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Campanella vero riformatore anche per la Chiesa. Intervista a Germana Ernst

La razionalità ha valore universale.

Il carcere è una metafora fortissima in Campanella … che consente di apprezzare e far capire veramente che cos’è la libertà


di Filippo Curtosi e Giuseppe Candido

Germana Ernst, ordinaria di Storia della filosofia presso l’Università Roma Tre, lo scorso 3 dicembre 2009 è intervenuta al convegno “Calabria, Italia, Europa – Immagini della Cultura del Rinascimento” organizzato dalla Provincia di Vibo Valentia in collaborazione col Sistema Bibliotecario Vibonese e dal Comune di Francica. La professoressa Ernst, che è intervenuta sull’autobiografia di Tommaso Campanella e su “Natura, profezia e politica nelle poesie di Campanella”, oltre ad essere un’insigne filosofa il cui parere rappresenta “giurisprudenza”, è una persona semplice che da sempre “ama” Tommaso Campanella e la Calabria. Filippo Curtosi, il nostro direttore responsabile, l’ha intervistata a margine del convegno proprio sull’eretico penitente e ostinato Tommaso Campanella che pagò col carcere la libertà del suo pensiero, sulla poesia e sull’attualità della politica di Campanella.

Al Carcere

Poesia filosofica di Tommaso Campanella

Come va al centro ogni cosa pensante

dalla circonferenza, e come ancora

in bocca al mostro che poi la devora,

donnola incorre timente e scherzante;

così di gran scienza ognuno amante,

che audace passa alla morta gora

al mar del vero, di cui s’innamora,

nel nostro ospizio alfin ferma le piante.

Ch’altri l’appella antro di Polifemo,

palazzo altri d’Atlante, e chi di Creta

il laberinto, e chi l’Inferno estremo

(che qui non val favor, saper, né pietà),

io ti so dir; del resto, tutto tremo,

ch’è rocca sacra a tirannia segreta.

E’ Chiaro

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“Germana Ernst, insigne letterata e filosofa che ama Tommaso Campanella da sempre e quindi ama anche la Calabria”

D: Senta Professoressa, Tommaso Campanella eretico impenitente e ostinato che col carcere pagò la libertà di pensiero? Una sorta di ….bile della libertà o che cosa?

R: Non penso che Campanella condividesse questo giudizio di essere un “eretico”. Era un riformatore e riteneva totalmente legittimo, lecito, proporre delle soluzioni di riforma anche proprio all’interno della chiesa stessa, proponendo dei nuovi orizzonti totalmente compatibili con l’ortodossia. Lui non avvertiva se stesso come eretico o in contrasto, o in conflitto, con un cristianesimo inteso in un senso corretto.

D: Qualcuno dice, però, che Tommaso Campanella e Giordano Bruno sono stati perseguitati dall’inquisizione “Romana”. Lei che ne pensa?

R: Si si. Entrambi hanno subito le persecuzioni, però i loro nomi sono stati spesso abbinati però sono due figure molto diverse e, se per Bruno posso condividere l’opinione effettivamente di un conflitto di fondo (con la Chiesa ndr), non è questo il caso di Campanella che è stato perseguitato per varie ragioni e, soprattutto, per il suo forte accento su una prospettiva naturale, razionale, una dimensione naturale e razionale del tutto compatibile, non in conflitto, col cristianesimo.

D: Essere, conoscere e volere. Dipende tutto da queste forze, come dire, primordiali?

R: Campanella prospetta una visione, appunto, di pracsimalità, come lui li chiama. La realtà è essenziata da queste precsimalità che sono il potere, il sapere e l’amore, in varie proporzioni secondo, appunto, le varie prospettive. E lui rilegge l’intera realtà alla luce di questa dimensione metafisica primalitaria.

D: “La Città del Sole” … Un manifesto comunista o una proiezione di una città ideale?

R: E’ senz’altro una città ideale. La rilettura ch’è stata fatta in seguito con visione comunistica, direi comunitaria piuttosto che comunistica che è una cosa un po’ diversa, ed è una prospettiva di una città ideale fondata sull’amore comune che è, come dice Campanella, in conflitto con l’amore egoistico del singolo individuo che, invece, deve raccordarsi con l’amore comune della collettività.

D: Quali sono, secondo lei, i caratteri “calabresi” di Tommaso Campanella?

R: Forse io non conosco abbastanza bene la Calabria. Tommaso Campanella la conosceva senz’altro molto bene nei suoi difetti, nei suoi pregi e, come ho avuto occasione di dire molte altre volte, lui, pur non avendola fruita, essendo vissuto lontano dopo gli eventi della fallita congiura, tornerà con il suo pensiero molto spesso ai suoi paesi di origine, con molto affetto e con molto dolore nel vedere questo contrasto fra la bellezza naturale, la fertilità della terra, dei ritratti caratteriali generosi degli abitanti, e un pessimo governo che l’aveva ridotta in condizioni miserevoli.

D: Un po’ come oggi?

R: Allora c’era più il pretesto che faceva parte di un vice reame di Napoli governato dagli Spagnoli per cui era sottomessa ad un potere “straniero”. Forse, in questa nostra epoca, vi sono meno motivi e, tutto sommato, però attutisce come Campanella avesse capito, già allora profondamente, i poteri della Calabria e avesse prospettato tutte le risoluzioni che però sembra che non siano state prese.

D: Qual’è la modernità di Tommaso Campanella?

