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Le radici di Zio Luciano… Rispoli

a Pannaconi di Cessaniti in provincia di Vibo Valentia

Giornalista calabrese colto e raffinato inventore di tanti programmi radiotelevisivi di successo

di Franco Vallone

Luciano Rispoli

La grande casa nobiliare di Pannaconi di Cessaniti, denominata “Palazzo Mantella”, esiste ancora oggi e spicca nella parte alta del paese del vibonese. Oggi i proprietari sono altri ma la denominazione “Mantella” permane, come rimane, affisso sull’antico portale del palazzo, lo stemma araldico dei Giffone. Qui, in casa dei nonni materni, passava il tempo estivo quello che, dopo qualche anno, sarebbe diventato uno dei grandi nomi del giornalismo televisivo italiano: Luciano Rispoli. Suo nonno, Francesco Mantella, classe 1873, era I° Presidente della Corte d’Appello di Bologna mentre la nonna era una nobildonna dei Giffone, (ramo di Tropea, come ci conferma il ricercatore Salvatore Libertino). Abbiamo raggiunto telefonicamente Luciano Rispoli nella sua casa romana. Lui ricorda ben poco di questi luoghi, delle persone che in questi luoghi vivono e vivevano. I Mantella di Pannaconi sono partiti per altri luoghi, per Bologna e per Roma in particolare, ed anche in loco i fratelli del nonno erano importanti personaggi del tempo. Domenico, farmacista e podestà del paese, Giuseppe, medico di Pannaconi che visse fino a cento anni, e poi c’erano gli zii di Luciano Rispoli, il Capitano Raffaele Mantella classe 1907, proprietario terriero, e Mario, l’avvocato, fratelli della madre del giornalista. Rispoli non ricorda molto di questo lontano periodo, – dicevamo – non ricorda nemmeno del giardino incantato di Pannaconi dove, appena ragazzo, giocava d’estate, quando scendeva da Bologna per le vacanze in Calabria con i genitori. Invece ricorda tanto chi è rimasto in paese. Domenico Curtosi e suo padre Peppe, oggi novantacinquenne, che abitava e abita proprio di fonte al Palazzo, accanto alla chiesa di Pannaconi. I Curtosi ricordano ancora, con nostalgia, il rapporto di buon vicinato, l’interno nobile della casa che frequentavano ed il mitico giardino di Palazzo Mantella, ben curato, con una palma ultra secolare che oggi ha raggiunto un’altezza davvero notevole, tanti alberi di ulivo e di agrumi di ogni varietà, un giardino colorato strapieno di fiori di ogni tipo, circondato da siepi di mirto profumato e molti roseti. Un giardino nobile, colto e raffinato come colto e nobile, elegante e raffinato era, ed è, il giornalismo di Luciano Rispoli. Lui ha inventato un vero e proprio modo di comunicare, di fare informazione, di affrontare la notizia, l’intervista, la gente, gli ospiti. Il suo giornalismo, la sua radio e la sua televisione, il suo stile mai fuori dalle righe, mai volgare, sempre incisivo, forte, sobrio, acuto lo stesso, senza l’uso delle parolacce tanto di moda oggi, del fuori tono a tutti i costi, delle liti in diretta. Rispoli è oggi un giornalista con più di cinquant’anni di esperienza e di carriera. Nato a Reggio Calabria il 14 luglio del 1932 la sua infanzia coincide con la guerra, il padre generale (Rispoli ci sottolinea colonnello, il grado superiore è stato assegnato prima della pensione) deportato in Germania, il fratello Luigi, partigiano, viene ucciso a Bologna. Rispoli si trasferisce a Roma nel 1952, inizia la sua attività da cronista, in Rai, sin dall’inizio dei programmi ufficiali della televisione, nel 1954. Rispoli debutta con la rubrica La radio per le scuole, poi conduce Il buttafuori, è ideatore, regista e conduttore di tantissime trasmissioni: Radiostop, Il vostro Juke-Box, Il vostro spettacolo. Successivamente debutta in televisione con Piccola ribalta. Diviene poi capo del settore Rivista e Varietà. A lui si deve, in questo ruolo, la nascita di trasmissioni destinate a divenire popolarissime. Grazie ad un’idea di Rispoli nasce La Corrida condotta da Corrado. Nel 1969 Luciano Rispoli inventa Chiamate Roma 3131 e in un locale di cabaret romano scopre Paolo Villaggio al quale affida la conduzione del programma Il sabato del villaggio. Altri programmi ideati e condotti da Rispoli in quegli anni sono: La partita e Ma che tipo è? Nel 1977 è nominato Direttore del Dse, incaricato della programmazione didattica e culturale della Rai. Nel 1979 idea e conduce L’ospite delle due, spettacolo inedito per genere che anticipava gli attuali talk-show. Fra gli ultimi programmi ideati e condotti da Rispoli per la Rai ricordiamo Pranzo in tv, Pomeridiana, Il gioco dei mestieri, La grande corsa, e le tre indimenticabili edizioni di Parola mia. Come giornalista della carta stampata Rispoli ha collaborato con La domenica del Corriere, Tv Sorrisi e Canzoni, Film Tv e con L’indipendente.  Luciano Rispoli è stato assistente del vice-direttore generale della Rai, in radio ha condotto anche Impara l’arte e Il Signor Buonalettera. Nel 1993 Luciano Rispoli ha ideato e condotto Tappeto volante in onda su Telemontecarlo, La7, Odeon Tv, Raisat album e, infine, a CanaleItalia. Il suo Tappeto Volante e il suo raffinato salotto sono state le pagine di un giornalismo che ha fatto scuola e dove Rispoli in questi anni ha accolto e intervistato più di quindicimila personaggi del mondo dello spettacolo, della politica e della cultura. Fra le partner di “zio Luciano”, come viene ancora affettuosamente chiamato nell’ambiente, le bellissime Roberta Capua, Melba Rufo di Calabria, Eliana Miglio, Michela Rocco di Torre Padula e Tania Zamparo, tutte donne con un bellissimo fisico, tanta cultura e molta professionalità. La telefonata con Rispoli continua e si conclude con alcune domande sul suo matrimonio, celebrato a San Giovanni Rotondo da Padre Pio e con un testimone di nozze famoso come Gino Latilla… Poi il grande Luciano ritorna a lavorare, proprio domenica scorsa è stato ospite di “Mattina in Famiglia”, un programma di Rai Due, e, per chi volesse continuare a seguirlo, un suggerimento di Mariano Sabatini, collega giornalista e suo amico: “Luciano Rispoli conduce la trasmissione “I Protagonisti”, un programma per Roma Uno, visibile anche in Calabria su Sky 860. Con grande dignità il “signore della Tv” riparte, a quasi 78 anni, da un’emittente locale”.

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Cose del vecchio mondo

di Giovanna Canigiula

Sellia Marina diventa comune autonomo il 13 dicembre 1956, con legge istitutiva n. 1439 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 2 del 3 gennaio 1957. Fino a quel momento il territorio apparteneva ai comuni di Sellia, Simeri Crichi, Soveria Simeri, Magisano, Albi e Cropani e, infatti, si legge nel testo che il neonato ente, in provincia di Catanzaro, è composto da “Sellia Marina, capoluogo del nuovo comune, dalle frazioni Uria di Magisano, Calabricata e località Feudo De Seta di Albi, e dalle località di La Petrizia di Soveria Simeri e Frasso e Rocca di Cropani”. Si legge ancora che il “Governo della Repubblica è autorizzato a far delimitare il territorio del nuovo comune di Sellia Marina” e che il “Prefetto di Catanzaro, sentita la Giunta provinciale amministrativa, provvederà al regolamento dei rapporti patrimoniali e finanziari tra i comuni interessati”.

