Archivi categoria: Autori

Natuzza Evolo il miracolo di una vita

Il volume di Luciano Regolo verrà presentato a Paravati di Mileto (venerdì 9 aprile), a Vibo Valentia (sabato 10 aprile), a Lamezia Terme (domenica 11 aprile) e a Guardia Piemontese (il 12 aprile)

di Franco Vallone

natuzza evolo, il miracolo di una vita - Copertina del volume di Luciano Regolo

Storia…! si, Natuzza Evolo è già storia. La dolce storia di una semplice donna di Calabria che, senza volerlo, è diventata la Natuzza mistica, la più grande mistica cattolica contemporanea, dei nostri tempi. Scomparsa dallo scorso primo novembre, festa di Ognissanti, Natuzza adesso riposa nella sua Paravati di sempre ed è proprio in questo piccolo paese, frazione di Mileto e in provincia di Vibo Valentia, che Luciano Regolo, giornalista e scrittore di grande esperienza, aprirà un ciclo di presentazioni del suo libro, appena uscito in libreria, dal titolo “Natuzza Evolo il miracolo di una vita”. Il volume, edito da Mondadori per la collana Ingrandimenti, è introdotto da monsignor Giovanni D’Ercole altro personaggio che ha conosciuto personalmente Natuzza. Questo libro è la prima importante biografia, scrupolosa, completa, riconosciuta, di “mamma Natuzza”, come amavano e amano chiamarla i suoi tanti seguaci in tutto il mondo. Per molti anni Natuzza Evolo ha richiamato, con il suo carisma, milioni di fedeli e migliaia e migliaia sono le persone di tutto il mondo venute a Paravati per incontrarla, per avere indicazioni sulle proprie malattie e sui disagi interiori, per avere notizie sui e dai propri defunti, o semplicemente per avere un semplice contatto visivo con lei, vederla, toccare le sue mani, sventolare un fazzoletto, o partecipare semplicemente ad uno dei suoi tanti raduni di fede e di preghiera. Oggi a Paravati, questo piccolo paese dove Natuzza era nata nel 1924, tutto sembra storia e passato ma, nel contempo, ci si rende conto di una tranquilla e serena continuità, della costante presenza, in ogni cosa ed ogni luogo, della Mistica, che ha soltanto cambiato dimensione e che oggi che non c’è più fisicamente si percepisce come essere umano, vivo “al di sopra” della storia. Luciano Regolo conosceva bene Natuzza, l’aveva incontrata quasi trent’anni fa per la prima volta, l’ultima poco tempo prima che lei morisse. Su Natuzza Evolo si è scritto molto, tante sono le parole che le sono state indirizzate prima e dopo la sua morte. Parole forti come quando si sentì quel collettivo “Santa subito!”, tanto forte e prorompente da fare il giro del mondo intero. Due semplici parole, un’invocazione di migliaia di voci diverse della folla, l’indimenticabile immensa folla sotto la pioggia e gli ombrelli colorati, radunata per i funerali di Natuzza Evolo lo scorso novembre, davanti alla grande chiesa ancora in costruzione. E in attesa che la Chiesa concluda il suo rigido e indispensabile percorso di valutazione, rimane certo che si è trattato di una persona davvero straordinaria, estremamente affascinante, unica ma chiaramente accomunabile ad altre figure eccezionali, una su tutte Padre Pio. Con il frate di Pietralcina Natuzza Evolo ha condiviso le iniziali difficoltà e le incomprensioni col mondo ufficiale, contrapposte a un immenso affetto popolare. Ma anche carismi come le stigmate e le emografie, la bilocazione, la preveggenza e le guarigioni inspiegabili, le grazie, i tanti benefici e gli altri mille piccoli grandi miracoli. Nelle centottanta pagine del libro, lo scrittore raccoglie non solo gli aspetti più incredibili riguardanti la mistica, ma anche la sua dimensione domestica, attraverso le inedite testimonianze dei cinque figli. “I fenomeni più eclatanti legati a Natuzza erano le stigmate che comparivano sui polsi, ai piedi e nel costato durante la settimana santa – racconta Regolo – Poi le emografie. Comparivano scritte o disegni di sangue sulla biancheria di Natuzza o sui fazzoletti con cui si asciugava la fronte. E Natuzza aveva continuamente visioni di Gesù, della Madonna, degli angeli. Natuzza era tante cose. Un mistero, ma anche una donna reale, una mamma affettuosa, ricca di umorismo. Attorno a lei si verificavano prodigi, ma ciò che colpiva di più era l’umiltà e la dedizione verso chi aveva bisogno”. Ora, a soli sei mesi dalla scomparsa di Natuzza Evolo, l’iter per la sua beatificazione è già iniziato e padre Michele Cordiano chiede a chi ha conosciuto Natuzza di iniziare a raccogliere ricordi e testimonianze con questo vero e proprio appello mondiale: “La testimonianza, l’esempio, la preghiera di mamma Natuzza per tutti i suoi figli spirituali siano messaggio da custodire, per metterlo sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. L’Archivio della Fondazione vuole offrire questo servizio alla memoria ecclesiale, raccogliendo scritti, foto, video, attestazioni, testimonianze, eventuali certificati medici di guarigione. Il tutto sottoscritto dalle persone interessate, che allegheranno una foto e tutti i dati per essere contattati. Alimentiamo questa corrente di luce, attingendo alla lampada viva accesa da Gesù Risorto. Indirizzare in busta chiusa a Padre Michele Cordiano presso la Fondazione • Via Umberto I, 153 • 89852 Paravati (VV)“. Intanto oggi, venerdì 9 aprile, alle ore 19.00, presso l’Auditorium della Fondazione Cuore Immacolato di Maria Rifugio delle Anime di Paravati prima presentazione del volume alla presenza dell’autore. Gli incontri di presentazione seguiranno poi domani, sabato 10 aprile, alle ore 18.00, presso l’Auditorium del Sistema Bibliotecario di Vibo Valentia, l’11 Aprile a Lamezia Terme presso la Chiesa del Rosario, sempre alle ore 18.00, e il 12 aprile in provincia di Cosenza a Guardia Piemontese. Ricordiamo infine che l’autore del volume, Luciano Regolo, ha voluto cedere tutti i diritti dell’opera alla Fondazione e il ricavato del libro sarà devoluto per la costruzione della chiesa “Cuore Immacolato di Maria Rifugio delle Anime” di Paravati.

**********

Scheda Volume

Autore: Luciano Regolo
Titolo: Natuzza Evolo. Il miracolo di una vita
Editore: Mondadori
Collana: Ingrandimenti
Prezzo: € 16,00
Pagine: 180
In libreria: aprile 2010

Share

Radicali: Pasqua con sorpresa … nelle carceri

E’ ancora emegenza

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “Il Domani della Calabria” del 7.4.2010

Lo ha detto chiaramente il Presidente Napolitano nel suo discorso di fine anno: non sono più tollerabili carceri in cui non ci si rieduca e dove troppo spesso si muore. Lo ha fatto notare “Ristretti Orizzonti”, il giornale dalla Casa di Reclusione di Padova e dell’Istituto di Pena Femminile della Giudecca: “Con la morte del detenuto Emanuele Carbone salgono a 50 i detenuti morti nelle carceri italiane, di cui 15 per suicidio”. Lo scorso anno – ricorda sempre il mensile – i decessi furono 175 di cui 72 per suicidio. Spesso parliamo di abolire la pena di morte nel mondo ma è la pena, così disumana, così afflittiva e insopportabile, che trasforma l’intollerabile detenzione operata in condizioni di ristrettezza disumana, nel suicidio, suicidio di liberazione. La notizia di qualche tempo addietro di due morti nel carcere di Castrovillari non fece grande scalpore sulla stampa. Fu confermata alla parlamentare Rita Bernardini dal Direttore, dottor Fedele Rizzo: “negli ultimi venti giorni, nel carcere di Castrovillari, sono morti due giovani” disse. “Si sono tolti la vita entrambi impiccandosi. Il primo era un un ragazzo cileno di 19 anni, il secondo un calabrese di Morano Calabro di 39 anni”. Oggi l’attualità dei giornali ci riporta di nuovo il caso di un tentativo (per fortuna rimasto tale) di suicidio di un detenuto del carcere di Reggio Calabria: “Lo salva un agente penitenziario”. E’ ancora drammaticamente emergenza carceri: gli agenti di polizia penitenziaria sono in organico sottodimensionato e con un sovra affollamento di detenuti senza precedenti. Oltre 64mila detenuti nelle nostre carceri a fronte di una capienza di 43 mila. Senza contare che il 50% dei detenuti è in attesa di giudizio e si sa, statisticamente, che un terzo di questi risulterà innocente. Un sovraffollamento perlopiù causato dai detenuti per reati connessi ai piccoli traffici legati al consumo di sostanze illegali ed aumentato dopo l’introduzione, come ce ne fosse stato bisogno, del reato d’immigrazione clandestina. Un sovraffollamento per cui l’Italia viene sistematicamente condannata dalla giustizia europea: nel mese di Giugno 2009, nel processo Sulejmanovic contro Italia, la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha infatti condannato l’Italia sanzionandola a risarcire, col pagamento di mille euro, il detenuto bosniaco rinchiuso nel carcere di Rebibbia in condizioni incivili per un periodo di tre mesi. Se gli oltre sessantaquattro mila detenuti nelle carceri italiane facessero lo stesso sarebbero da sborsare, per le casse dello Stato, oltre 60 milioni di euro per ogni tre mesi di detenzione in condizioni di ristrettezza di spazi. Se vuoi conoscere il grado di civiltà di un Paese – scriveva Voltaire – visitane le sue carceri. Marco Pannella e i Radicali tutti lo sanno bene questo, lo praticano da sempre e, dopo la grande mobilitazione dello scorso ferragosto con visite ispettive non preannunciate in quasi tutte le carceri d’Italia e che ebbe grande eco sulla stampa nazionale provocando amplia discussione, a Pasqua, i Radicali, ci rifanno. Una delegazione composta da Marco Pannella e dai parlamentari radicali eletti nel PD, Rita Bernardini e Matteo Mecacci, si è recata in visita ispettiva, nel giorno di Pasqua, nel carcere napoletano di Poggio Reale. A darne notizia sono gli stessi deputati Radicali intervenuti, con Marco Pannella pure lui in collegamento telefonico da Napoli, alla consueta conversazione settimanale con Massimo Bordin su radio radicale: “Ogni volta che ritorniamo li – spiega Rita Bernardini – troviamo la situazione peggiorata. Mi auguro, anzi dobbiamo fare in modo perché qui gli auguri bisogna darseli facendo le cose, che il Ministro della Giustizia e il Governo si rendano conto, ormai, che non è più possibile aspettare”. Poi la Bernardini ricorda la situazione generale: “Siamo arrivati, in tutta Italia quasi a 70.000 detenuti e oggi abbiamo trovato una situazione impossibile”.