R: Campanella è sorprendentemente moderno in molte posizioni. Anche nel prospettare una visione fortemente unitaria dei problemi. Lui si rende perfettamente conto che, i problemi dell’umanità sono di tutti e che l’umanità è una sola. Tutti gli uomini sono figli di uno stesso Dio e per cui sono assolutamente accomunati da problemi comuni che si devono risolvere in modo comune e cercando di trovare delle soluzioni senza conflitti, scontri e guerre tra di loro ma, in nome di soluzioni in accordo, in nome di principi superiori di razionalità, di principi che si ispirano alla ragione e alla natura, che sono, secondo lui, comuni all’intera umanità.

D: Quali sarebbero, allora, i nuovi demoni per Campanella?

R: Per Campanella i nuovi demoni sono collegati, quelli che si oppongono a questa visione razionale, in quanto la razionalità ha valore universale e invece vi sono tutti i pseudo valori che separano, dividono e mettono in conflitto gli uomini. E cioè quelle passioni rovinose legate al possesso di beni materiali, e tutta una serie di passioni rovinose che, veramente, favoriscono l’amore egoistico anziché l’amore comune.

D: Quanto c’è di anti Macchiavelli in Tommaso Campanella?

R: Campanella, in giovinezza, conosce molto bene Macchiavelli e tanta di applicare i suoi “Principi” molto spesso radicati all’interno di un contesto cattolico. Questa è l’operazione, diciamo “giovanile”, prima della congiura e prima di una profonda crisi del suo pensiero. Ma dopo, è profondamente anti Macchiavellico proprio nella concezione della religione. Campanella si oppone e contrasta molto fortemente l’idea di una religione come abile ritrovato dei principi e dei sacerdoti, per ingannare e governare i popoli, per mantenere il proprio potere. Ed è convinto, invece, del principio di una religione naturale che è implicito di tutto il suo orizzonte culturale.

D: Qualcuno sostiene che Campanella sia convinto che la più grande azione magica dell’Uomo è dare leggi. La religione è il rapporto magico. E’ così anche secondo Germana Ernst?

R: Si. Dare leggi è il più grande atto di magia perché attinge, bisogna conoscere, l’animo umano. E il vincolo degli animi, secondo Campanella, è più forte. Un vincolo da cui dipendono anche il vincolo dei corpi e il vincolo dei beni di fortuna. Conoscere e vincolare gli animi, vincolare le incredenze e le incredenze vere naturalmente, è il più grande atto di magia. Anche le religioni false son degli atti di magia perché attingono agli animi. Naturalmente Campanella auspica che gli animi siano vincolati da una religione vera. E la religione vera è quella, appunto, che si ispira a principi razionai naturali.

D: L’Umanesimo di Tommaso Campanella?

R: L’Umanesimo, come ho detto anche prima, non individualistico ma di un uomo che riconosce questi valori di universalità dell’umanità e che riconosce, anche in tutti gli esseri umani e cerca, fa in modo, di migliorare la condizione dell’Uomo sulla terra adeguandolo appunto a dei principi universali di convivenza.

D: Campanella ha fatto degli studi sulla tarantella e sulla taranta. Lei cosa ci può dire?

R: Probabilmente lui ha avuto un’esperienza diretta vedendo questi contadini pugliesi e studiando il fenomeno. Da qui, appunto, è molto interessato proprio perché assiste a questa specie di metamorfosi. Lui è molto interessato alle morsicature della rabbia, la morsicatura dei cani rabbiosi, e intrappolati. Perché sembra che il loro temperamento fisico sia stato alterato da una specie di vera e propria metamorfosi di un veleno inoculato che li ha come trasformati. Per cui studia anche questi fenomeni e queste danze sfrenate, questo bisogno di danzare, da un punto di vista naturalistico e si chiede perché. Queste danze sono spiegate perché (gli avvelenati ndr) hanno bisogno di sudare, di far certi movimenti, anche per espellere tutto questo veleno che li ha inquinati e recuperare la loro fisionomia originaria.

D: Cosa che del resto fanno altri studiosi come Ernesto De Martino e Luigi Maria Lombardi Satriani. E quindi aveva visto prima …

R: Si si, lui aveva visto prima e poi questo è stato un argomento che ha interessato molto gli uomini del Rinascimento. Un fenomeno che è poi stato studiato anche da altri studiosi.

D: Lei, quale massima studiosa di Tommaso Campanella a livello europeo quale viene considerata, cosa ama di più di Tommaso Campanella? La cosa che “la fa morire”?

R: Le poesie. Perché sono veramente, straordinariamente, intense, originali, esaltanti, che esprimono in maniera efficace dei contenuti filosofici in poesia. Un aspetto totalmente insolito per la tradizione letteraria e poetica italiana che è invece basata di più sul lirismo, sull’individualismo, sull’espressione di sentimenti personali. Mentre nessuno ha osato cimentarsi con la poesia filosofica in tempi moderni, se non Campanella che, non a caso, vede come suo grande precursore e compagno di questa impresa il solo Dante che è il vero poeta italiano proprio per i suoi contenuti filosofici di verità, non di velleità.

D: Lei sarebbe andata su di un’isola deserta con un uomo come Tommaso Campanella?

R: Questa è una domanda molto personale, molto imbarazzante. No comment (… Sorride).

D: Ai calabresi e alla Calabria, di cui lei ormai è concittadina per il conferimento onorario di cui la Città di Stilo le ha fatto omaggio, cosa direbbe per portare avanti quel messaggio di Tommaso Campanella?

