Archivi categoria: Autori

Investire in sicurezza del territorio

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “il Domani della Calabria” del 4 novembre 2010

L’emergenza frane torna ogni anno tragicamente d’attualità per i morti, le disgrazie e le ferite che provoca. A Massa tre vittime in poche ore: una mamma di soli 39 anni e il figlio sono stati travolti e uccisi dal fango che si è abbattuto sulla loro casa. Poche ore dopo un camionista è rimasto travolto sotto i detriti. Mentre scriviamo il maltempo si è spostato al sud e in Calabria piove a dirotto. Piove a dirotto e le fiumare crescono, s’ingrossano spaventosamente solo come quelle calabresi sono in grado di fare per la loro irta pendenza, i terreni argillosi e le coltri detritiche ricoprenti il territorio calabrese si saturano velocemente appesantendosi e rovinando in frane. Non si vuole fare catastrofismo ma è necessario prenderne atto: piogge intense e concentrate ormai non sono più una straordinarietà ma una tipologia “normale” di eventi meteorici caratteristici di una regione e che, sistematicamente, causano frane e alluvioni. Uno “sfasciume pendulo sul mare” definiva Giustino Fortunato l’Appennino. E se su tante cose l’Italia a 150 anni dalla sua unità è ancora divisa, sul problema del dissesto idrogeologico è unita da una continuità geomorfologica e di numeri. Numeri che fanno impressione quasi come la pioggia battente che ingrossa le fiumare. Quasi 470.000 le frane censite in Italia, per un totale di circa 20.000 chilometri quadrati. Un indice di franosità che raggiunge l’8,9% del territorio nazionale se si escludono le aree in pianura. Un Paese dove più dell’ottanta percento dei comuni ha almeno un’area instabile all’interno del suo territorio per frana o rischio alluvioni. Percentuale che in Calabria sale al 100%. Un numero così elevato di fenomeni franosi che è legato principalmente all’assetto morfologico del nostro paese, per circa il 75% costituito da territorio montano – collinare e alle caratteristiche meccaniche delle rocce affioranti. Un problema che avrebbe meritato prevenzione e che invece è stato incrementato nei decenni da costruzioni abusive e regole urbanistiche violate e non rispettate talvolta dalle stesse pubbliche amministrazioni che avrebbero il compito di “governare” i fenomeni del territorio. Il ruolo svolto dall’uomo che si è insediato ovunque anche dove era poco consigliabile, sulle frane e lungo i corsi d’acqua, è complice con quello di una politica che non si è pre-occupata dei problemi.

La mappatura effettuata dal Cresmel del 2009 fornisce un’altro dato interessante (e preoccupante) derivante dalla semplice sovrapposizione delle carte del rischio frana o alluvione elaborate nei PAI, piani per l’assetto idrogeologico regionali, e le carte riportanti strutture pubbliche, scuole e ospedali.

Sono ben 3.458 le strutture scolastiche costruite in zone ad alto rischio idrogeologico; 89 gli ospedali.

Negli ultimi 50 anni le vittime per solo per frane ammontano a 2.552, più di 4 vittime al mese. È a questo tragico elenco che si aggiungono, giorno dopo giorni, nuove vittime dell’incuria del territorio. Un intero paesino è come se fosse stato cancellato dall’Italia. Una strage o, se preferiamo, un serial killer.

Dal dissesto idrogeologico alla gestione emergenziale e criminogena del ciclo dei rifiuti l’Italia è il Paese che paga un prezzo altissimo in termini di vite umane per la non applicazione delle leggi. C’è da chiedersi se nel caos dello Stato che non è più di diritto, la gestione emergenziale di un problema atavico e persistente non convenga e, soprattutto, a chi convenga. Appalti, lavori, progettazioni date in deroga alle leggi vigenti sui lavori pubblici. E se è vero che il fabbisogno del Paese per il risanamento di queste situazioni di rischio ammonterebbe a circa 4 miliardi di euro, quanto cioè sono i soldi per costruire il Ponte sullo stretto, perché non si indicano quali sono davvero le priorità di questo Paese compiendo una scelta di responsabilità per tutte le vittime del dissesto idrogeologico? Perché non si assume un geologo in ogni comune che presenta rischi idrogeologici e o sismici? Non sarebbe questo forse un modo d’investire in sicurezza producendo nuova e vera green economy?

Share

Era un grande poeta civile e non ne nascono tanti in un secolo

di Filippo Curtosi

Giuseppe Zigaina è un pittore che abita a Cervignano del Friuli in una bella villa bianca ad un solo piano che si trova in ogni guida che si rispetti dell’architettura italiana contemporanea,opera dell’architetto Giancarlo De Carlo, padre dello scrittore Andrea. Zigaina è stato intimo amico di Pier Paolo Pasolini e 40 anni fa si faceva cinquanta chilometri in bicicletta per venire dall’amico a parlare di Freud. Si erano conosciuti ad Udine nel 1946 a una mostra collettiva di pittura. Pasolini, dice Zingania a Camillo Langone che lo intervista per “Il Foglio” dipingeva molto bene. Nel 1950 Pasolini se la passava malissimo, disoccupato a Roma con la pena della madre costretta a fare la donna di servizio, lei che in Friuli era maestra e soprattutto moglie di un ufficiale di sangue blu. Fu proprio davanti al prato verde della villa di Zigania che Pasolini regalò a Maria callas un anello che lei credette di fidanzamento.

Bologna, 5 marzo 1922 – Roma, 2 novembre 1975
Pierpaolo Pasolini

Dozzine di biografi, continua Langone non sono riusciti a scrivere nemmeno una riga sulla questione araldica del regista che avrebbe potuto atteggiarsi a conte Pasolini Dall’Onda, patrizio di Ravenna. Se evitò di farlo è perché doveva vendere libri e non bottiglie di vino. Nel mondo del vino lo stemma tira sempre molto,in quello letterario costituisce un passaporto per il ridicolo. Langone poi chiede con insistenza al vecchio pittore: Pasolini c’è stato o non c’è stato con la Callas? Cosa successe su questo prato 50 anni fa? Zigaina però tende a divagare. In verità al vecchio amico dello scrittore interessa più la morte. Secondo lui Pasolini scelse, l’anno, il mese, il giorno ed il luogo della propria morte. Pasolini non è più quello degli anni 50-60 che faceva contorsionismi per non tradire la memoria del fratello partigiano ucciso dai comunisti. Il Pasolini del ’74 scrive Langone è ormai apertamente di destra. Lo scrive lui stesso, ma nessuno lo legge.

Il tempo corre davvero in fretta, se è vero che sono già trascorsi trentacinque anni dalla morte che il 2 novembre del 1975 colpi Pasolini e l’intera cultura italiana. Lo scrittore venne trovato ucciso in uno spazio periferico presso Fiumicino tra baracche e rifiuti.

Nel suo correre in fretta il tempo rischia di portarsi via anche i fatti più rilevanti permettendo, a chi si cimenta con le ricorrenze, di fornire una versione in parte distorta e in parte oleografica di un uomo che meriterebbe invece ben altra considerazione.

E’ stato così purtroppo per quasi tutti coloro che hanno scritto su Pasolini e su quella tragica giornata riproponendoci tante favole. Lui, ne “Il romanzo delle stragi” diceva:

Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia, il mistero”.

