Archivi categoria: Autori

La sagra di Piscopio. “Sorrideva nell’azzurro la dolcezza maliosa”.

di Filippo Curtosi

Pubblicato su Calabria Letteraria (Anno LVII N°1-2-3 Genn./Febb./Mar. 2009)

Il giovane professore Ausonio Dobelli, mandato ad insegnare nel regio liceo di Monteleone di Calabria dove insegnava pure Luigi Bruzzano direttore della rivista di letteratura popolare “La Calabria”, scrisse una lettera ad un suo amico di Milano, per fargli sapere alcune usanze osservate nei paeselli calabresi e che Luigi Bruzzano, appassionato di tradizioni popolari della Calabria, pubblicò sulla sua Rivista di letteratura popolare. Con un linguaggio un po’ arcaico e forse per questo ancor più bella e trattandosi di una lettera che ci riguarda; che riguarda la vita popolare calabrese di un tempo, una lettera che come un affresco dipinge il paesaggio colorito della nostra terra, dell’abito locale, delle feste, crediamo anche noi sia quantomai opportuno pubblicarla sul nostro periodico a distanza di oltre centodieci anni.

Filippo Curtosi

Monteleone Calabro, 2-12-1899

Caro Edoardo,

…. E davvero, oltre alla radiosa lucidezza del cielo e del mare – azzurro sorridente nell’immenso sole – oltre alle vedute mirabili che l’altopiano ci affaccia ne’ pianori e ne’ poggi folti delle morbide selve degli ulivi, e ci apre nei lenti valloni rivestiti di orti e vigne e frutteti, di quanti altri spettacoli belli o nuovi l’osservatore più superficiale pasce la mia curiosità!

Nell’ultima mia, parlando degli usi comuni, m’impegnai pure di offrirti il disegno colorito dell’abito locale e degli abbigliamenti; in questa cercherò di radunare brevemente e disporre in quadretti (di quale efficacia poi?) le memorie di alcuni episodi, che mi occorsero nelle frequenti passeggiate.

M’è presente ancora, pallido, come traverso a un velo sottile, un incontro triste, di mattina.

La nebbia, tenuissima, vestiva del suo chiarore biancastro le nubi e le distese campagne alte ai fianchi dello stradale, che io, ravvolto accuratamente nel mantello umidiccio, ripercorrevo verso la città; da lungi si svelavano a amano a mano le due file dei tronchi neri e le informi oscurità delle fronde. Ad un tratto mi apparsero lontano delle bianchezze esigue, in moto vivace; poscia, in un ciaramellìo confuso che tremava nella fumana immota, vidi avvicinarsi, disposti in processione, due file di bimbi scalzi, ricoperti di un sottil camice bianco, chiacchieroni ed allegri; dietro loro, colla croce e l’aspersorio due sacerdoti precedevano un feretro breve poggiato sulle spalle di contadini, seguito da poche donne raccolte. Nulla, che non fosse comune, nel povero cofanetto nero distinto dalle linee gialle agli orli superiori degradanti in lunghezza sino al sommo, ove si drizzava un’argentea figurina alata dalle membra grassocce; ma ai lati della piccola bara quattro donne involte nell’ammasso dei loro cenci venivan portando sul capo le anfore funerarie: alla brace salivano le volute lente dell’incenso votivo.

Qualche altra volta già avevo udito le prefiche vocianti le loro nenie dietro al lungo velo della chioma, o bisticciarsi al ritorno dal campo santo, pei pochi soldi guadagnati di fresco, ma veramente solenne m’apparve allora l’ufficio silenzioso, cinto nel pallore ampio del cielo, al quale le bocche dall’urne esalavano la prece pallida dell’incenso.

Giunto a casa, non potei soffermarmi tra le pareti malinconiche, e , terminato appena il pranzo, con un buono amico discesi a un paesello vicino.

Vanite le nebbie, sorrideva nell’azzurro la dolcezza maliosa dell’auro pomeriggio autunnale, entrava a fiotti nelle viuzze la luce magnifica, disegnando nitidamente delle povere case e dei verdi alberelli diritti in ghirlanda nella piazzola. D’innanzi alla casa comunale s’agitava allegramente una frotta di ragazzi mal coperti da brandelli di giacche e di calzoni, in attesa dei confetti e degli sposi; noi, invitati gentilmente dal sindaco, salimmo in aula, ci affacciammo alla finestra. E alla svolta della via principale, ci apparve il breve corteo: un’iride.

Una decina di ragazze strette ai fianchi della sposa, seguite da poche donne e da tre o quattro contadini attornianti lo sposo s’avvicinavano lentamente: questo era il tutto, ma quale infinita varietà di tinte negli abiti adorni della festeggiata, e in quelli delle giovani amiche! I corsetti del color dell’indaco e della rosa, allacciati dinanzi da fettucce verdi, gialle, rosse, cilestrine, lasciavano trasparire agli orli superiori i ricami delle camicie candidissimi sui colli e sui polsi abbronzati; al basso confine delle strette maniche giravano due larghi e corti nastri, vermiglio l’uno e verde l’altro; lunghi orecchini d’oro pendevano ai lati delle larghe facce rotonde, e si aggiravano sui seni poderosi due o tre catenelle variamente intrecciate; le gonne, vergognose del solo azzurro (però di gradazioni infinite) o delle lunghe strisce grigie, si nascondevano sotto a grembiuli, ciascuno de’ quali era una festa, una miriade di tinte e sfumature: qua rosso, la turchino, più giù rosato, violaceo e che so io; lucevano a terra le scarpe, testimonio rarissimo di festa, gialle tutte e a bottoni, nuovissime alla sposa. Salirono, e dietro loro, in meraviglioso contrasto, le madri sotto la usuale tovaglia sporca, nel solito arruffio delle vesti stracciate, sui larghi piedi neri, ed i padri pure scalzi, colle camicie brune aperte sui petti bruni; più dietro e dovunque si strinse nella stanza la frotta seminuda e schifosetta dei ragazzi e delle bimbe, ammirando. Quindi, come la sposa ebbe ad occhi bassi buttato al sindaco il suo si , e questi lesse d’un fiato i precetti legali, lo sposo, tratta rapidamente di tasca la mano, gettò sull’ampio registro aperto sul tavolo un cartoccio di confetti gonfio, gualcito e sudicio; uno dei testimoni lo imitò, e la compagnia si sciolse in parte nella piazzetta, dove i fanciulli si rotolavano per terra vociando nella caccia di dolci, che piovevano dalle nostre mani aperte sul davanzale.

I Dimenticati
Foto estratta da "I Dimenticati" di Vittorio De Seta, su gentile concessione dell'autore

Pochi giorni dopo, mi fu dato di contemplare la sagra annuale dello stesso villaggio; nella processione confusa e sonora (alta saliva la laude a S. Nicola: lu grandissimu santu – che è celebratu pe tuttu lu mundu) avanzava il venerabile simulacro poggiato sopra un piedistallo di legno e su quattro spalle robuste. E vicino al santo era incastrata nel piedistallo stesso una pentola lignea, da cui parea stessero uscendo quattro rozze figure di bimbi ignudi: il miracolo maggiore del patrono, la salvazione stupenda degli innocenti immersi nel liquido bollente dalla ferina mano del padre. Avanzava l’immagine benigna nella via principale, e la lunga teoria de’ camici bianchi e de’ camici rossi cogli stendardi e le candele precedeva lentamente; dai volti rugosi, dai capelli secchi attorno alle vene sporgenti scendevano colle barbe grigie e biancastre i cordoni variopinti, terminanti in nodi, in fiocchi, in pennelli di mille colori; dietro al santo passavano mimetizzandosi le ragazze strette nell’abito festivo, sotto le tovaglie nuove bianche e ricamate agli orli, o di seta nera per alcun lutto recente, quali ben calzate, quali scalze, quali colle scarpe gialle luccicanti sulla pelle oscura del piede; quindi venivano le donne un po’ meno sucide del solito, e gli uomini nei brevi giubbetti e nei più brevi calzoni di velluto nero-azzurrino, colle mutande ancheggianti dal ginocchio sino a terra. Ma negli sbocchi numerosi dei vicoletti le compagne sostavano, solo l’effige benedetta varcava ogni mucchio di letame suino, ogni larga fossa di fango e d’immondizia, lustrato ogni angolo del paese, e da ogni angolo uscivano donne colle offerte esigue della povertà, sbucavano uomini scamiciati, curvi sotto sacchi di granturco, saltavan fuori ragazzi quasi nudi, quasi neri, con ceste di frutta sul capo: tutti attorniavano il santo, entravano confusamente nella processione.

E la sagra di Piscopio? Ah veramente qui m’ invase una meraviglia grande. Una devozione illimitata avvince questo paese all’altare dell’arcangelo trionfatore, ogni madre impone ad uno almeno dei propri nati il nome di Michele; tutti, alla ricorrenza festiva, gareggiano nelle offerte, e con tanto ardore, quale mi trasparì nelle parole di uno de’ più miseri fra loro: << La festa costò 7000 lire, ma fu eclatante, e , del resto, dovessimo torci di bocca il pane, a S. Michele bisogna rendere onore >>. E furono davvero due giorni di bagliori e di giocondo frastuono.

Disceso al villaggio, nel nitido pomeriggio della vigilia, attraversata la doppia fila degli assiti pronti per le girandole e per glia altri fuochi artificiali, m’ apparve tra le prime case il ballonzolo dei cammelli. Lo zampognaro sonava a perdifiato; ne seguiva il tempo con salti e dondoli un uomo invisibile dietro a una gualdrappa di stracci, sotto una macchina commessa d’assi e di travicelli, che nella coperta di cartone colorito somigliava poco al corpo di un cavallo; questo era il primo cammello, e vicino a lui saltellava sfrenatamente il secondo: un ragazzotto robusto, serio in volto e grave, chiuso dal petto all’ingiù in un ordigno di legno e cenci simile al primo. Doveva forse rappresentare per la piccolezza e per la rapidità dei movimenti il baldo nato dall’animale maggiore, si che talora, a qualche frase più lenta e rotonda della zampogna, si permetteva di girare attorno al genitore; il quale, dal canto suo, spinto dall’affetto paterno s’apprestava talvolta, dondolando sempre, al piccino, e , separate da un tratto di spago le mascelle, fingeva di lambirlo. Ma allora questi d’un balzo s’allontanava , e riprendeva per conto suo il trotto e il volteggio fra le risa di tutti e gli urli e le provocazioni inascoltate dei bimbi dal calzone spaccato, delle bimbe involte nella camiciuola sporca. Levando gli occhi, sfilavano ai due lati della via i pali dritti per l’illuminazione, già tutti rivestiti in varia forma de’ bicchierini variopinti, e le bacheche colme di paste, di figurine dolci colorite, di candele corte e sottili; ma dove la contrada allargandosi concedeva appena lo spazio necessario, una grossa impalcatura di legno rotondeggiava cinta di verzura e di rami ornati di fronde e di lumicini: di qui doveano il domani allargarsi pel paese tutto pei campi agli accordi e i disaccordi delle musiche e delle fanfare.