I 13 chilometri di costa del paese marino, un tempo paludosi, come ricorda il toponimo ‘Omomorto’ di Simeri Crichi, costituiscono un unicum. La posizione, inoltre, è geograficamente favorevole: mare, collina e, vicinissima, la Sila. La storia di Sellia Marina è strettamente legata a quella di Sellia e la separazione della zona costiera da quella a monte è stata sicuramente travagliata. Come è accaduto un po’ dappertutto, il borgo montano si è progressivamente andato spopolando: molti sono emigrati per mancanza di lavoro, altri hanno preferito spostarsi in città o lungo la costa. In questi ultimi anni il paese ha cercato di rivitalizzarsi: ad agosto, ad esempio,  la sagra dell’olio attira centinaia di persone che hanno, così, l’opportunità di conoscere un territorio incontaminato e apprezzarne i posti più caratteristici, come i ruderi dell’antico castello medievale, le chiese, i vicoli strettissimi che conducono a vecchi frantoi aperti per l’occasione. Nel 2003 l’ente montano ha deciso di citare il comune di Sellia Marina per riavere lo sbocco a mare perduto e, nei giorni scorsi, il Tribunale di Catanzaro ha accolto l’atto con sentenza n.1108/2010: il fondo in località Don Antonio, dopo la registrazione della sentenza, dovrebbe passare al borgo montano. Si tratterebbe di un cambio di proprietà non da poco: la zona Faro Blu- Indian è quella nella quale, in questi decenni, l’ente marino ha investito, realizzando un tratto di lungomare, un parco attrezzato all’interno della pineta e una piazzetta che ospita le manifestazioni estive. Come è potuto accadere e, a dispetto dei facili campanilismi, cosa accadrà? Riguardo al primo punto, si vocifera di un accordo fatto dall’attuale amministratore di Sellia Marina col precedente amministratore del comune montano. L’accordo, stando alle voci, prevedeva la cessione del tratto di forestale antistante lo sterrato tra l’Asso di Fiori e l’Indian: in questa zona sono sempre scesi a mare gli abitanti di Sellia e qui, moltissimi anni fa, avevano le loro baracche di legno sulla spiaggia. Mi auguro che il Sindaco possa smentire perché, se così non fosse, la leggerezza risulterebbe imperdonabile e di questa si dovrebbe, a mio parere, rendere conto. Quale lo scenario che si apre? Si potrebbe dire: cambio di proprietà, nulla di fatto nella realtà. Andremo a mare dove sempre siamo andati. Anzi, c’è chi vede nella vicenda una sorta di punizione divina per le inadempienze terrene. L’accusa che si muove alle diverse amministrazioni succedutesi nell’ente marino, infatti, è quella di non essere state in grado di gestire un territorio così ampio, di non averne saputo sfruttare le enormi potenzialità, di avere consentito in alcune aree una cementificazione abusiva selvaggia, di avere lasciato località prive di servizi minimi quali le fogne e l’illuminazione. Naturalmente c’è anche il rovescio della medaglia, sul quale il cittadino ama sorvolare: chi ha acquistato a quattro soldi, sapeva scientemente di farlo perché nulla era regolare ma sperava, tuttavia, che le pressanti richieste avrebbero portato nel tempo a sanare situazioni ormai consolidate. I problemi sono sempre stati molti. Uno su tutti l’inquinamento delle acque, in parte dovuto al fatto che il depuratore non è in grado di rispondere, d’estate, al triplicarsi delle presenze e, in parte, agli scarichi abusivi di vario tipo mai realmente colpiti.

Non voglio farla lunga, per cui pongo le seguenti domande: come potrà un piccolissimo comune montano gestire una realtà così complessa? Che tipo di accordo dovrebbero raggiungere i due enti, visto che quello a mare perde l’unico tratto sul quale ha molto investito? E’ vero che c’era un accordo sottobanco, mal finito, tra gli amministratori dei due enti? Non dovrebbe la popolazione essere informata, con un consiglio comunale aperto sull’accaduto, sulle eventuali possibili strategie da adottare e sugli sviluppi? Non dovremmo, noi cittadini, mobilitarci perché sia indetto?

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Continuità e attualità del Risorgimento

di Vittorio Emanuele Esposito

Giuseppe Garibaldi 1870 Nadar

La proclamazione del Regno d’Italia (17 marzo 1861) segnò la fine di una lunga attesa, la ‘realizzazione di un sogno’, avvenuta in tempi e modi in gran parte fortunosi e largamente imprevisti, ma fortemente voluta da quelli che ne furono i più diretti promotori e ne prepararono le condizioni: il mazziniano Partito d’Azione, la Società Nazionale di Manin, Garibaldi, La Farina, e il conte di Cavour, che ne fu il segreto ispiratore.

La rivoluzione italiana, il processo cui fu dato il nome di ‘Risorgimento’, era, in realtà, iniziata molto prima, alla fine del Settecento, quando i ‘giacobini italiani’, infiammati dalle idee e dai radicali cambiamenti politici e sociali introdotti dalla Rivoluzione Francese, si resero conto dei limiti del riformismo dei principi ‘illuminati’ e compresero che il presupposto necessario della libertà e del progresso, nella penisola, erano l’unità e l’indipendenza del popolo italiano dal dominio straniero: fosse quello dell’Impero austriaco o quello della Repubblica francese.

Il ‘popolo’ italiano, la nazione, l’Italia come idea e sentimento esistevano già da secoli e avevano la loro radice nell’unità di lingua, di cultura e di vita, nella condivisione di un territorio, in una storia comune. Ciò, nonostante la molteplicità e la divisione politica che, per secoli, fu la caratteristica negativa degli italiani e fu avvertita come tale in quanto causa principale di rivalità e di lotte incessanti tra i diversi Stati e della conseguente caduta della penisola sotto il dominio delle potenze nazionali straniere: gli spagnoli, i francesi, gli austriaci.

Fu Machiavelli, nel XVI secolo, a porre il problema della creazione di un unico Stato italiano, che egli voleva modellato sulla Costituzione della repubblica romana e dotato di un esercito di popolo in grado di difenderne i confini, anche se ne affidava la realizzazione ad un “Principe” demiurgo, dotato di eccezionali virtù politiche. Ma si trattava, per il momento, solo di un’ipotesi generosa, nata dalla sua acuta mente di studioso di fatti politici, che si scontrava, tuttavia, con tre forze avverse: le oligarchie politiche, sociali ed economiche dei diversi Stati italiani, le ideologie particolaristiche, la Chiesa, che da quella divisione traeva vantaggio per le sue ambizioni di assoluto dominio sulle coscienze e le sue pretese temporalistiche, fondate sull’inganno della falsa ‘donazione di Costantino’, e, per questo, le alimentava, stabilendo organiche alleanze con il potere politico a danno della libertà.

Fu la Rivoluzione Francese, che, scardinando l’assetto feudale e il regime del privilegio della nobiltà e del clero, all’insegna del trinomio ‘libertà, uguaglianza, fratellanza’ (idee guida di ogni civiltà degna del nome), diede ai giovani ‘giacobini’ italiani l’impulso e la fede in un possibile riscatto e ‘risorgimento’ della nazione. L’unità e l’indipendenza dell’Italia passarono, appunto, dalla sfera del puro desiderio al terreno concreto dei fatti e della lotta politica nel triennio rivoluzionario 1796-99, aiutate in parte e insieme ostacolate dalla presenza delle armi francesi in Italia.
I patrioti di tutti gli Stati italiani, si ritrovarono sotto l’unica bandiera tricolore, che quell’unità spirituale simboleggiava e che fu inaugurata il 7 gennaio 1976 a Reggio Emilia, dove, con l’unione delle quattro città di Reggio, Modena, Bologna e Ferrara, affrancatesi dal dominio ducale e papale, era sorta la Repubblica Cispadana: ‘il primo stato democratico repubblicano della nuova Italia’ (Luigi Salvatorelli).