La scomparsa di Pier Paolo Pasolini, non è la scomparsa di un intellettuale, di uno scrittore qualsiasi, ma la scomparsa di una storia, di una generazione di uomini e di Poeti militanti che, con il proprio operato hanno segnato un pezzo importante di storia politica e culturale del nostro Paese. Se ne è andato davvero un pezzo importante del Novecento democratico di questo paese.

Certo si rischia di essere retorici ricordando una stagione che adesso sentiamo davvero tramontata con Pier Paolo Pasolini, specialmente chi come noi giovani studenti hanno avuto la fortuna di ascoltarlo in qualche bar di Monteverde assieme a Ninetto Davoli. Poeta, scrittore, regista, giornalista prestigioso ed inquieto. Molte cose sono state scritte e saranno scritte in futuro su di lui. La cultura del secolo scorso è stata notevolmente influenzata dal pensiero di Pier Paolo Pasolini: dallo scontro tra passione e ideologia, tra neocapitalismo corruttore e desistenza rivoluzionaria, queste sono le battaglie contro e senza speranza in quanto sosteneva che il dissidio tra religiosità e marxisismo porta alla separazione.

Con Pasolini si poteva discutere tutto e si poteva dire tutto perché era un uomo di grande statura morale. Certa stampa lo ha voluto trascinare da una parte all’altra e quasi sempre lo ha classificato di sinistra e questo per la verità è falso perché fu severo con la sinistra ufficiale del tempo: raccontava storie di miserie che al senso della pietà cristiana affiancava la dimensione della tragedia esistenziale, questo si: una penna libera e sapiente come quella di Barbara Spinelli ricorda di Pasolini molte virtù: “i lavori poetici e cinematografici, la libertà, i pensieri profondi sulla guerra, sulla crisi delle democrazie, sull’imprescindibile dialettica fra destra e sinistra. Ancora i giudizi rigorosi sulla peculiare decadenza delle istituzioni repubblicane: decadenza appunto che a parere di Pasolini era cominciata negli anni ‘60 con l’avvento di quel nuovo centrosinistra, che si alimentava di “ democrazia” dell’applauso.

PASOLINI IN CALABRIA

Verso la metà degli anni Settanta, Pasolini si mise di buona lena a lavorare alla realizzazione di un film liberamente ispirato a “Il Vangelo”. Cominciò a viaggiare per i paesi più sperduti dello stivale alla ricerca di “facce” primitive, giovani, insomma quei volti di attori non professionisti che poi diventavano protagonisti nei suoi memorabili film. Così lo scrittore, giungendo verso l’autunno del ’73 nel meridione d’Italia, passa per la Calabria, prima di approdare in Sicilia alla ricerca di attori e di luoghi per ambientarvi qualche scena,osserva una regione a pezzi.” Giovani impazziti, o ebeti o nevrotici-annota il regista-poeta e scrittore nel suo diario di lavoro-vagano per le strade del Sud coi capelli irti, le sagome deformate dei calzoni che stanno bene solo agli americani: vagano con aria soddisfatta, provocatoria, come se fossero depositari del nuovo sapere. Sono in realtà, paghi dell’imitazione perfetta del modello di un’altra cultura. Hanno perso la propria morale e la loro arcaica ferocia si manifesta senza forma. Un mutamento antropologico arrivato a rilento ha traviato la sana cultura popolare, tollerante e rispettosa della socialità e della diversità, inoculandole il virus dell’egoismo individualista e del perbenismo ipocrita..quel piccolo mondo di Sodomia è stato distrutto da una Gomorra feroce ricalcata su Milano…il modello del centro-propagato dalla televisione-non è raggiungibile da un ragazzo calabrese che vede cosi aumentare il suo tratto di inferiorità, facendolo precipitare nell’ignoranza sino alla ebetitudine”. A Vibo Valentia ebbe la dimostrazione pratica di queste convinzioni.

Parlando con gli studenti del Liceo Classico “Morelli”, un gruppetto di studenti tentò di aggredire il regista, così come al “Circolo del Cinema”, inventato dal mio amico regista Andrea Frezza che all’epoca frequentava il centro sperimentale di cinematografia a Roma o ancora nella libreria di Pino Mobilio – lo ricordo come se fosse ora presente – lo faceva scandalizzando. L’avevo conosciuto alla facoltà di Lettere della “Sapienza”, dove teneva una “Lectio magistralis” assieme ad Alberto Moravia. Gli regalai “la Ceceide” di Vincenzo Ammirà che lui già conosceva. Mi ringrazio’ aggiungendo che di Ammirà gli interessava il suo profilo morale dell’uomo, perché oltre ad essere un grande poeta dialettale, fu uno spirito inquieto e rivoluzionario vero come lo sanno essere solo i veri calabresi”. Racconta Nando Scarmozzino sulla rivista “Rogerius: “tra i presenti nella libreria c’era anche Mimmo Mobilio in quel periodo insegnante a Piani di Acquaro che informò lo scrittore di un fatto successo ad Ariola in quei giorni: durante un funerale era caduta la bara e la salma era finita in un burrone dove passava una fiumara. Fu anche detto a Pasolini che gli abitanti di Ariola, quasi tutti contadini erano costretti a vivere in condizioni umilianti in uno stato di isolamento drammatico. Pasolini ascoltò con attenzione e accettò di fare visita in quel posto. Ci fu un incontro pubblico ed il poeta promise che avrebbe mandato un contributo per costruire un ponte. I soldi arrivarono e furono affidati a Bruno Mamone, oggi emigrato in Australia per fare qualcosa. Di questa visita vibonese ha scritto Sharo Gambino su “Quaderni Calabresi” un pezzo dal titolo: “I Marcusiani dell’Ariola”. Dopo Ariola, Pasolini raggiunse Serra San Bruno e si intrattenne “ferocemente” con i certosini del luogo in uno scambio di vedute senza esclusioni di colpi. Ma il vero colpo giornalistico lo mette a segno Franco Santopolo direttore de “Il Manifesto”, con una intervista esclusiva nel numero unico dell’Aprile del 1964, in redazione tra gli altri figuravano Marcello Furriolo, Nuccio Marullo, Franco Presterà e Nicola Ventura. L’occasione fu la consegna del premio letterario “Città di Crotone”, allorché gli venne revocato il premio precedentemente assegnatogli per il Romanzo “Ragazzi di vita” in seguito ad alcune dichiarazioni che vennero ritenute offensive per la nostra terra. “Dopo averci presentato la sua illustre compagna, la scrittrice Elsa Morante, scrive Marcello Furriolo, ci dichiara: “Sono in Calabria per trovare dei volti nuovi per il mio prossimo film Il VANGELO, di cui inizierò le riprese a Roma e a Tivoli, per poi trasferirmi in Puglia, Lucania e quindi verso la fine di Maggio in Calabria nelle zone di Cutro, Crotone e nel vibonese. Il paesaggio calabrese con i suoi meravigliosi contrasti naturali in cui a dolci pendii si contrappongono violenti sbalzi rocciosi penso che sia determinante e quindi essenziale per il mio film”. Non avrà, incalza Furriolo, anche dei motivi di carattere sociale? “Penso che le folle colorite e varie che si incontrano in queste zone,difficilmente si trovino altrove.Ecco,è proprio il senso dei luoghi:la bellezza di queste masse che io voglio sfruttare per il mio film”. Cosa pensa, domanda il giornalista de “Il Manifesto” della città di Catanzaro? “Sono stato più volte a Catanzaro ed ho avuto sempre la stessa sensazione. Catanzaro come tutte le città burocratiche è una città un po’ triste e deprimente. Infatti malgrado si trovi in un posto molto bello e piacevole, la carenza di uno sviluppo urbanistico organico, per la mancanza di un Piano regolatore le conferisce un aspetto un po’ caotico e confusionario, ma sempre grigio ed amorfo, cosa che del resto avviene in moltissime città italiane. Non credo che possa considerarsi vita e quindi vivacità un certo tipo di società medio borghese, in cui i problemi, le ansie, le attività nascono dalle preoccupazioni individuali egoistiche di una grigia classe impiegatizia che purtroppo per voi costituisce il nervo di questa enorme impalcatura burocratica. Penso che si possa parlare di vivacità e quindi di vita, in quelle città marinare, mercantili, laddove si sente palpitare il cuore delle masse popolari. Quello che Pasolini diceva, lo si poteva stampare, rigo per rigo; la sua cultura e la sua dirittura politica, poetica e filosofica, erano tali che ognuno doveva fare conti con lui. Non vi è dubbio che nel multiforme complesso della produzione di Pasolini la sua “dottrina” politica segna nel modo più spiccato l’originalità non solo dello scrittore ma dell’uomo.

