avrebbe comportato una drastica riduzione dell’ottanta per cento del finanziamento pubblico e avrebbe consentito di salvare la cultura, l’istruzione e l’università. L’emendamento, manco a dirlo, è stato bocciato dalla Camera, in continuità con tutte le scelte che, dal ’93, hanno sabotato la volontà referendaria degli elettori che aveva espresso un chiaro “No” al finanziamento coi soldi pubblici dei partiti, reintroducendolo col sistema dei rimborsi. Poi, volendo ridurre davvero le spese correnti che invece negli ultimi anni di governo Berlusconi sono vertiginosamente aumentate, c’era senz’altro da tenere presente il capitolo della “manomorta” della spesa pubblica – società partecipate – di cui spesso non si parla e che, Sergio Rizzo nel suo libro i “Rapaci”, definisce essere quel “Torbido impasto fra gli interessi dei partiti di destra e di sinistra, che producono clientele e spese”. Non si pensa minimamente ad intervenire sul “Dedalo inestricabile di ambiti territoriali, consorzi di bonifica” che rimane tal quale per garantire la moltiplicazione delle “poltrone necessarie alla sistemazione dei politici trombati”: “Le migliaia di società a controllo pubblico sono le uniche discariche che funzionano in questo Paese” aveva detto l’ex presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo. E non parliamo dell’abolizione delle province, sventolata in campagna elettorale ma a cui la Lega si è poi opposta con fermezza pur di non perdere neanche una poltrona. In questo clima di austerità si cala invece la scure sulla cultura e sull’università. Una scure che era già calata pure sulla scuola primaria col maestro unico e sulla scuola secondaria di I e II grado attraverso i tagli delle ore di alcune materie. Siamo sicuri che gli studenti stiano difendendo i baroni oppure, protestando contro questi tagli cosa che non hanno potuto fare i bambini delle scuole elementari, non stiano invece difendendo semplicemente il loro domani?

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In Calabria come a Napoli?

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “il Domani della Calabria” il 25 novembre 2010

Durante la trasmissione di Fazio Vieni via con me del 22 novembre scorso, Roberto Saviano con capacità di narrazione quasi manzoniana, racconta il dramma di una città, Napoli, e di una Regione, la sua Campania, in cui l’emergenza rifiuti dura da quasi tre lustri e che oggi si ritrova tragicamente seppellita da una “montagna di rifiuti”.

Più alta del Monte Bianco, più alta del K2 e dell’Everest, con 15.600 metri di altezza, spiega Saviano, la montagna dei rifiuti gestiti in Italia dalle eco-mafie svetta su tutti i più alti rilievi orografici del globo. Ovviamente, Roberto Saviano tiene in primo piano del suo discorso l’emergenza napoletana e campana che, sotto gli occhi di tutti da più mesi, viene oggi sanzionata pure dalla Direzione generale ambiente dell’Unione europea che con la sua rappresentante certifica che “Dal 2008 nulla è cambiato”. I rifiuti di Napoli, dice Pia Bucella, “sono sempre per strada”. E se non si provvederà subito si rischia di perdere molti fondi europei. Un’emergenza che dura da 15 anni. Saviano parla di una Regione, la sua, con una raccolta differenziata che non decolla e che porta in discarica l’85 % dei rifiuti prodotti senza differenziarli. Produzione dei rifiuti che non diminuisce, anzi aumenta al ritmo di circa 3000 tonnellate al girono solo a Napoli. Poi si sofferma sugli inceneritori insufficienti, delle eco balle che di eco hanno solo il nome e della criminalità organizzata, che in quella regione si chiama camorra ma che da noi si chiama ‘ndrangheta, che legata con la malapolitica gestisce il traffico dei rifiuti, sia quelli “legali” indifferenziati sia quelli pericolosi resi legali “con giro di bolla”, discaricati poi un po’ ovunque sul territorio. Solo in Campania? O la montagna di rifiuti di cui parla Saviano è in realtà disseminata anche in regioni limitrofe con criminalità quantomeno altrettanto organizzate? Tutto quello che Saviano nella sua narrazione ci descrive dei rifiuti è tragicamente vero, appartenente al sentito popolare e per questo, forse, le sue parole fanno anche paura.