Grosso, liscio, altissimo si drizzava l’albero della cuccagna.

Entrai nella chiesa, già pomposamente addobbata, in compagnia d’una giovenca grigia, che veniva a ringraziare in persona il santo per la guarigione: la trasse all’altare con una grossa corda il contadino, quindi, porta l’offerta votata, se ne andarono benedetti. Solo lucevano nell’ombra densa sette od otto candele assai lunghe e grosse nelle mani di alcune figure femminee, che, mi si disse, doveano per voto attardar digiune, inginocchiate nel banco, sino alla consumazione della cera. Occorrevano certo tutte le ore notturne; spaventato, sbirciai il gruppetto delle devote, ed ammirandole di tutto cuore, mi incamminai a lunghi passi verso il pranzetto che m’attendeva a Monteleone. E il domani ripercorsi la strada.

Le ore antimeridiane passarono lente e quasi chete, assorte nelle cerimonie in chiesa e nella aspettativa della processione; ma allorché questa simile ad una lunga iride, preceduta dalla musica, si stese e serpeggiò per le viuzze – di tra le fronde festive dense attorno ai pali la indorava il polverio luminoso dei raggi solari – la meraviglia, la commozione, l’ansia e la gioia dell’evento proruppero irresistibilmente nella gazzarra dei bimbi, nell’allegro vocio delle donne, nel gesticolare spensierato degli uomini, che si additavano a vicenda, con una certa ammirazione soddisfatta, la spada di S. Michele. E lampeggiando il sole nelle labbra d’argento, l’arcangelo adesso pareva sorridere lieto dei numerosi biglietti da una, da due, da cinque, da dieci e fin anche di venticinque lire, che dei fili quasi invisibili di rete, legavano all’arma vittoriosa ( a me sovveniva de’ pellegrinaggi, che pochi mesi fa ho visto giungere e allungarsi nelle vie della storica Empoli, alla venerazione di un crocifisso miracoloso, e rivedeva le croci vestite da carte-valuta o disegnate con monete d’argento, che si stagliavano alte fra i pellegrini ).

Dopo uscirono in piazza, ballando a suon di musica sino a sera, il gigante e la gigantessa: due macchine alte e grosse, mal ricoperte di vestiti in forma d’uomo e di donna, e comparve infine, fra le risate degli accorrenti, la tavola dei fantocci. La portava sul dorso, avanzando a suon di zampogna un villano nascosto dietro al sudicio panneggiamento che scendeva dall’orlo sino al suolo; le due marionette alte un cubito, vestite l’una da giovinotto, l’altra da sposa si rizzavano immote; ma, quando ad ogni bivio lo zampognaro e il piffero si piantavano fermi sulle gambe aperte, la tavola poggiava sui quattro piedi, il burattinaio sempre invisibile si sedeva per terra, e, tirando o allentando gli spaghi, faceva sgambettare la coppia innamorata. Il fantoccio virile muoveva le flaccide gambe, e danzando s’inginocchiava dinnanzi alla bella, quindi con gesti bruschi pareva volesse esprimerle l’intenso ardore del suo affetto; ella, pur ballando, dichiarava il volto ridente ed allargava le braccia, ma poi, ritrattale, col moto rigido della spinta in avanti lo respingeva. Egli nella danza rizzavasi e si volgean le spalle, ma poi ritornava all’assalto, e, fatto fatto più ardito da un’accoglienza migliore, alzata d’un tratto la mano, a scatti la muoveva carezzando su e giù per le forme femminili: e qui succedeva davvero la tragedia, giacché la bella, offesa nel pudore, rispondeva botta per carezza, calcitrando, ossia buttando innanzi una gamba ad intervalli regolari, fino a che il maschio, stanco di prenderne, rompeva ogni tempo, e si sfogava con una tempesta di schiaffi e di scappellotti all’addolorata sempre ridente. E dalle bocche di tutti intorno sgorgavan le risate sincere, irrefrenabili, sonore come una grande corrente di gioia, mentre agli orecchi ormai avvezzi batteva quasi inascoltato il monotono ronzare della zampogna instancata. Più innanzi verso la chiesa, si danzava qua e là: erano soltanto giovinotti, che a die a due guidati da un organetto, muovevano a scatti, a giri saltando o piroettando, le gambe cinte dal velluto azzurrino, e s’incurvavano, guardandosi curiosamente le flessioni del ginocchio e si giravano intorno; ad un tratto un terzo si frammetteva, e, levato il berretto, fissava uno dei primi, questi cessava immediatamente, e la coppia, rinnovata in parte proseguiva la gara. Le vecchie li ammiravano, le ragazze alla finestra fingevano di non guardarli, qualche nonno, toltosi di capo il berretto verdastro, lunghissimo, vi frugava sino al fondo, ne traeva il cartoccio del tabacco, caricava tranquillamente la pipa.

Alle cinque di sera la chiesa s’era quasi empita di gente per la cerimonia grande, ed io vi entrai in mezzo ad una compagnia d’ampli toraci e d’ottoni, che, per mio meglio, si fermarono in fondo. Meraviglioso spettacolo! L’umile chiesetta era scomparsa, travestita sfarzosamente da teatro. Dietro l’altare modesto scendeva dal soffitto un ampio e greve manto di color rosso cupo, tondeggiante nei molli seni, nelle spesse concavità, e s’aggirava ai lati del vano intero, appoggiandosi alle colonne, ove si raccoglieva in addobbi gonfi, a guisa di quinte. Innumerevoli candele disposte in tre file sull’altare e a’ suoi fianchi schiarivano i fiori e gli ornamenti nuovi, ma sul primo cornicione sporgente lungo tutte le pareti dell’aula all’altezza di quattro uomini correva una fitta linea di ceri, coi lucignoli congiunti da un filo impeciato di resina. Infiammato questo in vari punti, la luce percorse rapida il giro, e piovve copiosamente dall’alto sui corpi e sui volti accesi nel rosso cupo uniforme; non bastando, s’ apersero alcuni becchi di gas acetilene e il calore cominciò a farsi insopportabile. Chi può ritrarre l’orgoglio soddisfatto, che traspariva calmo, sicuro dalle faccie di quei poveri contadini ? E l’ammirazione ineffabile delle donne sporche e stracciate, a bocca larga, ad occhi fissi, mentre al gonfio seno scoperto succhiava l’ultimo bambolone ? Ed anche il bestiame minuto dei bimbi nudi e seminudi s’era chetato … ma ad un tratto scrosciano nell’ambiente sonoro le prime battute della marcia reale e sullo sfondo appaiono dei cartelloni quadrati, mossi in leggero dondolio da una corda maneggiata dietro l’addobbo. Sui quadrati si disegnano dei busti spaventosi: gli angeli ribelli, e degli ammassi oscuri: le nuvole; da entro le quinte si proietta su loro i riflesso infernale dei bengala vermigli, ed ecco nell’orrida scena apparire in cartone intagliato la figura dell’arcangelo irradiata da bengala azzurri, minacciosa, brandente la spada. Il cozzo antico si rinnova brevemente fra i suoni italiani, e i demoni si sbandano nella rotta confusa, colle nubi, mentre un secondo S. Michele, quieto, glorioso succede al primo, nello splendore aureo di Paradiso. E gli uomini e le donne e i ragazzi si agitano nell’ammirazione irrefrenata, la marcia reale invade ormai fiocamente la chiesa rumorosa, il frastuono e il calore mi spingono al di fuori: eccomi uscito, al buio, sotto la immensa pace del cielo tempestato di stelle. Proseguo.

La cuccagna è già vinta, le osterie riboccano di gente intenta alle salsicce, pochi uomini discorrono attorno ad una fanfara disposta sulla impalcatura della piazza maggiore. Ma allora corrono gli accenditori: in breve glia angoli più riposti s’aprono alla luce variopinta e la piazza fiammeggia; ecco apparire da lungi una carrozza, nella quale brillano i bottoni di un ufficiale dell’esercito, il messo comunale, acceso di zelo, rianima il patriottismo della fanfara, risuona la marcia reale, il paese si riversa nelle vie. Stordito prendo la via del ritorno, ma il transito è impossibile, troppo folta è la turba intesa ad ammirare i fuochi artificiali che drizzano al cielo due pirotecnici in gara.

E quando, spentosi l’ultimo razzo, spero di incamminarmi nella quiete, un’ondata di gente mi rapisce, mi trascina: è la fiaccolata in onore dell’angelo una lunga fila di giovani con torce fumigginose che corrono attossicando le vie sino alla chiesa; di là soltanto posso, se Dio vuole, dilungarmi nella campagna oscura, silenziosa … .

Ausonio Dobelli

Share

Rosarno e dintorni

di Francesco Santopolo

Agrumeti di Rosarno
Agrumeti di Rosarno – Foto wikimedia

È successo non per caso. Nel 2008 a Rosarno e Castel Volturno. Ancora a Rosarno, nei primi giorni del 2010. L’Africa ha detto no alla criminalità organizzata che vuole prendersi le vite dei migranti, dopo essersi presa le nostre, anche se fingiamo di non essercene accorti, nascosti dietro la nostra ingorda indifferenza.

La “grande magia degli immigrati- l’ha definita Roberto Saviano (Nigrizia, 9/09)-” che “arrivano disperati, accettano assurde condizioni di lavoro …” Poi accade che le organizzazioni criminali tolgano loro ciò per cui hanno lottato fino in fondo: cioè la vita, il lavoro, il respiro, la possibilità di avere una famiglia. Quando questo accade, l’intera comunità africana si ribella” (ibidem).

È stato così anche a Rosarno? Certo, e lo dice con chiarezza un corsivo di Montecristo (Calabria Ora, 9 gennaio) dal titolo significativo, “Se gli stranieri si ribellano alle ‘ndrine”. Certo se il patriarca della famiglia Pesce è stato “costretto a sparare col fucile da caccia per disperdere gli assedianti” (ibidem). E perché con un fucile da caccia? Probabilmente perché in Calabria, per un pregiudicato, è meno complicato avere la licenza di caccia che il porto d’armi.

Certo, se è stato fermato, per colluttazione con le forze dell’ordine, Antonio Bellocco figlio dell’ergastolano Giuseppe, capo ‘ndrina di riferimento (F. Altomone, Calabria Ora, 9 gennaio).

Ovviamente, qualcuno che si addormenta imbecille e si sveglia ministro, ha trovato la forza di puntare il dito sulla “eccessiva tolleranza”, senza chiarire verso chi o che cosa.

Probabilmente è vero. In Italia c’è molta tolleranza. Non certo per i disperati che viaggiano sui gommoni ma sicuramente per i grandi operatori delle mafie di ogni genere che usano mezzi di trasporto più confortevoli, alloggiano in alberghi di lusso e si muovono con disinvoltura in abiti griffati.