Poesie, lettere, polemiche, interventi nel dibattito politico e culturale di quegli anni. Nico Naldini, suo cugino scrittore, nella sua biografia cosi scriveva: “La figura pubblica di Pasolini che si è andata via via costruendo, anche contro i suoi desideri, continua ad esporlo ad ogni sorta di attacchi, dai quali non si ripara mai, anzi egli stesso li provoca con insistenza. Sia che si tratti di un dibattito su un libro o della presentazione di un film, scende dalla cattedra per controbattere con lucidità ossessiva le provocazioni di quella parte del pubblico che lo confuta con un delirio di tensioni e di violenza. Qualsiasi occasione basta scatenare l’aggressività di questo pubblico”.

Nel suo diario di venticinquenne, Naldini annota: “La mia mostruosità nell’amare T”.

T., stava per Tonuti Antonio. “L’omosessualità è un’orrenda malattia” dice Zingania.

Lo diceva anche lui.

Gian Carlo Ferretti, curatore dei “Dialoghi 1960-65” ci parla di un intellettuale carismatico, un autore trasgressivo, un bersaglio predestinato dai suoi scritti, dai sui comportamenti pratici e dall’accettazione consapevole del rischio, lo scenario di quella notte… un delitto omosessuale o politico che rimanda ad un clima persecutorio. La morte di Pasolini diventa, conclude Ferretti, soltanto l’ultimo tragico episodio di quella lunga vicenda, nel pieno della stagione di massima sfida e di massimo rischi.

Pasolini ha concepito e organizzato la sua morte come un linguaggio destinato a incrementare di senso la sua opera. In una poesia pubblicata nel ’64: “Sul vecchio litorale/ tra ruderi di antiche civiltà/Ravenna/Ostia o Bombay- è uguale/comincerò pian piano a decompormi/ nella luce straziante di quel mare”.

Sceglierà Ostia che deriva da “ostia” vittima sacrificale, laddove in antico si compivano sacrifici umani. Scelse infine una data sacra, una Domenica dei Morti, facendone un oscure accenno nella poesia intitolata “Patmos”. La Callas riuscì a posticiparne il triste epilogo. Mori infatti il giorno dei Morti, ma non di domenica.

Il 2 Novembre la morte, poi il funerale: Campo de’ Fiori con le bandiere rosse ed il discorso di Alberto Moravia che dice: “Era un grande poeta civile e non ne nascono tanti in un secolo”.

Share

Emma Bonino: Questo Paese è governabile, non lo sono i suoi governanti. Col PD non mi ero mai illusa e per questo non mi sento delusa dalla sua classe dirigente

30.10.2010 Chianciano Terme (Siena): Intervista a Emma Bonino: Questo Paese è governabile, a non esserlo sono i suoi governanti.

di Giuseppe Candido

Maglione azzurro, sciarpetta azzurra e sigaretta accesa. Emma Bonino è al congresso di Radicali Italiani. Onestà, legalità, antiproibizionismo sono i temi in evidenza sui banner della sala congressi del famoso Hotel di Chianciano dove da anni si svolgono i congressi di Radicali Italiani. Questo è il nono congresso da quando il movimento italiano della Galassia di associazioni Radicali è stato fondato. Un congresso che si tiene mentre Marco Pannella è in sciopero della fame dal 2 ottobre per la situazione drammatica delle carceri italiane e per chiedere che sia fatta verità sull’esilio di Saddam Hussein che avrebbe potuto, forse, evitare la guerra in Iraq. Sciopero della fame aggravato, in relazione alla notizia della condanna a morte di Tareq Aziz, dallo sciopero anche della sete. La Senatrice Radicale eletta nel PD e titolare di battaglie antiche e nuove, dall’aborto alla moratoria universale delle mutilazioni genitali femminili, ci permette di fargli qualche domanda su dove va il suo partito e, soprattutto, dove sta andando questo Paese.

D: Com’è la situazione in Italia, cosa sta succedendo? Le elezioni? I radicali sono contrari alle elezioni? Non si capisce il rapporto col PD e Radicali a che punto sia. Emma, dove si va?

R: Non è questo il problema, tutto questo attiene, per la verità, alla miseranda cronaca del palazzo alla quale sono pochissimo interessata. Il problema sono le priorità di questo Paese che, già come diceva Sciascia nel 1979, è governabilissimo. Quello che non è governabile sono i suoi governanti, i suoi partiti. E io credo che sia compito dei Radicali promuovere le priorità che abbiamo delineato e che sono quelle dell’onestà e della legalità. E credo che solo insistendo su questi temi si possa dare una qualche fiducia. Nel frattempo gli oligarchi decideranno qualunque cosa, anche di tornare indietro ad un governo tecnico. Senza sapere che siamo in pieno governo tecnico: il governo tecnico di Tremonti che ha chiuso tutte le “borse” di questo Paese che adesso è completamente bloccato. E in un mondo che corre essere fermi vuol dire semplicemente andare indietro in termini di occupazione, in termini di rilancio economico, in termini di decenza delle istituzioni. Uno spaccato di tutto questo sono le carceri. Se uno va in carcere vede che la giustizia non funziona, la stragrande maggioranza sta li in attesa di giudizio, che la stragrande maggioranza sono piccoli consumatori di droga oppure immigrati. E sono uno spaccato della realtà del Paese. Che significa questo? Significa che la lunga marcia nostra, dei Radicali, che ormai da cinquant’anni e più tentiamo di riportare un po’ di legalità in questo Paese è appunto una marcia. Poi tatticamente il palazzo deciderà quale altro sfregio vuole fare a questo Paese. Rimandarlo ad elezioni con questa legge elettorale? Un diavolo di “unità nazionale” per l’emergenza “non so quale”? Insomma, tutto questo francamente penso che non abbia neanche il sapore di una qualche alternativa e manco di alternanza. Ha tutto il saporte del “gia visto”.