Dai 9 ai 12 detenuti per cella che, normalmente, ne potrebbero contenere 4: “Generalmente quando andiamo a visitare aprono le celle. Oggi (nel giorno della Santa Pasqua ndr) c’era pochissimo personale per cui abbiamo dovuto salutare i detenuti attraverso le sbarre. Dai 9 ai 12 detenuti in celle che ne potrebbero contenere 4” … “Detenuti molto frustrati, consapevoli che, purtroppo, non c’è, almeno al momento, qualcosa che li possa far tornare a sperare”. Poi la Bernardini snocciola i dati: a Poggio Reale che è un carcere con capienza di 1200 detenuti ce ne erano, nel giorno di Pasqua, 2.737. Oltre 1500 la capienza massima e con una situazione di organico carente degli agenti: “Centinaia in meno rispetto alla pianta organica”. Per non parlare della sanità che “non esiste”: “Ho trovato – spiega ancora l’Onorevole Rita Bernardini – finalmente ricoverato in centro clinico un detenuto che, durante la visita fatta in campagna elettorale, avevamo incontrato in cella col catetere”. “Se Alfano vedesse con i suoi occhi si renderebbe conto che deve varare in fretta quel provvedimento” riferendosi esplicitamente al decreto che, se varato, consentirebbe, ai detenuti con pene inferiori ad un anno, di scontare ai domiciliari il resto della pena. Matteo Mecacci racconta di una situazione tremenda e il particolare dell’applauso strappato ai detenuti da Marco Pannella a sostegno degli agenti che, con sacrificio, avevano consentito l’incontro coi detenuti in condizioni così difficili. E, per la Pasquetta ovviamente sempre a sorpresa, si preannuncia la visita nel carcere siciliano dell’Ucciardone a Palermo o, forse, in quello di Reggio Calabria nel quale, comunque, sarebbe il caso di farla una visita per capire perché si tenta di liberarsi con la morte.

Share

La Pasqua nella tradizione popolare calabrese: Canti e suoni della Settimana Santa

di Filippo Curtosi e Giuseppe Candido

Canti e suoni della Settimana Santa nel teatro della Fede in Calabria tra riti cattolici e Greco-Bizantini.

Maffiusu i Pasca” era inteso (e forse lo è ancora) colui che con eleganza esagerata alla domenica mattina di Pasqua per la messa o alla sera della stessa giornata andava in giro odoroso di lavacri e rifulgenti di “panni novi di Montalauni” coi capelli inchiodati all’indietro sulla testa cosparsa di brillantina “Linetti”.

Chi ricorda le luminarie natalizie o l’allegria burlona del carnevale, preceduta dall’ortodossia della Quaresima?

Raffaele Lombardi Satriani, nel 1929 pubblicò a Catania una “Farsa di Pasqua”

Coraìsima

Sona,catarra,ca vogghiu abballari,

Su’ Coraiesima e fimmana d’onuri,

Nu misi e mienzu vi fici addinuiari,

Nà minestriedda cu pocu sapuri,

La sira cu ‘na sarda ha da passari

Ma vue nun mi chiemate donna ‘ngrata,

Nd’aviti vue satizza e soppressata.

Scorda catarra ca vogghiu cingiri,

Su’ Coraìsima e mi nde debbu andari,

Pè mmia ‘on cc’è rimediu,debbu finiri,

La Pasca si sta ttutta prisintari!

Primavera

Eu sugnu primavera e puortu spanti

De rosi e de li xuri l’alimenti,

Cantanù l’aceduzzi d’oggi avanti,

E bui,signori,stati allegramenti.

Pasca

Eu sugnu Pasca, persona festanti,

Portu rinfreschi e boni festi sempri;

Sugnu stata luntana di ‘sti canti

Mò mi risorvu a videre la genti.

Vi potiti cammàrari d’oggi avanti

Cuomu già è statu, ’ccussì sarà sempri

E’ Pasqua dunque! Festa ricca di simbologie. Dalla Domenica delle Palme, passa attraverso i riti della Passione e della morte e finisce nel gaudio della Resurrezione.

In Calabria la “Pasca” era nel vissuto religioso popolare che non muore mai e la Chiesa ufficiale poco o nulla poteva fare per quei riti che davano e danno luogo a forme di teatralizzazione che risalgono alla notte dei tempi.

A Pizzo, Domenica delle Palme, finita la messa con la benedizione delle palme e dell’ulivo, in processione si raggiungeva la piazza e precisamente presso una colonna nella quale vi erano incise le parole latine “Intacta Iacui- Percussa Steti” sormontate da una croce di ferro per farvi appendere una croce di notevoli dimensioni fatta da rami di ulivo. La gente con gli stessi rami di ulivo più o meno grandi menava o meglio percuoteva e contro la croce e contro il povero cristo. Con il tempo questa usanza andò perduta assieme alla colonna. Quello che non fece il terremoto del 1668 riusci invece alla violenza dell’uomo.

A Vibo Valentia, così come in molti altri centri della Calabria, il clou della settimana santa era ed è l’Affruntata che culminava con la “sbilata” davanti alla chiesa delle Clarisse o “Monacheie”.

A Tropea la cosa più bella era la cantata della Resurrezione di Alessandro Manzoni tradotta in dialetto tropeano dal Francesco Tranfo, “Cantore” della Cattedrale di Tropea, latinista importante, docente di greco e latino nel seminario di Tropea a metà dell’800, autore di molte interessanti pubblicazioni.

Rimbeniu e nci fici a la morti lu Signori:

e ruppiu li porti i pici e vinciu lu Redentori,

li Iudei e lu sacc’io,

e lu juru subba a Dio

ca Gesù risuscitò.

Rimbeniu e lu sciancau

lu linzuolu a morza a morza;

rimbeniu e lu votau,

senza mancu mu si sforza,

lu coverchiu di nu fiancu

comu a nu ‘briacu stancu

lu Signori smarinò. …

….Quantu fici alla morti

si lu vidi: ma chi nd’è

di lu ‘mpelici piccaturi!

non s’abbidi di lu mali e di l’erruri!

Ah, cu spera nt’o Signori c’u Signori si ndi va!

In tutta la Calabria, da Capo Spartivento a Laino Borgo si sentiva il clamore assordante delle troccole, delle batole, delle raganelle, matraccasse, batacchi lignei o di ferro che evocavano i colpi di martello sui chiodi inflitti al corpo crocifisso. Le campane erano legate, mute, in lutto fino al momento della Resurrezione. Non si mangiava, non si parlava, non si faceva il bucato, non si lavorava, non ci si pettinava, non si tesseva. Un silenzio senza folclore, un silenzio tombale perché la morte del verbo, dice il presidente dei Direttori delle Confraternite, Umberto Tornabene, evocava l’oscurità, il vero punctum dolens, il Venerdi Santo. Si pregava e si cantava il Miserere, le parole come sonorità, intonate in forme di laudi dai cantori come il Can. Francesco Tanfo da Tropea. Fino a qualche anno fa questi canti e queste musiche venivano tramandate oralmente da generazione in generazione perché saldamente legati alla tradizione popolare del territorio a metà come dire tra teatro popolare e processione itinerante. Nel vibonese, un canto religioso popolare, pubblicato da Luigi Bruzzano direttore della rivista “Calabria” del 1892 dove le rappresentazioni duravano tutta la settimana, si cominciava all’alba e continuava fino alla processione notturna illuminata da lampade ad olio s’intonava” LU RIVOGGIU”, ovvero l’orologio:

Spiritu Santu mio, datimi aiutu,

mu mi risbigghiu stu senzu nsenzatu,

havi gran tempu che su surdu e mutu,

di nuja cosa mi ndi aju approfittatu;

cu l’ajutu di Dio l’ha criatu.

Su rivoggiu quantu nd’ha patutu,

sona vintiquattruri ed è spiratu.

A li vintiquattruri ha dimandatu,

di la sua affitta matri la licenzia;

ora ca vinni lu tempu passatu

avimu di fari l’urtima partenza,

a cu na lancia mi aviti tiratu,

Ieu resto, Matri affitta e di vui senza.