Anche in Calabria la situazione dei rifiuti non sta messa molto bene e anche qui la “montagna dei rifiuti” cresce giorno per giorno. E anche qui da noi la situazione di emergenza e il relativo commissariamento durano da quasi 15 anni senza produrre i risultati attesi. Dopo lo schiaffone dell’Unione dato a Napoli, in Calabria col sequestro confermato della discarica di Pianopoli i rifiuti di Lamezia, come ci spiega da questo giornale Matteo Belvedere, saranno portati (provvisoriamente) a Rossano grazie a quella che viene definita dall’Assessore regionale all’ambiente Pugliano, soltanto “una soluzione tampone” necessaria a “sopperire all’emergenza nell’emergenza”. Basta continuare a leggere i titolo dei quotidiani calabresi per rendersi conto che anche qui qualcosa non va: “Rifiuti, la situazione è sull’orlo dell’emergenza” è forse il più eufemistico considerando che l’emergenza in Calabria dura pure da quasi quindici anni.

A certificare il fallimento nel governo del problema rifiuti, se ce ne fosse bisogno, è Legambiente, l’associazione che da anni si occupa del problema rifiuti in Italia con dossier e rapporti annuali e che afferma testualmente che “C’è stato il fallimento generale del commissariamento dei rifiuti in tutte le regioni del meridione”. Lapidario ma efficace. E non si può certo dimenticare che nel gennaio del 2007 si dimise da commissario per l’emergenza rifiuti in Calabria il Prefetto Ruggiero con una relazione di denunce e accuse che finì sulla prima pagina del Corriere della Sera con un articolo di Gian Antonio Stella. “41 dipendenti fantasma, parcelle ad avvocati amici, bilancio su foglietti” il catenaccio; “Calabria, ambiente e il gioco di 864 milioni” è invece il titolo dell’articolo. “Credevano di giocare coi soldi finti del Monopoli, al Commissariato per l’Emergenza Ambientale in Calabria”. I bilanci erano redatti su “foglietti”: entrate e uscite. Di «un bilancio vero e proprio» nessuna traccia. Stella spiega che la “casta” calabrese scialacquava così i soldi europei: “Senza una documentazione giustificativa. Senza un controllo della Ragioneria. Hanno speso così, in otto anni, 864 milioni di euro”. C’è ancora un senso, si chiede Stella, nel radiografare una situazione amministrativa di confine tra la sciatteria e la criminalità? Saviano ci prova e ci riesce perché la radiografia che fa è reale e le responsabilità che emergono non possono che fare bene. E non dimentichiamo nemmeno che anche in Calabria le discariche si stanno riempiendo più velocemente di quanto non ci si attendeva e che anche qui la ‘ndrangheta è al lavoro.

Su questo aspetto, anche Saviano, un passaggio nel suo discorso è costretto a farlo e lo fa ricordando come proprio la ‘ndrangheta sia responsabile dell’interramento delle scorie tossiche dell’ex Pertusola Sud di Crotone, arsenico e metalli pesanti compresi, finite – secondo quanto emerso nell’inchiesta “black mountains” – in sottofondi stradali, per costruirci scuole e persino il piazzale della Questura. E non scordiamo nemmeno quella che qualcuno ha definito “la più grande discarica abusiva d’Europa” che sembra sia essere diventato – secondo quanto sta purtroppo emergendo dalle indagini della Procura di Paola – il Fiume Oliva e la sua valle. Li con i carotaggi sono state individuate “buche sotterranee grandi quanto un campo di calcio e profonde oltre 10 metri”. Vasche che sono state utilizzate per nascondere veleni d’ogni genere, riempite con fanghi industriali ed idrocarburi. E si parla anche della presenza di residui di altiforni, rifiuti cioè provenienti d’attività industriali. Siamo serviti anche noi da pattumiera per i rifiuti la cui produzione dava vantaggi economici alle aziende del Nord e che adesso, sarà il Sud, saremo noi meridionali, che pagheremo i costi ambientali.