Contro i luoghi comuni, oggi prevalenti, mentre si prepara una celebrazione dei 150 anni dello Stato italiano, ambigua, epidermica e dai toni populistici – quasi un festeggiamento da mondiali di calcio- il sentimento unitario era, fin da allora diffuso in tutti i ceti e non conosceva limiti regionalistici. La Lombardia, dove si instaurarono prima la Repubblica Cisalpina e poi la Repubblica italiana e il successivo Regno napoleonico d’Italia, fu la regione in cui le aspirazioni nazionali trovarono uno dei principali terreni di cultura. A Milano Melchiorre Gioia vinse il concorso bandito dall’amministrazione lombarda con una dissertazione in cui dimostrava che i tempi erano maturi per la formazione di un solo Stato italiano, indipendente, libero, repubblicano e unitario. E Venezia, dove oggi sembrano prevalere le nostalgie filo- asburgiche, subì un vero e proprio trauma per il tradimento di Napoleone in seguito alla pace di Campoformio, come Ugo Foscolo ci testimonia.

Quanto al Sud, vano e fuorviante è il tentativo di una storiografia giornalistica, tendenziosa e scopertamente strumentale, di accreditare le insorgenze antifrancesi delle popolazioni meridionali come rivolte contro lo straniero. Essere, allora, contro i francesi, significava favorire l’egemonia austriaca. Per uscire dal dilemma l’unica via era quella imboccata dai giacobini, che con i francesi intrattennero un rapporto dialettico, visto che il loro intento principale era quello di rompere il dominio feudale e che, nella breve vita della Repubblica partenopea, impostarono quella eversione del sistema feudale, che non riuscirono a realizzare e che fu poi attuato nel 1806, appunto, dai francesi. Il sanfedismo fu e rimane una reazione oscurantista e retrograda, nonostante l’opinione contraria dei ‘revisionisti’.

Il revisionismo storico, nelle sue espressioni più serie, ha il merito di portare al centro dell’attenzione le ragioni di quanti vengono scavalcati dall’incessante moto di cambiamento della storia. E, nel caso specifico, oggi sappiamo che nella rivolta dei lazzari napoletani e delle popolazioni calabresi, subornate dal cardinale Ruffo, così come nel cosiddetto ‘brigantaggio’ post-unitario, vi erano esigenze di sopravvivenza, di giustizia, di emancipazione, che non possono minimamente essere sottovalutate e conosciamo i limiti intrinseci dei processi innovativi che si svilupparono nel corso dell’Ottocento. Ma le coordinate fondamentali della storia non possono essere oscurate e messe in cantina.
Nessun revisionismo può farci dimenticare che il Risorgimento fu il processo storico attraverso cui, in Italia, venne superato il sistema politico-sociale del feudalesimo con tutto il suo corredo di oppressione morale e materiale delle popolazioni e che il nuovo Stato unitario – che ne fu il maggiore risultato- con tutti i compromessi che furono necessari per realizzarlo, con tutte le insufficienze che hanno condizionato pesantemente, fino ai nostri giorni, la vita della nazione, ha trasformato gli italiani da sudditi in liberi cittadini, uguali di fronte alla legge. Certo l’uguaglianza civile fu solo la prima importante tappa di un cammino che è ancora in gran parte da compiere e che ha ancora, come meta da raggiungere, l’uguaglianza economico-sociale, quella ‘libertà giusta’, cioè, che era nelle aspirazioni di Mazzini e dei democratici realizzare. Ma, intanto, è bene marcare il discrimine tra Risorgimento e l’ Antirisorgimento perenne, che oggi riacquista vigore attraverso il blocco delle forze tradizionali della conservazione mentale e sociale.

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Prima che la partitocrazia trasformi la povertà in miseria

di Giuseppe Candido

Le considerazioni finali del governatore Mario Draghi illustrate nell’importante relazione presentata all’Assemblea annuale della Banca d’Italia hanno provocato il plauso unanime non soltanto dei partiti ma anche dei sindacati. Eppure sono proprio quei partiti e quei sindacati, che da anni si mostrano restii a fare le necessarie riforme strutturali quali l’abolizione di enti inutili e l’innalzamento dell’età pensionabile, ad essere i principali imputati della grave situazione in cui oggi versa il nostro Paese e che gli italiani dovranno pagare con i loro sacrifici.

Se è vero che “la radice della crisi che investe il mondo da quasi tre anni sta in carenze regolamentari e di vigilanza nelle piazze finanziarie più importanti” e che in Europa “negli ultimi mesi le conseguenze della crisi hanno messo alla prova la coesione dell’area” dove, “L’imponente creazione di debito pubblico, in una fase in cui arrivano a scadenza sui mercati quantità straordinarie di obbligazioni bancarie, ha improvvisamente accresciuto il premio di rischio su alcuni debitori sovrani”, è anche vero, però, che proprio l’Italia è quel Paese in cui, stando alle parole della relazione, solo nel biennio 2008-2009, “il Pil è sceso di 6 punti e mezzo”, “il reddito reale delle famiglie si è ridotto del 3,4 %” e “le esportazioni sono cadute del 22%”. Draghi ci dipinge un’Italia in cui l’occupazione, nel 2009, è diminuita dell’1,4% e in cui i fallimenti di imprese, soprattutto di piccole imprese, sono stati 9.400. E se poteva ritenersi, fino a qualche mese fa, che l’Italia “sarebbe tornata a crescere ai pur modesti ritmi registrati nel decennio precedente la crisi” oggi, ha sottolineato il governatore Draghi, “l’esplodere della crisi greca potrebbe cambiare il quadro di riferimento”. E anche se la manovra finanziaria del Governo Italiano determinerà, entro il 2012, una “riduzione del disavanzo tendenziale pari a 24,9 miliardi” mediante la riduzione delle principali voci della spesa corrente che, negli ultimi dieci anni, era invece cresciuta, secondo il governatore Draghi, la correzione dei conti pubblici va accompagnata col rilancio della crescita e con le riforme strutturali che “la crisi rende più urgenti”. Ed è proprio in questi passaggi che si leggono, nelle parole del governatore, le vere cause della nostra situazione: “la caduta del prodotto accresce l’onere per il finanziamento dell’amministrazione pubblica, i costi della corruzione divengono ancora più insopportabili, la stagnazione distrugge capitale umano soprattutto tra i giovani”. Quando si parla di “Ripensare il perimetro e l’articolazione delle amministrazioni, per razionalizzare l’allocazione delle risorse, riducendo sprechi tra enti e livelli di governo” forse Draghi intende proprio quell’abolizione di province, comunità montane, consorzi di bonifica, che servono solo a garantire poltrone. Se si vuole diminuire i costi della politica, piuttosto che le indennità, perché non si decide di mettere fine a quella vera e propria ruberia legalizzata che sono i rimborsi elettorali che, sganciati da spese effettivamente dimostrate, hanno sostituito e rimpinguato il finanziamento pubblico dei partiti abolito dagli italiani col referendum del 93?

E affermare che l’evasione dell’Iva è pari al 16% del totale e comporta un mancato gettito di 30 miliardi di euro ogni anno – pari a due punti di Pil – significa denunciare chiaramente il fardello dell’economia sommersa, che è il conto salatissimo che l’Italia non può più pagare. Dagli scontrini non battuti per un caffè alle parcelle dei medici specialistici che ti ricevono nel loro studio lussuoso ma che non ti fanno la ricevuta, passando per il lavoro nero. D’altronde, se i controlli sono scarsi e le aliquote elevate, evadere conviene. Ma è proprio l’evasione fiscale che Draghi denuncia come “freno alla crescita perché richiede tasse più elevate a chi le paga, riduce le risorse per le politiche sociali, ostacola interventi a favore dei cittadini con redditi modesti”. Solo recuperando la metà dell’Iva evasa si sarebbero potuti recuperare in due anni trenta miliardi di euro anziché i 24 di lacrime e sangue che dovranno pagare i cittadini con l’aumento delle tasse locali e con il blocco degli stipendi statali che per alcune categorie sono già al di sotto della media europea. Se le tasse le pagano tutti, le pagheremo tutti meno. Un concetto semplice ma che, ahi me, è difficile da far applicare. Questo, invece, è il Paese dove ai docenti precari si tagliano le cattedre, si bloccano gli aumenti di stipendi mentre ai furbi e ai furbetti, a coloro che hanno accumulato per anni capitali all’estero senza pagare le tasse, gli viene dato lo scudo di protezione, la possibilità di far rientrare i capitali pagando solo il 5%. Ma se nel discorso sull’evasione la politica è implicata soltanto indirettamente, tranne qualche politico evasore che staticamente pur certo lo si troverà, il vero passaggio “anti partitocratico” di Draghi lo si legge quando il governatore ha parlato della corruzione: è su questo che la platea di politici ha fatto orecchi da mercante. Le “relazioni corruttive tra soggetti privati e amministrazioni pubbliche, in alcuni casi favorite dalla criminalità organizzata, sono diffuse”. Nel Mezzogiorno – aveva detto in passato Draghi – queste “relazioni” diventano “pervasive”. “La corruzione frena lo sviluppo economico”. Probabile che per uscirne bisognerà dargli retta e dare retta anche a Pannella che da anni parla dello spaventoso debito pubblico italiano e oggi afferma che “La vera sfida, per l’Italia”, quella che bisogna affrontare con urgenza, sta nel “liberarsi dal regime partitocratico” prima che la povertà diventi anche miseria.