A li vintitri uri s’accummenza

Cristu facia la cena a chija ura,

chija grandi umirtagna non si penza,

si vota Cristu cu n’amuri pura;

giustizia di notti a chija ura

sutta specie di pani, lu nostru Redentori.

Nci suttamisi cu nu veru amuri

pe ijri mucca di li peccatori:

Cu lu si ricivi giustu e cun amuri

e di lu Paradisu professori,

e cu si lu ricivi comu Juda pena

dintru lu mpernu tutti l’uri.

Duna principiu Cristu a li dui uri

nta li monesti l’apostuli fari,

nci predicava cu nu veru amuri,

mentii c’a Iuda lu volia sarvari:

Juda c’avia lu cori traditori, o

ra venia e penzava li dinari,

mo penzamuci tutti, peccatori,

Cristu no dassa modu chi nno paga.

A li tri uri Cristu jia adurari,

la passioni sua nci stava accortu,

principia a chija ura nseparari

fina chi Jesu nd’ha rivatu all’ortu.

Lu Patraternu nci misi a pregari

n’Angialu nci calava pe comportu,

lu calaci e la cruci e cosi amari,

lu Patraternu già lu vozi mortu.

A li quattruri Cristu stando all’ortu,

la sua passioni penzava e bidia,

penzava all’agonia, poi s’era mortu,

sudava sangu, la terra abundia,

E li Judei nci stavanu accortu

avanti li Judei Juda venia,

chiju chi patu pe nturtu,

o peccatori, lu patu pe tia.

A li cinc’uri Cristu s’avvidia;

E Juda avanti la turba ha gridatu:

Juda lu vasu a li judei nci icia:

Pigghiativi a Cristu, vi l’haju mostratu.

E li Giudei cascare nta chija via,

quando lu nomi di Jesu è spalisatu

Iju li guarda e mori d’agolia

pe pagari nci dannu lu peccatu.

A li sei uri Cristu fu ligatu

Cu li mani d’arredu, e la turba s’affanna,

Giacumu e Petru l’hannu abbandonato,

San Giuvanni chi lu seguita e no parra.

Cu boffuli e catini trascinatu

e fu levatu a lu palazzu d’Anna,

Jà è statu di Marcu schiaffiate

Mpacci sputatu, ntortu a la condanna.

A li sett’uri la turba s’affanna,

Cristu no potia cchiù, era stancu e lassù;

Grida la turba e Cristu si condanna

e si condanna a li mani di cafassu,

Cafassu sti palori nci domanda:

Tu non ssi giustu rè, ca si rè farzu,

Ssi’rè der celu e di nujatra vanda,

Ssi rè di morti, nci dissi Cafassu.

A otturi no motti dari nu passu

ca jera la turba mal’attrattatu

fu levatu ntà na staja,

stancu e lassu, di li capiji fi ntravulijatu

caluru li schiavi cu cori di sassu

cu l’unji la sua carni hannu scarnatu;

Iju li guarda cu lagrimi di spasu

pe n’aviri piatà l’hannu abbendatu.

A li nov’uri Cristu fu negatu,

di l’amatu discipulu c’avia;

canta lu gajiu e Petru l’ha negatu,

canta lu gajiu e Petru s’avvidia;

perdunu cerca di lu so peccatu,

ntrà li soi occhi dui cannali avia.

A li deci uri Cristu no mpotia

e fu levatu ncasa di Pilatu,

Pilati sti palori nci dicià:

Di Rodi aviti statu condannatu.

A undici uri a Rodi fu levatu

e Rodi mu nci parra disijava,

ma Rodi restau scumunicatu

avvertimi Cristu, e non ‘nci parrava,

cu na candita vesti lu pigghiaru

e nici la misaru e di pacciu lu trattaru,

pacciu era Rodi chi tantu ha penzatu,

cu na vesti jianca a li genti ha mustratu.

A dudici uri la Matri ha arrivatu,

a Jesu lu tornare a Pilatu;

la cara matri arredu a li porti stava,

vidi a so’ figghiu spostu, assulatu.

Allura forti la turba ha gridatu

ca vonnu a Gesù Cristu condannatu:

Ora Pilatu: sta condanna nci damu,

nci damu na frusta e poi lu liberamu?

Subitu la frusta nci hannu preparatu

tornaru di novu a battari li torni,

condanna, tantu forti malattrattatu,

volia chi finissaru li jorni.

E la Madonna li torni guardava,

stramori di duluri e poi torna,

spini pungenti a na spaja minare.

A li trdici uri fu misi nculanna,

di fora lu guardava la Madonna,

guardava e sentia nu gran doluri,

pregava lu Patraternu pemmu torna,

mu campa ncani e pemmu pati nchiuni.

Nci affannava la turba in chiji jorni,

fari na curuna di chiji spini crudi,

spini pungenti a na dura colonna.

Fu ncurunatu a li quattordici uri.

Ora si parra di li quindici uri;

ora si dici lu quantu e lu comu:

Pilatu s’affacciu di lu barconi

nci lu mustra a lu populu: acciomu!

Nci dissi Pilatu a chiji aggenti crudi:

Nui si lu libaramu fussi bonu.

Tutti gridare: a la cruci signori.

Si leva Pilatu e si chiudi tonu,

ha persu di la facci lu decoru,

ho ch’è venuta la Grà Onnipotenza!

Oh Ternu Patri chistu è to’ figghiolu:

ho ch’è riduttu a tanta penitenza!

E’ scrittu lo so’ nomi a sidici uri:

E’ condannatu a morti la sentenza.

A li dicessetturi ogn’omu penza:

O chi doluri chija Matri avia!

Vidia aso’ figghiu a tanta penitenza,

levava la cruci ncoju e nà potia,

di laminari faci violenza,

tanti voti cadia in chjia via.

Doluri ntisi la Grandi Onnipotenza

quando abusaru e jettaru a Maria.

Quando a Munti Carvariu nci jungia

a Jesu lu nchianaru a strascinuni,

e li soi caji ruvinati avia,

penzava li fragelli cu doluri.

E la sua vesti mbiscata l’avia,

nci la tirare cu herrabii e guruni;

la cara Matri nchiovari sentia.

Fu sposti ncruci a li diciottt’uri.

E poi arzau l’occhi a diciann’ovuri,

cu n’amuri perfetta, amuri veru,

Niu di cori nd’amamu, o peccatori,

vi vogghiu liberari di lu mpernu;

Patri perduna a si crucifissuri,

ca su pacci e no hannu sentimentu.

A li vent’uri fici testamentu,

a Giovanni la Matri sua dassatu avia,

Iju li spiriti soi li jia perdendu

ed Iju ancora patiri volia.

Prestu sizziu dissi a u mumentu,

feli e acitu preparatu avia;

nci lu dezeru a Jesu e Iju mbivendu

e cunzumatu mesti iju dicia.

Penzamu li doluri di Maria

chi restau Matri, scunsulata e sula,

gurdava la cruci e spirari vidia

a so’ figghiu, sonando vintun’ura.

Si vota e bidi natra tirannia:

e lu lancino na lanciata nci duna,

nci moviru li petri di la via,

scuraru li stiji, lu suli, la luna.

Giuseppi d’Arimatia nci dissi a chija ura:

O Nicotemu, chistu è nomu bonu,

nci scipparu li chiova e la curuna

e nci levare a Maria mortu di tuttu,

e la Madonna trovadusi sula di cori lu ciangia

cu chianti ruttu, novu lanzolu e nova siportura.

A li vintiquattruri fi nsapurcu.

Ora ch’è dittu lu rivoggiu tuttu,

mi compatisciti si dissi difettu,

chiju chi dissi lu dissi pe mortu

ca no’ ca lu lejivi ca no fu scrittu.

Cu ama lu Signori veru e giustu

lu paradisu si pigghia di pettu,

cui mpeccatu stavi e non è giustu

e chista cosa si sapi pè certu”.

Buona Pasqua, se potete.


Share

RU486: Euforie elettorali e la corona degli imperatori

di Giuseppe Candido

Cota Scopelliti Zaia
Luca Zaia – Giuseppe Scopelliti – Roberto Cota

Pubblicato su “Il Domani della Calabria” del 4.4.2010

Mentre Berlusconi “scende in campo” anche on line su face book, e mentre nei retroscena dei giornali aleggia ancora la vicenda dei preti pedofili dei “Legionari di Cristo” e di come il Vaticano insabbiò tutto, Benedtto XVI presenta il conto elettorale chiedendo ai cattolici di disobbedire “le leggi ingiuste” con esplicito riferimento all’aborto e alla legge 194.

E subito dopo il voto si palesa la strategia che qualcuno chiama “cattolico padana” che ha contagiato anche il neo eletto governatore della Calabria. La Lega, ormai al governo di importanti regioni, risponde al Pontefice e si palesa subito dopo le elezioni: la pillola RU486, il farmaco che consente l’aborto farmacologico in sostituzione di quello chirurgico, stante la legge lo consenta, non sarà utilizzabile nel nuovo Piemonte di Cota dove “resterà a marcire nei magazzini” e nel nuovo Veneto di Luca Zaia che intende “bloccare gli ospedali” che ne hanno fatto già richiesta e afferma “nel Veneto mai”. Ma se il Papa che richiama i cattolici a battersi per il rispetto della vita è ovvio, logico e nessuno può (né deve) impedirglielo, le esternazioni di Cota e Zaia, oltreché di Peppe Scopelliti che non ha perso tempo per accodarsi alla Lega, ci appaiono un’interruzione di legalità se non addirittura, come sottolinea Marcello Sorgi, “un’interruzione di pubblico servizio”. Come persone. i neo eletti presidenti, hanno tutto il diritto di pensarla come credono e avere opinioni coincidenti con quelle del Papa ma, da governatori neo eletti, da uomini delle Istituzioni, dovrebbero rispettare e far rispettare le leggi esistenti anche se li si ritiene sbagliate e li si vorrebbe cambiare. Ciò sia per rispetto di coloro che li hanno votati sia anche per rispetto dei cittadini che non li hanno votati o che non sono proprio andati a votare.