R: Si calabrese d’adozione. Una cittadinanza onoraria di cui sono molto orgogliosa. Ai calabresi direi di avere più fiducia in se stessi e di imparare, veramente, la pazienza della costruzione. Io sono di origini milanesi e quindi quanto di più lontano, a prima vista, dalla calabresità. Ma amo molto il meridione e amo molto alcuni calabresi. Però, della Calabria in particolare, mi dispiace una certa resistenza ad una fiducia di una costruzione giorno per giorno. Cioè, bisogna capire che per fare qualche cosa per la società e per se stessi, bisogna imparare veramente ad avere fiducia e a costruire, ma con molta pazienza, quotidianamente giorno per giorno.

D: Davvero l’ultima domanda. Ad una studentessa che vorrebbe fare una tesi su Tommaso Campanella, cosa consiglierebbe?

R: Di tesi su Tommaso Campanella se ne fanno tantissime, fin troppe forse. Più che ripetere ciò che è stato detto, direi di impegnarsi seriamente a leggere, a capire, tutti i testi di Campanella, lasciando perdere magari le tante letture inutili o puramente estrinseche, che potrebbero mettere sotto una buona guisa, che potrebbero guidare a fare qualcosa di utile, per far conoscere di più e meglio questo pensiero smisurato che non è solo “La Città del Sole” ma che si dirama in moltissimi aspetti, in moltissimi rivoli.

D: Fra qualche attimo relazionerà sulle poesie di Tommaso Campanella. Qualche anticipazione?

R: Visto la giornata molto fitta non voglio rubare molto spazio agli altri relatori, mi limiterò a leggere qualche poesia, a commentarle, a leggerle, a gustarle e capirle insieme al pubblico.

D: Quale Poesia le piace di Campanella, in particolare?

R: Una che s’intitola “Al Carcere”. Perché, secondo me, il carcere è una metafora fortissima in Campanella. Cioè la poesia ha anche questa capacità simbolica, per cui il carcere, che è un’essenza di vita per Campanella che ha vissuto così a lungo in carcere, in verità è una metafora potente della vita umana. Ed è la metafora che consente di apprezzare e far capire veramente che cos’è la libertà.

D: Marco Pannella, l’altra sera, ha citato questa poesia ed ha parlato pure di lei. Lei cosa pensa di Marco Pannella?

R: Davvero (Ride ed è imbarazzata)? Marco Pannella è una persona che ha fatto molte battaglie che, a volte, si possono condividere, nobili ed assolutamente degne di rispetto.

D: Ringraziamo la Professoressa Ernst. Arrivederci

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La forza della verità e l’apostolo della nonviolenza

di Giuseppe Candido

Gandhi

Gandhi – Wiki

Pubblicato il 27 dicembre su “Il Domani della Calabria” Avremmo voluto ricordare la figura storica di Gandhi in occasione della sessantaduesima ricorrenza della sua scomparsa il prossimo 30 gennaio ma, con il termine violenza ritornato straordinariamente di attualità politica per i fatti che hanno visto Berlusconi ferito da una statuetta e in un momento in cui tutti fanno gara di dichiarazioni ispirate alla condanna di ogni tipo di violenza, ci sembra corretto anticipare il tema e porre la figura di Gandhi al centro della discussione per chiederci se, il suo esempio, serva anche a chiarire la differenza che esiste tra la semplice condanna della violenza e l’uso, continuo perpetuato e costante, della pratica della nonviolenza come mezzo di lotta politica coerente con i fini. Violenza fisica e violenza verbale.

La parola satyagraha significa “forza della verità” e deriva dai termini in sanscrito satya (verità), la cui radice sat significa “Essere”, e Agraha (fermezza, forza). Il satyagrahi è il “rivoluzionario” non violento che fa proprio il compito di “combattere la himsa – la violenza, il male, l’ingiustizia – nella vita sociale e politica, per realizzare la Verità”. Egli dà prova di essere dalla parte della giustizia mostrando come la sua superiorità morale gli permetta di soffrire e ad affrontare la morte in nome della Verità: «La dottrina della violenza riguarda solo l’offesa arrecata da una persona ai danni di un’altra. Soffrire l’offesa nella propria persona, al contrario, fa parte dell’essenza della nonviolenza e costituisce l’alternativa alla violenza contro il prossimo.»

Il 30 gennaio di sessantadue anni fa, Mohandas Karamchand Gandhi, il Mahatma, grande anima, politico ma anche guida spirituale del popolo indiano, veniva ucciso a Nuova Delhi. Mentre si recava nel giardino per la consueta preghiera pomeridiana, un fanatico indù con legami con il gruppo estremistra Mahasabha lo fredda con tre colpi di pistola.

Dopo l’omicidio, nel discorso alla nazione via radio, Jawaharlal Nehru, si rivolge all’india:“Amici e compagni, la luce è partita dalle nostre vite e c’è oscurità dappertutto, e non so bene cosa dirvi o come dirvelo. Il nostro bene amato leader Bapu, il padre della nazione, non è più. Forse mi sbaglio a dirlo, nondimeno non lo vedremo più come l’abbiamo visto durante questi anni, non correremo più da lui per un consiglio o per cercare consolazione e questo è un terribile colpo, non solo per me ma per milioni e milioni in questa nazione”.

Ricordarlo non significa fare storia o nuovi appelli a non dimenticare ma significa, piuttosto, ragionare se, oggi, serva ancora o no il suo esempio. Significa chiedersi se ha senso assurgerlo a modello di lotta per proporre, oggi e nel nostro paese, una rivolta politica, sociale e morale. Le ragioni per una rivolta ci sono, ci sono tutte e, per questo siamo convinti che il modello di lotta debba essere quello del Mahatma. Pioniere del satyagraha, la resistenza all’oppressione tramite la disobbedienza civile di massa, Gandhi ha portato l’India all’indipendenza. “Le future generazioni – diceva di lui Einstein – a stento potranno credere che un uomo di siffatta statura morale sia passato in carne e ossa sulla terra”.