Ma dove vive un ministro che non sa, o finge di non sapere, che l’Africa è diventato il crocevia della droga? che dalla Nigeria passa anche la droga afagana e che i maggiori referenti di questo traffico sono italiani e spagnoli? Allora, se come ha dichiarato il ministro Sacconi, l’obiettivo prioritario dell’azione di governo deve essere quello di bonificare tutte le sacche di illegalità, è proprio vero che queste sacche si annidano tra i derelitti di Rosarno o di Castel Volturno o invece occorrerebbe verificare i movimenti di molti colletti bianchi da e per l’Africa?

Tuttavia, un ragionamento sui fatti di Rosarno, a partire dalla cronaca che ha fornito molti elementi di riflessione sugli aspetti più beceri del comportamento umano nell’era della globalizzazione delle merci e del lavoro, non è, per molte ragioni, il nostro intento.

Il ricorso alle categorie di schiavismo e razzismo, per spiegare fenomeni complessi, significherebbe voler confondere gli effetti con le cause e legittimare una menzogna riduzionista nel tentativo di riportare la faccenda ad un problema di xenofobia.

Non c‘entra il razzismo, del tutto estraneo alla popolazione della Piana.

C’entra sicuramente lo schiavismo, come forma estrema di sfruttamento della forza- lavoro ma da analizzare in tutte le forme in cui si manifesta, e non solo a Rosarno.

Ci interessa molto di più capire il contesto che fa da sfondo al conflitto e la lezione di civiltà che ci viene da popolazioni non garantite, come le comunità africane schiavizzate in Terra di Lavoro, nella Capitanata e, con buona pace dei benpensanti, nella Calabria Ultra.

Lo facciamo partendo da alcune domande.

Per esempio, cosa ha reso possibile che un’area come la Piana diGioia Tauro, fino a fine ‘800 una delle più ricche e sviluppate del Mezzogiorno, diventasse, a partire dalla seconda metà del ‘900, un’area dominata dal potere criminale e da un sistema politico ad esso strutturalmente e reciprocamente funzionale? E, soprattutto, quali sono stati i processi di mediazione economica che hanno consentito che si formasse un reticolo culturale che avvolge tutto il sistema?

Come è potuto succedere che in un’area in cui nella seconda metà del ‘700 furono introdotte tecnologie avanzate come i frantoi “alla genovese”, la ruota della storia abbia iniziato a girare al contrario, fino ai livelli di degrado che i media ci hanno mostrato ripetutamente?

Per descrivere il contesto in cui sono maturati gli eventi, è necessario ricostruire i circuiti economici, vecchi e nuovi, di un sistema in cui la ‘ndrangheta ha cessato di essere un potere “separato”, per trasformarsi in sistema di governo del territorio. Garanti l’assenza dello stato e, talvolta, la collusione del suo apparato politico e amministrativo.

L’economia criminale nell’ultimo secolo è cresciuta attorno alle più disparate attività illecite come l’industria dei sequestri, il commercio e la distribuzione della droga, il controllo sugli appalti pubblici, il pizzo, ecc.

All’interno dei circuiti economici tradizionali, la ‘ndrangheta ha svolto un ruolo di mediazione nella circolazione della ricchezza, attrezzata a cogliere tutte le opportunità.

Ma quando, a partire dalla seconda metà del ‘900, è stato avviato il regime di aiuti alle produzioni agricole che, in una prima fase, ha interessato esclusivamente l’olio, poi si è esteso ad altre produzioni come il grano, le colture foraggere, gli allevamenti e l’ortofrutta, si apriva uno scenario nuovo e nuove opportunità per la ‘ndrangheta: mediare sui flussi finanziari europei, coinvolgendo nel processo figure sociali .apparentemente fuori da una logica criminale.

Nel nostro lessico sono entrate parole magiche come “integrazione” e “industria” che, nel linguaggio mafioso, si sono trasformate in una sola parola altrettanto magica:opportunità.

Se riflettiamo sul fatto che lo sfondo in cui è maturata l’introduzione selvaggia e senza controllo di mano d’opera africana e il controllo della ‘ndrangheta sul mercato degli agrumi, potremmo cominciare a costruire una quadro di riferimento e individuare gli interessi in campo e le ragioni di un conflitto.

Riflettendo sul comparto agrumicolo, in particolare le arance che ne rappresentano il segmento più importante, possiamo verificare che tra il 1985 e il 2006 la superficie in Italia è aumentata del 5% ma, cumulando le esportazioni di arance allo stato fresco con quelle sotto forma di succhi, espresse in equivalenti di prodotto fresco, nell’ultimo quindicennio si è registrato un incremento produttivo del 93% circa e l’export è passato da 280 mila tonnellate a 540 mila.

Nello stesso periodo l’esportazione dei succhi, per i quali è previsto il contributo europeo, è passata dal 40% del 1976 all’attuale 73,5% ma, la flessione in valore dell’11%, dovrebbe induirci a riflettere su un trend economico smentito dai numeri.

Il problema è che il mercato delle arance è drogato dall’intervento europeo per il prodotto destinato all’industria e questo ha innescato meccanismi nuovi e nuovi spazi di mediazione mafiosa. Per inserirsi in questa nuova opportunità di mediazione economica, la ‘ndrangheta ha dovuto cercare nuove alleanze e nuove forme di mediazione, visto che la conditio sine qua non per accedere ai flussi finanziari europei è il possesso e il controllo sulle superfici.

Quante sono le associazioni di produttori interessate? Quante sono quelle direttamente controllate dalla ‘ndrangheta? Quali forme ha assunto la nuova alleanza con i “galantuomini” che partecipano direttamente al business o ne hanno ceduto i diritti con contratti di affitto?

In definitiva, è proprio necessario raccogliere le arance o è sufficiente “sistemare” i conti utilizzando i parametri produttivi?

Nello scenario di un’agricoltura avvitata sul sostegno alle produzioni, Rosarno è un episodio tra i tanti. Il pomodoro da industria in Terra di Lavoro o in Capitanata, sono altri potenti scenari di questa tragica rappresentazione che a Rosarno ha toccato i livelli più bassi.

Naturalmente la Calabria non è solo Rosarno. Riace e Badolato, per esempio, rappresentano un segno tangibile di come si possa gestire con spirito di solidarietà e accoglienza un problema che, in tempi moderni, ha assunto proporzioni apocalittiche.

Ma dimostrano anche che ci sono cose che il potere locale potrebbe fare, se solo lo volesse.

Ora molti africani sono stati allontanati dalla Calabria, forse ritorneranno per dire no, ancora una volta, alla ‘ndrangheta. Noi potremo continuare a guardare da un’altra parte e forse non ci accorgeremo mai che senza i nostri fratelli africani siamo diventati più poveri.

Forse, questa magia potrebbe verificarsi quando la nostra povertà si sarà trasformata in miseria.

Share

Carnovalaccio: tra il sacro e il profano

Il fantoccio di Carnevale e l’antica tradizione carnascialesca in Calabria

di Franco Vallone

Un’antica tradizione popolare carnascialesca si rappresenta, in quasi tutto il territorio calabrese, e prevede la costruzione di un fantoccio, dalle sembianze umane, di un personaggio chiamato “Carnalavari” o “Vicenzuni”. Perché Carnevale, nella tradizione popolare, si chiamava proprio Vincenzo. Ed ecco cosa si scriveva nel 1598 nell’Avviso a certi curati contra uno abuso del principio della Quaresima. “…intendiamo che tuttavia per coteste parti, non ostante altri nostri avisi, nel principio della Quaresima et anche nelle Domeniche di essa, si commettono varii inconvenienti ancora in luoghi sacri sotto nome di Carnovalaccio, con abbrucciare certe immagini, publicare matrimonii finti e commettere altri disordini e dissoluzioni e far mangiamenti publici et empire ogni luogo di gridi e fatti licenciosi: cosa che risulta in onta et ingiuria del santo tempo quadragesimale e de’ luoghi sacri et in poco rispetto del sacramento del matrimonio et anche in disgusto di molti (…)” e qualche anno dopo nel 1606 si parla di “allegrezze vane, piaceri disordinati, mere pazzie, miscugli d’uomini e donne disposti a’ piaceri sensuali, ornamenti eccessivi, riscaldamento di cibi, incitamento di suoni, conversazione oziosa, libertà di mascara, movimenti lascivi, saltazioni e danze licenziose, balli, conviti, giuochi, trattenimenti oziosi e vani..” Un fantoccio antropomorfo riempito di paglia, con pantaloni, giacca e coppola scura, mani ricavate da guanti da cucina riempite di segatura.

Dalla bocca, e da sotto la giacca di Carnalavari, escono fuori salcicce, polpette e lardo, mentre in una mano Vicenzuni stringe un fiasco di vino rosso. Il fantoccio viene portato in processione su una specie di barella. Dietro il corteo seguono maschere di tutti i tipi ed in particolare uomini, donne e bambini vestiti da prete e chierichetti, da infermiere, da medico e da notaio ma anche da baroni, conti e gli altri antichi nobili del paese. In prima fila, dietro il finto feretro, la sorella – moglie – vedova di Carnevale, denominata Corajisima (Quaresima). Altre maschere, che seguono la mesta-allegra processione – funerale, vestono abiti militari, di soldato o Carabiniere, ma anche da marinaio o da aviere. Ad un certo punto della rappresentazione il Carnalavari si sente male! ha mangiato troppe polpette, salcicce e lardo, ha bevuto troppo vino rosso, ha fatto una grande indigestione. Il medico lo visita scrupolosamente e a questo punto decide di operare subito con una grande sega da falegname. Dalle viscere del povero carnevale morente vengono tirate fuori varie reste di salcicce e centinaia di polpette e salumi vari. Con un bottiglione di vino rosso e un tubo di gomma viene costruita una gigantesca flebo utilizzata per cercare di salvare l’ammalato che si aggrava a vista d’occhio, sempre di più. A sera la farsa si conclude con il testamento e la morte di Carnevale che viene, ancora una volta, portato in processione, seguito da Coraisima che, affranta dal dolore, piange e si dispera, e da un’allegra banda di suonatori di pipita e zampogna, tamburelli e pifferi che rendono il clima permeato di follia. Alcune volte a seguire il corteo è la banda del paese che suona le marce funebri, utilizzate di solito il Venerdì Santo, alternandole con pezzi jazz e motivi decisamente molto più allegri. Il rumoroso corteo prosegue, tra le urla dei presenti, fino ad uno spiazzo isolato, alla fine del paese. Qui il carnalavari viene adagiato a terra, cosparso di benzina, alcol o petrolio, e incendiato in un falò purificatore tra i pianti delle prefiche ciangiuline e tra scompisciate risate dei presenti. Molti degli accompagnatori, in questa occasione, ballano tarantelle, tipica espressione popolare dove, con gesti di imitazione ben ritualizzati che rientrano nella sfera magica, si recupera il tempo e lo spazio speciale del chiudersi nel cerchio sacrale che è, a sua volta, elemento tipico degli scongiuri e dell’evocazione magica. Tarantelle dalle gestualità antiche del contendere lo spazio magico conquistato, un conflitto non risolto all’interno dello spazio conteso.