La Calabria purtroppo, se non si interverrà per tempo, non è troppo lontana da un’emergenza che rischia di divenire tragedia come in Campania. La montagna cresce anche qui. Per questo sarebbe importante prevenire, obbligare gli enti locali alla raccolta differenziata, promuovere iniziative culturali per spiegare la necessità e il “come” fare una “buona” raccolta differenziata. E magari, anziché prevedere la costruzione di un altro “termovalorizzatore” che è soltanto un trasformatore di rifiuti solidi in altri rifiuti sotto forma di gas e di solidi incombusti fortemente pericolosi, costruire piccoli impianti di trattamento meccanico biologico diffusi sul territori e che, in altre realtà come la Germania, rappresentano l’avanguardia del ciclo integrato dei rifiuti.

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I costi della mancata prevenzione del rischio sismico e idrogeologico

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “il Domani della Calabria” del 23 novembre 2010

Che l’Italia, con regioni come la Calabria in testa, sia un paese ad alto rischio idrogeologico e sismico è ormai sotto gli occhi di tutti. Quello che invece spesso non è chiaro è quanto ci costa il non governo e il malgoverno dei territorio. Il rapporto sullo stato del territorio italiano 2010 curato dal Centro Studi del Consiglio nazionale dei Geologi e titolato “Terra e sviluppo”, tra rifiuti, problema energetico e consumo di suolo nel nostro bel Paese affronta proprio il tema dei costi. Nello studio curato dal Gruppo ricerche Cresme coordinato da Paola Riggio e diretto da Lorenzo Bellicini, si cerca di definire proprio quanto il dissesto idrogeologico e i terremoti abbiano inciso sui costi nel nostro paese, il tutto in una chiave storica. Con i dati raccolti è stato fatto “il punto sui costi complessivi dei fenomeni idrogeologici e sismici a partire dal 1944 al 2009, sulla spesa effettiva per interventi per l’assetto idrogeologico e la difesa del suolo tra il 1996 e il 2008 e sul mercato dei bandi di gara per lavori per il dissesto idrogeologico e i terremoti tra il 2002 e il 2009”.

Il quadro dei costi complessivi del dissesto idrogeologico e dei terremoti a partire dal 1944 al 2009 fa paura. Nell’esaminarli si è tenuto conto – come si legge nel dossier – “delle spese per l’emergenza e il pronto soccorso necessari per far fronte all’evento calamitoso, da attuare nel breve termine e con particolare riferimento ai disagi delle popolazioni interessate, per la ricostruzione post-evento delle opere infrastrutturali e del patrimonio edilizio danneggiato o distrutto, nonché i contributi finalizzati alla ripresa delle attività economiche interrotte e per lo sviluppo del territorio e in alcuni casi gli oneri connessi alle agevolazioni di carattere fiscale e contributivo”.

Le cifre del rischio sismico e idrogeologico in Italia snocciolate nel rapporto tengono conto dei dati del lavoro pubblicato da Vincenzo Catenacci nel 1992 e che prende in considerazione gli eventi avvenuti tra il 1944 e il 1990. “Centocinquanta due eventi calamitosi tra terremoti tettonici, fenomeni idrogeologici, ovvero dissesti idrogeologici e frane, il bradisismo flegreo, l’inquinamento acquifero e le eruzioni vulcaniche, per i quali sono stati stanziati nel complesso oltre 142 mila miliardi di lire a prezzi 1990 che attualizzati a valori 2009, sulla base degli indici ISTAT di rivalutazione monetaria, ammontano a circa 127 miliardi di euro”. Ovviamente, c’è scritto nello studio, “la principale voce di spesa riguarda i terremoti: oltre 95 miliardi di euro di risorse stanziate tra il 1944 e il 1990, pari al 75% delle risorse destinate a tutti gli eventi calamitosi censiti”. La seconda voce di spesa in ordine d’importanza è quella dei fenomeni idrogeologici, che con quasi 30 miliardi rappresentano circa un quarto delle risorse stanziate nell’intero periodo considerato.