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I sepolcri imbiancati vogliono far tacere Radio Radicale

Nel nome del Popolo Italiano o del diritto alla privacy?

a cura di Giuseppe Candido

Massimo Bordin, direttore di Radio Radicale
Massimo Bordin, il direttore di Radio Radicale, ad un congresso di Radicali Italiani

Mentre si discute sulle intercettazioni scopriamo che sono a rischio anche le registrazioni radio dei processi.

Scandaloso, tutto ciò è una vergogna. Ma il dibattimento in un processo è pubblico o no?

Non avevo mai sentito Massimo Bordin così evidentemente incazzato. Altro che intercettazioni e segreto istruttorio, questi sepolcri imbiancati vogliono far tacere Radio Radicale sui processi. La legge sulle intercettazioni vuole cancellare anche la pubblicità dei processi vietandone la trasmissione in radio del dibattimento. Contro questo particolare del provvedimento Radio Radicale ha indetto, per lunedì 31 maggio, una conferenza stampa e un appello. Massimo Bordin, appena si è saputo del provvedimento è intervenuto venerdì dai microfoni di Radio Radicale di cui è direttore: “Intervengo a quest’ora dopo una giornata nella quale ho cercato di farmi un’idea definitiva sulla così detta legge sulle intercettazioni. Perché in realtà c’è da lanciare un allarme forte che riguarda, attenti a quest’aspetto, non già le intercettazioni, o le telefonate carpite o i verbali istruttori. No, questi signori, continua il Direttore di Radio Radicale, nell’articolato della legge (sulle intercettazioni ndr) intendono sopprimere un articolo delle norme attuative del codice di procedura penale, riformato da Giuliano Vassalli, che teneva conto di un aspetto fondamentale che riguarda l’effettiva pubblicità dei dibattimenti nel XXI secolo”.

Ben 9773 processi registrati in anni di cronaca senza filtri, senza veline, integralmente per far conoscere e deliberare. Un’archivio, quello on line disponibile a chiunque, che fa invidia anche alla tv di Stato. L’ultima registrazione di un processo disponibile on line, sul sito di Radio Radicale, in ordine cronologico è quella relativa all’esame del maresciallo Brancaccio durante l’udienza del 28 maggio nel processo Parmalat/Parmatour. Tutto il processo su calciopoli e, scendendo indietro nel tempo e nell’archivio, il processo per la scalata della Banca Antonveneta, il processo Cusani, quello per l’omicidio Dalla Chiesa. L’ultimo della lista o il primo in ordine di tempo è il processo Margherito e risale al lontano 15 settembre del 1976. Il processo a Giulio Andreotti e tutto il resto dell’archivio rappresentano la storia di questo Paese. Sono oltre trent’anni che Radio Radicale ci ha consentito di conoscere e farci un’opinione più dettagliata di quella che altrimenti avremmo potuto farci con la sola televisione e la sola carta stampata. Radio Radicale, sin da quando fu fondata, è stata concepita nell’ottica di far conoscere integralmente i fatti: la radio dei processi e la radio del parlamento. Organo della lista Marco Pannella e proprio per questo la radio di tutti i partiti.

Il dibattimento non c’entra nulla con le intercettazioni telefoniche, né c’entra nulla con la fase istruttoria”. Tuona Bordin dalla radio che, da qualche giorno, ripete l’intervento. “Si può sicuramente discutere, ognuno può avere una propria opinione sul diritto alla privacy di una telefonata. Si può avere opinioni divergenti su quanto il segreto istruttorio, in questo Paese, serva o su quanto esso venga rispettato. Con questo provvedimento però, grazie al lavoro del Senatore Centaro relatore di questa legge, un ex magistrato di Siracusa parlamentare di Forza Italia da quattro legislature, si intende in realtà inibire la possibilità di registrare e trasmettere i processi di rilevanza sociale”. Attenzione perché, continua ancora Massimo Bordin, “questo provvedimento ha un’unico bersaglio: vogliono far tacere Radio Radicale. Vogliono impedirvi – rivolgendosi agli ascoltatori – di ascoltare i processi che un giurista come Giuliano Vassalli ebbe la finezza di distinguere fra quelli di rilevanza sociale e quelli che riguardano la privacy e sono sottoposte alle normali norme di pubblicità che riguardano l’aula di Giustizia”. Nessuno ancora, nell’Italia che rischia di assomigliare alla Russia di Putin, pretende di chiudere le aule di Giustizia al pubblico. “Però, impedire che si possano ascoltare, non le intercettazioni telefoniche, ma i processi, vuol dire effettivamente impedire alla gente di formarsi un’opinione su vicende assai importanti. Questo è quello che questa legge, nelle sue pieghe, si propone. E’ un attacco gravissimo a Radio Radicale, all’informazione e ai cittadini. Radio Radicale è riuscita, grazie naturalmente ai Radicali e al Partito Radicale, a Marco Pannella che ha costruito questo strumento assieme a Paolo Vigevano, grazie ai redattori della Radio che, magari con qualche sotterfugio, sono riusciti a far ascoltare la voce di Enzo Tortora che si confrontava con il pentito Melluso. Un’informazione, come sempre senza filtri, senza mediazione giornalistica, integrale che Radio Radicale vi ha proposto. E quante voci avete ascoltato, e come avete potuto ascoltare, in diretta, i maxi processi di Napoli, di Palermo. E quanto avete potuto farvi una vostra opinione rispetto a vicende che invece la carta stampata, o anche la televisione di stato e quella privata, vi proponevano. Radio Radicale è stato tutto questo per la Giustizia. Oggi, il relatore Centaro e i suoi “tanti causa” vogliono chiudere questo aspetto, questa possibilità d’informazione per i cittadini. Con grande ipocrisia, questi sepolcri imbiancati parlano di privacy, parlano del diritto dei cittadini a non vedere intercettate le loro telefonate perché la violazione del segreto istruttorio è cosa inammissibile da parte della stampa, vogliono far chiudere lo speciale giustizia di Radio Radicale. Non pensiamo si arrivi a tanto. Vorremmo fermare tutto questo. Però non possiamo non denunciare con forza un attacco gravissimo a Radio Radicale ma, se ci consentite, all’informazione e al diritto all’informazione. E, come tutti gli ascoltatori sanno, quelli di destra e quelli di sinistra, quelli di centro destra, quelli di centro sinistra e quelli di “centro centro”, questa radio non si è mai distinta per particolari elementi giustizialisti, ha sempre rispettato privacy delle persone. Una radio che è stata sempre rispettosa degli aspetti privati. Ma qui si vuole arrivare, addirittura a qualcosa che, ahi me continua Bordin, non può non far pensare a una volontà di chiudere le porte di quello che, in democrazia, è un aspetto centrale della vita politica e civile, cioè il processo. Un processo che si svolge nel silenzio, un processo che si svolge nella penombra, può consentire qualsiasi illecito. Siamo fieri di aver potuto proporre non solo la difesa orgogliosa e, alla fine, vittoriosa di Enzo Tortora, siamo fieri di aver potuto proporre anche l’auto difesa di Cesare Previti che, per due ore, in un memorabile processo difese la sua posizione. (…) Tutto questo oggi vuole essere chiuso con un disegno di legge che prevede la possibilità, richiesta da parte anche di uno solo degli imputati, di negare il diritto alla registrazione del processo. Intendiamoci bene: non c’entra nulla il diritto alla immagine, esso è già garantito dalle norme attuative del codice così come un giurista come Giuliano Vassalli aveva avuto l’accortezza di proporre. Non si tratta dell’immagine televisiva. Già oggi, con le norme vigenti, se un imputato, o un testimone o un avvocato, rifiuta di essere ripreso non può essere ripreso. Semplicemente quelle norme dicevano che, in processi penali di rilevanza sociale, e dunque processi che riguardano stragi e terrorismo, mafia e, ovviamente vicende politiche, in quei processi anche se un imputato nega il diritto alla registrazione (audio e la trasmissione per radio) il presidente poteva decidere prescindendo da quel parere. Oggi è proprio quell’articolo che si intende cassare”. Ad esempio, nel maxi processo di Palermo gli imputati erano tanti. Se anche uno di essi si fosse opposto alla registrazione audio non potremmo conoscere un’importante pagina della storia di questo Paese. “A tutto questo noi ci opporremo con tutte le forze possibili che saremo capaci di mettere in campo. Intanto vi diamo un appuntamento, conclude Bordin, che stiamo ancora costruendo e vorremmo costruirlo con il vostro aiuto, con l’aiuto degli ascoltatori. Vorremmo costruirlo con l’aiuto dei parlamentari che saranno disposti a firmare un appello”.