È carnevale, è il tempo straordinario dove tutto è possibile, dove tutto viene ribaltato e capovolto di significato e significante. I poveri diventano ricchi, i maschi diventano femmine e, almeno per un giorno, la trasgressione prende il sopravvento sulla normalità del quotidiano.

Share

Istituito nel 1923 chiude l’ufficio postale di San Costantino di Briatico

Intervista all’assessore comunale alla cultura, Agostino Vallone, sulla chiusura dell’Ufficio Postale di San Costantino di Briatico

di Franco Vallone

Assessore Agostino Vallone, dopo quanto chiude la Posta di San Costantino…

Dopo ben 87 anni cala il sipario, anzi la serranda, su un altro ufficio postale storico della provincia di Vibo Valentia. L’ufficio di San Costantino di Briatico è stato uno dei più longevi della provincia di Vibo Valentia se non dell’intera Calabria. Istituito infatti nel 1923 serviva una utenza che apparteneva non solo alla più popolosa frazione di Briatico, ma anche a Potenzoni, a Mandaradoni e, anche se per un periodo di tempo limitato, perfino al Comune di Zungri: è ancora vivo tra la popolazione il ricordo del “postale” che si fermava a San Costantino per scaricare i sacchi della posta. Purtroppo, oggi, sotto i colpi della scure della legge del profitto e della speculazione economica, Poste Italiane ha abbattuto l’ultimo baluardo nella frazione di San Costantino. I “rami secchi” sono stati recisi con prevaricazione del relativismo e capitalismo estremo sull’aspetto sociale.

Possibile che non esista altro modo per risolvere determinati problemi se non quello economico? E poi, come si può considerare “ramo secco” una intera popolazione di pensionati?

Un anziano ormai di per sé stesso si sente un peso per la società, una nullità, un ente inutile e non autosufficiente, con questa azione gli è stata negata l’ultima possibilità di sentirsi ancora vivo: andare da solo a riscuotere la sua pensione, un momento di grande orgoglio personale quasi di rivalsa nei confronti di una società sempre meno solidale e più egoista. Egli non lo potrà più fare, anzi dovrà subire una ulteriore umiliazione: delegare qualcun altro a ritirare a posto suo il frutto di una vita di lavoro. Tutto relativamente facile per chi ha un familiare o comunque una persona amica disposta a recarsi a cinque, otto o dodici chilometri di distanza per fare ore ed ore di fila per giungere al cospetto dell’unico operatore dell’ufficio centrale che non è stato potenziato.

La logica quindi è: il fine giustifica i mezzi. Non importa se si procurano disagi logistici, fisici o psicologici a chicchessia.

Da più parti si predica, a mio avviso ipocritamente, che gli anziani sono una risorsa per la società e i custodi del ricco patrimonio di quella cultura locale che stenta a decollare ed essere recuperata. Gli anziani sono coloro che tengono vive le nostre tradizioni e mentre alcuni si impegnano per realizzare centri di aggregazione sociale come delle vere scuole per la trasmissione di valori umani, sociali e culturali alle future generazioni, altri considerano gli anziani “rami secchi” da tagliare a tutti i costi. Si vive così in una continua snervante conflittualità che alla fine porta alla resa di essi e alla completa emarginazione e all’isolamento degli anziani stessi. La logica dei “rami secchi” non riguarda soltanto Poste Italiane, ma anche ferrovie, stazioni ferroviarie, corse di pullman, ospedali, ambulatori medici, guardie mediche, forni, paninoteche, addirittura oratori e chiese…

I riflessi sociali di questi tagli sono devastanti nei piccoli centri….

È bastata la chiusura dell’unica paninoteca esistente a San Costantino di Briatico per creare panico e disorientare la popolazione giovanile rimasta in paese. La sera, ma soprattutto il sabato sera, questi giovani non hanno più un punto di riferimento per cui si recano in automobile nelle cittadine vicine con tutti i pericoli che questo comporta e le ore insonne dei genitori. La presenza dell’ufficio postale in paese era paradossalmente un punto di riferimento, una importante stazione di ritrovo sociale dove ci si incontrava per socializzare, per confrontare le proprie idee con quelle degli altri, per ricevere o dare informazioni, dove si faceva a gara per “coccolare” “l’Ufficiale Postale” offrendogli tazzine di caffè, uova fresche, o i frutti della terra di una popolazione di cultura contadina. Grazie a Poste Italiane questo non sarà più possibile, anzi è probabile che si assista ad un fenomeno di emigrazione degli anziani verso centri più popolosi con conseguente desertificazione dei paesi come se non bastasse l’enorme jatus generazionale dovuto alla emigrazione degli studenti e delle popolazioni giovanili in cerca di lavoro.

Vuole rivolgere un appello da queste pagine?

Si, rivolgo un accorato appello a tutte le associazioni, a tutti i cittadini e a tutte quelle persone che sentono proprio questo problema: reagite, lottate e protestate civilmente con me contro Poste Italiane affinché sia ripristinato il servizio postale a San Costantino di Briatico; rivolgo un altrettanto accorato appello a Poste Italiane: ridateci il nostro ufficio postale, il nostro angolo di vita; i locali ci sono. Non lasciateci agonizzare lentamente: sarebbe meglio una deportazione di massa verso città del Nord o meglio verso le città fredde del Nord Europa anziché rimanere nell’ipocrisia; penso che non sia difficile trovare posto a meno di due milioni di persone, tanti sono gli abitanti della Calabria.


Share

In prima linea

di Giuseppe Candido

Giorgio Napolitano - Wiki

Bisogna che sia chiaro che la Calabria è in prima linea nella lotta contro la criminalità, è in prima linea per la sicurezza e per la libertà del nostro Paese, e tutti, lo Stato nazionale, le sue istituzioni le sue forze, dobbiamo tutti essere in prima linea con la Calabria”.

I fatti di Rosarno dove “non si è saputo prevenire”, l’integrazione e la ‘ndrangheta che dà dimostrazione di forza. Dopo quanto accaduto dall’inizio dell’anno Giorgio Napolitano è a Reggio Calabria ed ha incontrato tutte le istituzioni, un vertice coi Magistrati, l’incontro con il Presidente della Regione Agazio Loiero e con il procuratore nazionale antimafia Piero Grasso. “La mafia in Calabria blocca lo sviluppo”.

Parole cariche del peso della verità quelle del Presidente che poi viene accolto presso il Liceo artistico statale “Mattia Preti” con la manifestazione “Legalità e Sviluppo” organizzata dalla consulta delle associazioni degli studenti calabresi con la presenza del ministro
dell’Istruzione Maria Stella Gelmini. Tutti impegnati a contrastare la criminalità organizzata e a diffondere la consapevolezza della necessità, quanto mai urgente, di combattere questa lotta.
Il Presidente ha ricordato l’alto magistrato Antonino Scopelliti, ucciso dalla mafia nel 1991, e si è rivolto alla Calabria e all’Italia tutta con queste parole: “Guai a pensare che ciò significhi che gli immigrati sono portatori di violenza e che i cittadini di Rosarno sono portatori di razzismo”. E ancora: “Stiamo molto attenti, respingiamo questi luoghi comuni, respingiamo tutti i pregiudizi che rischiano di accumularsi sulla Calabria, che è una regione difficile, una regione per tanti aspetti sfortunata, è anche una regione che deve dare di più, che deve mobilitarsi di più, una società che deve esprimere le sue energie e le sue capacità di reazione e di svolta di più di quanto abbia fatto finora”.

Il procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso ha
sottolineato che tutte le istituzioni debbono collaborare e che “la Calabria deve far sentire la sua voglia di riscatto per gli omicidi del Giudice Scopelliti e del vicepresidente del Consiglio regionale, Fortugno”. Nello stesso giorno, però, una santabarbara di munizioni ed esplosivi viene ritrovata parcheggiata vicino l’aeroporto di Reggio Calabria a riprova che la ‘ndrangheta non cade affatto a pezzi. Nella convinzione della necessità di un cambiamento che la Gelmini afferma che “E’ necessario far crescere, proprio dalla scuola, la cultura della legalità, combattendo anche un modo di pensare” . E forse è proprio questa la miseria d’abolire. Ma è anche vero che le istituzioni, scuola a parte, in Calabria sono, per dirla alla Mario Draghi, “pervase” dalle mafie, dalle ‘ndranghete. Le nuove ‘ndrine traggono i loro capitali principalmente dai traffici di droga che poi reinvestono nell’economia legale, nei “café del Paris” o nelle “Milano da bere”. Quei “durissimi colpi inferti alle ‘ndrine” che possono apparire operazioni come il sequestro di beni per 5 milioni di euro sono, in realtà, solo una goccia del mare dei capitali che la ‘ndrnagheta manovra, gestisce, rinveste. E’ vero che di una rivolta c’è bisogno, di una rivolta nonviolenta, ma di una rivolta culturale, sociale, politica e, soprattutto, morale. Ma, come dimostrano i dati forniti dalla stessa direzione distrettuale antimafia, la lotta che ci chiedono di combattere è una lotta impari perché, se anche si considerano i 6 miliardi di euro sequestrati alle mafie nell’ultimo anno, pure quest’importo astronomico rappresenta solamente un misero 10% degli oltre 60 miliardi di euro che la ‘ndrangheta porta a casa ogni anno come proprio “fatturato”. Il Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone ha detto di recente la sua: “La ‘ndrangheta – afferma Pignatone – è riuscita a diventare una vera holding del mercato della droga grazie alle sue ramificazioni in ogni parte del mondo. (…) Il fenomeno si è sviluppato da una ventina d’anni (…) anche se ora risulta con tutta evidenza”. Aggredire i capitali mafiosi non può quindi significare limitarsi all’esazione di una tassa, oltretutto assai vantaggiosa. Ma allora, cosa si può fare? Cosa possono fare le istituzioni, la politica, la società civile per sconfiggere le ‘ndranghete?

Mike Gray, lo scorso aprile su “The Washington post”, analizzava il problema del traffico di sostanze stupefacenti: “Negli anni venti – scrive Gray – gli Stati Uniti hanno vietato il consumo di alcol. Il contrabbando è fiorito e la violenza è esplosa. Come oggi sulla droga”.