Intervistata da Cristina Pugliese dai microfoni di Radio Radicale, Eleonora Artesio, assessore uscente alla sanità nella Regione Piemonte, ha risposto al neo governatore Cota: “Dopo aver condotto una campagna elettorale in doppio petto come vero rappresentante delle istituzioni Cota, appena eletto, si sta dimostrando veramente essere un uomo non delle Istituzioni. In questo Paese, fino a prova contraria, si applicano le normative che vengono determinate e non è proprio possibile che un farmaco regolarmente registrato dall’Aifa (l’agenzia italiana del farmaco) non venga reso accessibile per decreto del presidente della Regione”. E ancora, continua l’ex assessore alla sanità piemontese, “un presidente della Regione ha un potere in ordine alle modalità organizzative”. L’assessore trova “molto discutibile” anche “l’inserimento delle linee guida dell’Istituto Superiore della Sanità” in quanto “il ruolo dello Stato riguarda i livelli essenziali di assistenza ma i modi organizzativi di sfruttare questi livelli attengono alle regioni”. Poi l’ex assessore si sofferma in modo particolare sulla “questione per la quale si cercano d’intimidire i direttori generali, i medici rispetto al colloquio che gli stessi devono fare con le persone per determinare qual’è il protocollo più idoneo, oltre che intervenire anche sui comportamenti delle persone perché si vìola la loro possibilità di individuare la modalità ritenuta più confacente rispetto al singolo caso” che sembra davvero “un atto di arbitrarietà e di forza giocato tutto sul piano politico e senza alcuna sensibilità nei confronti delle persone”. Anziché preoccuparsi del dissesto idrogeologico e della sanità che produce debito e non salute, anche il neo eletto Scopelliti, da alfiere azzurro, si preoccupa di bloccare il diritto delle donne ad avere il trattamento terapeutico più idoneo anche in Calabria. E meno male che almeno c’è la Prestigiacomo e la Polverini e le donne della Lega che, dallo stesso versante politico, sottolineano che esiste già una legge (la legge 194) e che, a meno di non volerla cambiare, questa deve essere fatta rispettare anche dai governatori, stante le loro legittime opinioni a meno che, davvero, non si sentano già in testa la “corona dell’imperatore”.

Share

I 150 anni dell’unità d’Italia e Giuseppe Mazzini, precursore del nuovo diritto pubblico europeo

L’apostolo che ci ha mostrato il cammino verso un nuovo mondo

Uno di quegli eroici veggenti. “Mentre l’Italia dormiva, egli vegliava pensava e agiva

Per l’Unione dei partiti radicali. Per “la sovranità del popolo, libero di ogni laccio di chiesa costituita e militante”

per cura di Giuseppe Candido e Filippo Curtosi

“Foste schiavi un tempo,
poi servi,
poi salariati:
sareste fra non molto,
purché lo vogliate,
liberi produttori e fratelli nell’associazione.”

Prima l’unione della Lombardia al Regno di Sardegna, la fusione con l’Emilia, la Romagna e la Toscana sino al loro congiungimento alla Sicilia, al Mezzogiorno, alle Marche e all’Umbria e, nel 1861, venne proclamato il Regno d’Italia. L’embrione era stato generato. “Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato; Noi abbiano sanzionato e promulghiamo quanto segue: Articolo unico: Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi Successori il titolo di Re d’Italia. Ordiniamo che la presente, munita del Sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta degli atti del Governo, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato. Da Torino addì 17 marzo 1861”. Il 21 aprile 1861 quella legge diventa la n. 1 del Regno d’Italia. Mancavano però, ancora, il Veneto che vi si aggiunse nel 1866, Roma e il Lazio sotto al dominio papalino sino al 1870, la Venezia Tridentina e la Venezia Giulia per le quali si dovette aspettare sino al 1918. E’ la storia è più bella che il secolo XIX offre all’Europa nel campo delle unificazioni nazionali. Un grande esempio che il Risorgimento italiano ha donato al mondo intero realizzando l’unità attraverso la libertà.
Il 17 marzo del 2011 l’Italia compirà 150 anni. Il Paese del “bel canto”, acciaccato ma ancora in piedi, ne ha fatta di strada dal lontano 17 marzo 1861 in cui il neonato Parlamento (con sede a Torino presso il famoso “Palazzo Carignano”) sancì la proclamazione del Regno d’Italia. Ma spesso gli anniversari, le ricorrenze, si accavallano e, il prossimo 10 marzo, sarà pure il 139mo anniversario dalla morte di uno degli uomini considerato, assieme a Giuseppe Garibaldi, Vittorio Emanuele II e Camillo Benso, uno dei padri della patria. Con Giuseppe Mazzini, il più grande degli esuli dopo Dante, “il pensiero vola allo scoglio di Caprera, a quel Pantheon dell’umanità, ove riposa l’eroe leggendario – l’uno rappresentante il pensiero della patria, l’altro esprimente l’azione popolare, mentre l’Italia giaceva sotto il giogo dei preti e dei tiranni”. Qualcuno oggi polemizza se l’Unità d’Italia sia stata un bene oppure una fregatura, soprattutto per il mezzogiorno. Noi non vogliamo entrare in queste considerazioni e vorremo invece concentrare l’attenzione su una delle figure cardini della Giovine Italia. Nato a Genova il 22 giugno del 1805 Giuseppe Mazzini, politico e patriota, si presenta ai giovani, ancora adesso, come una figura “luminosa”.

Giuseppe Mazzini
Giuseppe Mazzini

La repubblica, come necessità storica sorgerà dai cento errori governativi che terranno dietro ai cento commessi; sorgerà, dal convincimento degli animi, che la guerra ogni giorno alla libertà degli italiani, alle associazioni, alla stampa, al voto, è conseguenza inevitabile del sistema, non d’uno o d’altro ministero; sorgerà dal senso di pericolo mortale e di disonorare che lo spettacolo di corruzione dato da un governo senza dignità e senza amore, susciterà presto o tardi, onnipotente negli uomini che hanno a cuore l’avvenire della Patria”.
Tutti gli uomini, per quanto di nazionalità diversa, già separati dal tempo, e aventi concetti filosofici opposti, vedute contraddittorie sul modo di considerare molti particolari dell’organizzazione sociale, possono nondimeno sentirsi collegati insieme da un vincolo supremo.

Il vincolo che ci unisce a Mazzini, secondo Yves Guyot, direttore de “La Siécle”, quotidiano francese stampato come “giornale politico, letterario e d’economia sociale” tra il 1836 e il 1932, è il seguente: “Al veder mio v’hanno, al di sopra di tutte le questioni secondarie, due grandi dottrine: la dottrina del regresso e la dottrina del progresso: La prima si riconosce da’ eguenti sintomi: predominio dei più sopra i pochi: strumento di si fatto predominio, la menzogna e la forza: oppressione dell’uomo che si riflette sulla donna: annullamento del fanciullo mercé quelle due oppressioni in accordo fra loro: quindi atonia intellettuale, morale e fisica: spoliazione de’ deboli a beneplacito di tutti. In sì fatto ambiente: l’ira d’individuo ad individuo, da religione a religione, da credenza a credenza, da città a città, da favela a favela, da razza a razza: la guerra, fine supremo dell’umana attività!
La seconda, all’incontro, ha per intento: il rispetto della personalità, quale che ne sia il sesso o l’età, la patria e il colore: l’eguaglianza di tutti dinnanzi al Diritto: la protezione dei deboli, la distruzione dei privilegi usurpati dai forti; la libertà per tutti; libertà di disporre della propria persona sotto la propria responsabilità; libertà d’andare, di venire, di operare; libertà di pensiero, di parola, di scritto; libertà di associarsi pel compimento di tutti quegli atti, che, se commessi da individui isolati, non sarebbero considerati criminosi: fusione di tutti i componenti la famiglia umana, nella progressiva evoluzione.
E questa dottrina fu quella che Mazzini insegnò: al suo trionfo Ei consacrò l’intera sua vita: e la profonda traccia da Lui lasciata nell’animo di quanti lo conobbero, è prova inconfutabile dell’efficacia dell’opera sua. L’umanità mi appare quale immenso ammasso di tronchi mutilati, inconsci, ciascuno dei quali si va piegando e ripiegando in dolorose convulsioni; tutti urtandosi, dilaniandosi, divorandosi gli uni gli altri ne’ loro perenni sforzi per riunirsi e costituire un Essere guidato da un’intelligenza e da un’unica volontà. E stimo suoi più grandi benefattori coloro che, afferrando i tronchi del mostro, gettandosi fra quelle ritorte, immergendo il braccio nelle fauci divoratrici per strappar loro la preda, senza timore di esserne soffocati, lacerati, o contaminate dalle loro brutture hanno lavorato a ricostruire le vertebre affiacchite, affinché, al ridestarsi della coscienza che era venuta meno, l’Umanità scoprisse il suo ideale di perfettibilità, e lo attuasse. Mazzini fu uno di quegli eroici veggenti. Quanti credono nel Progresso, conclude il giornalista, gli debbono il tributo del loro rispetto e della loro ammirazione. Ed io vi sono riconoscente di avermi offerto l’occasione di deporre il mio”.
Le idee di Mazzini e la sua azione politica, senza dubbio contribuirono in maniera decisiva alla nascita dello Stato unitario italiano, la cui polizia lo costrinse però alla latitanza fino alla morte, a Pisa nel 1872. “Il corpo a Genova, il Nome ai Secoli, l’Anima all’Umanità”. Idee che furono di grande importanza, anche successivamente all’Unità, nella definizione dei moderni movimenti europei e per l’affermazione della democrazia attraverso la forma repubblicana dello Stato. “X MARZO” era il titolo di un foglio stampato a Napoli – il 10 marzo ovviamente – nel 1889, presso lo stabilimento tipografico dell’Iride. Ritrovarlo assieme alle “antiche riviste calabresi” di un facoltoso signore deceduto è stato un caso davvero fortunoso poiché lo stesso veniva spedito al “Distinto Giovane Signor Ferdinando Grano” in Monteleone di Calabria. Non solo il Guyot. Sul foglio sono riportati scritti del Mazzini stesso alternati a fantastici editoriali di scrittori.
Mazzini “Si presenterà luminoso al secolo venturo per queste ragioni chiare: Fu araldo dell’Idea nazionale e fondò la Giovine Italia; Fu precursore del nuovo diritto pubblico europeo e fondò la Giovine Europa; Derivò l’azione dal pensiero ed ordinò la filosofia e le lettere ad alto fine politico; Intese l’inutilità di parlare ai poteri costituiti ed alle generazioni vecchie e si rivolse alle generazioni nuove ed al popolo con lingua di popolo. Fu inteso. Il suo pensiero fu convincimento, carattere, vita sua e vita di nazione. Tanto s’ingrandisce di anno in anno quanto s’impiccolisce la distanza fra lui ed il suo ideale” scriveva Giovanni Bovio.
Il pensiero politico e sociale dimostrano che Giuseppe Mazzini fu davvero una di quelle “grandi anime che visitano d’epoca in epoca, l’Umanità per annunciare un nuovo ordine di cose
”.