In Italia è stato Aldo Capitini a proporre di scrivere la parola senza il trattino separatore, per sottolineare come la nonviolenza non sia semplice negazione della violenza bensì un valore autonomo e positivo. Il Mahatma sottolineava proprio questo elemento negativo. Oggi, il Partito radicale nonviolento transnazionale e transpartito di Marco Pannella è l’unico soggetto politico che non solo scrive senza il trattino la parola ma applica quotidianamente il metodo di lotta gandhiana sino ad assurgerlo a vero e proprio strumento di rivolta politica sociale e morale. Una rivolta per la giustizia che non funziona e, con le carceri stracolme, uccide Cucchie e i più deboli mentre si mostra eccessivamente tollerante per i colletti bianchi come quelli della Parmalat o della Tiessen che, col processo breve, non pagheranno più il loro debito causa prescrizione. E’ per questo Rita Bernadini, deputata radicale in rivolta, poco tempo fa è scesa in sciopero della fame per la giustizia e per la grave situazione delle carceri italiane. Per questo motivo Sergio D’Elia, ex terrorista di prima linea, sostiene il governo italiano a presentare la richiesta di una moratoria universali delle esecuzioni capitali con uno sciopero della fame. Ed è per questo che i malati di SLA e Maria Antonietta Farina Coscioni scioperano per proporre l’adozione del nuovo nomenclatore tariffario che, ancora oggi, non prevede la sovvenzione di importanti sussidi per i malti. La nonvolenza non è tattica né strategia ma soltanto un mezzo di lotta coerente con il fine, perché non è vero che il fine giustifica i mezzi ma anzi, la storia ci insegna, è vero il contrario e cioè che i mezzi utilizzati sempre condizionano e prefigurano il fine.

L’ingiusto, secondo Gandhi, afferma i suoi interessi egoistici con la violenza, cioè procurando sofferenza ai suoi avversari e, nello stesso tempo, provvedendosi dei mezzi (le armi) per difendersi dalle sofferenze che i suoi avversari possono causargli. La sua debolezza morale lo costringe ad adottare mezzi violenti per affermarsi. Il giusto, invece, dimostra, con la sua sfida basata sulla nonviolenza (ahimsa) che la verità è qualcosa che sta molto al di sopra del suo interesse individuale, qualcosa di talmente grande e importante da spingerlo a mettere da parte l’istintiva paura della sofferenza e della morte. E’ la ricerca della verità di cui parla Benedetto XVI, ma anche la verità che chiedono i parenti di Aldo Banzino e Stefano Cucchi morti tra le mani delle Istituzioni. Nel Vangelo si direbbe che, di fronte l’ingiustizia perpetrata, il “combattente” nonviolento “porge l’altra guancia”, affermando la richiesta di verità e, in questo modo, la bontà della sua causa. La nonviolenza non è tattica né strategia, ma è soltanto il mezzo coerente con il fine. Se si vuole migliorare la società in cui si vive, se si vuole la rivolta, questa non può che essere una rivolta gandhiana, perché altrimenti, il mezzo violento che ha caratterizzato le rivolte passate, sarà in grado di comprometterne il fine. E’ per questo crediamo che, alla domanda che qualche tempo fa anche Sofri su La Repubblica si poneva, se serva o meno il suo esempio, la risposta sia candidamente si. In un tempo in cui il Natale è sempre più un fatto “consumistico” c’è da credere che, l’esempio dell’apostolo della nonviolenza che con la marcia del sale guidò un paese alla rivolta e alla disobbedienza civile serva ancora al mondo intero, e serve al nostro paese che ha bisogno sempre di più di una rivolta gandhiana, ecologista, democratica, politica, civile.

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S.P.Q.V. Senatus Populusque Vibonensis

Federalismo: niente di nuovo.
Vibo Valentia godeva dell’autonomia municipale e batteva moneta anche quando “queste contrade erano sotto il dominio dei Romani”

di Giuseppe Candido

Stemma araldico del comune di Vibo Valentia - Calabria - Italy
Stemma araldico            Vibo Valentia – Calabria – Italy