D: In merito al rapporto col PD e con Vendola che nel suo congresso ha parlato di non violenza, di carceri di “cui nessuno se ne occupa” …

R: Manco lui soprattutto. Comunque Niki Vendola ha già detto che nella sinistra che lui sogna noi siamo incompatibili. Non so come gli sia venuto in mente però l’ha detto e l’ha confermato. E sulla non violenza il nostro problema non è la cultura della non violenza ma è la pratica della non violenza. Allora il problema si pone diversamente. Marco oggi è al quarto giorno di sciopero della sete sulle carceri e sulla verità. Io Vendola, su questi temi, non l’ho visto né sentito in termini di azione politica. Per cui sul rapporto con Vendola il problema va posto a lui. Il problema del rapporto dei Radicali col PD ce lo poniamo ogni giorno. Personalmente non mi sono mai illusa, so perfettamente perché abbiamo accettato quell’imposizione (no simbolo, no Marco Pannella e no Sergio D’Elia candidati ndr) due anni fa e quindi non essendomi mai illusa non sono neppure delusa della sua classe dirigente. Noi abbiamo ampia libertà di muoverci in Parlamento con le forze che rappresentiamo: sei Deputati e tre Senatori. Semmai posso dire che è il PD che si priva di un apporto di una forza politica che sa analizzare i processi internazionali, che stranamente si occupa di Tareq Aziz, che ancora più stranamente si occupa di mutilazioni genitali femminili. Sono proprio loro (il PD ndr) che non riescono a capire che si privano di questo apporto straordinario di onestà di comportamenti, di senso delle regole e di senso delle Istituzioni.

D: A proposito dei temi internazionali e della prossima Assemblea delle Nazioni Unite, l’associazione della galassia Radicale “Non c’è pace senza giustizia” sta portando avanti la battaglia per la messa al bando delle mutilazioni genitali femminili. C’è davvero oggi la possibilità di far votare, dopo quella contro la pena di morte, anche questa moratoria?

R: Da dieci anni a questa parte i progressi nei diversi paesi sono stati straordinari. Grazie soprattutto alle attiviste africane che noi sosteniamo. Se voi pensate che di ventotto paesi che hanno la pratica prevalente diciannove hanno ormai ottenuto una legge di proibizione di queste pratica. Poi ovviamente si tratta di battersi per l’applicazione. Ma il discorso è aperto e il muro del silenzio è caduto. Per questo, sui paesi “resistenti” è indispensabile questa risoluzione delle Nazioni Unite e su cui stiamo lavorando ogni giorno. Nicolò Figà Talamanca e un’altra nostra militante hanno incontrato i rappresentanti della Repubblica centroafricana e io sono in contatto con tutta una serie di Paesi africani. Siamo per lanciare un manifesto capitanato dalla first lady del Burkina Fasu. Ieri hanno aderito altri. Insomma, il tutto è un’attività sconosciuta ai più perché non facciamo né bunga-bunga né tanga tanga, però è un’attività che ci impegna molto. Probabilmente dovrò ripartire d’urgenza per il Gibbuti che è uno tra i paesi più resistenti. Un grandissimo lavoro che però, credo che se ci riusciamo quest’anno o al massimo l’anno prossimo, porterà un risultato che rimarrà nella storia, della cultura della civiltà giuridica nella storia delle Nazioni Unite, come lo è oggi, fortunatamente la moratoria sulla pena di morte.

Share

Sugli errori sanitari si facciano verità e giustizia

di Giuseppe Candido

Pubblicato su Il Domani della Calabria del 25.10.2010

L’angelo volato in cielo, così lo definisce la pagina che, per ricordalo, è stata creata su facebook. Baltov Dimitrov Zdravko è morto a soli tredici anni. Ai funerali a Sellia Marina, la cittadina dove viveva, il dolore composto della comunità bulgara. Un errore dei medici, forse, quello di rimandarlo a casa. È morto poi nello stesso ospedale di Catanzaro dove è giunto al “secondo” pronto soccorso dopo essere stato rimandato a casa al primo tentativo. Ore perse che avrebbero potuto salvargli la vita? È su questo che ora sta indagando la Procura del capoluogo di regione. Nel registro degli indagati sono finite 24 persone, 16 medici e 8 infermieri. Tutti quelli che l’hanno visto torcersi dal dolore all’addome e che l’hanno “assistito”. Si poteva salvare? Lo dovranno stabilire le perizie dei medici e, coi tempi che ha la Giustizia italiana, il rischio che tutto finisca nell’oblio delle consulenze tecniche è concreto. Certo è che la situazione della sanità calabrese fa paura. E fa paura quello che ti può succedere: star male e avere bisogno di cure e trovare invece l’inefficienza o l’incapacità che ti ammazza. E se è vero che in Calabria abbiamo delle situazioni di eccellenza è vero pure che la qualità dell’offerta sanitaria è assai scadente. Mille settecentocinquanta milioni di euro è il debito della sanità calabrese (ma forse sarebbe meglio chiamarlo voragine) accertato a luglio del 2009 dall’advisor indipendente Kpmg. Al trentuno dicembre del 2009 la Corte dei Conti calabrese accertò un debito pubblico della sanità calabrese di 1,8 miliardi di euro di cui 800 milioni derivanti dalla gestione (fallimentare) precedente al dicembre 2005, 800 milioni di euro quale debito della gestione gennaio 2006-dicembre 2007 e oltre 200 milioni di disavanzo 2008 e 2009. “Incontrollate situazioni debitorie” dovute “al notevole ritardo circa l’adozione dei documenti contabili, alla non osservazione delle normative contabili, e alla carenza dei controlli che hanno lasciato le strutture libere di non ottemperare tempestivamente alla disposizioni normative” scriveva la Corte dei Conti. Ma il servizio è scadente anche a fronte di tali spese: il turismo sanitario è alle stelle, i calabresi vanno a curarsi altrove e ci solo 267 posti letto per anziani ogni 100.000 abitanti a fronte di una media nazionale di 1270. Una spesa enorme che non produce salute. Federica Monteleone, Eva Ruscio, Fabio Scutella sono soltanto i nomi di storie tragiche, storie delle vittime ultime accertate di mala sanità ai quali si è aggiunto tragicamente anche quello di Baltov. E fino a quando questi nomi li conosci soltanto dai giornali ti fanno il loro effetto perché sono persone decedute, ma riesci ad essere lucido. Quando però si tratta di un bambino di tredici anni che abita a pochi metri da casa tua la morte ti sfiora, quasi ti tocca, la storia tragica la si con-divide e si resta sgomenti, pietrificati. E la domanda allora è: Si può mandare a casa uno che sta male così? L’unica cosa che si riesce dire, a chiedere, è che si faccia verità e giustizia per il piccolo angelo volato in cielo.

Share

IL QUADRO DELLA MADONNA DELLA LETTERA NELLA CHIESA MICHELIZIA di TROPEA

di Filippo Curtosi e Giuseppe Candido

LA CHIESA MICHELIZIA TRA STORIA E LEGGENDA

Madonna della lettera nella chiesa michelizia di Tropea
Madonna della lettera nella chiesa michelizia di Tropea

Nel tratto finale che nei secoli scorsi, dal rione Carmine portava al santuario di San Francesco di Paola, emerge da un verde agrumeto, un tempo più ampio e più fitto, una chiesa che, di assoluta purezza architettonica, presenta anche motivi di imponenza e solennità.