Questi dati sono stati integrati con quelli a disposizione del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Direzione Generale per la Tutela del Territorio e delle Risorse Idriche, per i costi del dissesto idrogeologico tra il 1951 e il 2009 assieme ai dati del Dipartimento della Protezione Civile e del Servizio Studi della Camera dei Deputati per i costi degli eventi sismici succedutisi dal 1968 al 2009.

Negli ultimi quarant’anni si sono verificati numerosi eventi di dissesto idrogeologico che hanno avuto effetti catastrofici. Tra i principali quello di Firenze nel 1966, a Genova nel 1970, ad Ancona nel 1982, in Val di Fiemme nel 1985, in Valtellina nel 1987, in Piemonte 1994, in Versilia nel 1996, a Sarno e Quindici nel 1998, a Soverato e nel Nord-Ovest dell’Italia nel 2000, in Valbruna nel 2003, a Varenna e a Nocera Inferiore nel 2005, a Cassano delle Murge nel 2005, ad Ischia e a Vibo Valentia nel 2006, a Messina nel 2009. Quelli del 2010 in Calabria, in Veneto e in Campania sono sotto gli occhi di tutti. E, secondo lo studio, “questa crescente incidenza degli eventi catastrofici corrisponde ad un progressivo aumento del rischio idrogeologico legato all’aumento del territorio antropizzato e all’espansione del tessuto urbano spesso in aree instabili che ha interessato il territorio nazionale a partire dal dopoguerra”.

Nel complesso, lo studio “ha portato a stimare i costi complessivi del dissesto idrogeologico e dei terremoti, a prezzi 2009, tra un valore minimo di 176 miliardi di euro e uno massimo di 213”. La differenza – si legge testualmente – “è da attribuire al costo dei terremoti che, a seconda delle fonti informative, varia da un minimo di 124 miliardi di euro a un massimo di 161”.

Dall’inizio del secolo, sempre per quanto riportato nello studio dei Geologi, il dissesto idrogeologico da solo ha provocato nel nostro bel Paese “circa 12.600 tra morti, dispersi o feriti ed il numero di sfollati supera i 700 mila. Gli eventi con danni gravi sono stati oltre 4.000, dei quali 1.600 hanno prodotto vittime”. E come ci accorgiamo un po’ tutti a braccio, “Dall’analisi dei dati storici emerge che la stagione che presenta una maggiore incidenza degli eventi disastrosi è l’autunno, quando aumentano le precipitazioni”.

Ma c’è di più: “Dall’analisi dei dati emerge che tra il 1985 e il 2001 si sono verificati circa 15.000 eventi, di cui 13.500 frane e 1.500 piene, con un picco significativo registrato nella seconda metà degli anni Novanta. Alcuni di questi hanno avuto ripercussioni sulla popolazione, provocando vittime o danneggiando i centri abitati”. Un’apocalisse alla quale si aggiunge quella dei terremoti.

Un capitolo del dossier viene infatti dedicato agli eventi sismici che hanno colpito il nostro Paese. Ogni anno in Italia, l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, attraverso le registrazioni della Rete Sismica Nazionale, localizza dai 1.700 ai 2.500 eventi di magnitudo pari o superiore a 2,5. Nel rapporto si legge che “in media in Italia ogni 100 anni si verificano più di 100 terremoti di magnitudo compresa tra 5,0 e 6,0 e dai 5 ai 10 terremoti di magnitudo superiore a 6,0”.

Tra i terremoti italiani più rovinosi del ’900, nello studio presentato dai geologi, si ricordano esplicitamente quello del 1905 in Calabria (M=6,8 – I=X – 557 vittime), quello del 1908 Calabro Messinese (M=7,1 – I=XI – 80.000 vittime), nel 1915 ad Avezzano (M=6,9 – I=XI – 33.000 vittime), nel 1930 Irpinia (M=6,7 – I=X – 1.404 vittime), nel 1976 Friuli (M=6,6 – I=X – 965 vittime), e nel 1980 Irpinia-Basilicata (M=6,8 – I=X – 3.000 vittime).