Che quel business di All Capone fosse il frutto di una sciagurata politica proibizionista oggi non sfugge più a nessuno. Quello che resta ancora da assimilare è però la seconda parte del messaggio: la stessa cosa accade con le droghe illegali che alimentano le mafie in tutto il mondo, dai cartelli colombiani e messicani alla ‘ndrangheta nostrana che aumenta, giorno dopo giorno, il suo potere economico pervadendo, col denaro riciclato, l’economia legale della Calabria, dell’Italia e d’Europa. Forse dovremmo guardare come sta cambiando la lotta al narcotraffico nei paesi che spesso invochiamo ad esempio. “Dopo 40 anni dall’offensiva di Nixon, Obama tira il freno e pensa alla marijuana libera.” Marco Bardazzi lo ha spiegato bene nel suo articolo “La fine della Guerra alla coca” comparso qualche giorno fa su “La Stampa”: “Il presidente fa studiare seriamente al proprio staff la fattibilità di un passo che avrebbe ripercussioni mondiali: legalizzare la marijuana”. “L’America di Barack Obama – spiega Bardazzi – è pronta a dichiarare impossibile da vincere il conflitto, a chiuderlo e a trasformare radicalmente la gestione della lotta agli stupefacenti. Dopo aver speso negli anni oltre mille miliardi di dollari di soldi pubblici in un conflitto che sembra sempre in stallo, gli Usa senza enfasi stanno ritirando gli agenti della Dea (Drug Enforcement Administration) dai fronti in Colombia e in Afghanistan. I fondi per la lotta al narcotraffico vengono deviati verso campagne di prevenzione. In Congresso sono partiti i lavori di una commissione che deve riscrivere completamente la strategia antidroga”. Oggi le carceri sono stracolme di migranti “clandestini” e di ragazzi trovati in possesso di poche decine di grammi di droga la cui detenzione non ha alcun fine di recupero e reinserimento sociale ma, anzi, è criminogena. Senza contare le risorse e gli uomini impiegati in tanti “micro” sequestri, tante “micro” operazioni, che non sconfiggono il problema: i consumi dilagano e la ‘ndrangheta ringrazia anche dovendo pagare una “tassa”.

Un gruppo di esperti britannici della fondazione Beckley ha valutato scientificamente gli effetti della cannabis. Ed ha concluso – come spiegava qualche mese fa la rivista inglese “New Scientist” – che, per limitare i danni ed eliminare i traffici illegali, la soluzione è legalizzarla. Anche se i rischi associati al consumo di marjuana sono accertati, gli esperti della Beckley sono convinti che sia molto meno pericolosa di sostanze legali come alcol e tabacco di cui, stante le giuste e ferree regole come il non mettersi alla guida ubriachi e non fumare nei locali pubblici, non ci sogneremmo certo di proibirne il consumo considerando come andò a finire con Al Capone. Legalizzare il mercato può invece contribuire a ridurre fortemente quel “fatturato” del malaffare che, come dice giustamente Napolitano, “blocca lo sviluppo della Calabria”.

Share

Vite al Nero

di Giovanna Canigiula

Migranti – Foto: Zingaro su Flickr

 Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,
a milioni, vestiti di stracci
asiatici, e di camicie americane.
Subito i Calabresi diranno,
come da malandrini a malandrini:
«Ecco i vecchi fratelli,
coi figli e il pane e formaggio!»

(Pasolini P.P., Profezia, in Alì dagli occhi azzurri, 1964)

 

In uno dei tanti ghetti neri del Sud d’Italia è scoppiata, per la seconda volta nel volgere di un anno ma forse imprevedibile nella forma, la rivolta. Degli africani ribelli, ridotti nelle nostre campagne in stato di  schiavitù, sappiamo ormai quasi tutto tranne il numero esatto, non essendo possibile un censimento: a Rosarno, dove fino a ieri si contavano ufficialmente circa duemila presenze, sono arrivati nei primi anni Novanta e sono stati impiegati  nella raccolta invernale delle arance. Da ottobre ad aprile si radunavano, tutte le mattine alle cinque, sulla Nazionale e qui venivano caricati e portati nei campi. Dopo 14 ore di lavoro, per 20- 25 euro al giorno nel migliore dei casi, tornavano in  ricoveri di fortuna, come il  vecchio capannone poco fuori il centro abitato dove un tempo si lavoravano le arance. Fra vetri rotti, baracche di cartone e lamiere, vecchi copertoni e reti usate, tende da campeggio, hanno trascorso qui quattro mesi all’anno per venti anni.  Molti locali li hanno accusati di voler vivere come bestie per non pagare un affitto: cento euro a posto letto avrebbero potuto aiutare le economie familiari.

Gli irregolari di Rosarno sono burkinabé, maliviani, ivoriani, ghanesi, togolesi  che, sbarcati a Lampedusa e finiti a Crotone, non hanno ottenuto il permesso di soggiorno e hanno cercato di racimolare qualche soldo per sé e le famiglie lontane confidando nella brevità del soggiorno obbligato, ma vi sono anche molti immigrati che hanno perso il lavoro nelle fabbriche del Nord e cercato un posto in cui  il controllo dello Stato fosse meno pressante e, soprattutto, stagionali che si spostano per tutto il meridione, raccogliendo pomodori d’estate in Puglia e Campania, arance e olive d’inverno in Calabria, ortaggi in Sicilia. Sono la manodopera in nero che nessuno sopporta ma che tutti tollerano, perché fa girare l’economia di quello che, per rubare la definizione che Fabrizio Gatti ha applicato alla Puglia,  è il mercato più sporco dell’Europa agricola. Inseguono da sempre il sogno di un lavoro regolare, che la Bossi-Fini ha praticamente reso impossibile: per restare in Italia devi lavorare, per lavorare devi avere un permesso di soggiorno, per avere il permesso di soggiorno devi dimostrare che un lavoro ce l’hai. Insomma, o sloggi o il lavoro sporco in campagne altrimenti spopolate tocca a te, ovviamente alla condizione del servaggio tacitamente legalizzato.  Medici senza frontiere ne ha da tempo denunciato la precarietà esistenziale: nei posti in cui i più elementari diritti umani sono negati, si arriva sani e si finisce presto ammalati. Diversi anche i reportage  eppure, sebbene sia  a tutti chiaro da un pezzo che, per mantenere inalterato lo stato delle cose, è necessaria la complicità di stato, regione, amministrazioni locali, Asl, sindacati, imprenditori, forze dell’ordine, gli unici interventi umanitari sono stati finora opera di associazioni e privati.

Gli africani di Rosarno, cuore di un settore importante dell’economia regionale che, diversamente, sarebbe in profonda crisi, hanno dunque alzato la testa contro tutte le mafie, non solo contro quella ‘ndranghetista che controlla la Piana di Gioia Tauro dove, tra il porto e gli interminabili lavori sulla SA-RC,  si consumano affari milionari e che, infiltrandosi nelle amministrazioni locali, gestisce a pieno titolo appalti e fondi. Proprio il  consiglio comunale di Rosarno, come quello del limitrofo San Ferdinando, sono stati sciolti l’anno scorso per mafia. E’ nell’interesse delle cosche, del resto, bonificare il ghiotto territorio dalla presenza degli africani ed è in questi luoghi che il bianco muore senza lasciare grosse tracce e la convivenza omertosa col ricatto si consuma  in nome della personale sopravvivenza:  le uniche denunce che hanno consentito di risalire ai responsabili dell’agguato, dopo il ferimento di un ghanese e un ivoriano lo scorso inverno, sono arrivate dai neri d’Africa. Un nuovo attacco ha provocato la rivolta, scoppiata nell’unico modo che la rabbia a lungo covata ha consentito: blocco della statale 18; auto, vetrine e cassonetti sfasciati. Scontata la reazione: negozi e scuole chiusi per lo stato di emergenza; caccia sapientemente pilotata all’immigrato; immediata rimozione con le ruspe dei vergognosi luoghi del soggiorno straniero; trasferimento di centinaia di lavoratori nei centri di accoglienza di Crotone e Bari.  E  la fuga volontaria di molti dai luoghi della rappresaglia portandosi dietro, come profughi di guerra, quel po’ che la fretta ha consentito di raccattare. Complici tutti,  si diceva, nelle terre delle mafie. Così tanto che lasciano addosso un profondo senso di vergogna gli inopportuni interventi di Maroni e Calderoli sui danni della clandestinità quando questa è tollerata e non combattuta.

Perché questo post? Non certo per aggiungere parole alle parole. Quanto scritto lo leggiamo ripetutamente in questi giorni. E’ che mi ha profondamente colpito vedere per chilometri, lungo la statale 106 in direzione Crotone, uomini con valigie, pacchi, grosse buste stracolme sulla testa o serrate al petto, il giorno successivo ai fatti. Un piccolo esercito  in marcia silenziosa.  Alcuni si fermavano stanchi a riprendere fiato sul ciglio della strada, mentre gli altri proseguivano. Ho allora pensato che, forse, sia il momento per  tutti di alzare la testa in questa terra in cui mafia e stato non hanno confini netti. Ho pensato che la sconfitta di chi fugge  sia la nostra sconfitta. Ho pensato che questo sistema sia andato avanti con la nostra complicità, i nostri voti, la nostra disponibilità al ricatto, la nostra acquiescenza, la nostra rassegnata miseria.  Ho pensato che i figli dei vecchi contadini che lottavano per le terre e una vita più dignitosa  hanno tradito la causa dei padri. Ho pensato alla storia da cui veniamo e che ci siamo messi alle spalle. Ho pensato al Gesù nero che don Pino ha dovuto inserire nel presepe della Chiesa di Rosarno per ricordare alla comunità che siamo tutti fratelli. Ho pensato che la parola onore è associata a famiglie come quelle dei Piromalli, dei Pesce e dei Ballocco. Ho pensato al candidato a sindaco comunista Valarioti che, nel lontano 1979, fu ucciso per avere ottenuto il 30% dei consensi e oggi è tutto uguale. A quei politici che anni e anni fa avevano alzato solide barriere contro l’illegalità, poi prontamente cadute. Ai pochi, troppo pochi che si danno da fare perché credono ancora che si possa cambiare o per spirito puramente umanitario. Ho pensato a chi siamo e a quello che lasciamo. Poca cosa. Ho pensato che c’è chi stila percentuali su chi è più razzista, inscenando la solita meschina contrapposizione tra nord e sud. E ho pensato di mettere su carta questi pensieri, nella speranza che altri calabresi stufi li raccolgano e, insieme, davvero insieme, si possa concretamente scegliere una nuova via .