Giovan Battista Marzano (Laureana di Borrello RC, 1842-1902) fu un calabrese studioso di storia e delle tradizioni popolari, linguista. Tra le sue numerose pubblicazioni di cui ricordiamo qui soltanto, a puro titolo esemplificativo, il “Dizionario etimologico sul dialetto calabrese”, “Una pagina della nostra storia Municipale, ossia la Città di Monteleone di Calabria dal 1420 al 1508” e “Delle origini calabre, ossia studi storici intorno agli Osci”, ve ne una pubblicata nel 1904, oltre cent’anni fa, specificatamente dedicata all’emblema araldico della Città di Vibo Valentia dove allora ci si chiedeva, nella discussione in seno al civico consesso, se inserire o meno la sigla S.P.Q.V. denotante l’acronimo di Senatus Populusque Vibonensis.
“A me, che in quel momento capitavo in mezzo a loro – spiega lo studioso – vollero anche porre il quesito e dimandare come la pensassi; ed io fui sollecito a dichiararmi per l’affermativa, e n’assegnai le ragioni, precipua che Vibo Valentia, cui successe l’odierna Monteleone, era stata Municipio Romano, e come tale reggevasi con le sue leggi, nominava i suoi magistrati, aveva il suo Senato, batteva le sue monete”.
E in effetti, l’emblema araldico di Vibo Valentia contiene oggi uno “scudo partito d’oro e di rosso e al terzo superiore, spaccato di azzurro: nel primo a tre monti verdi e sul medio più alto un leone rampante lampassato di rosso, di cui una metà nel campo azzurro; nel secondo ha due corna d’Amaltea d’oro, colme di frutta dello stesso, e un’asta d’argento sostenente sull’estremità una civetta nel campo d’azzurro. Sullo scudo: una corona reale antica; sotto le sigle S.P.Q.V.” di cui Marzano discute nel volumetto “Le sigle S.P.Q.V in rapporto all’arma della Città di Monteleone di Calabria” pubblicato dalle tipografie Passafaro nel 1904 e fortunosamente ritrovata tra la polvere delle antiche riviste e delle antiche pubblicazioni in disponibilità di un facoltoso signore calabrese. Vibo Valentia, come Reggio, fu elevata a Municipio non negli ultimi tempi dell’Impero, ma durante durante la Repubblica in forza alla legge Giulia , promulgata nel 664 di Roma, in seguito alla guerra sociale. “Quei signori, pur plaudendo alla mia risposta – scriveva Marzano nello spiegare le motivazioni del suo studio – mi fecero intendere che avrebbero desiderato da me, sul proposito, una memoria a stampa, nella quale svolgendo ampiamente le idee, sopra appena accennate, le avessi anche corroborate con prove storiche, autentiche, irrefragabili, e ciò non solo per illustrare un punto della nostra storia antica, ma ancora perché rimanesse un ricordo giustificato delle ragioni, per le quali si vorrebbe fare tale aggiunzione allo stemma cittadino.” Marzano, da storico qual’ era, ne accettò di buon grado l’incarico svolgendolo nella pubblicazione citata. Nello studio si esamina quindi l’organismo reggimento intero di Vibo Valentia con lo scopo di capire se questo fosse veramente autonomo da costituire appunto un Municipio. A riprova della sua tesi Marzano adduce non solo dati storici, evidenze di marimi letterati, e monumenti epigrafi ma anche numismatiche che, per lo stesso Marzano, rappresentano quelle decisive. Senza entrare nei dettagli epigrafici citati nel volumetto cui si dovrebbe, a parer di chi scrive, provvedere certo e al più presto ad una ristampa anastatica per conservarne memoria anche tra le giovani generazioni, Marzano dimostra, con prove documentate che Vibo Valentia meritava di apporre le sigle di “Municipio nobile”. Non soltanto perché “lo attesta Cicerone, -non solo perché tale epiteto è consacrato in un marmo letterato, ma ancora per la sua costituzione autonoma, che ci è sufficientemente spiegata dai non pochi monumenti epigrafici, innanzi riportati, e, soprattuto, dalle sue monete”. Monete che recavano, secondo l’autore, il più decisivo argomento d’autonomia municipale poiché era noto, che soltanto le Città autonome avevano il diritto di conio. La leggenda Valentia sulle monete coniate successivamente alla conquista che ne fecero i Romani denota chiaramente che la Città d’Ipponio avesse conservato l’autonomia di Municipio anche durante la dominazione.

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Il nuovo numero di Abolire la miseria

Periodico nonviolento di storia, arte, cultura e politica laica liberale calabrese

Care amiche e cari amici di Abolire

Abbiamo chiuso ieri, 18 dicembre, alle ore 23.00, il nuovo numero che, in queste ore, è in stampa. Piombo su carta dunque e, ancora per questo numero unico del 2009, sarà distribuito ai nostri sostenitori e, in copia omaggio, con tiratura di 10.000 copie, nelle cinque città calabresi capoluoghi di provincia, nella provincia di Catanzaro a Lamezia Terme, a Soverato e nei principali comuni della fascia ionica catanzarese. Registrato presso il Tribunale di Catanzaro col n°1 il 9 gennaio 2007, Abolire la miseria della Calabria giunge dunque al suo terzo anno di esistenza. Sia pur con pubblicazioni sporadiche, in relazione alla scarsità di fondi, e con vicissitudini ingrate, siamo ancora qui. Completamente rinnovato nei contenuti e, parzialmente nella grafica, Abolire la miseria della Calabria si propone, quale organo d’informazione dell’associazione di volontariato culturale “Non Mollare”, il fine di promuovere la diffusione della storia e della cultura della nostra regione per aumentare il livello di consapevolezza e di coscienza critica, attraverso la collaborazione volontaria degli autori, cui va uno specifico ringraziamento. Siamo cambiati assumendo la dizione di “Periodico nonviolento di storia, arte, cultura e politica laica e liberale calabrese” perché crediamo che, nel periodo che viviamo, che il nostro Paese sta vivendo, di cambiamento ci sia una forte necessità, soprattutto in Calabria, ma crediamo pure che, la rivoluzione necessaria e urgente, debba essere nonviolenta e di tipo culturale.

Abolire la miseria, abolire la povertà degli strati più in difficoltà della popolazione, nazionale e mondiale, è sempre di più cosa urgente e di straordinaria attualità. In Calabria, per farlo, abbiamo bisogno di riappropriarci della nostra storia perché conoscere cosa si è stati significa comprendere meglio ciò che si è e ciò che è l’altro.