Così Cajo Renzetti nel ricostruirne il pensiero politico e sociale per quel numero Unico del 1889 a diciassette anni dalla morte. “Mazzini fu uno di quegli eroici veggenti”. “Queste potenti individualità sorgono, confusamente presentite da molti, sul morire di una fede religiosa allo spirare di un periodo storico filosofico. Sorgono potenti della sintesi del passato e forti dell’intuito divinatore dell’avvenire. Ardentemente amano, e però nella lotta contro l’errore si scagliano cavalieri della morte. La loro virtù atterra e suscita, abbatte ed edifica. L’epoca li deride li calunnia li perseguita, ed essi perseguono immutati, paghi della riconoscenza del futuro”. Giuseppe Mazzini patriota cospiratore legislatore filosofo e letterato, “Siffattamente agitò redarguì ammaestrò e risospinse per oltre quarant’anni la vecchia Europa, che fondò una patria, l’Italia, e gittò le prime pietre di una civiltà”. Tra la chiesa cattolica ed il secolo, egli evocò la libertà di pensiero e di coscienza. Tra la libertà ibridamente sposata al principato, la democrazia. Tra i capitalista e il salariato, il libero produttore”. La missione di Giuseppe Mazzini è essenzialmente “Rigeneratrice morale umanitaria, e questa si estende a tutti i popoli ed abbraccia tutte le nazioni.” “Senonché egli nasce in un paese decaduto da tanti secoli, fra un popolo diviso e oppresso per molti despoti, e deve consacrare anzi tutto le proprie facoltà a ridestarlo a sospingerla alla conquista dell’unità e della libertà , le due prime basi le due prime leve potenti d’ogni durevole e salda conquista sociale”. Eccolo quindi dalle carceri di Savona, al triumvirato della Repubblica Romana del 1849; e dalla Giovine Italia, alla Alleanza universale dei popoli”. Egli è l’uomo dei politici ardimenti che col fervore di un antico ascende la gloriosa tribuna dei Gracchi, e più fortunato e più innovatore di Crescenzio di Arnaldo di Stefano Porcari e di Cola da Rienzo, decreta la fine del Papa e del re, proclamando la sovranità del popolo, libero di ogni laccio di chiesa costituita e militante, sciolto d’ogni tirannide di mediazione spirituale o temporale. Egli è l’uomo delle redentrici aspirazioni che detta il libro dei Doveri dell’Uomo, dove con sapienza mirabile tenta armonizzare la libertà colla legge, l’individuo coll’aggregazione, la proprietà col lavoro, la donna coll’uomo. E in tutto questo suo processo filosofico umanitario, due grandi e belle figure spiccano luminosamente, i due primi ed ultimi esseri della creazione, i due tipi eternamente giovani della società, la Donna e l’Operaio. Proprio nelle ultime linee dei Doveri dell’Uomo, quasi estremo legato ai posteri, egli ha scritto: “L’emancipazione della donna dovrebbe essere costantemente accoppiata per voi, coll’emancipazione dell’operaio, e darà al vostro lavoro la consacrazione d’una verità universale.” Mazzini è cultore altissimo dell’arte, ma, continua il Renzetti, “l’arte per l’arte non costituisce il suo ideale. Per lui arte significa missione, missione morale e sociale. L’arte gli si presenta come l’insegnamento del bene mercé gli allettamenti e le attrattive del bello. Mazzini è amante della patria, ma resta assai lontano da quel patriottismo pel patriottismo per il quale oggi molti, repubblicani un giorno, riposano stanchi sugli allori dell’unità, carichi il petto di ciondoli regi. La patria per lui corrisponde, prosegue, ad una delle tante specie di quella divisione di lavoro così utile alle produzioni. Come nelle grandi fabbriche meccaniche vi sono diversi opifici, ciascuno dedicato a lavori diversi di una macchina stessa, così nel grande arsenale del mondo vi sono parecchie officine, le patrie, concorrenti ad elaborare gli elementi della macchina comune, l’umanità. Ma essa patria può anche sparire col tempo, appunto perché ci educa alla fratellanza cosmopolita.” Tant’è vero che, nei Doveri dell’Uomo, lo stesso Mazzini afferma la possibilità che “La patria sacra in oggi, sparirà forse un giorno, quando ogni uomo rifletterà nella propria coscienza la legge morale dell’Umanità”. Mazzini è fautore della libertà, della libertà la più ampia, la più sconfinata, ma, il liberalismo per il liberalismo non costituisce il suo ideale. “La libertà senza l’uguaglianza è una pianta sterile, uniforma vuota di sostanza”. Per Mazzini, scrive egli stesso nelle Opere, “La libertà non è un principio, ma quello stato in cui lo sviluppo di un principio è concesso ad un popolo. Non è il fine, ma il mezzo per raggiungerlo.” Qual’è dunque l’ideale degli ideali di Giuseppe Mazzini? “L’Umanità, lo sviluppo di tutte le facoltà fisiche e morali di quanti vivono, il miglioramento di tutti, la redenzione di quanti ha tipi manchevoli irregolari e deformi la natura, di quante ha vittime la società, di quanti ha martire la vita; la felicità massima e possibile della creatura, il benessere morale e materiale di tutti, dovere di procacciare il benessere sociale, la progressiva divinizzazione dell’uomo”. Così rispondeva, nella prima pagina di quel X Marzo, foglio unico del 1889 per ricordare il padre della patria scomparso diciassette anni prima, il giornalista Cajo Renzetti. “E per ascendere a questa città futura, egli accenna a due principi fondamentali, la nozione del dovere e la virtù del sacrificio; avvegnanché per lui la vita significa missione, compito di trasformare le cose a favore di tutti, dovere di procacciare il benessere sociale”. Da queste considerazioni emergono i concetti i concetti di famiglia, di legge, di stato, di proprietà, di popolo, quali, purtroppo, ancora oggi molto spesso non sono. “La famiglia è appunto la cellula embrionale di ogni umano consorzio. Essa col suo magistero di amore e a mezzo della prossimità, prepara ed educa i cittadini alla patria, come la patria li educa e li prepara all’umanità. La legge scritta non può essere che un riflesso, una fotografia, per così dire, della legge morale e naturale. Gli uomini nulla creano, ma scoprono; essi dunque debbono investigarla nel loro tempo ed attraverso la tradizione. Nessuno quindi può dettarla a capriccio, ed essa deve venire liberamente discussa e unanimemente accettata”. Lo stato, secondo il concetto mazziniano, non decapita i delinquenti, perché “il suo codice penale protegge la società, e ne educa gli individui; non legalizza la prostituzione, perché ripudia il lenocinio; non sparge le locuste della burocrazia, perché fa pochissime leggi e buone; non si circonda di baionette permanenti, perché tutti i suoi cittadini militano; non tiene gabellieri alle porte o alle dogane, perché non ha corte, né lista civile, né balli diplomatici, né livree di ministri, né galloni di generali: non compra coi fondi segreti , perché non ha spie, e non ha spie, perché tutto si può dire e stampare intorno ai problemi sociali, e l’interesse della sussistenza dello stato è comune; ivi i migliori per ingegno e virtù hanno dovere e diritto al raggiungimento dei pubblici negozi, e vengono eletti da tutti, rimanendo sindacabili, amovibili, responsabili.”
Lo stato mazziniano “rinuncia al carnefice, al gabelliere o al delatore, e, senza atteggiarsi a grande impresario della pubblica felicità, si riserva due sole ed uniche funzioni, la funzione esemplare e quella e la completiva. Dove manca l’esempio, lo stato promuove; dove difettano le facoltà dei privati in opere di pubblica utilità, esso concorre, disponendo, naturalmente, di mezzi maggiori a quelli de’ privati.
Questa specie di stato favoreggia, stimola, inizia a proteggere le tendenze e le spontaneità collettive. Esso può dirsi uno stato patriarcale che invece di perpetuare sé stesso ed allargare la propria sfera d’azione, tende mano mano ad innalzare il cittadino fino alla libertà, cancellando, ogni giorno che passa, una riga della propria legge. Tale stato, infine, a guisa del buon padre di famiglia, scende lieto nel sepolcro, vedendo adulti e felici i suoi figliuoli.” La proprietà, secondo quanto la intese Giuseppe Mazzini non è, e non può essere il risultato della frode, dell’usura della fortuna. La proprietà deve avere un ben “più giusto fondamento, più onesta origine, il lavoro”. Nei Doveri dell’Uomo, lo stesso Mazzini ha scritto chiaramente che la proprietà “è il segno, la rappresentazione della quantità di lavoro, col quale l’individuo ha trasformato sviluppato accresciuto le forze produttrici della natura”. Essa dunque è il frutto di un lavoro compiuto, e siccome in una società fondata sulla eguaglianza tutti hanno dovere e diritto al lavoro, ne consegue che “la proprietà non può, né deve agglomerarsi nelle mani di pochi e tiranneggiare il lavoro”. “La proprietà, mutabile e trasformabile in virtù della legge di progresso, deve continuamente scindersi e frantumarsi così che torni accessibile a tutti, e tutti possano, meritando col lavoro, appropriarsela”.
Forse non è l’utopia pura, forse è il modello cui uno stato dovrebbe tendere, ma sappiamo bene, a distanza di 150 anni, che non è andata precisamente così. Questo Stato, in cui viviamo l’oggi, non tende mano ad innalzare il cittadino fino alla libertà. Non favoreggia, non stimola, non protegge le tendenze e le spontaneità collettive dei suoi cittadini. Non educa e, soprattutto, non rieduca i cittadini con carceri da paese incivile e che rendono, per la loro inumanità, 15 volte maggiore il tesso dei suicidi al loro interno. E’ uno stato che spesso “sparge locuste burocratiche” per non semplificare la vita dei suoi cittadini e per compromettere la vita stessa democratica scegliendo, per legge, la via partitocratica della nomina al posto dell’elezione, dell’insindacabilità e dell’inamovibilità invece della responsabilità. Proprio per questo, forse, ricordare oggi il pensiero di Giuseppe Mazzini, di uno di quei padri fondatori dell’Italia, della tanto festeggiata Unità d’Italia, non serve ad un suo tripudio storico ma può essere utile per sottolinearne la rivoluzione necessaria e il lungo cammino che non è ancora stato sufficiente a renderlo, questo Stato, davvero democratico. D’altronde, lo ricorda nei suoi scritti* il genovese, “tutte le rivoluzioni sono nella loro essenza sociali , che l’ordinamento politico è la forma e non altro dei mutamenti, e che non si ha diritto di chiamare i milioni al sacrificio della quiete e della vita, se non proponendo loro uno scopo di perfezionamento collettivo, di miglioramento morale comune a tutti.”
Ciò che Giuseppe Mazzini scriveva nel 1862 allo scrittore socialista spagnolo Ferdinando Garrido sul manifesto, che esisteva fra i democratici ed i socialisti spagnoli, noi, senza tema di errore, possiamo oggi ripeterlo e ricordarlo a tutti i democratici a proposito delle cause che tengono disuniti le diverse gradazioni del nostro partito. La sola differenza sta in questo che nel 1862 in Spagna il manifesto era fra pochi socialisti e tutto il partito repubblicano, mentre ora in Italia il dissidio è grande, perché il “partito radicale” è diviso in tatti piccoli gruppi, per quanti il progresso delle scienze sociali, l’attuale regime costituzionale, la miseria invadente ed in proporzione di questa, il malcontento, ne hanno formati. “Ai repubblicani, ai socialisti, agli anarchici, ai “comunardi” e via dicendo a tutti i radicali in generale”, noi ripetiamo, come ripeteva in quel foglio M. Florenzano, le parole di Giuseppe Mazzini: “Havvi un terreno comune abbastanza vasto perché vi possiamo stare tutti uniti. Per noi non esiste rivoluzione, che sia puramente politica. Ogni rivoluzione deve essere sociale, nel senso che sia suo scopo la realizzazione di un progresso decisivo sulle condizioni morali, intellettuali ed economiche della Società. E la necessità di questo progresso, essendo più urgente per le classi operaie, ad esse anzitutto devono essere rivolti i benefici della Rivoluzione. E neppure può esserci una rivoluzione puramente Sociale. La quistione politica, cioè a dire l’organizzazione del potere, in un senso favorevole al progresso morale, intellettuale ed economico del popolo, è tale che rende impossibile l’antagonismo della causa del progresso, è una condizione necessaria alla Rivoluzione Sociale. E’ necessario all’operaio la sua dignità di cittadino, ed è garanzia per la conquista della liberà. (…) Riuniamoci dunque, compatti sotto un vessillo comune, che dica: Libertà per tutti, Progresso per tutti. Associazione di tutti per poter perseguire il fine unico che tutti ci proponiamo”.
Per ciò ci piace brindare a questo X Marzo, pure noi, colle parole che in suo onore pronunciò Giuseppe Garibaldi a Londra, nel 1864, in casa del grande agitatore russo Herzen: “Bravo Mazzini che, mentre tutta Italia taceva, parlava di Patria agli italiani; quest’Uomo che, mentre Italia dormiva, vegliava, pensava e agiva; bravo al mio Maestro, il Maestro di noi tutti.” D’altronde i Farisei, per dirla alla Kaiser, gridarono la croce al cospiratore; ma “quando dai due emisferi i Popoli avranno imparato a conoscerlo”, lo chiameranno col suo vero nome e “saluteranno in Giuseppe Mazzini l’apostolo, che ci ha mostrato il cammino in un nuovo mondo”.