Ma la notizia è che “L’Italia,” – come si legge testualmente nel dossier – “se paragonata al resto del mondo, non è tra i siti dove si concentrano né i terremoti più forti né quelli più distruttivi. La pericolosità sismica del territorio italiano può considerarsi medio-alta nel contesto mediterraneo e addirittura modesta rispetto ad altre zone del pianeta”. Insomma, il nostro problema è il patrimonio edilizio assai vulnerabile. Quello che infatti stupisce nel dossier è che “Il rapporto tra danni l’energia rilasciata nel corso degli eventi è elevato rispetto ad altri Paesi. Ad esempio, il terremoto del 1997 in Umbria e nelle Marche ha prodotto un quadro di danneggiamento confrontabile con quello della California del 1989, malgrado fosse caratterizzato da un’energia circa 30 volte inferiore. Ciò è dovuto principalmente all’elevata densità abitativa e alla notevole fragilità del nostro patrimonio edilizio”. Insomma, quello che fa aumentare il rischio sismico del nostro territorio è proprio la vulnerabilità sismica del patrimonio edilizio italiano che, costruito nella maggior parte durante il boom edilizio degli anni ’50 e ’60 precedentemente l’entrata in vigore della normativa del ’74 per le costruzioni in zone sismiche, risulta inadeguato a resistere alle scosse. E anche i fabbricati di più recente costruzione, come testimoniano i crolli di strutture come l’Ospedale de l’Aquila, non sempre sono stati costruiti rispettando i criteri antisismici più severi.

Davanti a tutte queste cifre spese per l’emergenza e la ricostruzione che incutono timore viene da chiedersi se investire su la prevenzione non sarebbe stato decisamente più conveniente.

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La fortuna dell’antica Fortuna

di Franco Vallone

É un calabrese di Brattirò di Drapia il maresciallo capo dei Carabinieri Michele Speranza

In vacanza a New York con la moglie ha ritrovato la scultura romana rubata ventidue anni fa da un museo italiano e poi trafugata in America

Un'immagine del reperto recuperto

La notizia è proprio di questi giorni ed ha fatto il giro del mondo su tutte le emittenti televisive, nelle note di agenzia, sulle testate della stampa nazionale ed internazionale: Un giovane maresciallo capo dei Carabinieri, in vacanza con moglie a New York, durante lo shopping per le strade della Grande Mela, nota un’antica statua nel negozio di un antiquario sulla Madison Avenue. Nelle fattezze della scultura identifica subito un’antica “nostrana mano” di epoca romana. Michele Speranza, questo è il nome del giovane militare, entra nel negozio e chiede informazioni sulla provenienza del reperto, poi insospettito, fotografa la statua con la fotocamera del suo telefonino. Alle domande di Speranza rispondono forti i silenzi e la reticenza dell’antiquario newyorkese che si rifiuta di mostrare una licenza di esportazione che, in realtà, non aveva mai posseduto. Tornato in Italia, Speranza ha controllato nell’archivio digitale ed ha ritrovato l’immagine di un reperto che combaciava perfettamente con la foto effettuata in America. L’inchiesta del reparto operativo è così partita ed è proseguita fin quando l’antiquario, messo di fronte all’evidenza dagli agenti dell’Immigration ad Custom Enforcement, ha deciso di restituire la statua romana. Oggi, a distanza di soli sette mesi, il prezioso reperto è rientrato in Italia. Michele Speranza è giovane dicevamo, non ha ancora quarant’anni, è nato in Calabria, a Gioia Tauro, dove suo padre era appuntato dei carabinieri, anche se le origini più profonde sono in provincia di Vibo Valentia, a Brattirò di Drapia, a due passi da Tropea, paese dove lui, appena può, ritorna assieme a sua moglie, anche lei calabrese, di Sellia, in provincia di Catanzaro. Speranza dal 2001 è operativo nei Carabinieri dei beni culturali per la tutela del patrimonio artistico di Roma. Oggi il fortunato maresciallo capo si ritrova, un poco intimidito, davanti a tanti cronisti e telecamere, sorridendo, attribuisce al caso il colpo grosso che gli ha fatto ritrovare la scultura a New York. Di certo il maresciallo Michele Speranza vanta di una eccezionale sensibilità culturale e memoria fotografica. Si è ricordato, in quel lontano luogo d’oltreoceano, di aver già visto, nell’archivio militare dei carabinieri, quel busto in marmo raffigurante una donna con cornucopia, scolpito, con tutta probabilità, per ornare il ninfeo di una villa romana o l’annesso giardino, del I o II secolo d.C. Il busto marmoreo era uno dei tantissimi reperti antichi schedati nella banca dati dei carabinieri del nucleo patrimonio artistico, vero e proprio archivio digitale dei pezzi “ricercati” dell’arte, messo a punto dai militari che lavorano con il ministero dei beni culturali. L’importante reperto oggi, grazie a Speranza, torna in Italia, dopo più di vent’anni, nel museo civico di Terracina dove lo splendido busto di una statua romana della Fortuna, era stato rubato più di vent’anni fa, una notte del giugno del 1988, insieme ad altre sei opere marmoree di grande valore artistico e culturale. Ed oggi dopo questo successo c’è… Speranza… anche per il loro ritrovamento.