L’associazione “Non Mollare” per questi motivi intende promuovere il recupero delle tradizioni popolari e della cultura calabrese attraverso azioni formative, informative ed editoriali anche multimediali, volte ad ampliare la conoscenza e la diffusione delle ricchezze della nostra regione in Calabria, in Italia e nel Mondo. Cercheremo di pubblicare una collana di studi di livello scientifico e che attingono all’ordine culturale del nostro territorio calabrese, con l’intento di riproporre editorialmente le zone meno esplorate del patrimonio culturale calabrese e, allo stesso tempo, affrontare argomenti e aspetti inediti della storia non solo locale. Rivolgendoci ai migranti e, nello specifico, al migrante calabrese, in realtà il progetto culturale che abbiamo in mente prevede il recupero e la valorizzazione editoriale delle tradizioni popolari calabresi e non calabresi, dei migranti di oggi e di ieri, come strumento “politico” in grado di promuovere l’integrazione delle identità culturali di un popolo e quindi di tutti i popoli. Nello specifico il progetto di “Integrazione delle diversità col recupero della cultura e delle tradizioni popolari calabresi” prevede studi, ricerche, pubblicazioni anche multimediali e/o web supportate, l’organizzazione di convegni, seminari di studio, manifestazioni volte alla pro- mozione, qualificazione e sviluppo delle seguenti tematiche:

a) Il teatro popolare in Calabria; b) Il brigantaggio nel decennio francese; c) Emigranti ed immigrazione: il caso dei libertari calabresi; d) Un secolo di stampa vibonese: antologia funzionale delle prin- cipali testate calabresi dagli inizi dell’ottocento agli inizi del novecento; e) Saggi su medicina popolare, usanze e credenze. Prevediamo la stampa di specifiche pubblicazioni, la loro diffusione anche medi- ante internet e la prosecuzione della stampa del bollettino dell’associazione “Non Mollare”, Abolire la miseria della Calabria, (con periodicità trimestrale). Pertanto, nel porgere il nostro sincero augurio per un Buon 2010, vi chiediamo di sostenerci. Abbonandovi o versando un piccolo contributo.

In quest’ottica, anche l’attività editoriale di Abolire la miseria della Calabria si adegua divenendo organo e strumento di informazione e ricerca storico-culturale per la nostra regione. Uno strumento partecipativo cui potranno unirsi altri collaboratori volontari.

Abolire la miseria della Calabria

Anno III Numero Unico



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Su e giù per Monteleone

di Filippo Curtosi

caffé minerva in Monteleone Calabro, oggi Vibo Valentia
caffé minerva in Monteleone Calabro, oggi Vibo Valentia

Il giovane professore Ausonio Dobelli, mandato ad insegnare nel regio liceo di Monteleone di Calabria dove insegnava pure Luigi Bruzzano direttore della rivista di letteratura popolare “La Calabria”, scrisse una lettera ad un suo amico di Milano, per fargli sapere alcune usanze osservate nei paeselli calabresi e che Luigi Bruzzano, appassionato di tradizioni popolari della Calabria, pubblicò sulla sua Rivista di letteratura popolare. Con un linguaggio un po’ arcaico e forse per questo ancor più bella e trattandosi di una lettera che ci riguarda; che riguarda la vita popolare calabrese di un tempo, una lettera che come un affresco dipinge il paesaggio colorito della nostra terra, dell’abito locale, delle feste, crediamo anche noi sia quantomai opportuno pubblicarla sul nostro periodico a distanza di oltre centodieci anni.

Filippo Curtosi

Monteleone Calabro, 2-12-1899

Caro Edoardo,

…. E davvero, oltre alla radiosa lucidezza del cielo e del mare – azzurro sorridente nell’immenso sole – oltre alle vedute mirabili che l’altopiano ci affaccia ne’ pianori e ne’ poggi folti delle morbide selve degli ulivi, e ci apre nei lenti valloni rivestiti di orti e vigne e frutteti, di quanti altri spettacoli belli o nuovi l’osservatore più superficiale pasce la mia curiosità!

Nell’ultima mia, parlando degli usi comuni, m’impegnai pure di offrirti il disegno colorito dell’abito locale e degli abbigliamenti; in questa cercherò di radunare brevemente e disporre in quadretti (di quale efficacia poi?) le memorie di alcuni episodi, che mi occorsero nelle frequenti passeggiate.

M’è presente ancora, pallido, come traverso a un velo sottile, un incontro triste, di mattina.

La nebbia, tenuissima, vestiva del suo chiarore biancastro le nubi e le distese campagne alte ai fianchi dello stradale, che io, ravvolto accuratamente nel mantello umidiccio, ripercorrevo verso la città; da lungi si svelavano a amano a mano le due file dei tronchi neri e le informi oscurità delle fronde. Ad un tratto mi apparsero lontano delle bianchezze esigue, in moto vivace; poscia, in un ciaramellìo confuso che tremava nella fumana immota, vidi avvicinarsi, disposti in processione, due file di bimbi scalzi, ricoperti di un sottil camice bianco, chiacchieroni ed allegri; dietro loro, colla croce e l’aspersorio due sacerdoti precedevano un feretro breve poggiato sulle spalle di contadini, seguito da poche donne raccolte. Nulla, che non fosse comune, nel povero cofanetto nero distinto dalle linee gialle agli orli superiori degradanti in lunghezza sino al sommo, ove si drizzava un’argentea figurina alata dalle membra grassocce; ma ai lati della piccola bara quattro donne involte nell’ammasso dei loro cenci venivan portando sul capo le anfore funerarie: alla brace salivano le volute lente dell’incenso votivo.