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La forbice poteva tagliare altrove

di Giuseppe Candido

Il Governo approva le misure di austerità per risanare i conti pubblici. L’Italia è uno dei paesi europei con il più alto debito pubblico e il consistente pacchetto voluto da Tremonti è necessario per evitare che l’Italia affronti lo stesso destino della Grecia. Una manovra con oltre 24 miliardi di euro di tagli che incideranno notevolmente sulla vita degli italiani nei prossimi due o tre anni. I capitoli sui quali maggiormente si interverrà sono essenzialmente tre. In primis il blocco, per tre anni, del rinnovo dei contratti del pubblico impiego che da solo produrrà un gettito di 5,3 milardi di euro; altri 5 miliardi e 200 milioni proverranno dalla riduzione delle “finestre” di pensionamento dalle attuali tre ad una sola e dall’aumento, da 60 a 62 anni, dell’età cui potranno andare in pensione le donne. Poi c’è la fetta grossa da 13 miliardi di euro di tagli alle autonomie locali mediante la revisione dei parametri del patto di stabilità. Soldi in meno ai comuni e alle regioni che per far quadrare i loro bilanci dovranno aumentare le aliquote di competenza. Quindi, a guardar bene, non sarà certo coi tagli dei costi dei politici né tanto meno con l’abolizione di qualche provincia minore (e non invece di tutti gli enti inutili) che gli italiani usciranno dalla crisi. Poliziotti, dipendenti degli enti locali, professori, non vedranno aumentare il loro stipendio per tre anni mentre vedranno crescere le tasse locali a loro carico. A ciò aggiungiamo che in molte famiglie italiane i conti non tornano perché la crisi si è fatta sentire realmente, in tanti hanno perso il lavoro, gli incassi dei piccoli commercianti e delle piccole imprese si sono ridotti, i giovani non trovano lavoro o, quando ci riescono, non hanno uno stipendio adeguato e le donne hanno difficoltà ancora maggiori. Per questo contemporaneamente si annunciano limatine ai ministri e politici. Ma siamo davvero sicuri che non si poteva tagliare altrove, siamo sicuri che i costi della politica, i costi della non democrazia, si ridurranno davvero? Dopo essere stato abolito con referendum nel ’93 il finanziamento pubblico dei partiti è stato reintrodotto dalla finestra con il sistema dei rimborsi elettorali. A fronte di spese realmente dimostrate di 579 milioni di euro, dal 1994 al 2008 i partiti si sono spartiti 2,25 miliardi di euro, con un utile di ben 1,67 miliardi di euro. Poi c’è il capitolo della manomorta pubblica che, Sergio Rizzo nei “Rapaci”, spiega essere il vero problema dell’Italia: “il torbido impasto fra gli interessi dei partiti di destra e di sinistra, quelli del sindacato che producono clientele e spese”. Gli enti inutili come le Province, le comunità montane che si diceva di voler abolire. Ed è discriminatoria la norma che vorrebbe abolire soltanto le nove province con meno di 220.000 abitanti salvando le poltrone inutili di tutte le altre. Non si interviene nemmeno su quel “dedalo inestricabile di ambiti territoriali, consorzi di bonifica” che rimane tal quale consentendo la moltiplicazione delle poltrone per la sistemazione in posti dirigenziali dei politici trombati: “Le migliaia di società a controllo pubblico sono le uniche discariche che funzionano in questo Paese” le aveva definite l’ex presidente della Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo. Sono i costi della democrazia, che il libro di Cesare Salvi e Massimo Villone ci mostra in dettaglio e che si sarebbe potuto tranquillamente titolare “I costi della non democrazia”, degli sprechi a tutti i livelli, degli enti inutili per garantire poltrone elettive e nomine dirigenziali. L’Italia è il Paese dove si fanno società pubbliche per tutto: anche per dare consulenze milionarie senza nessun tipo di gara favorendo le cricche degli amici. E’ il Paese che paga il conto salato di aziende pubbliche come l’Alitalia che non starebbe sul mercato di nessun altro Paese e che vanta “il record mondiale dei menager bruciati”. Il Paese dove “è normale che un’azienda statale faccia causa a un’altra azienda statale e metta in conto agli italiani seicentomila euro di parcelle”. Nel Paese di Pulcinella dove è normale che ai politici tocchi percepire la pensione già dopo appena due anni di legislatura, siamo sicuri che la forbice non poteva tagliare anche altrove?

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Il Gruppo Folk “Città di Tropea” festeggia i 102 anni di Francesca

di Franco Vallone

TROPEA – Si chiama Francesca Magliolo ed è, senza ombra di dubbio, la donna più anziana di Tropea. Ieri, mercoledì 26 maggio 2010, ha compiuto ben 102 anni. Nata il 26 maggio del 1908, la signora Francesca oggi vive presso la casa di riposo don Francesco Mottola della stessa cittadina. Il giorno del suo compleanno, così unico e straordinario, non è passato davvero inosservato ai tropeani che l’hanno festeggiata con tanto di torta, fiori, targa, brindisi e auguri poetici. Alle ore 16.00 di ieri, presso la Casa che la ospita da qualche anno, ha spento le 102 candeline sulla mega torta, ripresa dalle telecamere della Rai, di altre emittenti televisive e da numerosi fotografi. A coordinare le “coreografie” della festa, il dinamico animatore in costume tradizionale Enzo Taccone, che ha anche letto una poesia su pergamena dedicata a Zia Francesca, (per l’amministrazione comunale era presente l’assessore Nino Valeri che ha ufficialmente consegnato all’ultra centenaria tropeana una targa del Comune). Tra le manifestazioni spettacolari organizzate nell’evento, l’esibizione del Gruppo Folk “Città di Tropea” con alcuni balli e canti tradizionali intervallati da un gruppo folk di Bulgaria.

Francesca Magliolo - Foto Franco Vallone
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Nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Presagi e moniti di Benedetto Musolino

E’ ben giusto che chi gode i maggiori privilegi, sia sottomesso ai maggiori sacrifici”

Un calabrese dalla “costante fede italiana” che “amava aguzzare l’occhio nell’avvenire della Patria”

Per una riforma radicale: l’imposta progressiva per combattere la lussuria irrompente del capitale

di Giuseppe Candido e  Filippo Curtosi

Quando la politica, anche quella calabrese, sembra perdere il suo senso d’Unità e pensa a secessioni e a partiti “meridionali” per competere con la La Lega del Nord, forse non è davvero tempo sprecato guardarci indietro, non per commemorare, ma per trarre, dai migliori, l’esempio.