Attualmente dissacrata, era dedicata a Santa Maria della Neve; la voce popolare però l’aveva fatta conoscere con il nome di “Chiesa di S. Maria Michelizia” o più semplicemente “Chiesa di Michelizia”: un nome ricavato dalla fusione di Michele Milizia.

Isolata tra la profonda quiete ed i solenni silenzi della campagna, con le sue pagine murarie svela due momenti della sua storia, che ci sono stati rispettivamente tramandati con un racconto popolare e con la testimonianza dello storico tropeano Francesco Sergio, vissuto dal 1642 al 1720.

Tutto comincia, secondo la voce del popolo, durante una tempestosa sera del 5 agosto dell’ultimo scorcio del cinquecento.

Un violento temporale stava scaricando la sua violenta collera, rendendo alquanto mosso il mare e quindi molto critica la vita di quel veliero che non riusciva a scorgere, a causa della fitta nebbia, quella sinuosa rupe nella cui rada avrebbe trovato salvezza.

In preda alla disperazione, Michele Milizia, commerciante siciliano e padrone di quella barca, si mise ad invocare l’aiuto divino, come generalmente fa l’uomo quando incappa nel vortice di un grande pericolo.

Improvvisamente, su quella che doveva essere la sommità della rupe, penetrò le tenebre, la luce di una lanterna che un contadino portava, forse per andare a controllare la situazione del bestiame nella stalla.

Diventa punto di riferimento, tanto che valse al bastimento di mettersi al riparo nella rada, quella fiammella fu interpretata come intervento divino da Michele Milizia che, come segno di fede e di gratitudine, decise di fare sorgere, dov’era apparsa quella luce un tempio dedicato alla Madonna.

Quantunque di dimensioni ridotte, la chiesetta disponeva di tre altari, come ci tramanda lo storico Francesco Sergio. In quello centrale c’era l’immagine di Santa Maria Maggiore, poi chiamata S.Maria della Lettera.

Intanto, poiché la chiesetta, senza porte e con una diradata copertura, era caduta in uno stato di totale abbandono da diventare rifugio degli asini dei vicini ortolani, un vecchietto chiamato mastro Pietro, sarto e panettiere decise di porre fine a quello sconcio con un segno che conferisse al tempio la sacralità che meritava.

Ed infatti, con l’olio raccolto periodicamente tra i devoti, si premurava, ogni giorno, di accendere una lampada votiva davanti al quadro della madonna raccogliendosi in preghiera.

Un giorno, forse perché logorato dalla sopportazione delle sue sventure, postosi in un angolo della chiesetta, si mise a contemplare con occhi lacrimosi quella Madonna cui era tanto devoto, lamentandosi, come mai gli era accaduto,della propria esistenza di solitudine, di miseria e di altre sofferenze, causate anche da una grave forma di balbuzie che gli rendeva molto difficile la parola.

Erano struggente sfogo da cui traspariva la stanchezza del vivere.

Ad un tratto gli apparve una giovinetta di grazioso aspetto che amorevolmente gli disse: “Perché piangi, piuttosto vai in città e di alla gente di frequentare questa chiesa dove si vedranno delle cose così mirabili che si racconteranno”. Detto questo sparì.

Quando, ripresosi dallo sbigottimento, si rese conto dell’importanza di quel profetico messaggio che doveva portare alla gente, senza alcun indugio si incamminò verso il centro di Tropea dove, senza balbettare, e questo per il vecchio dovette essere già cosa mirabile, espose a quanti riuscì di incontrare ciò che aveva visto ed udito.

La notizia, che si diffuse rapidamente anche fuori Tropea,fu creduta e spiegata come vero segnale celeste, tanto che sempre più numerosi erano i pellegrini che, spinti dalla fede,forse anche dalla curiosità,volevano vedere e venerare quella immagine. Chi entrava in quella chiesa come leone,ne usciva come mansueto agnello, commentava il Sergio.

Ma come sempre accade per i fatti del genere, anche quella volta si levò la voce derisoria degli increduli, tra cui c’era anche un sacerdote di nome Arcangelo Andricciola, il quale andava affermando che quello che si diceva, per niente degno di fede, poteva essere pasto solo dei creduloni.

Ma non passò molto tempo ed anche il sacerdote crollò dall’alto del suo scetticismo.

Infatti un giorno, roso dalla curiosità, decise di recarsi in quel tempietto per vedere il quadro di quella Madonna che, come se sprigionasse un flusso misterioso, avvinceva e trasformava gli uomini.

Mai disse cosa sia accaduto dentro di se dopo aver guardato quella sacra effigie; certo che, in seguito, radicalmente diverso fu il suo comportamento, da denigratore ne divenne ardente sostenitore ed anche curato dello stesso tempietto. Ovviamente si parlò di evento straordinario. Intanto sempre più grande era l’affluenza della gente. Si trattava di credenti e di non credenti. Innumerevoli erano gli ossessi che ivi si recavano affinché, con un certo rituale, venissero sottratti, talvolta con urla raccapriccianti al potere del demonio.

Tutti questi fatti, diffusi dalla voce popolare anche in contrade lontane, colpivano profondamente la gente che esprimeva la propria devozione anche con elemosine e donazioni da destinarsi alla costruzione,in quello stesso sito,di un tempio più grande. La necessità si rivelò quando il 5 agosto del 1649, giorno dedicato dal messale romano a S. Maria ad Nives, si dovevano rendere festose onoranze alla Madonna di quella chiesetta. Immensa fu la folla di fedeli giunti da ogni dove. La cattedra vescovile era affidata a Giovanni Lozano, uno dei sei vescovi spagnoli che in periodi diversi: dal 1564 al 1726 ressero la diocesi di Tropea. Il vescovo fu colpito da quella oceanica partecipazione di fedeli e quindi decise di costruirne una più grande,esortando i fedeli: “Vamos, hijos mios a traèr piedras por nuestra Senora”.

Fu così che sorse un nuovo tempio con le pietre dei torrenti “Burmeria” e “La Grazia”.

Più in là, inquadrato in una cornice barocca, un dipinto su tela raffigura la Madonna della Lettera, tanto venerata dai Messinesi cui, secondo una antichissima tradizione, gli ambasciatori nel 42 d.C. si recarono a Gerusalemme per renderle omaggio e chiederle la sua benedizione per la città di Messina. La Madonna consegnò la Lettera con la quale benediceva la loro città ed i suoi abitanti. Imperfetto e lacunoso è il testo, in latino, trascritto nella “lettera” dall’autore del quadro e poco leggibili sono quei vocaboli in greco, tratti dall’antica immagine della Madonna del Grafèo.

Il quadro è importante dal punto di vista storico, oltre che da quello artistico, perché indica una continuità del culto verso la Sacra Lettera sin dall’epoca dell’originario tempietto dove, come ci tramanda lo storico Francesco Sergio, nella sua opera Cronologica Collectanea De Civitate Tropea, Liber Tertius, “Apparitio Sancte Marie Michealis militia”.