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Siamo tutti liberali?

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “Il Domani della Calabria” del 16 novembre 20110

Sinistra e Libertà, il Popolo della Libertà, Futuro e Libertà. Poi ci sono anche le fondazioni come Libertiamo e i giornali come Liberamente e Liberal. L’attualità delle riflessioni sul concetto di liberalismo ci mostrano – come scrive la rivista Critica Liberale – “Un fervore intellettuale neppure immaginabile sino a qualche tempo addietro. Oggi, tutti (o quasi) si dicono liberali e come tali tutti (o quasi) si mostrano solleciti per le sorti della libertà”. Poiché c’è però davvero il rischio che, nel “siamo tutti liberali”, proprio un concetto cardine della democrazia come quello di liberalismo rimanga indefinito sembra opportuno ricordare qualche definizione per ridurre la possibilità di equivoci.

Carlo Rosselli, ne Socialismo liberale, molto di più di un’utopia ci suggerisce l’idea di Libertà come supremo fine scrivendo che “Il liberalismo può definirsi come quella teoria politica che, partendo dal presupposto della libertà dello spirito umano, dichiara la libertà supremo fine, supremo mezzo, suprema regola della umana convivenza”. E spiega: “Non si nasce, ma si diventa liberi. E ci si conserva liberi solo mantenendo attiva e vigilante la coscienza della propria autonomia e costantemente esercitando le proprie libertà”.

Ma se per Rosselli la libertà è un fine per Piero Gobetti, giornalista, politico antifascista e promotore della rivista culturale Energie Nuove, la libertà diventa anche metodo. “Il metodo del liberalismo, lo si consideri nella sua sostanza economica o etica o costituzionale, consiste nel riconoscimento della necessità della lotta politica per la vita della società moderna. L’importanza di un’opposizione per l’opera del governo, la tutela delle minoranze, lo studio dei congegni più raffinati per le elezioni e per l’amministrazione pubblica, le conquiste costituzionali, frutto di rivoluzioni secolari sono il patrimonio comune della maturità politica e devono intendersi come problemi di costume politico propri dei liberali, come dei loro eredi o avversari che non siano ingenuamente teneri per gli anacronismi o per le esercitazioni oratorie di filosofia politica”. Già nel 1923 sulla rivista La Rivoluzione liberale, Gobetti sottolineava un particolare discriminante: “Se concediamo ai conservatori di chiamarsi liberali non sapremmo più che cosa obbiettare ai nuovissimi tiranni che parlano, per demoniache tentazioni di dialettici fantasmi, della libertà vera come libertà contenuta nei limiti della legge (mentre nel caso specifico ci accontenteremo di ricordare maliziosamente al Gentile che raramente i filosofi seppero sottrarsi al fascino dell’autorità per le stesse ragioni per cui le donnicciuole più espansive venerano il bastone)”. E ancora: “Il nostro liberalismo, che chiamammo rivoluzionario per evitare ogni equivoco, s’inspira a una inesorabile passione libertaria, vede nella realtà un contrasto di forze, capace di produrre sempre nuove aristocrazie dirigenti a patto che nuove classi popolari ravvivino la lotta con la loro disperata volontà di elevazione, intende l’equilibrio degli ordinamenti politici in funzione delle autonomie economiche, accetta la costituzione solo come una garanzia da ricreare e da rinnovare. Lo Stato è l’equilibrio in cui ogni giorno si compongono questi liberi contrasti: il compito della classe politica consiste nel tradurre le esigenze e gli istinti in armonie storiche e giuridiche. Lo Stato non è se non è la lotta”. L’animo liberale ha in se dunque il germe stesso della laicità e dalla libertà di religione costruisce nella sua quotidiana lotta una religione della libertà.