In una piazza di Pizzo di Calabria, la bella epigrafe dettata da Ferdinando Martini fa ammenda dell’aspro giudizio di taluni contemporanei, e dice in sintesi della vita e delle gesta di Benedetto Musolino (Pizzo, 1808-1885), patriota e politico Senatore del Regno d’Italia nella XIII legislatura. A ricordarlo era Alfredo Gigliotti, direttore di una vecchia rivista di “Rassegna Calabrese”. Un mensile di vita, cultura, informazioni che, nel numero unico di novembre e dicembre del 1961, in occasione del centenario dell’Unità d’Italia, ne ripercorreva la vita e le gesta per consentire ai posteri di “correggere le sentenze ingiuste”. Perché, scriveva il Gigliotti, “E’ ben vero che i posteri sono quasi fatti apposta per correggere le sentenze ingiuste dei predecessori”. La famiglia Musolino occupa uno dei cospicui posti della storia del Risorgimento: lo zio e il Padre di Benedetto erano stati patrioti del novantanove ed avevano dovuto emigrare a causa della persecuzione delle bande del Cardinale Ruffo; lo zio Domenico e il figlio primogenito Saverio, erano stati poi uccisi durante la reazione del ’48; una sorella del giovane Benedetto fu madre di Giovanni Nicotera. Ma tutte le virtù familiari e patriottiche sembrarono riassumersi in Benedetto Musolino, nato l’8 febbraio 1809.

Giovanissimo, visitò l’Impero Ottomano; studente a Napoli fondò con Settembrini una “Giovine Italia”, una setta conosciuta come “Figlioli della Giovine Italia”, men fortunata di quella del Mazzini; cospiratore soffrì il carcere, combattente all’Angitola, nel ’49 promosso Colonnello di Stato Maggiore, ritornò dall’esilio di Francia per raggiungere Garibaldi in Sicilia. Fu quindi capo dell’insurrezione calabrese del 1860 e “deputato garibaldino al parlamento fino alla XIII Legislatura, ove portò alta e generosa l’affermazione della sua costante fede italiana”.

L’8 maggio del 1839 venne arrestato e assieme a lui presero la via del carcere anche il fratello Pasquale, Saverio Bianchi, Raffaele Anastasio e Luigi Settembrini. Liberato tre anni più tardi gli venne imposto di raggiungere il proprio paese dove viveva sotto stretta sorveglianza con l’obbligo di non allontanarsi dall’abitato anche di giorno e il divieto di rimanere fuori casa dopo il tramonto.

Un sorvegliato molto speciale che anche in quelle condizioni ebbe però il coraggio di cospirare ancora, assieme ad Eugenio De Riso e altri, per preparare i moti che poi sfociarono nella rivoluzione del 1848.

Musolino, scriveva il Gigliotti, “aveva il fervore della fede e delle idee, talvolta senza conoscere il freno, onde fu spesso ritenuto piuttosto uno spirito bizzarro che sapeva dire stravaganze brutali e verità”. Un uomo di pensiero e azione, un patriota che “Amava aguzzare l’occhio nell’avvenire della Patria e dimostrò averne il senso e la perspicacia negli anni avanzati, così come, nei tempi della giovinezza, aveva avuto l’ardore dell’azione”.

Per un decennio si batté alla Camera quasi solo per la preparazione nazionale, lanciando proposte, illustrando progetti che ammiriamo ancora oggi.

Radicale nell’animo. In un discorso pronunciato alla Camera il 30 giugno del 1861, Benedetto Musolino domandava se la Francia avesse mai pronunciato una sola parola relativa all’unità italiana. E rispondeva: “No. E dunque come fondate voi la vostra speranza nell’aiuto di questa alleata? Io dico – continuava Musolino – che l’alleanza della Francia non esiste più. Questa è un’altra illusione che ci facciamo: pretendiamo o fingiamo pretendere di penetrare a forza di fantasia là dove ci vogliono cannoni e baionette. (…) L’Italia diverrà grande alla sua volta con saviezza delle sue istituzioni, con la sua industria e con la sua forza: allora essa darà alla Francia la sua libertà”. Considerando, inoltre, l’infido atteggiamento francese nei confronti di Roma dimostrava quanto fossero illusi coloro che avevano sempre predicato Napoleone III il più sincero promotore ed amico dell’Unità italiana ed ammoniva: “Bisogna fare causa comune con la Germania, armarsi poderosamente, prendere da una parte Roma e dall’altra invadere il territorio francese incominciando con l’occupazione di Nizza e Savoia”.

Più oltre, nello stesso discorso, Musolino, pensando di aver dinnanzi i francesi, dichiarava la volontà italiana: “Non temete, l’Italia non aspirerà a conquiste, siamo contenti della nostra terra, del nostro cielo, della nostra eredità: in Italia non abbiamo razze diverse, diversa lingua, istinti diversi: una è la lingua, una è la razza. La base della nazionalità sta nella razza e nella lingua”. Ancora ignaro – su questo – quante sciagure, proprio quei nazionalismi basati su razza e identità linguistiche, avrebbero a breve causato.

Dura la critica al socialismo che si andava profilando. Si intese di economia e il 18 marzo del 1863, quando alla Camera si prendeva in esame il fabbisogno finanziario della Nazione, Benedetto Musolino, “che ad ogni problema apportava competenza dotta e sicura”, pone all’ordine del giorno dei suoi colleghi deputati “una riforma radicale” del sistema contributivo proponendo “l’imposta progressiva”. Nel corso della sua esposizione sollevava, senza assumere atteggiamenti demagogici, le sue accuse contro l’ingiustizia sociale della distribuzione della ricchezza e precisa i rapporti tra capitale e lavoro criticando aspramente le “malsane deviazioni dell’incipiente nostro socialismo”: “Il lavoro è mal ripartito, afferma Musolino; il capitale assorbe tutto. L’operaio lavora quando il capitalista lo vuol far lavorare e, quando questi non ci trova più la convenienza, lo getta sulla via”. E se ciò non bastasse afferma parole di straordinaria attualità anche oggi: “Signori, la pretesa civiltà moderna tende a sostituire il feudalesimo economico all’antico soppresso feudalesimo civile e politico. Tutt’oggi è capitale, e noi tendiamo ad una radicale trasformazione sociale. Se vogliamo costruire il nuovo Stato, la nuova società, su basi incrollabili, atteniamoci alla giustizia distributiva. Di fronte a questa lussuria sempre irrompente del capitale, io credo che per ora non c’è nessun altro rimedio se non l’imposta progressiva. Dacché il capitale è tanto favorito, è ben giusto che chi gode i maggiori privilegi, sia sottomesso ai maggiori sacrifici”. Personaggio polivalente e poliedrico dedicò “studi diligenti” ai problemi di politica nazionale ed internazionale. Capì che per avere e mantenere la sicurezza in Patria e nell’Europa delle nazioni di allora, era necessaria una forza armata nazionale di professionisti “allenati”. In occasione della discussione sul riordino e sull’armamento della Guardia Nazionale proposti da Garibaldi si espresse affermando che: “Bisogna che il cittadino acquisti le attitudini che all’occorrenza lo facciano essere soldato, e perché diventi soldato bisogna che sia istruito in tutte quelle pratiche che costituiscono l’arte militare. Perché si ottenga un’istruzione solida da avere, al bisogno, tanti soldati quanti sono i cittadini capaci di tenere un fucile, è d’uopo che ogni cittadino sia abituato alle pratiche della milizia”. A tale fine prevedeva periodiche “esercitazioni” che avrebbero conferito “un’idea precisa di come guerreggiare in campo” per cui, “in breve tratto di tempo si potrà vedere il nostro popolo armato ed esercitato, ed in caso di bisogno non avremo più dei corpi di truppa incomposta, ma dei soldati d’ordinanza”.