Share

“Avanti figliuoli, per la vittoria o la morte”.

In memoria di Antonino Scalfari, giornalista politico e uomo di grande cultura calabrese

di Giuseppe Candido e Filippo Curtosi


*A Nino Scalfari

Troppo alta la meta, troppo alta la stella

che a te folgorava dai celi profondi,

veemente il tumulto di giovani mondi,

creati da te, nell’anima bella.

*di Vincenzo Lo Preiato/ L‘Azione, Anno I n°5, Aprile 1921

Nelle prime ore del mattino del 28 marzo del 1921, si sparse in Città fulminea la notizia ferale che Nino Scalfari, il valoroso Soldato, il mutilato eroico, il professionista esimio, “avea cessato di vivere nella vicina Bivona”. Sono passati quasi novant’anni ma il suo esempio, l’esempio di un politico giornalista e di un uomo di cultura che combatte per la libertà e per la sua terra, può essere utile a noi calabresi che, da sempre, ricerchiamo il “riscatto” dalla nostra condizione subalterna. “La triste nuova corse di bocca in bocca e Monteleone tutta rimase scossa, incredula della sciagura e con la speranza viva che la notizia non fosse vera. Avvenne un vero pellegrinaggio”. Poi il trasporto della salma e l’annunzio ufficiale alla cittadinanza da parte dell’amministrazione Comunale di cui pure faceva parte per il bene del Paese.

NinoScalfari L'Azione
NinoScalfari L'Azione (A. I n°5 ed. straordinaria nel Trigesimo della morte di Antonino Scalafari"