“La dottrina dello Stato liberale” – ci dice ancora Norberto Bobbio nel volume Dalla libertà dei moderni comparata a quella dei posteri, ora pubblicato da Einaudi – “si presenta al suo sorgere come la difesa dello Stato limitato contro lo Stato assoluto. Per Stato assoluto si intende lo Stato in cui il sovrano è legibus solutus e il cui potere è quindi senza limiti, arbitrario. Lo Stato limitato è per contro lo Stato in cui il supremo potere è limitato sia dalla legge divina e naturale (i c.d. diritti naturali inalienabili e inviolabili), sia dalle leggi civili attraverso la costituzione pattuita (fondamento contrattualistico del potere). ” Per maggiore chiarezza Bobbio distingue “due forme di limitazione del potere: una limitazione materiale, che consiste nel sottrarre agli imperativi positivi e negativi del sovrano una sfera di comportamenti che sono riconosciuti per natura liberi (la c.d. sfera di liceità); e una limitazione formale che consiste nel porre tutti gli organi di potere statale al di sotto delle leggi generali dello Stato medesimo”. Non può perciò definirsi liberale colui che spera soltanto lontanamente di evadere queste limitazioni. Perché, aggiunge Bobbio, “La prima limitazione è fondata sul principio della garanzia dei diritti individuali da parte dei poteri pubblici: la seconda sul controllo dei pubblici poteri da parte degli individui. Garanzia di diritti e controllo dei poteri sono i due tratti caratteristici dello Stato liberale”.

C’è da chiedersi, volendo rispettare queste definizioni, quanti possano davvero dirsi, nei fatti, liberali.

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Quando il libero mercato incrementa la miseria

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “il Domani della Calabria” del 9.11.2010

Siamo in un Paese bloccato in cui – ai fini del successo – conta di più la ricchezza dei propri genitori che non il livello d’istruzione o il merito. Sono queste, in sostanza, le conclusioni che si possono trarre dall’intervento, o forse sarebbe meglio chiamarla “lezione”, del Presidente della Banca d’Italia Mario Draghi tenuto il 5 novembre scorso ad Ancona alla facoltà di economia intitolata al grande economista Giorgio Fuà.

L’Italia – ha affermato Draghi – è a un bivio fra la stagnazione e la crescita e deve saper uscire dalla spirale del calo della produttività che ha colpito tutto il paese, anche il Nord, nell’ultimo decennio non appagandosi della ricchezza conquistata negli scorsi anni.

A darne per prima grande risalto sulla stampa nazionale è Chiara Paolin, giornalista de il Fatto quotidiano, che riporta nel suo articolo titolato “Italia povera come nel ‘600” alcuni passaggi di quell’intervento sul tema “Crescita, benessere e compiti dell’economia politica” in cui Draghi, interrogandosi sulle cause del deludente andamento della produttività dell’Italia afferma, senza peli sulla lingua, che “La stagnazione di questo valore nel decennio precedente la crisi è stata uniformemente diffusa sul territorio”. Dal Mezzogiorno al Nord d’Italia Draghi parla di un Paese per il quale “Dobbiamo ancora valutare gli effetti della recessione sulla nostra struttura produttiva” aggiungendo che “E’ possibile che lo choc della crisi abbia accelerato la ristrutturazione almeno di parti del sistema, accrescendone efficienza e competitività” ma anche che “è possibile un semplice, lento ritorno al passo ridotto degli anni pre-crisi” o peggio ancora “un percorso più negativo”.