Attento ai problemi internazionali nel novembre del 1872, Musolino prende la parola alla Camera per esporre il suo pensiero netto e chiaro sui rapporti tra la Russia, la Prussia e l’Austria, i cui imperatori si erano incontrati in un convegno a Berlino nell’ottobre precedente: “La razza slavo moscovita si ritiene come predestinata al compimento di una grande missione, al rinnovamento dell’umanità accasciata sotto il peso della decrepitezza e della corruzione, mediante l’assorbimento delle altre razze, nazioni e credenze allo stesso centro politico e religioso. E’ un’utopia, escalamo taluni. Ed io rispondo che diventerà realtà se l’Europa non vi provvede in tempo. Se l’Europa le permetterà, non dico di fare, ma di sviluppare gli immensi elementi di potenza e di espansione che in sé racchiude, prima di mezzo secolo il vecchio continente di Europa e di Asia sarà invaso e dominato dalla razza slavo-moscovita (…). Per analoghi motivi la Prussia, avendo innalzata la bandiera della nazionalità, deve necessariamente osteggiare ogni ingrandimento della Russia e perché non può lasciarsi assorbire in Europa e perché non può permettere che quella estenda la sua dominazione nell’Asia minore. Il giorno che l’Europa permetterà alla Russia di sboccare e avere possessi nel Mediterraneo, sia avanzando dalla parte del Bosforo sia discendendo dall’Armenia in Siria e in Anatolia, l’Europa avrà segnato il decreto della sua servitù, giacché avrà concesso alla Russia il mezzo di come avere quei marinai che non può avere con le sue gelate contrade: marinai senza cui non potrà mai mettere in piedi delle grandi flotte che le sono indispensabili per girare le nazioni di occidente, onde neutralizzare la loro azione e il loro concorso quando sarà arrivato il momento di operare contro tutta l’Europa, invadendola da lato della Germania con enormi masse che potrà avere al più tardi fra due generazioni a causa dello sviluppo naturale e prodigioso della sua popolazione. E la Germania si trova nella stessa nostra condizione come quella che, essendo confinante con la Russia, sarebbe esposta elle prime invasioni dalle orde settentrionali, che per essere le prime, sarebbero accompagnate dal maggiore accanimento e seguite dalle più desolanti rovine.

I sapienti uomini politici del nuovo Impero Germanico non possono né debbono chiudere gli occhi di fronte all’avvenire che è riservato a tutte le Nazioni del vecchio continente dallo spirito di cosmopolitismo moscovita. E se non pensiamo fin da ora a mettere quest’ultimo nell’impotenza di continuare la sua espansione, essi avranno fabbricato sull’arena. Potranno ben costituire una Germania sapiente, splendida, gloriosa, ma sarà una Germania che non durerà più di cinquant’anni”.

Sorprendono ancora l’attualità e la veridicità dei presagi di quest’eroico garibaldino e dovrebbero destare ammirazione sincera. Crediamo giusto che quello spirito, quei suoi discorsi, quel suo ardore, quelle di idee e quelle azioni di rivoluzionario, patriota e politico di “fede italiana” fossero meditati anche oggi in questo cento cinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, alla quale Musolino, assieme a tanti altri di Calabria, sacrificò la vita e ogni bene di fortuna. Sarebbe sicuramente un bell’esempio per vecchie e nuove generazioni.

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Ancora la trappola afgana

di Giuseppe Candido

diplomacyandpower.com

Lo scorso 14 luglio un militare italiano era rimasto ucciso e altri tre sono stati feriti in un attentato in Afghanistan. A circa 50 chilometri a nord-est di Farah una pattuglia di paracadutisti della Folgore e del Primo Reggimento Bersaglieri era stata attaccata con un ordigno posizionato lungo la strada. Poi avevano fatto notizia gli attacchi alle truppe italiane in missione “di pace” in Afghanistan: “Doppio attacco ai parà si titolò”. Nella notte del 23 agosto un ordigno era esploso sotto un veicolo “Lince” del 187 reggimento della Folgore; più tardi, una pattuglia mista di soldati italiani ed afgani veniva attaccata coi lanciarazzi sulla strada 517, un’importante e strategica via di comunicazione. Oggi la scena si ripete, due morti italiani e una ragazza ferita che forse perderà l’uso delle gambe. Cambiano i luoghi, cambiano i nomi ma la tecnica di assalto però è sempre la stessa: bombe ai margini delle strade su cui transitano i blindati. Sono circa 2.800 i ragazzi italiani impegnati nella missione afgana che Umberto Bossi, aveva dichiarato da “buon padre di famiglia”, “riporterebbe tutti a casa”. “E’ lecito immaginarsi – aveva dichiarato prima delle elezioni afgane del 20 agosto scorso il generale Rosario Castellano, comandante del contingente italiano – una escalation di tensione anche in vista di questo appuntamento (elettorale ndr) che rappresenta un passo determinante per la stabilità del Paese”. E puntualmente si è verificato. Quello che è avvenuto a in questi giorni è l’ennesima riprova della fase estremamente pericolosa. Sono morti il sergente Massimiliano Ramadù, 33 anni, di Velletri, in provincia di Roma e il caporalmaggiore Luigi Pascazio, 25 anni, della provincia di Bari. La Russa annuncia l’invio di altri militari entro fine anno assieme ai nuovi blindati “Freccia” più sicuri dei “Lince”. A parte che se i Freccia sono più sicuri allora i Lince lo erano meno, c’è da chiedersi cosa stia avvenendo in Afghanistan – dopo il “cambio di rotta” del neoeletto presidente Obama – che possa giustificare l’aumento di attentati? Nella nuova fase “Obama” in Afghanistan non si parla più di uccidere i taliban ma di “proteggere i civili”. Il noto periodico inglese, The Economist, ha tentato di spiegarlo qualche mese fa in uno speciale dal titolo “Nella trappola dell’Afghanistan”. “La Nato ha sferrato due imponenti operazioni militari nella provincia di Helmand. (…) In sette ore più di quattromila marine e 650 soldati afgani hanno raggiunto l’obiettivo”. L’operazione Khanjar (letteralmente: colpo di spada) iniziata lo scorso luglio, scrive l’Economist, “è stata la più imponente azione militare dei marine dopo quella lanciata nel 2004 per riconquistare la città irachena di Falluja. (…) Ma a differenza di quei sanguinosi combattimenti urbani, in Afghanistan i militari statunitensi colpiscono nel vuoto”. E ancora: “L’alto numero delle vittime civili e la debolezza del governo di Kabul fanno si che la popolazione civile appoggi taliban e insorgenti”. Gli “insurgent”, cioè civili stanchi di vedersi bombardare matrimoni o funerali, che insorgono. E mentre il generale Stanley McChrystal, comandante delle truppe statunitensi in Afghanistan, ha dichiarato che “presto i suoi uomini potrebbero attaccare Marja”, roccaforte controllata da taliban e narcotrafficanti, dal canto loro i taliban, scrive ancora l’Economist, hanno annunciato la loro operazione militare: Faladijal (rete di ferro), basata su imboscate con bombe innescate ai bordi delle strade. Una guerriglia di attentati come quello che ha coinvolto il blindato italiano. “Dobbiamo evitare – aveva detto McChrystal – di cadere nel tranello delle vittorie tattiche seguite da sconfitte strategiche, cioè di quelle vittorie che ci fanno perdere l’appoggio della popolazione perché provocano vittime civili”. Lo stesso generale McChrystal che si era detto “pronto a chiedere ad Obama 45 mila soldati in più”. Ed è forse proprio questa la corretta chiave di lettura per spiegare l’incremento di attacchi contro le truppe Nato tra cui ci sono anche i nostri militari italiani. “I raid americani in Afghanistan uccidono civili perfino tra gli invitati alle feste di nozze” ha scritto Tom Engelhard, giornalista e storico americano, sul suo blog “Tomdispatch”. All’alba di un giorno dell’agosto di un anno fa a Garloch, nella provincia orientale di Laghman, gli elicotteri statunitensi hanno compiuto un raid aereo di sei ore. La notizia venne diffusa poco e solo grazie ad un articolo del giornalista free lands, Anand Gobal che aveva attirato l’attenzione dei media internazionali su questo aspetto della guerra: “Hanno sganciato una bomba sulla casa di Haiji Qadir, un signore che ospitava una festa di nozze uccidendo 16 persone”. Nella guerra in Afghanistan, che dura ormai da quasi otto anni, il bilancio delle vittime dei matrimoni o dei funerali forse è moderato rispetto al totale. Ma in realtà, scrive ancora Tom Engelhard, “nessuno sa quante nozze – rari momenti di festa in un Paese che da trent’anni ha poco da festeggiare – siano state distrutte dai raid americani”. E ancora: “Dopo che l’amministrazione Obama ha raddoppiato l’impegno in Afghanistan, tra gli esperti è cominciata a circolare l’ipotesi che il Paese sia la tomba degli imperi ”. L’Unione Sovietica fu sconfitta dagli stessi jihadisti che oggi combattono gli americani e le truppe Nato. “Un soldato sovietico – scrisse Christian Caryl nella recensione di un libro sulla guerra sovietica-afgana – ricorda un episodio del 1987, quando la sua unità aprì il fuoco su quella che pensava fosse una carovana di mujahidin. Poi i russi scoprirono di aver massacrato gli invitati a una festa di nozze”. Quell’errore provocò una serie di rappresaglie contro i soldati russi come oggi sta accadendo per gli americani e per gli italiani in quella che sta diventando, sempre di più giorno dopo giorno, una vera e propria trappola senza uscita.