L’Abate Francesco Sergio in questa importante opera conferma una tradizione popolare che risale alla metà del ‘500 e cioè che l’immagine della Madonna era stata portata da un messinese di nome Michele Milizia dopo che lo stesso aveva provveduto a far erigere un tempietto dedicato appunto alla Madonna. La tradizione vuole che il nome della chiesa Michelizia è ricavato dalla fusione di Michele Milizia;ciò è anche testimoniato dallo storico tropeano Francesco Sergio vissuto tra il 1642 e 1720.

Altri quadri si possono ammirare nella Michelizia: la Crocifissione di Gesù, firmato Grimaldi Tropien, 1710. Si tratta di Giuseppe Grimaldi, pittore tropeano vissuto tra il ‘600 e il ‘700, ai più sconosciuto ma che lasciò importanti lavori nelle chiese tropeane.

Importante è un quadro del Cuore di Gesù.

Ma l’opera più notevole è l’altare settecentesco in legno così le statue di sant’Anna e Gioacchino poste ai lati con in mezzo la Madonna. Gli esperti del restauro di Cosenza ad un attento esame hanno rinvenuto sotto quella effigie la figura di una Madonna senza volto del Duecento.

Queste notizie, appaiono in uno scritto a firma illeggibile che il parroco della chiesa del Carmine, don Muscia ci ha gentilmente fornito con la preghiera di fare qualcosa per far ritornare la chiesa della Michelizia al culto ed agli antichi splendori di un tempo.

http://www.almcalabria.org/wp-content/uploads/2010/10/La-Chiesa-Michelizia-di-Tropea.jpg
La Chiesa Michelizia di Tropea

Attualmente la Michelizia è sconsacrata e viene utilizzata per concerti e manifestazioni musicali. Versa in uno stato di totale abbandono. Forse le Istituzioni potrebbero fare qualcosa, più che di soldi ha bisogno di cura perché è un importante sito non tanto culturale, parola abusata, ma artistico. In fondo non c’è epoca in cui il genio ( e l’arte) non abbia trovato il modo di manifestarsi. Oggi la chiesa e le sue opere sono cadute in uno stato di prostrazione e di abulia prodotto dall’incuria e dalla indifferenza degli uomini. Il sindaco, spirito tenace tropeano non può e non deve desistere e ci deve regalare in qualche maniera un intervento capace di aprire uno scorcio sulla vita culturale e artistica di una buona parte dei secoli scorsi.

Share

Stefano Cucchi, a distanza di un anno ancora poche verità

di Giuseppe Candido

Stefano Cucchi stato ucciso un anno fa. Un manifesto lo ricorda su internet con un scritta agghiacciante: assassinato dallo Stato. Un anno ci separa dalla notte del 15 ottobre 2009 quando Stefano venne fermato, arrestato e picchiato. Strappato all’affetto di quelli che lo amano da una giustizia troppo ingiusta che lo restituire senza vita dopo 7 giorni, il 22 ottobre 2009. Giovanni Cucchi, il papà di Stefano, durante la conferenza stampa in cui venivano date alla stampa le foto e la notizia, chiedeva “Vogliamo sapere perché alla richiesta precisa di Stefano non stato chiamato, dai militari la sera dell’arresto, il suo avvocato di fiducia, vogliamo sapere dalle forze dell’ordine come stato possibile che abbia subito le lesioni, vogliamo sapere chi glie le ha prodotte e quando, vogliamo sapere dalle strutture carcerarie perché non c’è stato consentito il colloquio con i medici, vogliamo sapere, dalle strutture sanitarie, perché non gli sono state effettuate le cure mediche necessarie, vogliamo sapere, (sempre) dalle strutture sanitarie, perché sia stata consentita, in sei giorni di ricovero, una tale debilitazione fisica, vogliamo sapere perché è stato lasciato in solitudine senza un conforto morale e religioso, vogliamo sapere, infine, la natura e le circostanze precise della morte, vorremmo sapere altresì se ci sono motivi validi di tale accanimento su una giovane vita. Immaginiamo che una famiglia distrutta dal dolore per la morte atroce del proprio figlio di, trentuno anni, abbia il diritto di urlare con tutte le sue forze, per chiederne conto”.

Ma, a distanza di un anno, le risposte a queste domande ancora non ci sono. La giustizia ha tempi lunghi. La storia di Stefano e le immagini del corpo rese pubbliche in quella conferenza stampa colpirono l’Italia tutta suscitando sconcerto, indignazione e rabbia. Rabbia per la morte di un giovane, ma non solo. Le dichiarazioni di parte della politica giustificarono quello che era accaduto ricercando nella vita privata di Stefano e della sua famiglia i pretesti morali per giustificare la barbarie. Quello che accaduto a Stefano rappresenta lo spaccato di un paese dove troppo spesso la dignità degli esseri umani viene sacrificata in nome del giudizio morale, della punizione esemplare, della sicurezza. Ma Stefano no il solo. Qualcuno propone addirittura un’associazione Nazionale per chiedere verite giustizia per le vittime delle forze dell’ordine. Per chiedere giustizia e verità della morte di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Giuseppe Uva, Gabriele Sandri, Carlo Giuliani e molti, troppi altri ancora. Il 5 ottobre ripartito il processo sulla vicenda di Stefano che vede alla sbarra un intero sistema costruito su abusi di poteri, negligenze, violenza, menzogne. Oggi invece c’è bisogno di verità. E c’è bisogno di verità su quello che nelle carceri continua ad avvenire. La pena alla morte e i suicidi di liberazione da un trattamento anticostituzionale e disumano. Dopo il bluff del ddl svuota carceri, le carceri illegali, anticostituzionali, continuano a causare maltrattamenti, torture e morte. Lultimo suicidio avvenuto nel carcere di Reggio Calabria dove, lo scorso 23 settembre, Bruno si tolto la vita impiccandosi nel bagno della cella. Aveva 23 anni ed il 49mo detenuto suicida in carcere dall’inizio dell’anno. Forse, come ci ricorda Voltaire, anche su questo si misura la civiltà di un paese e non sufficiente ricordarsene solo a ferragosto.

Share

Un calabrese a Roma: Davide Manca direttore della fotografia di “Et in terra pax”