Già quarant’anni prima che esplodessero gli scandali di Tangentopoli un grande intellettuale denunciava, con pagine roventi e documentate, gli illeciti di imprese e partiti che oggi rivediamo emergere in “cricche” degli appalti che “lavorano” in assenza di concorrenza o in condizioni di concorrenza “controllata”. Nel volume Capitalismo inquinato Ernesto Rossi (1897-1967), quarant’anni prima degli scandali del ’92, documentava come, in questo Paese, “I grandi industriali hanno la coscienza troppo sporca” perché “Capiscono anche loro che non possono continuare ad accumulare miliardi, senza dare alcun servizio utile alla collettività, riscuotendo dei balzelli ai passaggi obbligati e non pagando le imposte che servono a mantenere l’ordine di cui profittano”.

Secondo Mario Draghi, oggi, si potrebbe precipitare in “situazioni vissute in epoche lontane, nel ‘600 o agli inizi del ‘900, quando una pur consolidata ricchezza di base non riuscì ad arrestare la recessione ad una civiltà squilibrata verso le forme più rurali ed arretrate”. E in questo scenario “a rischiare di più sono i giovani”. Oggi come allora sono proprio i giovani di questo Paese a rischiare di più. La disoccupazione a livelli che non si registravano da anni, quasi 4 milioni di lavoratori precari pari al 16% del totale della forza lavoro e il lavoro irregolare che secondo i dati istat raggiunge il 12% su media nazionale ma che, in regioni come la Calabria, sfiora il 20% del totale della forza lavoro. E, spiega Draghi, “Senza la speranza di una sia pur graduale stabilizzazione dei rapporti di lavoro precari, si hanno effetti alla lunga negativi su produttività e profittabilità”. Ma non è un inno retorico ai giovani. Da economista qual’è, Draghi sottolinea proprio come il precariato finirà per scardinare il sistema capitalistico italiano, cioè la nostra vita economica.

Draghi descrive insomma un paese non solo economicamente ma anche socialmente “bloccato” dalle troppe rendite di posizione: “Nel determinare il successo professionale di un giovane, il luogo di nascita e le caratteristiche dei genitori continuano a pesare molto di più delle caratteristiche personali, come il livello d’istruzione”. Si hanno cioè più chance se si è figli di un’industriale o un parlamentare e si nasce in Lombardia o in Veneto piuttosto che in regioni come la Calabria o la Campania. È questa la fotografia dell’Italia scattata a 150 anni dalla sua storia unitaria. “E questo accade in Italia” – continua impietosamente Draghi nel suo discorso – “con incidenza che non ha pari in Europa”. Il lavoro e la fine della precariato come emergenze e come possibilità di riscatto sociale, morale e politico del nostro Paese. Forse sarebbe possibile se si guardassero quegli studi e quelle proposte troppo spesso in passato considerate “marginali” se non “utopiche”, ma che oggi sarebbero utili davvero per abolire la miseria. Mentre si premiano imprenditori come Marchionne, dovremmo ricordare che, ancora oggi, come scriveva Rossi nel ’46, “Le dimostrazioni che molti economisti hanno creduto di dare che il regime individualistico, consentendo la maggiore approssimazione possibile allo schema teorico della libera concorrenza, tende automaticamente ad attuare in ogni momento un massimo di utilità collettiva, non reggono alla critica, rivelandosi, nel migliore dei casi, delle semplici tautologie; la libera concorrenza può dare degli effetti socialmente benefici o malefici, a seconda degli argini dell’ordinamento giuridico entro i quali viene contenuta”. Se le regole del libero mercato non esistono o vengono sistematicamente violate, derogate, se gli imprenditori sono lasciati liberi di agire nel loro esclusivo interesse individualistico anche quando essi non contribuiscono alla collettività in cui operano con il giusto pagamento delle tasse, se si lascia che non si paghino i contributi ai lavoratori perché li si lascia lavorare in nero, se anzi si premiano i comportamenti evasivi con i condoni fiscali, allora il libero mercato è destinato ad incrementare la miseria e quel divario tra la tracotanza di coloro che vivono di rendite e la gente comune, sempre più miserabili, destinati a non riuscir a sopravvivere neanche del loro lavoro.

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