Qualche altra volta già avevo udito le prefiche vocianti le loro nenie dietro al lungo velo della chioma, o bisticciarsi al ritorno dal campo santo, pei pochi soldi guadagnati di fresco, ma veramente solenne m’apparve allora l’ufficio silenzioso, cinto nel pallore ampio del cielo, al quale le bocche dall’urne esalavano la prece pallida dell’incenso.

Giunto a casa, non potei soffermarmi tra le pareti malinconiche, e , terminato appena il pranzo, con un buono amico discesi a un paesello vicino.

Vanite le nebbie, sorrideva nell’azzurro la dolcezza maliosa dell’auro pomeriggio autunnale, entrava a fiotti nelle viuzze la luce magnifica, disegnando nitidamente delle povere case e dei verdi alberelli diritti in ghirlanda nella piazzola. D’innanzi alla casa comunale s’agitava allegramente una frotta di ragazzi mal coperti da brandelli di giacche e di calzoni, in attesa dei confetti e degli sposi; noi, invitati gentilmente dal sindaco, salimmo in aula, ci affacciammo alla finestra. E alla svolta della via principale, ci apparve il breve corteo: un’iride.

Una decina di ragazze strette ai fianchi della sposa, seguite da poche donne e da tre o quattro contadini attornianti lo sposo s’avvicinavano lentamente: questo era il tutto, ma quale infinita varietà di tinte negli abiti adorni della festeggiata, e in quelli delle giovani amiche! I corsetti del color dell’indaco e della rosa, allacciati dinanzi da fettucce verdi, gialle, rosse, cilestrine, lasciavano trasparire agli orli superiori i ricami delle camicie candidissimi sui colli e sui polsi abbronzati; al basso confine delle strette maniche giravano due larghi e corti nastri, vermiglio l’uno e verde l’altro; lunghi orecchini d’oro pendevano ai lati delle larghe facce rotonde, e si aggiravano sui seni poderosi due o tre catenelle variamente intrecciate; le gonne, vergognose del solo azzurro (però di gradazioni infinite) o delle lunghe strisce grigie, si nascondevano sotto a grembiuli, ciascuno de’ quali era una festa, una miriade di tinte e sfumature: qua rosso, la turchino, più giù rosato, violaceo e che so io; lucevano a terra le scarpe, testimonio rarissimo di festa, gialle tutte e a bottoni, nuovissime alla sposa. Salirono, e dietro loro, in meraviglioso contrasto, le madri sotto la usuale tovaglia sporca, nel solito arruffio delle vesti stracciate, sui larghi piedi neri, ed i padri pure scalzi, colle camicie brune aperte sui petti bruni; più dietro e dovunque si strinse nella stanza la frotta seminuda e schifosetta dei ragazzi e delle bimbe, ammirando. Quindi, come la sposa ebbe ad occhi bassi buttato al sindaco il suo si , e questi lesse d’un fiato i precetti legali, lo sposo, tratta rapidamente di tasca la mano, gettò sull’ampio registro aperto sul tavolo un cartoccio di confetti gonfio, gualcito e sudicio; uno dei testimoni lo imitò, e la compagnia si sciolse in parte nella piazzetta, dove i fanciulli si rotolavano per terra vociando nella caccia di dolci, che piovevano dalle nostre mani aperte sul davanzale.

Pochi giorni dopo, mi fu dato di contemplare la sagra annuale dello stesso villaggio; nella processione confusa e sonora (alta saliva la laude a S. Nicola: lu grandissimu santu – che è celebratu pe tuttu lu mundu) avanzava il venerabile simulacro poggiato sopra un piedistallo di legno e su quattro spalle robuste. E vicino al santo era incastrata nel piedistallo stesso una pentola lignea, da cui parea stessero uscendo quattro rozze figure di bimbi ignudi: il miracolo maggiore del patrono, la salvazione stupenda degli innocenti immersi nel liquido bollente dalla ferina mano del padre. Avanzava l’immagine benigna nella via principale, e la lunga teoria de’ camici bianchi e de’ camici rossi cogli stendardi e le candele precedeva lentamente; dai volti rugosi, dai capelli secchi attorno alle vene sporgenti scendevano colle barbe grigie e biancastre i cordoni variopinti, terminanti in nodi, in fiocchi, in pennelli di mille colori; dietro al santo passavano mimetizzandosi le ragazze strette nell’abito festivo, sotto le tovaglie nuove bianche e ricamate agli orli, o di seta nera per alcun lutto recente, quali ben calzate, quali scalze, quali colle scarpe gialle luccicanti sulla pelle oscura del piede; quindi venivano le donne un po’ meno sucide del solito, e gli uomini nei brevi giubbetti e nei più brevi calzoni di velluto nero-azzurrino, colle mutande ancheggianti dal ginocchio sino a terra. Ma negli sbocchi numerosi dei vicoletti le compagne sostavano, solo l’effige benedetta varcava ogni mucchio di letame suino, ogni larga fossa di fango e d’immondizia, lustrato ogni angolo del paese, e da ogni angolo uscivano donne colle offerte esigue della povertà, sbucavano uomini scamiciati, curvi sotto sacchi di granturco, saltavan fuori ragazzi quasi nudi, quasi neri, con ceste di frutta sul capo: tutti attorniavano il santo, entravano confusamente nella processione.

(continua)

E la sagra di Piscopio? Ah veramente qui m’ invase una meraviglia grande. Una devozione illimitata avvince questo paese all’altare dell’arcangelo trionfatore, ogni madre impone ad uno almeno dei propri nati il nome di Michele; tutti, alla ricorrenza festiva, gareggiano nelle offerte, e con tanto ardore, quale mi trasparì nelle parole di uno de’ più miseri fra loro: << La festa costò 7000 lire, ma fu eclatante, e , del resto, dovessimo torci di bocca il pane, a S. Michele bisogna rendere onore >>. E furono davvero due giorni di bagliori e di giocondo frastuono.