di Franco Vallone

Davide Manca
Davide Manca

Davide Manca è uno di quei calabresi di successo che per lavoro si sono dovuti spostare dalla nostra regione fino a Roma, nella Capitale anche del cinema. Nato a Vibo Valentia nel 1982, Davide Manca è oggi, anche se giovanissimo, uno dei grandi direttori della fotografia italiana. Tanti lavori in questi anni firmati come direttore della fotografia per numerosi e importanti progetti cinematografici. Ricordiamo fra tutti il suo recente contributo a “Et in terra pax”. Davide, allievo dei mitici Oliviero Toscani e Giuseppe Rotunno, è il primo filmaker della “Sterpaia”, il laboratorio creativo nato nel 2005 dallo stesso Oliviero Toscani. Diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, Manca cura la fotografia di due importanti format prodotti da Mtv Italia ed è direttore della fotografia di numerosi videoclip, in pellicola e in digitale alta definizione. Negli anni realizza la fotografia di numerosi spot televisivi, ricordiamo “Young on the move”, prodotto in occasione dei 150 anni della Croce Rossa, ma i riconoscimenti maggiori arrivano con i cortometraggi che fanno il giro dei festival di tutta Europa: “La Porta”di Piero Messina al Rotterdam Film Festival e al Venezia circuito Off; “Romeo e Giulietta”, sempre di Piero Messina, con la supervisione di Marco Bellocchio al Torino Film Festival; “L’Uomo dei Sogni” di A. Mascia e Alessandro Capitani, vincitore del Rome Indipendent Film Festival e in concorso in Grecia, Polonia, Singapore e Repubblica Ceca; “L’isola di Savino” di G. Del Buono, al Giffoni Film Festival. Attualmente Manca è direttore della fotografia per il documentario “Come prima più di prima mi amerò”, diretto da Alessandro Capitani e prodotto da Rai Cinema e R&C , ed è in preparazione dello spettacolo d’opera “Jeanne d’Arc” della coreografa Mia Molinari e del critico S.G. Lacavalla. Tra breve in uscita anche il documentario di Matteo Scarfò, “Anna teresa e le resistenti”, dove ha curato la fotografia e la fiction “Alice non lo sa”, dove Manca è stato direttore della fotografia della seconda unità. Il suo primo lungometraggio è, come dicevamo, “Et in terra Pax”, bel film che ha partecipato al recente Festival del Cinema di Venezia ed è in concorso al Tokyo International Film Festival. Et in terra pax è un film indipendente prodotto a basso budget (solo 40.000 euro) da Gianluca Arcopinto e Simone Isola per Kimera film. Il film che dura 89 minuti è stato girato in soli 17 giorni di ripresa con una troupe per lo più formata da giovani sotto i trent’anni. Gli stessi registi e il direttore della fotografia sono under 30, “il film è stato girato, ci racconta e ci spiega lo stesso Davide Manca, con una telecamera ad alta definizione (4k) Red One, e con una serie di ottiche Zeiss cinematografiche, molto luminose, apertura di diaframma 1.3. Per la varietà di location e diversità di situazioni di luce il film sulla carta si presentava come un progetto arduo, ma l’ottimo clima sul set e la splendida troupe han reso tutto più facile. Tanti esterni notte e piani sequenza hanno permesso al direttore della fotografia di lavorare molto e bene sulle atmosfere, per dare al film una luce il più possibile narrativa, uno strumento ulteriore per emozionare lo spettatore e completare l’immedesimazione con il film. Il tempo a disposizione è stato veramente poco, ma comunque sufficiente per poter realizzare tutte le idee pensate in preparazione, il colore ha un ruolo fondamentale, il giallo acido dei lampioni a basso consumo ha caratterizzato il look della periferia romana e della storia raccontata. Il film è stato girato in gran parte a macchina a mano e con i teleobiettivi per restituire un’impressione di realtà più cruda. Gran merito anche al Colorist del film Paolo Verrucci della De Luxe con il quale c’è stata una grande intesa che ha permesso di perfezionare molte scene del film”. Davide Manca è ormai riconoscibile nei vari film per la “sua” luce dove unisce la lezione della cinematografia classica con una personalissima esuberanza tipica della fotografia pubblicitaria.

Share

Lamezia Terme – Affrontate le problematiche e le potenzialità dell’export agroalimentare della Calabria

di Franco Vallone

Nel corso del convegno sulle tematiche del commercio estero delle imprese agroalimentari della Calabria, che si è svolto Giovedì scorso presso la sala conferenze dell’Unioncamere di Lamezia Terme, sono stati evidenziati i punti critici delle tante aziende calabresi che si affacciano al mercato internazionale con i loro prodotti. Nel corso dei lavori è stata ribadita la necessità di aggregazione, anche sotto forma di consorzi tematici, al fine di orientare e di incanalare organicamente le potenzialità di ognuno, in una forza competitiva che dia risposta alla prorompente azione di Paesi esteri del Mediterraneo e asiatici che sempre più cercano di contrastare le tipicità italiane, e quelle calabresi in particolare, puntando su una politica di abbassamento dei prezzi a discapito della qualità e creando una pericolosa confusione dei consumatori dei Paesi esteri. La presentazione del volume curato, da Luigi Sisi, con la collaborazione di Ernesto Perri, Cosimo Cuomo, Giuseppe Critelli, e Giovambattista Nicoletti, ha registrato un grande successo di pubblico, esperti e responsabili del settore che hanno avuto modo di approfondire l’interessante tematica economica. Patrocinata dall’Assessorato all’Agricoltura della Provincia di Vibo Valentia, dalla Regione Calabria, dal Ministero dello Sviluppo Economico, dall’Unioncamere, da Cia e Ice della Calabria, il convegno ha ospitato, tra l’altro, gli interventi del presidente di Unioncamere Calabria, Fortunato Roberto Salerno, di Ernesto Perri, del Ministero, dell’assessore provinciale di Vibo Valentia Nazzareno Fiorillo, del consigliere regionale Alfonsino Grillo, di Domenico Neri e Giovambattista Nicoletti dell’Ice Calabria e di Giuseppe Critelli dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Grande soddisfazione per l’ottima riuscita dell’evento è stata espressa da Luigi Sisi, organizzatore del convegno e curatore del volume.

Share

«Ci sono molte cause per le quali sono pronto a morire, ma nessuna per cui sono pronto ad uccidere.»

Marco Pannella
Marco Pannella

di Giuseppe Candido

Il 2 ottobre, data di nascita del Mahatma Gandhi, venne celebrata per la prima volta la giornata mondiale della Nonviolenza dopo che, il 15 giugno dello stesso anno era stata promossa dall’Assemblea generale dell’Onu.

Quella risoluzione dell’Assemblea chiedeva a tutti i membri delle Nazioni Unite di commemorare il 2 ottobre “in maniera adeguata così da divulgare il messaggio della nonviolenza, anche attraverso l’informazione e la consapevolezza pubblica”.

L’Italia che in questi giorni sta vivendo nuovamente episodi di violenza (dalla statuetta tirata a Berlusconi alla vicenda del Direttore di Libero Bel Pietro passando per il fumogeno scagliato a Bonanni durante la festa del Pd di Torino) avrebbe avuto senz’altro il bisogno, per non dire la necessità, di veder celebrata adeguatamente ma, purtroppo, neanche il servizio pubblico televisivo per cui paghiamo il canone ce ne ha dato memoria. Di quella risoluzione che afferma “la rilevanza universale del principio della nonviolenza” ed “il desiderio di assicurare una cultura di pace, tolleranza, comprensione e nonviolenza” in Italia non se ne parla nemmeno. L’unico che ce la ricorda, ovviamente, è il Partito Radicale (transnazionale nonviolento e transpartito) che per simbolo, oltre 20 anni fa, scelse proprio il volto del Mahatma come suo simbolo identificativo. Pannella lo ha annunciato dai microfoni di Radio Radicale durante lo svolgimento dell’ultimo comitato nazionale del movimento: “Inizierò il mio Satyagraha, ha detto, con uno sciopero della fame, anche per celebrare così, e dar corpo, volto, mano, voce alla solenne  Giornata internazionale della nonviolenza proclamata dall’ONU”. Ma l’obiettivo della sua azione non è celebrativo ma volto alla ricerca della verità su due specifici aspetti. Quello su “Giustizia e carceri italiane”, definite “diretta riproposizione sociale, morale, istituzionale della Shoah”. L’obiettivo dichiarato dal suo sciopero è la “Riproposizione, anche formale, di una orrenda verità letteralmente accecante, totalmente cieca” che per Pannella e i Radicali “Minaccia di essere il prevalere storico di un istinto bestiale, assassino e suicida, nella specie umana”. “Oggi”, spiega Pannella, “in un nuovo contesto planetario, scienza e coscienza ci indicano che torniamo a viverlo come evento incredibile, impossibile; un incubo riuscito, dal quale sembrerebbe impossibile svegliare l’umanità, la comunità internazionale”.