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La trasparenza: un’arma contro i rapaci

di Giuseppe Candido

Ancora non sappiamo con certezza se il malaffare che sta emergendo con i fatti della cricca sarà considerata una nuova tangentopoli, ma un fatto è certo: oggi come nel ’93 la corruzione in Italia dilaga come male endemico, culturale, cui gli Italiani stanno abituandosi. Gli indicatori internazionali ci pongono in coda alle classifiche della legalità. Secondo Trasparency International, l’organizzazione non governativa che per statuto ha il fine di “combattere la corruzione in tutte le sue forme”, l’Italia si colloca in fondo alle classifiche, al 63° posto dopo paesi come la Repubblica della Namibia. Oltre 400 i personaggi famosi – politici, funzionari governativi, funzionari della sicurezza e anche esponenti della vita culturale – nella lista di Diego Anemone, l’impresario edile coinvolto in recenti scandali: un sistema che pare gli garantisse, in un periodo di crisi, di aggiudicarsi appalti milionari uno dietro l’altro. E mentre l’ex ministro dello sviluppo economico, Claudio Scajola, è costretto a dimettersi per potersi difendere perché qualcuno, a sua insaputa, gli avrebbe pagato una congrua fetta di un immobile al centro di Roma con vista Colosseo, esplode in Europa la crisi economica e sociale della Grecia, dilaga la paura del contagio anche all’Italia e i politici, sapendo di dover imporre sacrifici ai cittadini con tagli alla sanità ed eventuali aumenti di tasse, propongono di ridursi gli stipendi per dare il “buon esempio”. Si discute di un governo d’unità nazionale che possa effettuare le riforme (tagli agli sprechi e lotta all’evasione fiscale) necessarie a scongiurare che la crisi arrivi anche da noi. La Corte dei Conti ha di recente stimato in 60 miliardi di euro il giro d’affari che tracima al di fuori dell’alveo della legalità. In termini percentuali siamo nell’ordine del 25% dell’intero Prodotto interno lordo. Sono questi i costi della non democrazia che si aggiungono agli sprechi nella sanità e negli enti inutili che il Governo in carica aveva promesso di abolire salvo poi guardarsene dal farlo. Sono i costi delle regole eluse da altre regole di un ordinamento legislativo tragicamente faraonico che consentono alla “casta” di fare i propri comodi, ai partiti di continuare a mantenere uno strapotere da cui si alimenta il senso di impunità. Una “democrazia senza democrazia” la definisce lo storico Massimo Salvadori, autore dell’omonimo libro in cui si descrive un sistema politico bloccato che protegge se stesso impedendo il ricambio delle classi dirigenti. Oggi però si aggiungono i fatti della Grecia e il rischio, realistico, che la crisi economica possa contagiare anche l’Italia e l’intera euro zona. “E’ in pericolo l’euro e con esso l’Europa stessa” ha affermato Angela Merkel. Le borse europee chiudono in netto calo e il rischio di un “effetto domino è reale”. In tutto ciò le questioni si intrecciano e la questione della legalità diventa questione morale: un problema che è necessario affrontare prima di imporre nuovi sacrifici agli italiani. Servono riforme vere e serve far passare l’idea che sono necessari sacrifici che noi cittadini dovremo affrontare per poter affrontare la crisi. Sacrifici che dovranno affrontare solo i comuni cittadini e che rischiano di allontanare ancor di più, se ce ne fosse bisogno, la gente normale dai pochi privilegiati della casta o della cricca. Per cui, mentre si parla di nuovi redditometri e di lotta agli evasori per recuperare risorse, mentre si annunciano tagli alla sanità, dai palazzi del potere, ai vari livelli, si annuncia l’auto riduzione degli stipendi e la caccia alle auto blu che, come ha dimostrato l’inchiesta della Gabanelli, in Italia sono un numero spropositato. Basterà? Ci chiediamo: sarà sufficiente come segnale chiaro di un nuovo rigore morale o rischia di esser percepito come un provvedimento populista e strumentale necessario a far ingoiare il boccone amaro dei nuovi tagli che si prospettano nella sanità in primis e della impossibilità di ridurre le tasse? Se da un lato c’è l’impunità e l’inamovibilità percepita di una classe dirigente, dall’altro v’è l’aspetto culturale di cittadini asserviti ai potenti per cercare di propiziarsene i favori. Ha ragione Maria Teresa Brassiolo, presidente di Trasparency International, quando afferma che “la corruzione non è un destino ineluttabile ma un sistema culturale”. E, almeno in questo, noi meridionali non siamo da meno al partito del Nord. Se davvero serve un segnale chiaro per un Paese dove – come ci ha spiegato bene Sergio Rizzo nel libro “Rapaci” – “è normale che nelle imprese comunali ci siano ventitremila consiglieri di amministrazione e una poltrona ogni 5,6 dipendenti”, dove società pubbliche nascono per distribuire appalti senza gara, in deroga alle norme, se davvero crediamo che serva una svolta morale e moralizzatrice perché allora non si parla della proposta dei Radicali Italiani di istituire un’anagrafe patrimoniale pubblica di tutti gli eletti e di tutti i “nominati” a tutti i livelli? Dichiarazione dei redditi, interessi finanziari, dichiarazione dei fiananziamenti ricevuti, dei doni, dei benefici, tutte pubbliche su internet. Altro che “privacy”, in Italia è necessaria per gli eletti una legge sulla “publicy”. Sarebbe una riforma a costo zero che, se attuata dal livello comunale a quello nazionale, sarebbe percepita come operazione di trasparenza e democrazia. Già il Decreto Legislativo 150 del 09, il famoso decreto Brunetta, con lo scopo di ottimizzare l’efficienza e la trasparenza nel pubblico impiego ha reso obbligatorio per tutti gli Enti Pubblici, Comuni, Province, Regioni, ma anche ASL, Ospedali, ecc, l’attivazione una serie di azioni che rendano più trasparenti gli obbiettivi politici, strategici ed operativi e ne misurino i risultati. Assieme con l’anagrafe patrimoniale pubblica di eletti e nominati sarebbe proprio la trasparenza stessa ad arrivare prima delle indagini e prima delle intercettazioni. L’ha già adottata per la Regione Puglia, Nichi Vendola. In questa prossima legislatura regionale di “sacrifici”, se anche il neo eletto governatore della Calabria pensasse alla trasparenza per combattere la corruzione, soprattutto in ambito sanitario, non sarebbe male. Un’arma che consentirebbe di sfoltire quel fitto intreccio tra politica degli affari e degli scambi di favori occulti.

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