Nel trigesimo dalla morte di Nino, il 27 di Aprile del 1921, lAzione, periodico “politico amministrativo del circondario” di Monteleone (oggi Vibo Valentia), una delle tante testate edite nei primi decenni del secolo trascorso in Calabria, pubblicava un intero numero monografico (A. I n°5), un’edizione straordinaria, interamente dedicata al ricordo dell’“eroico Scomparso” di cui tutti, oggi, conoscono il famoso nipote giornalista e a cui pure Gabriele d’Annunzio aveva porto l’omaggio estremo inviando, in gentil dono, un’ “aulente rosa”. Nell’editoriale della redazione si legge che quel dono illustre “Era il mistico omaggio de’ legionari audaci al glorioso fratello d’armi, quanto mai straziato dal voto – che non potea appagarsi – di essere ancora una volta dove il fiore dell’Italica giovinezza combatteva l’estrema battaglia dell’ideale patriottico”. “Oggi – si legge nell’editoriale – , trigesimo della scomparsa di Nino Scalfari, noi vorremmo vedere – come un giorno fu visto davanti alla fossa di Trento, sacrario di Cesare Battisti – il Poeta – soldato, le mani ornate di lauro e di quercia, chino e fremente dinnanzi alla tomba di Nino Scalfari, per interrogare lo spirito, per celebrare degnamente le gesta”. L’intero numero del periodico è dedicato al “Tenente volontario” che a 23 anni soltanto era stato ucciso raccogliendo, a Bosco Lancia, “le rose rosse di sangue” che fina da giovinetto precocemente maturo, “aveva sognato, leggendo i poeti del nostro “Riscatto”, come il più bell’ornamento della sua vita fervente”. Ma perché dedicare un intero numero, addirittura un’edizione straordinaria, per ricordare questo calabrese? A spiegarcelo è l’attenta lettura dello “speciale” del giornale su cui vennero pubblicati gli interventi a firma di numerosi personaggi dell’epoca che ne partecipavano il dolore per la scomparsa: l’avvocato N. Froggio, Sindaco di Monteleone, il Cav De Feo, sottoprefetto, l’avvocato Morabito per l’associazione Combattenti, il Dottor Romei per la massoneria e il Professor Cremona in rappresentanza del Regio Liceo di Filanderi presso il quale, Scalfari, aveva eseguito gli studi liceali prima di recarsi a Roma per conseguire la laurea in Giurisprudenza. Persino la solenne commemorazione al Consiglio Comunale che fu tenuta il 22 di aprile del 1921, a poco meno di un mese dalla morte, venne trascritta e pubblicata per ricordare degnamente la figura di “uno dei suoi migliori componenti scomparsi”. Un Consiglio Comunale, quello di Vibo Valentia, cui Nino Scalfari, con la sua cultura e la sua “operosa giovinezza”, avrebbe potuto certo apportare lustro. “Con la repentina e tragica scomparsa di Lui la Patria ha perduto un altro dei suoi figli diletti e devoti, che per essa sacrificarono entusiasti la loro giovane esistenza!”. Nato a Monteleone il 23 luglio del 1891, Antonino Scalfari, detto Nino, laureatosi in giurisprudenza non aveva mai trascurato le “belle lettere”, che aveva amato sin dai tempi del liceo dove, ben presto, aveva dato “prova di vivo ingegno e di una fierezza d’animo che costituì più tardi una delle doti precipue del suo temperamento”. A Roma aveva conosciuto uomini, studiosi e letterati come Lauro Adolfo De Bosis, eroico liberale, e “le grandezze delle glorie e delle memorie di Roma Eterna valsero negli anni di poi a purificare e innalzare sopra ogni altra passione del suo nobile cuore” che gli consentirono una molteplice e varia attività artistica. Importanti Riviste di cultura di Roma come “Sapientia”, “Il Soldato”, oltreché la “Rivista Calabrese”, quotidiani e periodici l’ebbero come collaboratore. Figlio d’arte poiché, per un periodo il padre Eugenio aveva diretto l’Avvenire Vibonese, nei cenni biografici pubblicati da l’Azione, si legge che Antonino fu non soltanto un bravo giornalista ma anche un “conferenziere colto e oratore simpatico sia che commemorasse Michele Morelli; o segnasse lucidamente i limiti dell’azione della Chiesa Cattolica; o infine in Consiglio Comunale difendesse gli interessi e i bisogni del Paese”.

Nino Scalfari
Nino Scalfari (Monteleone di Calabria 23 luglio 1891 - Bivona 28 marzo 1921)

A soli 19 anni, nel 1911, dopo aver letto “La canzone d’oltremare”, il carme di Gabriele d’Annuzio, lo commentava sul settimanale di Monteleone Iuvenilia con queste parole: “A leggerla, l’ode parrebbe mancante di forza, e si attende fino all’ultimo il punto saliente. In certo qual modo potrebbe essere vero; ma essa non è canto di guerra, è augurio dopo il compito fatto e l’opera compiuta. Il poeta vede la vittoria e la fine. Non abbiamo noi vinto? E chi? … Noi stessi!”. A soli 19 anni il discepolo ricercava il pensiero del Maestro scoprendolo in tutto il suo concetto profondo: “Diciamo pure, ora che i nostri, davanti a leoni pugnaron da uguali, ora che il sangue latino fu versato sulla terra alla quale l’Italia pur sorride benigna da lungi, noi abbiamo vinto noi stessi, la nostra diffidenza in noi e nei difensori nostri, e ci siamo svelati”.

Era nel fiore degli anni e nel “pieno vigore dell’ingegno quando una notte tragica e fatale il suo il suo Destino si volse alla morte!”. (…) “Cadde da combattente: grondante di sangue ma sereno e sorridente”. Per volontà unanime dei suoi concittadini il suo nome venne inciso sulla stele che ricorda ai posteri i caduti gloriosi così come si “incise indelebile, nell’animo di chi lo conobbe”.

Un giovane, “L’Esteta Scomparso”, secondo il ricordo di Pietro Buccarelli, cui addirittura Giulio Rodino, allora Ministro della Guerra, nell’aprile del ’21 rivolse il suo estremo e “referente saluto” con una lettera indirizzata all’“Illustrissimo Professroe Eugenio Scalfari”, padre di Antonino: “Ho appreso con vivo rincrescimento la notizia della morte del suo figliuolo Capitano invalido di guerra, e mi associo con sincero animo al suo dolore. Penso, nondimeno, che le verrà di conforto la certezza che questa giovane esistenza, già duramente provata nell’ultima guerra d’Italia, ed ora così immaturamente troncata nel suo fiorire, vivrà perenne nella storia dei figli d’Italia che col dono delle più pure energie seppero elevare il monumento grandioso delle nuove sorti della Patria. Alla memoria di questo valoroso suo figliuolo mando il mio reverente saluto”.

Nell’Orazione del Avv. Conte Alfredo Sacchetti pronunciata, durante commemorazione che si tenne il 10 aprile del ”21 nel Tempio della Loggia Vibonese con l’intervento della Loggia “Michele Morelli”, in memoria di Nino Scalfari e, pure questa, pubblicata da “l’Azione”, si leggono i principali tratti, tutti “radiosi”, che da soli potevano “rendere illustre anche una vita che avesse compiuto tutto il ciclo normale dell’umana esistenza”: il sentimento del dovere, del bene inteso patriottismo, dell’umanesimo più puro e più santo, erano “instillati nell’animo” di Antonino che, “Sotto la rigida, quanto amorevole, direzione del padre Eugenio, studiò e si distinse sempre, nel nostro ginnasio e liceo Filangeri”. Questo esempio può dunque risvegliare le coscienze, può servire alle giovani generazioni che spesso sono senza ideali, non credono in qualcosa. Serve per creare, per immaginare mondi migliori. Serve all’Italia e serve alla Calabria di oggi il ricordo di Nino Scalfari, un calabrese giornalista, un liberale, un patriota che con la cultura tenne alta la meta, la stella che, noi pure, dovremmo innalzare ai nostri orizzonti.

A Nino Scalfari*

Troppo alta la meta, troppo alta la stella

che a te folgorava dai celi profondi,

veemente il tumulto di giovani mondi,

creati da te, nell’anima bella.

L’Italia ti chiese il giovane sangue;

il giovane sangue le ha dato, e un’idea

soltanto, cadendo, nel cuor ti arridea:

la terra d’Italia più schiava non langue.

Il corpo stremato ai ferri che sanno

richiese un ristoro, ma i ferri han tradita

la sempre gemente, squassar la ferita:

pure l’aure del mare leniron l’affanno!

Ma l’anima intatta, intatta la mente

fisavan la meta, fisavan la stella,

e ancora il tumulto, ne l’anima bella,

dei mondi creati si fea più veemente.

E un giorno tremasti! Non erano impàri

le forze, pensavi, al fine agognato? …

Qual’è l’avvenire del corpo stremato

se cadono i sogni a l’anima cari? …

Or tutto rivive, or Cristo risurge;

dell’anima è Cristo l’immagine vera;

risurga quest’anima con Lui nella sfera

beata, ove pure lo spirito assurge.

Ahi Nino! E tua madre? Tua madre, la buona

dolente figura che vigile attende,

da Da saga, smarrita le braccia protende:

Ahi! Tetro lo scoppio dell’arma risuona.

* Vincenzo Lo Preiato, L’Azione, Anno I n°5, Aprile 1921

Share

Pannella a Catanzaro al Casalinuovo

Pannella e Curtosi
Pannella e Curtosi

“Solo con Callipo, in Calabria, si può fare una rivolta nonviolenta sociale, politica e morale”. Con queste parole Marco Pannella, storico leader dei radicali, ha confermato la sua presenza per la chiusura della campagna elettorale a Catanzaro con Pippo Callipo candidato presidente della Regione Calabria. L’appuntamento è all’auditorium Casalinuovo su via Pugliese a Catanzaro alle ore 18.00 di venerdì 26 marzo.

Il programma della giornata di Marco Pannella inizierà la mattina con una conferenza stampa e proseguirà con un incontro con i candidati della lista. Dopo il comizio, dalle ore 22, Pannella sarà ospite di Antonella Grippo alla trasmissione di perfidia. A breve vi daremo i dettagli degli orari della conferenza stampa.