Poi c’è il secondo motivo, non per ordine d’importanza, del “suo” Satyagraha che significa, è utile ricordarlo, amore della verità. Iraq libero come unica alternativa alla guerra che invece si preferì far deflagrare al posto della pace. Pannella non protesta ma propone: “La ricerca della conoscenza su una tremenda, “incredibile” verità storica, nascosta e negata in primo luogo proprio – oggi – nel e dal nostro mondo libero, “occidentale”, “civile”, dei “diritti umani”.

“Accadde, il 18/19 marzo 2003, che Bush e Blair – si legge testualmente nella nota sul sito www.radicali.it – fecero letteralmente scoppiare la guerra sol perché non scoppiassero in Iraq la libertà e la pace; con l’esilio, oramai accettato, da Saddam”.

Oggi, continua Pannella, “dobbiamo ambire, purtroppo – come Nonviolent Radical Party transnational and transparty – ad aiutare per primo Obama, la bandiera, l’onore, il popolo americano a uscire dalla scelta di protrarre l’impero della menzogna bushana, storica, civile, morale, ai danni di tutti i popoli oggi viventi: ai danni in primo luogo di quei repubblicani che l’avevano eletto e che più di altri  – quindi – sono stati vittime di un tradimento blasfemo, che ha provocato e provoca l’eccidio di milioni fra americani e altri popoli”. E per questo non protesta ma proposta: quella di istituire una Commissione di inchiesta sulla verità di quegli eventi si affermi “e ci mondi”.

Share

Trattamento meccanico-biologico per uscire dall’incantesimo degli inceneritori

di Giuseppe Candido

Pubblicato su il Domani della Calabria del 29/9/2010

Già nel luglio del 2009 avevamo scritto sulla dissennata pratica di bruciare rifiuti attraverso quegli impianti che qualcuno si intestardisce a chiamare termo valorizzatori. Oggi, mentre la monnezza ritorna inesorabilmente tra le strade di Napoli, anche il Wwf ribadisce il suo “no” al raddoppio dell’inceneritore di Gioia Tauro gestito dalla Veolia e che il Presidente della Regione Scopelliti ha invece detto di voler portare avanti in barba alle proteste dei cittadini e del sindaco della città della Piana Renato Belfiore che da tempo protesta contro il raddoppio. Anche nell’ultimo piano regionale per la gestione dei rifiuti in Calabria sono state evidenziate le principali criticità del sistema rifiuti in Calabria. Accanto al deficit di impianti dovuto al non avvenuto completamento di alcune strutture, nel piano si lamenta l’insufficienza proprio del mancato decollo della raccolta differenziata ferma a percentuali del 13-17 % e che invece sarebbe dovuta essere arrivata al 60% nel 2007. Il tutto in un contesto, come si legge nello stesso piano regionale, reso scarsamente efficiente per l’eccessivo numero di “sotto ambiti” e di società che gestiscono la raccolta differenziata. Insomma, di metodi all’avanguardia che possano spingere la raccolta differenziata fino all’80% non se ne parla neanche e si continua ad insistere nell’incenerire i rifiuti che bruciando vengono soltanto trasformati in altri rifiuti (polveri sottili, gas, fanghi ecc.) di difficile smaltimento e molto più pericolosi. In queste condizioni è lecito porsi alcune domande. Come avviare la fine di un’emergenza che dura da tredici anni? Costruendo altre discariche? Costruendo nuovi inceneritori? È questa la rivoluzione che si promette? Quale sarebbero le politiche da perseguire, per risolvere una volta per tutti il problema dei rifiuti ed evitare che, colmate le discariche esistenti deflagri la bomba “monnezza” o la si contenga con “salubri” inceneritori? C’è un’alternativa? Si c’è, ma necessita di un salto culturale: l’alternativa a ciò che la Calabria sta facendo si chiama “ciclo integrato dei rifiuti” abbinato al trattamento biologico e meccanico della parte residuale che nel ciclo innescato non si riesce comunque a riciclare, non si riusa e non si riutilizza. Per capire dove sbagliamo dovremmo prendere esempio da realtà, come quella tedesca, che sono all’avanguardia e dove l’incantesimo degli inceneritori non fa più presa.

La raccolta differenziata porta a porta, anche della frazione organica, è il punto cardine del ciclo, ma la differenziata da sola non basta: è necessario innescare a valle una filiera del riciclaggio per produrre nuovi oggetti e dalla quale è senz’altro possibile creare posti di lavori “ecologici” che potrebbero diventare un volano positivo contro la crisi in atto. L’organico, anch’esso raccolto porta a porta, andrà agli impianti di compostaggio per produrre fertilizzante. E per quanto non riciclabile lo si può trattare senza incenerirlo evitando di produrre polveri, gas e ceneri tossiche. Il trattamento meccanico-biologico a freddo in Germania risulta, da qualche anno, in grande evoluzione: 64 gli impianti di TMB contro 73 inceneritori. I rifiuti indifferenziati e non riciclati vengono dapprima selezionati da appositi macchinari cercando di recuperare ancora vetro, metalli ed altro materiale riciclabile. Dopodiché il rimanente viene inviato in appositi “bio-reattori” chiusi e con “bio-filtri” che essiccano, a 40-60°C, ciò che rimane. Il tutto senza bruciare un solo grammo di rifiuto e producendo soltanto del biogas utilizzabile per far funzionare l’impianto stesso. Il materiale non è più putrescibile e, reso inerte, lo si può riciclare in edilizia come sottofondi stradale. Ricordando che in Calabria come sottofondi abbiamo usato i rifiuti tossici di Crotone potremmo farci un pensierino. Gli inceneritori, di fatto, non eliminano le discariche ma, anzi, producono ceneri tossiche in quantità pari a circa il 25% di ciò che viene bruciato, e che richiede particolari accorgimenti per essere smaltite. Nel 1993 il Wall Street Journal scrisse che “quello degli inceneritori è (e resta ancora) il metodo più costoso di smaltimento dei rifiuti”. Un impianto di trattamento meccanico biologico costa invece il 50-70% in meno di un inceneritore e il materiale che rimane è riutilizzabile come inerte o per produrre combustibile da rifiuti. Nell’ambito di un ciclo integrato dei rifiuti, assieme alla raccolta differenziata porta a porta e al compostaggio dell’umido, il trattamento meccanico biologico a freddo è accettato dalle popolazioni perché ha costi ambientali decisamente inferiori consentendo di abbattere gran parte degli inquinanti.

Il ciclo integrato e il trattamento meccanico biologico a freddo per uscire dall’emergenza senza cadere nell’incantesimo degli inceneritori che ormai volge al termine in tutta l’Europa.

Share