Share

Clandestini nella terra promessa

di Giuseppe Candido

Migranti italiani sbarcano in America

Quando si lascia la propria terra in cerca di un futuro migliore di quello che l’Africa o altre parti del mondo ti prospettano non lo si fa per diventare criminali o violenti rivoltosi. Si emigra, si lascia la propria patria spinti dalla miseria e, soprattutto noi calabresi dovremmo ricordacelo bene, visto che migranti lo siamo stati pure noi. La Calabria ha cominciato “bene” il nuovo anno: prima l’ordigno esplosivo alla procura di Reggio Calabria. Poi, dopo la befana, al posto del carbone i migranti di Rosarno in rivolta. Quei migranti che normalmente coltivano i nostri campi e fanno quei lavori che noi calabresi non vogliamo più fare, si sono scatenati dopo essere stati presi a colpi di carabina con fucili ad aria compressa. Feriti, auto distrutte, cassonetti spaccati e rovesciati sull’asfalto, alcune abitazioni danneggiate. Il bilancio di una sorta di guerriglia urbana accesa per la violenta protesta di alcune centinaia di extracomunitari, lavoratori dell’agricoltura, accampati in condizioni disumane in una ex fabbrica e in un’altra struttura fatiscente. Le immagini di Enzo Iacona lo avevano già raccontato e, risale al maggio dello scorso anno, la notizia dell’arresto di alcuni “imprenditori” di Rosarno con l’accusa di aver ridotto alcuni immigrati, sia regolari sia irregolari, in condizioni di schiavitù. In passato, nel dicembre del 2008, due giovani spararono da un’auto dei colpi di arma da fuoco contro due ragazzi africani di ritorno dai campi. Che sia scoppiata la protesta, la rivolta violenta, non ci devrebbe dunque meravigliare: è il destino dei subalterni sfruttati, lo è stato in passato con i briganti che nel decennio dell’occupazione francese, si rivoltarono contro lo sfruttamento della Calabria e dei calabresi, succede oggi con i “briganti” dell’Africa che, pagati pochi spiccioli per lavori duri e ridotti a vivere in favelas ammassati come sardine, ricevono colpi di carabina in vece del pane per il quale hanno lasciato la loro terra. Dicono che sono “clandestini”, “irregolari” perché privi del permesso di soggiorno. Ma irregolari lo saremmo anche noi se, lo Stato che ti dovrebbe concedere o negare il permesso di soggiorno in soli venti giorni non rispetta la sua stessa legge e te lo da dopo mesi, quando magari è già scaduto. Per il rinnovo annuale si aspetta sino a 8-15 mesi, nonostante il Testo unico sull’immigrazione preveda, all’articolo 5, che “il permesso di soggiorno è rilasciato, rinnovato o convertito entro venti giorni dalla domanda”. Termini ordinatori e non perentori. Infatti, sono oltre 500 mila, in Italia, le persone in attesa del permesso di soggiorno e quando arriva, è questo il vero paradosso, è già scaduto. Nonostante le nuove procedure elettroniche in alcune città come Roma l’arretrato è abnorme e le questure non riescono smaltirlo. E successo a Gaouossou Ouattarà, migrante regolare di origini Senegalesi residente da anni in Italia e militante dei Radicali italiani che, sotto la guida gandhiana del partito di Pannella e Bonino, dallo scorso 13 dicembre ha intrapreso, assieme ad altri 300 migranti, uno sciopero della fame, un’azione di lotta nonviolenta, per “dare corpo all’iniziativa” volta a chiedere legalità, per chiedere allo Stato il rispetto della sua stessa legge sull’immigrazione. E così scopriamo che è l’Italia, lo Stato italiano, l’irregolare di turno che non considera perentori i termini di legge e costringe gli immigrati che hanno un lavoro, che hanno già un permesso di soggiorno che deve solo essere rinnovato, a restare illegali, clandestini per forza nella terra promessa. Però questa “notizia”, la notizia di uno Stato irregolare nel rispettare la sua stessa legge, non fa affatto notizia. La notizia diventano le violenze di Rosarno. Ed è l’illegalità a farla da padrona: l’illegalità dello Stato che non rispetta le sue stesse leggi e l’illegalità della ‘ndrangheta che ha sfruttato e sfrutta i migranti, si mescolano, si confondono. Non sempre, però, l’esempio della lotta nonviolenta che, quando adottato, permette di raggiungere i fini senza però pregiudicarli coi mezzi che si usano, viene seguito. Così, armati di spranghe, bastoni e rabbia per essere stati presi con le carabine, i migranti africani di Rosarno hanno invaso le strade mettendo “a ferro e fuoco” il piccolo centro calabrese già tristemente noto per le infiltrazioni della ‘ndrangheta nelle istituzioni locali e per la presenza, sul territorio, delle cosche Pesce e Bellocchio. In risposta sassaiole, fucilate per scacciare i “’niguri”. Ma a Rosarno, si sappia, nulla si muove se le “famiglie prevalenti” non lo vogliano e per cui, oggi, la procura sta indagando sul ruolo svolto proprio dalla ‘ndrangheta che potrebbe aver voluto “cavalcare” la rivolta per fini ancora da chiarire. I calabresi sono, per natura antropologica, tendenti all’accoglienza ma la ‘ndrangheta della legge sull’accoglienza votata all’unanimità dal Consiglio regionale calabrese se ne infischia. Risultato: due migranti gambizzati, due colpiti con delle spranghe, feriti da entrambe le parti. Uno degli extracomunitari versa in condizioni critiche. Oltre 700 sono stati trasferiti da Rosarno nei CPT di Bari e di Crotone, a Sant’anna, per evitare che fossero ancora oggetto di aggressioni. Il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato Vaticano, ha fatto un accorato appello finché cessi subito la violenza denunciando esplicitamente le “gravi condizioni di lavoro” cui sono costretti gli immigrati. “La situazione in Calabria preoccupa e affligge tutti – ha detto l’alto prelato – soprattutto per le gravi condizioni di lavoro a cui sono sottoposti i migrati, che pure rendono un servizio prezioso all’agricoltura e all’attività locale”. Maroni dice che la condizione d’illegalità e di non rispetto della legge dell’immigrazione sia la vera causa del problema. Spesso si sente affermare che la mafia esiste come organizzazione anche in altri paesi e si tende ad associare qualsiasi comportamento violento, illegale, al concetto di mafia, di criminalità organizzata. Per cui “il clandestino” che si organizza in lotta violenta è un criminale organizzato, quasi al pari della ‘ndrangheta. Così facendo, però, si corre il rischio di sbiadirne, ancora una volta e in maniera sistematica, il problema per cui se tutto può essere mafia, se ogni comportamento violento, di sopraffazione, può considerarsi antropologicamente mafioso, allora nulla è mafia. Questo degrado invece, potrebbe proprio essere il frutto amaro dello strapotere della ‘ndrangheta presente sul territorio calabrese ed è, per dirla alla Mario Draghi, “pervasivo delle pubbliche amministrazioni”. Uno strapotere contro il quale, i governi che da cinquant’anni si sono succeduti, non hanno fatto mai abbastanza per estirparlo. Uno strapotere che viene, di fatto, accettato da noi calabresi. Gli africani, invece, si sono ribellati alla ‘ndrangheta e, probabilmente, è proprio questa la loro vera colpa: quella di aver collaborato con i carabinieri, portando all’arresto dei loro sfruttatori che li avevano ridotti in schiavitù, rompendo quel muro di omertà che noi calabresi troppo spesso accettiamo nel silenzio.

Share

Un decennio senza Bettino

Occorre ancora “una radicale ristrutturazione del sistema politico italiano in conformità con il modello delle grandi democrazie europee”

di Filippo Curtosi

garofano
il Garofano, simbolo del PSI

Il 19 gennaio ricorre il decimo anniversario della morte di Bettino Craxi in Tunisia, ad Hammamet. Per il mio amico Giuliano Ferrara Craxi “è stato un uomo di stato, un uomo politico enorme, leale, morto in esilio secondo la volontà farisaica dei suoi nemici. Un socialista autonomista, scrive Ferrara sul Foglio, cresciuto alla scuola disordinata e generosa di Pietro Nenni”. Insomma secondo il Direttore del Foglio e amico del leader del vecchio Psi, questi ha rappresentato come dire il genio tattico, il Socialismo garibaldino con una visione liberale. Nel 1989 in occasione del 45 congresso nazionale socialista, Bettino Craxi pubblicò l’introduzione di un volume “I socialisti verso il 2000” nella quale dichiarò che occorreva “una radicale ristrutturazione del sistema politico italiano in conformità con il modello delle grandi democrazie europee, dove i partiti socialisti sono la forza trainante dello schieramento riformatore”.

Quelle di Craxi erano affermazioni che oggi, a distanza di quasi 20 anni abbiamo trovato prima sulla bocca di Prodi (che fu ministro dell’Industria di un governo guidato dall’esule di Hammamet) da D’Alema ed anche da Fini e da Achille Occhetto, l’ultimo segretario del Pci, autore della svolta della” Bolognina”. Dice Occhetto nell’intervista alla Stampa del 6 gennaio scorso: “All’inizio della sua segreteria Craxi svolse un’azione positiva contro i rischi di consociativismo tra l’allora partito comunista e la democrazia cristiana tendente a porre le basi per una politica di alternativa, e li, poi fu colpa del Pci che non seppe cogliere quel momento felice della sua azione (…) dopo la svolta della Bolognina andai da Bettino. Gli chiesi, visto che c’erano molte tensioni se si potesse tentare di ricostruire intorno alle nostre famiglie l’unità. Gli proposi, di fare insieme opposizione. Lui mi rispose che,certo,sarebbe stata una cosa buona,ma che se andava fuori anche un solo giorno i suoi lo avrebbero fatto fuori”. Manca poco più di una settimana al decennale della morte di Bettino. Il suo oppositore più irriducibile fu Eugenio Scalari, il fondatore de “la Repubblica” di cui chi scrive è fedele lettore da sempre e che quando il segretario del vecchio Psi era l’uomo più potente d’Italia ha avuto il coraggio di criticarlo in maniera pesante e pubblica con una serie di interventi che vanno dal 1983 al 1992 ed apparsi sull’Avanti e che il direttore del giornale socialista Antonio Ghirelli pubblicava regolarmente con lo peseudonimo di Pannaconi provincia di Catanzaro. In questi giorni leggo tra le vecchie carte alcuni editoriali di Eugenio Scalari di quel periodo: “Berlinguer lo attacca come se fosse il pericolo pubblico numero uno e lui non gli risponde…Con Forlani adotta un atteggiamento di massima freddezza…Sull’aborto rintuzza Papa Wojtyla (..) Nell’anticomunismo del Psi non c’è assolutamente nulla d’illegittimo…Le tesi di Craxi testimoniano solide letture a cominciare da Proudon. Un uomo politico ed uno statista insieme. C’è ne pochi in circolazione (…) Craxi ha avuto un tono calmo,un timbro alto,un approccio non rissoso (…). Questo prima del 1993. Dopo,un po’ per calcolo un po’ per essersi trovato un nuovo padrone lo stesso Scalari tuonava: “Vergogna, assolto Craxi (…) Il latitante di Hammamet, e da ultimo gli insulti di Giorgo Bocca prima socialista pure lui assieme a tanti altri e poi scappato. Ma torniamo al congresso socialista dell’89. Gli altri passaggi dell’introduzione: “Il Psi deve assolvere al suo compito di forza riformatrice moderna, consapevole delle esigenze di stabilità e governabilità di una società avanzata, sensibile alle istanze nuove che vengono dalla società stessa al fine di favorire e salvaguardare l’ambiente, per favorire la distensione e sviluppare la cultura della pace, per fare dell’Italia un paese in cui siano ridotte le disuguaglianze sociali, la giustizia sia giusta, i servizi efficienti, le opportunità di impiego eque e coerenti con le capacità dei singoli”. Era quello il congresso che doveva consacrare alcuni valori come la meritocrazia, l’equità, la giustizia sociale.