Ecco i dettagli della giornata calabrese di Marco Pannela che, in un momento tanto importante per la campagna nel Lazio, ha deciso di concludere i comizi elettorali nella nostra terra calabrese:

Venerdì 26 Marzo chiusura della Campagna elettorale della lista Binino a Catanzaro con Pippo Callipo, Luigi De Magistris e Marco Pannella
Ore 18.00 presso Auditorium Casalinuovo (Via Pugliese – Catanazaro)
La mattina (ore 9.30) incontro con Pannella, Radicali e simpatizzanti alPopilia Country Resort a Maierato di Pizzo (vv) in c.da Cuda’. Alle ore 12.30 conferenza stampa di Pippo Callipo e l’On Pannella con la stampa calabrese. L’on.le Pannella concluderà la sua serata calabrese e la Campagna elettorale ospite della trsmissione Perfidia …
Giuseppe Candido
Share

Politica e informazione

di Giuseppe Candido

pubblicato su “Il Domani della Calabria” del 20 marzo 2010

Libertas e La Zanzara
Libertas e La Zanzara

Definire democratiche le prossime elezioni regionali è un eufemismo. Soprattutto se si considera un dato: soltanto 5 milioni di Italiani, rispetto ai 52 milioni di aventi diritto al voto, leggono almeno un quotidiano al giorno. Dopo l’approvazione da parte della Commissione parlamentare di vigilanza del regolamento della par conditio, la Rai ha addirittura inteso sospendere le trasmissioni di approfondimento: annozero, porta a porta, ballarò hanno lasciato il campo alle tribune politiche “truffa” mandate in onda il mattino alle 9 e 30, quando anche le casalinghe sono uscite per fare la spesa.

Il Regolamento della Commissione parlamentare di vigilanza obbligava la tv di stato, per la quale i cittadini pagano il canone, a trasmettere nelle ultime 4 settimane prima del voto, in condizioni di parità di spazi a tutti i partiti, conferenze stampa dei leader, messaggi autogestiti, tribune elettorali. Spazi che devono essere mandati in onda in fasce di ottimo ascolto, anche all’interno o in sostituzione delle trasmissioni di prima serata. In un editoriale di Valter Vecellio pubblicato su Notizie Radicali, il quotidiano telematico dei Radicali, vengono snocciolati i dati sulle presenze di partiti e leader nelle trasmissioni della tv di Stato: “Dalle elezioni europee di giugno al 23 febbraio 2010, sono andate in onda venti puntare di “Annozero” e ventun puntate di “Ballarò” che hanno visto la presenza di almeno un esponente politico. Il “pieno” l’ha fatto il PdL, con 49 presenze; segue il PD, con 32; l’Italia dei Valori con 12, la Lega con 10, l’UdC con quattro; due presenze i radicali e la Destra; una per Sinistra e Libertà. Nove presenze di Antonio Di Pietro; sette il leghista Roberto Castelli; sei il segretario del PD Pierluigi Bersani; poi il forzista di Comunione e Liberazione Maurizio Lupi e via via: Rosy Bindi, Nicolò Ghedini, Nicki Vendola, Luigi De Magistris, Roberto Cota. Le presenze radicali sono due, Emma Bonino tutte e due le volte. Marco Pannella mai…”. “I radicali”, specifica Vecellio, “contano una presenza ad “Annozero” e una presenza a “Ballarò”, per di più presenze imposte dalle varie authority, perché fosse stato per loro, probabilmente Emma Bonino non sarebbe stata chiamata neppure quelle due volte. Ad “Annozero” il PDL è stata invitata 18 volte; nove volte il PD, sette l’Italia dei Valori; quattro la Lega. A “Ballarò” il PdL è stata invitato 31 volte, il PD 23, la Lega sei; l’Italia dei Valori cinque. … “Dal 2003 a oggi il segretario della UIL Luigi Angeletti è stato invitato 24 volte; Renata Polverini 19; Guglielmo Epifani 17; Raffaele Bonanni 16. E già questi dati dicono molto. Ma c’è un fatto ancora più curioso: Angeletti viene chiamato sette volte nel 2006, otto volte nel 2007; poi tra il 2008 e il 2010 tre volte soltanto; praticamente viene sostituito dalla Polverini, che non viene mai invitata tra il 2003 e il 2006, poi dal 2007 al 2010 viene chiamata ben 19 volte. A dispetto di Epifani, che nello stesso periodo di tempo viene chiamato solo sei volte e Bonanni 13”. In Calabria si è risolto il problema dell’informazione con le suddette tribune in cui i programmi politici dei partiti e dei candidati in corsa per il parlamentino regionale sono stati cancellati a favore dei commenti sulle inchieste e sulle intercettazioni che hanno polarizzato, imbarbarendolo, il dibattito politico. La legge sull’informazione elettorale non è stata rispettata nella fase della pre-campagna elettorale, durante il mese che precede la campagna vera e propria, in cui il servizio pubblico televisivo avrebbe dovuto informare i cittadini sulla necessità, da parte dei partiti, di raccogliere le firme per la presentazione delle liste. Poi sono il caos sulle liste ha visto il caso del PDL rimasto escluso nel Lazio e quello dell’esclusione della Lista di Formigoni in Lomabardia poi riammessa, a fare notizia al posto dei programmi, delle proposte, delle idee. Le trasmissioni di approfondimento sono state sospese perché un regolamento, adottato da un’autorità deputata alla vigilanza del servizio pubblico radio televisivo, ha tentato di regolarne la discrezionalità degli inviti e delle presenze dei leader politici per cercare di riequilibrare, in parità di condizioni, l’informazione sulle varie forze in gioco. In Calabria possiamo soltanto notare che, tribune “truffa” a parte, il TG Regionale della Rai, cui è rimasta rilegata e delegata l’informazione politica, ha deciso di cancellare il candidato Pippo Callipo forse perché scomodo al regime della partitocrazia che nomina direttori e vertici della Rai. C’è da chiedersi se, in queste condizioni, sia ancora il caso di pagare il canone previsto dalla legge visto che, tanto, la legge sull’informazione non viene rispettata neanche dalla stessa Rai.

Share

Giuseppe Berto, Renato Castellani, il brigante

di Franco Vallone

Pubblicato su Calabria Ora il 18.03.2010

Castellani
Castellani

Giovedì 18 marzo 2010, alle ore 20,00, presso la Casa del Cinema di via Fiorentini a Catanzaro, per “Opera a sud” ancora un interessante incontro, curato dalla Cineteca della Calabria, con “La Calabria gli scrittori, il cinema” della stagione cinematografica 2009-2010 denominata “Mezzogiorno tra documentario etnografico e cinema antropologico”. Oggi è la volta di Giuseppe Berto e “Il brigante” di Renato Castellani. Molti, ancora oggi, a Tropea ricordano Castellani il regista che “camminava con Berto” perchè Castellani nella città “Perla del Tirreno” ha abitato per diversi anni. Lui, come Berto, era nato lontano dalla Calabria, in provincia di Savona a Finale Ligure, il 4 settembre 1913 e, fino a dodici anni, aveva vissuto in Argentina dove i genitori erano emigrati da tempo. Tornato a Milano, nel 1936 Castellani si laurea in architettura ed entra subito nel mondo del cinema. Il film “il brigante” è uno dei lavori più noti di Castellani ed è tratto dall’omonimo romanzo (del 1951) di Giuseppe Berto, scrittore nato a Mogliano Veneto, in provincia di Treviso, e vissuto prevalentemente in Calabria a Capo Vaticano, a due passi da Tropea. Il libro e il film, prodotti a distanza di dieci anni l’uno dall’altro, raccontano delle vicende di un contadino calabrese, un certo Michele Rende, noto agitatore politico per l’occupazione delle terre. Siamo nel periodo post bellico, occupazione dei latifondi, contadini in rivolta e accuse ingiuste al Rende, per omicidio. Al contadino agitatore, sotto la pressione delle forze dell’ordine, non rimane altro che darsi alla macchia. Come nelle più classiche storie di brigantaggio quando al personaggio gli uccidono la fidanzata il Rende scende in paese. Tratto, come dicevamo, da un romanzo di Berto, il film è realizzato sullo sfondo di un paesaggio tutto calabrese, solare e suggestivo. Il regista, un “grande dimenticato” come si definiva lo stesso Castellani, girò il film a Scandale, in provincia di Catanzaro (oggi provincia di Crotone), tra il mese di giugno del 1960 e l’aprile del 1961. A lavorazione ultimata il film originale era lunghissimo e durava ben tre ore e mezza. Successivamente il film fu tagliato più volte per varie esigenze. Il primo taglio, di circa 30 minuti, fu effettuato per poter presentare il film al Festival di Venezia, nell’agosto del 1961, poi il film fu tagliato ancora di un’ora prima che arrivasse nelle sale cinematografiche. Ancora oggi a Scandale qualcuno ricorda con amarezza l’uscita del film, “molti scandalesi avevano partecipato alla lavorazione come comparse, andarono a vederlo sia a Crotone che a Catanzaro, ma rimasero alquanto delusi nel constatare che erano state tagliate proprio le parti dove c’erano loro”. “Il brigante”, scriverà lo stesso Castellani, “l’ho girato in assoluta libertà, perché il produttore (Angelo Rizzoli) non mi ha posto limiti: sono stato undici mesi in Calabria e ho amministrato personalmente il film. Il Brigante è stato fatto nel 1960 ed è costato 98 milioni. Nelle scene dell’occupazione delle terre ci sono 600 comparse. Non farò più un’impresa del genere perché sono diventato matto. Ho girato 200 mila metri di pellicola, però avevo una troupe piccolissima, questa volta con il sonoro, con tutta gente presa sul posto. Quando è stato finito, il film ha fatto impressione, la gente stava li tre ore e mezzo per vederlo. Poi i distributori hanno cominciato con le loro richieste di tagli e anche Chiarini (direttore del Festival del Cinema) che lo voleva per Venezia mi ha chiesto di tagliarlo un po’. È andata via quasi un’ora e il film si è un po’ squilibrato”. Renato Castellani morì a Roma il 28 dicembre 1985.

Share