Il segretario del Psi aveva un piano però che era a mio avviso molto precario in quanto poi alla fine presupponeva la conquista del potere in ogni angolo del paese e la riductio ad unum e cioè della riduzione totale e fatale a sé, alla sua persona ed a tutti quei craxisini imperanti per l’Italia e soprattutto in Calabria: una sorta di associazione di fedeli, una sorta di oligarchia regionale, provinciale che al primato della politica amavano il potere per il potere. Il diritto della forza e non la forza del diritto. Turatiano, Nenniano, anticomunista. Fu prima di diventare segretario del Psi nel 1976, vice di Giacomo Mancini e Francesco De Martino poi. Riesce ad imporre per la prima volta un socialista al Quirinale: Sandro Pertini. Per il tempo fu uno scandalo l’elezione del vecchio partigiano socialista. Fu in quel tempo che fece scomparire la falce ed il martello su libro e sole nascente con il garofano rosso. Craxi fu il primo socialista a diventare primo ministro in Italia.

Se oggi si può devolvere l’8 per mille e delle offerte deducibili per il clero lo si deve a lui: il 18 febbraio di 20 anni fa firma la revisione del Concordato tra lo Stato Italiano e la Santa Sede. Poi venne Sigonella, il Caf, il Referendum, Mani Pulite e la morte in esilio.

Oggi, di fronte a ripensamenti, dialettica, separazioni, insomma di fronte ad uno scheggiarsi e proporsi di spezzoni dell’ex Partito Socialista,ci sono dei compagni che lavorano da molto tempo per la riunificazione della diaspora socialista. Di positivo, c’è il fatto che la questione socialista è evidentemente sentita. Questo significa che è anche avvertita anche da altre forze politiche. Non può essere elusa.

I tanti gruppi socialisti che hanno una storia, una cultura, un linguaggio politico: quello degli anni Ottanta che cambiarono l’Italia, la fecero più libera, innovarono linguaggio ed idee anche se l’ideologia comunista e il doroteismo democristiano tiravano il freno, le oligarchie si mettevano di traverso. Poi vennero i soldi, il muro di Berlino e una certa politica . Riformisti contro rivoluzionari per professione: il risultato è sotto gli occhi di tutti. Oggi gli ex Pci affermano che “avevano ragione loro.. Vedo i socialisti frantumati in un pulviscolo di partitelli, di Club, di Associazioni in lotta tra loro. Si fanno e disfanno patti, si stipulano e si capovolgono alleanze, ci si scambia giuramenti, li si viola, ci si scanna: in pratica tutti vorrebbero comandare. Alla fine la partita è persa per tutti o quasi perché le forze si equivalgono e nessuno poi conta granché.

L’ambizioso progetto che ricreava un soggetto che copriva l’area socialista non può non fare i conti con tutta la sinistra, compreso i Democrat o quello che di questo partito resterà. La cultura socialista è una sorta di protettorato culturale e i socialisti sanno che la politica quella con la P maiuscola è Cultura. Ci vuole un nuovo progetto? Si, un nuovo progetto che si fondi sui valori della tradizione del socialismo italiano in una società, quella odierna, che cambia continuamente. Senza i socialisti questo non è possibile. Esiste quindi ancora una questione socialista? Certamente. Ormai le risposte che vengono date alla questione socialista si stanno chiarendo. Chi può negare per esempio che dal punto di vista dell’evoluzione della cultura socialista le tesi che furono sviluppate nel vecchio Partito Socialista, in particolare da Martelli restano valide ancora oggi. Certo dopo la scomparsa del Psi e dell’area laica i socialisti si sono ritirati nel loro privato o si sono sparsi da tutte le parti ed hanno finito per non contare realmente nulla. Occorre ricominciare a legare il filo rosso, avviare la rifondazione socialista, ricomporre la diaspora, ricostruire un’area di dibattito e di riflessione.

Per questo era nata, l’Associazione “Socialismo è Libertà”, che non è un partito e non è incompatibile con l’appartenenza agli attuali partiti della sinistra. In Calabria questo è ancora più importante ed uomini del calibro di Casalinuovo, Zito, Sandro Principe, Zavettieri, Olivo, Mancini ed altri rappresentano la storia del socialismo calabrese per aver inciso fortemente con una azione socialista che ha lasciato i segni più profondi ancora oggi. Oggi i problemi soprattutto economici e sociali sono più acuti ed il centro destra non è stato capace di offrire una prospettiva di sviluppo. La Calabria però possiede le forze vive, politiche, sindacali, intellettuali ed imprenditoriali e soprattutto giovanili per misurarsi con le sfide del terzo millennio. Per questo La Rosa Nel Pugno voleva avviare con tutte le forze un confronto per costruire insieme una prospettiva di crescita culturale, civile ed economica per la Calabria e per l’Italia. Certo servono alcune cose.

Primo: occorre disarticolare questo bipolarismo. Secondo: il riformismo è socialista ed è Italiano o non è: il PSI ha inventato il riformismo. Terzo: occorre andare verso la Terza Repubblica:

Occorre, infine, ridefinire il proprio ruolo, che sia un ruolo appunto riformista e socialista e che possa incidere nei processi in atto. E’ necessario però che i valori riformisti continuano a permeare la società civile ed essere elemento portante nella costruzione della Nuova Europa: oggi, c’è una forte richiesta d’autentico riformismo che resta ancora inevasa.

Share

Salvemini, bastian contrario e sincero democratico. Solo Commemorazione?

Meglio arruolare e mobilitare: Emergenza democrazia in Italia? Il Processo farsa di Anna Politkovskaya.
di Filippo Curtosi

Gaetano Salvemini - Wiki

La figura di Gaetano Salvemini, nel cinquantenario della sua scomparsa viene restituita alla luce grazie ad un saggio di Gaetano Quagliarello (Gaetano Salvemini, il Mulino, Bologna 2007,pp 313) che ripercorre in modo organico l’intero arco della sua esistenza dal 1873 al 1975, soffermandosi su temi di scottante attualità come la morte della patria e sulla partitocrazia. Salvemini, dopo l’uscita dal Partito socialista,all’indomani della prima guerra mondiale ed in particolare di fronte al delitto Matteotti che inquieta Salvemini tanto che diventa uno dei principali propagandisti dell’antifascismo in campo internazionale e per questo fortemente osteggiato da Mussolini. Il fascismo nella lettura salveminiana non è visto come reazione al pericolo di una rivoluzione bolscevica che, come afferma lo stesso Salvemini non è mai esistito se non come” forma di agitazioni e disordini senza scopo provocati da una sinistra massimalista e inconcludente”. Il fascismo assume nella lettura dello storico pugliese i connotati di un fenomeno antiparlamentare. Antifascista de anticomunista tanto e vero che accostava fascismo italiano e comunismo sovietico e fu proprio Gaetano Salvemini a far da guastafeste nel “ Congresso internazionale antifascista degli scrittori per la difesa della cultura” che si svolge a Parigi nel 1935, presieduto da Gide e Malraux ed è li che denuncia il caso dell’arresto di Victor Serge per” trozkismo”. “Esiste una polizia segreta sovietica come la Gestapo e come l’Ovra che tiene prigioniero un intellettuale come Serge”. Scoppia il finimondo e tutta l’intellettualità è costretta a chiedere la liberazione di Serge. Togliatti nel 1945 lo ricorderà come “ un provocatore trozkista che deve la vita alla campagna di stampa borghese per la sua liberazione dalla Lubianka aizzata da Gaetano Salvemini”.

Il professore di Molfetta ha consegnato ai promessi sposi del Partito democratico, dice Ugo Finetti una eredità culturale che però giorno dopo giorno è sempre più vuota nel desolante deserto ideale che fa da scenario alla costruzione del nuovo soggetto politico.Siamo cresciuti negli ardori rivoluzionari giovanili e riformisti poi ed abbiamo assistito al governo di una sinistra che ha scambiato i principi in cambio di qualcosa di indecifrabile. Dovrebbero, tutti i politici vibonesi, fare proprie le frasi di Bobbio quando dice che “molte delle promesse della democrazia sono ancora promesse da marinaio”.
Norberto Bobbio nel 1975 in un bellissimo saggio dal titolo” Salvemini e la democrazia” scriveva:” Per comprendere appieno il rapporto tra Salvemini e la democrazia, non è sufficiente riferirsi all’esempio di un impegno durato tutta una vita intera e culminato nella ventennale battaglia contro il fascismo: occorre rileggere con attenzione i suoi scritti, dove è possibile rintracciare una compiuta e perfetta teoria dello Stato democratico”.
Nel 1953 Bertrand Russel pubblicò una sorta di abbecedario politico intitolato” L’alfabeto del buon cittadino e Compendio di storia del mondo( a uso delle scuole elementari di Marte). A partire dalla prima definizione( Asino: quello che pensi tu”), il premio Nobel per la letteratura disprezzava l’arroganza, l’assoluto, il dogmatico. il fanatismo. La definizione di Virtù:” sottomissione al governo” e all’opposto quella di Assurdo” Sgradito alla polizia”. O quella di Libertà” Il diritto di obbedire alla polizia”. E che dire della definizione di Saggezza” le opinioni dei nostri avi”. Per non parlare della definizione di Sacro, la cui definizione russelliana è” sostenuto per secoli da schiere di pazzi”. O di Cristiano, definito” contrario ai Vangeli”. Per non parlare di Bolscevico” chiunque abbia opinioni che non condivido”. Per tornare a Salvemini che sicuramente apparteneva a un’altra categoria di intellettuali cosi rilevava a proposito dell’essere italiani:” Quando parlano gli Italiani colti, mi capita spesso di non capire. Salvemini non deve essere colto, perché quello che dice lo capisco e, quello che pensa lo penserei anch’io”.” Il linguaggio storico e politico, scrive infatti Salvemini, attraversando tempi e ambienti culturali diversi, si è caricato con termini polivalenti, i quali debbono essere definiti, se non si vuole perdere tempo discutendo di equivoci”. Liberalismo,democrazia, socialismo scrive Sergio Bucchi, sono i termini principali del lessico Salveminiano e prima ancora sono i termini fondamentali del linguaggio politico del secolo decimonono, “il più intelligente, il più umano, il più decoroso dei secoli”. Le tappe essenziali del più grande movimento di emancipazione mai realizzatosi nella storia che ebbe il suo punto d’avvio nella rivoluzione francese. Se il liberalismo si identifica in origine con la battaglia per i diritti personali e la conquista delle istituzioni parlamentari contro i privilegi feudali e i regimi dispotici, la democrazia ne è una estensione, in quanto “ ammissione di tutti i cittadini all’uso delle istituzioni liberali”, il riconoscimento per tutti, senza distinzioni di sorta di tutte le libertà personali e politiche. “Un regime libero può non essere un regime democratico, ma un regime democratico deve essere un regime libero”. In questo senso,continua Bucchi, il “metodo della libertà” costituisce la via imprescindibile di ogni rinnovamento politico o sociale. E metodo della libertà e regole della democrazia non possono non essere alla base anche di ogni tentativo di conquistare quel tanto che è possibile di giustizia sociale. La realizzazione della giustizia contro ogni forma di sfruttamento e di oppressione è parte integrante non meno delle libere istituzioni, dell’ideale democratico. Istituzioni democratiche e giustizia sociale stanno tra di loro in un rapporto inscindibile di mezzo a fine,al di fuori delle istituzioni non è possibile nessuna realizzazione.
A proposito di democrazia, la casa editrice Bollati-Boringhieri ha ristampato una raccolta di memorie, lettere e saggi del grande storico Liberale e Socialista, Gaetano Salvemini. Proprio cinquant’anni anni fa moriva negli Usa lo storico pugliese. Era nato nel 1873 a Molfetta, Salvemini, precursore del liberal socialismo. Studioso della questione meridionale e maestro dei fratelli Rosselli è stato oppositore del regime fascista, aveva criticato aspramente Giolitti, accusò i rivoluzionari come Prezzolino e Godetti di disprezzare la democrazia: un sistema imperfetto ma da salvaguardare. Annotava nel 1923 sul suo diario: “E’ moda, oggi, in Italia, fra gli uomini che si immaginano di essere “rivoluzionari” disprezzare la democrazia quanto e non più che facciano fascisti, nazionalisti, sognatori di gerarchie e di aristocrazie rigide e chiuse. E questo disprezzo, che sindacalisti, repubblicani, socialisti, anarchici e anche uomini come Prezzolino, Godetti, eccetera, dimostrano per la democrazia è documento della in cultura politica (…) che è la malattia fondamentale dei “democratici italiani e non italiani”. Parole attualissime perché anche oggi ci sono plutocrazie, gerarchie, oligarchie che dicono a parole di combattere i regimi ma che poi nei fatti deridono le istituzioni democratiche. La democrazia, agita le masse, dirige i suoi partiti nella lotta politica; nasce, cresce, s’indebolisce, si ammala, corre il rischio di morire, o addirittura muore, come farebbe una persona in carne ed ossa. Queste parole, realistiche e lungimiranti esprimono la convinzione che dietro quella parola c’è un processo di trasformazione, segnato da conquiste e da crisi forti.
Sensibile al liberalismo di sinistra di Mill e alle tesi del laburismo inglese, Salvemini ripropone l’idea del equal liberty, coniugando le ragioni dell’autonomia dell’individuo con quella della giustizia sociale.
“La libertà economica non significa nulla per chi deve guadagnarsi da vivere, che sia un lavoratore manuale che un intellettuale. Se con sicurezza intendiamo un livello di vita minimo e l’uguaglianza di opportunità, dobbiamo ammettere che le istituzioni della democrazia politica del giorno d’oggi non la garantiscono a tutti. Eppure la sicurezza deve essere alla portata di tutti se si vuole salvare la democrazia politica dal naufragio”. Attualissimo nella nostra società caratterizzata dal rischio, dalla precarietà e dall’incertezza.
In uno dei suoi ultimi scritti del 1957 dava atto dell’operato della Democrazia Cristiana di De Gasperi: “Debbo riconoscere che i democratici cristiani mi lasciano protestare, mentre prevedo che i comunisti mi taglierebbero la lingua fin dal primo giorno…il giorno in cui fosse certo che Togliatti e Nenni hanno abbandonato sinceramente ogni intenzione totalitaria starei con Nenni e Togliatti. Non volendo cadere dalla padelle nella brace sono costretto a preferire la democrazia-democrazia-democrazia di De Gasperi, alla democrazia di Togliatti”.
Oggi in Europa ed in Italia e soprattutto dalle nostre parti occorre lottare per la giustizia sociale e la libertà da ogni tipo di miseria. Le modalità della morte prima e del processo poi di Anna Politkovskaya è un chiaro esempio che esiste ed è reale una emergenza democrazia. Anna lavorava dal 1999 alla “Nuova Gazzetta” “Novaja Gazeta” per la quale aveva realizzato diversi reportage sul conflitto in Cecenia. I radicali da quelle parti hanno avuto i loro morti,non scordiamocelo mai: l’inviato di Radio Radicale Antonio Russo, torturato a Tiblisi, in Geogia; prima era toccato ad Andrea Tamburi, responsabile dei Radicali a Mosca. Le violazioni dei diritti umani sono evidenti e la società civile si deve mobilitare. “Abolire la Miseria della Calabria” lo fa perché intende contribuire a destabilizzare il sistema per rendere impossibile al potere, alla nomenklatura di destra e di sinistra di continuare a reprimere la libertà di espressione. Il dato è solo politico. Per la Calabria ci vuole una rivoluzione copernicana che non può fare certo Loiero o chi verrà dopo. Per fare questo, in Calabria ed in Italia bisogna lavorare per recuperare le tesi che furono di Gaetano Salvemini che restano ancora valide oggi. Non ci si dimentica di una esperienza socialista, libertaria, liberale e radicale, legata ai temi dello stato di diritto, delle libertà individuali, delle soggettività a partire da quella dei lavoratori. Questa è la strada maestra e la strategia dei prossimi anni e la sola via è quella di costruire un Partito democratico anche con lo spirito radicale, liberale, libertario e socialista. Pannella ci ha provato 40 anni fa e non ci è riuscito, Craxi subito dopo ed ha pure fallito. Solo così il Partito democratico che verrà sarebbe davvero tale a avrebbe l’adesione post mortem anche di Gaetano Salvemini, e modestamente anche la nostra.

Share

I rigori delle Banche e le fauci degli usurai

di Giuseppe Candido

E’ ormai certo: il 2009 sarà ricordato come l’anno della crisi. Crisi delle banche, crisi dell’economia, crisi dell’occupazione. E a ricordare che “La crisi si supera se le banche fanno credito” è stato il Presidente della Banca Centrale Europea, Jean Claude Trichet. Ma i rigori delle banche già in passato avevano gettato nelle mani degli usurai piccole e medie imprese. E’ la storia ad insegnarcelo. Al sud e in Calabria, in particolare, la disoccupazione tocca oggi tassi a due cifre raggiungendo record storico negativo per i giovani che, se non s’interviene, saranno destinati, per fame e per miseria, al “brigantaggio” moderno. Servirebbe un rilancio dell’economia, servirebbero riforme ma il sistema creditizio, nel mezzogiorno, è ancora quello maggiormente oneroso, un sistema che agli imprenditori in crisi chiede il rientro immediato dei fidi. Una regione, la nostra, con livelli di disoccupazione doppi rispetto alla media nazionale, con tassi d’interesse sul credito alle imprese superiori al 9% a fronte di quelle del centro nord dove il costo del denaro è poco superiore al 6%. Un sistema creditizio, quello calabrese, che, addirittura, come ricordava qualche settimana addietro l’editoriale di Guido Talarico, direttore de “Il Domani della Calabria”, non si degna neppure di partecipare ai bandi della Comunità europea per la distribuzione di fondi capitale a tassi agevolati nelle aree depresse per non perdere occasione, assai più lucrosa, di speculare prestando i soldi a tassi quasi usurai. Ed è certo che la crisi “non ha ancora dispiegato pienamente i suoi effetti e ciò produrrà disorientamento, conflitti, rivolgimenti”. Nella nostra regione, non lo diciamo per piangerci addosso, se non vi fossero i finanziamenti europei, che però troppo spesso finiscono tra le mani di prenditori anziché di imprenditori veri, molte piccole e medie imprese calabresi sarebbero rimaste nelle mani della sola usura. Ma il problema non è certo nuovo e che la crisi si risolva “Se le banche fanno il credito” era anch’esso noto. Oltre 120 anni or sono, l’editoriale dell’Avvenire Vibonese del 15 Marzo del 1887, allora diretto da Antonino Scalfari nonno del più noto Eugenio, portava un titolo chiarissimo e inequivocabile: “I Rigori delle Banche”. Un titolo ed un editoriale in cui denunciava fortemente come “L’assoluta deficienza di capitali gittò i nostri proprietari nelle ingorde fauci degli usurai che, come vampiri, succhiarono ogni vitale alimento economico”. L’editoriale cercava d’interpretare la gran maggioranza dei proprietari terrieri e dei commercianti del circondario in cui la rivista veniva distribuita, manifestando le “generali preoccupazioni in vista dei provvedimenti di soverchio rigore, adottati dal Banco di Napoli e della Banca Nazionale, col non accettare nuove cambiali allo sconto, e col richiedere nella rinnovazione degli effetti in scadenza il pagamento di una quota rilevante del valore degli stessi”. Soverchi rigore che ancora oggi si manifesta. Poco più di un anno fa, nell’ottobre del 2008, Cosimo De Tommaso, imprenditore calzaturiero calabrese titolare di una azienda con 50 dipendenti e oltre 3 milioni di euro di fatturato annuo, lanciò un grido di allarme sul sistema creditizio bancario calabrese che purtroppo è rimasto inascoltato: “In un momento critico per l’economia come quello attuale – scriveva Cosimo De Tommaso nella sua testimonianza al quotidiano della confindustria – il sistema finanziario sta mettendo in atto una serie di “accorgimenti tecnici” che impediscono, in particolare modo alla piccola azienda, di poter operare agevolmente nel sistema creditizio. L’accesso al credito è ormai di fatto bloccato e gli sconfini temporanei di brevissima durata (sempre consentiti) sono tassativamente proibiti”. Qualcuno potrebbe chiamarli corsi e ricorsi della storia economica. A fine ‘800 la produzione della terra, allora unica risorsa delle nostre Calabrie, si faceva “ogni giorno più scarsa, le attività industriali e commerciali languenti e distrutte dal deplorevole abbandono in cui l’aveva lasciata il Governo di allora, senza ferrovie, senza strade, senza porti, senza scuole, senza un ricordo benevolo dei nostri bisogni e delle nostre ristrettezze. (…) Ora gli improvvisi rigori che le banche son costrette di adottare, riescono non solo gravosi, ma spesso rovinosi. Il domani sarà foriero di gravi sciagure, se questa speciale condizione economica non sarà convenientemente valutata da coloro che son preposti alle aziende Bancarie”. “Comprendiamo – anche noi come scriveva Antonino Scalfari oltre un secolo fa – che questi poderosi e benemeriti istituti di credito, nell’adottare siffatti provvedimenti, vi furon costretti da ragioni gravi e d’indole generale, e dai timori che suscitano certi punti neri, anzi certi oscuri nuvoloni che si veggono scorgere all’orizzonte politico; ma noi preghiamo coloro che stanno a capo degli istituti medesimi di considerare anch’essi con amorevole cura i bisogni locali, e le ristrette condizioni economiche, in cui si dibattono coloro che abitano questa regione, a cui danno pare che congiurino la natura e gli uomini”. Intanto, un augurio per un 2010 più “amorevole” per tutti. Banche comprese.

Share