Disceso al villaggio, nel nitido pomeriggio della vigilia, attraversata la doppia fila degli assiti pronti per le girandole e per glia altri fuochi artificiali, m’ apparve tra le prime case il ballonzolo dei cammelli. Lo zampognaro sonava a perdifiato; ne seguiva il tempo con salti e dondoli un uomo invisibile dietro a una gualdrappa di stracci, sotto una macchina commessa d’assi e di travicelli, che nella coperta di cartone colorito somigliava poco al corpo di un cavallo; questo era il primo cammello, e vicino a lui saltellava sfrenatamente il secondo: un ragazzotto robusto, serio in volto e grave, chiuso dal petto all’ingiù in un ordigno di legno e cenci simile al primo. Doveva forse rappresentare per la piccolezza e per la rapidità dei movimenti il baldo nato dall’animale maggiore, si che talora, a qualche frase più lenta e rotonda della zampogna, si permetteva di girare attorno al genitore; il quale, dal canto suo, spinto dall’affetto paterno s’apprestava talvolta, dondolando sempre, al piccino, e , separate da un tratto di spago le mascelle, fingeva di lambirlo. Ma allora questi d’un balzo s’allontanava , e riprendeva per conto suo il trotto e il volteggio fra le risa di tutti e gli urli e le provocazioni inascoltate dei bimbi dal calzone spaccato, delle bimbe involte nella camiciuola sporca. Levando gli occhi, sfilavano ai due lati della via i pali dritti per l’illuminazione, già tutti rivestiti in varia forma de’ bicchierini variopinti, e le bacheche colme di paste, di figurine dolci colorite, di candele corte e sottili; ma dove la contrada allargandosi concedeva appena lo spazio necessario, una grossa impalcatura di legno rotondeggiava cinta di verzura e di rami ornati di fronde e di lumicini: di qui doveano il domani allargarsi pel paese tutto pei campi agli accordi e i disaccordi delle musiche e delle fanfare.

Grosso, liscio, altissimo si drizzava l’albero della cuccagna.

Entrai nella chiesa, già pomposamente addobbata, in compagnia d’una giovenca grigia, che veniva a ringraziare in persona il santo per la guarigione: la trasse all’altare con una grossa corda il contadino, quindi, porta l’offerta votata, se ne andarono benedetti. Solo lucevano nell’ombra densa sette od otto candele assai lunghe e grosse nelle mani di alcune figure femminee, che, mi si disse, doveano per voto attardar digiune, inginocchiate nel banco, sino alla consumazione della cera. Occorrevano certo tutte le ore notturne; spaventato, sbirciai il gruppetto delle devote, ed ammirandole di tutto cuore, mi incamminai a lunghi passi verso il pranzetto che m’attendeva a Monteleone. E il domani ripercorsi la strada.

Le ore antimeridiane passarono lente e quasi chete, assorte nelle cerimonie in chiesa e nella aspettativa della processione; ma allorché questa simile ad una lunga iride, preceduta dalla musica, si stese e serpeggiò per le viuzze – di tra le fronde festive dense attorno ai pali la indorava il polverio luminoso dei raggi solari – la meraviglia, la commozione, l’ansia e la gioia dell’evento proruppero irresistibilmente nella gazzarra dei bimbi, nell’allegro vocio delle donne, nel gesticolare spensierato degli uomini, che si additavano a vicenda, con una certa ammirazione soddisfatta, la spada di S. Michele. E lampeggiando il sole nelle labbra d’argento, l’arcangelo adesso pareva sorridere lieto dei numerosi biglietti da una, da due, da cinque, da dieci e fin anche di venticinque lire, che dei fili quasi invisibili di rete, legavano all’arma vittoriosa ( a me sovveniva de’ pellegrinaggi, che pochi mesi fa ho visto giungere e allungarsi nelle vie della storica Empoli, alla venerazione di un crocifisso miracoloso, e rivedeva le croci vestite da carte-valuta o disegnate con monete d’argento, che si stagliavano alte fra i pellegrini ).

Dopo uscirono in piazza, ballando a suon di musica sino a sera, il gigante e la gigantessa: due macchine alte e grosse, mal ricoperte di vestiti in forma d’uomo e di donna, e comparve infine, fra le risate degli accorrenti, la tavola dei fantocci. La portava sul dorso, avanzando a suon di zampogna un villano nascosto dietro al sudicio panneggiamento che scendeva dall’orlo sino al suolo; le due marionette alte un cubito, vestite l’una da giovinotto, l’altra da sposa si rizzavano immote; ma, quando ad ogni bivio lo zampognaro e il piffero si piantavano fermi sulle gambe aperte, la tavola poggiava sui quattro piedi, il burattinaio sempre invisibile si sedeva per terra, e, tirando o allentando gli spaghi, faceva sgambettare la coppia innamorata. Il fantoccio virile muoveva le flaccide gambe, e danzando s’inginocchiava dinnanzi alla bella, quindi con gesti bruschi pareva volesse esprimerle l’intenso ardore del suo affetto; ella, pur ballando, dichiarava il volto ridente ed allargava le braccia, ma poi, ritrattale, col moto rigido della spinta in avanti lo respingeva. Egli nella danza rizzavasi e si volgean le spalle, ma poi ritornava all’assalto, e, fatto fatto più ardito da un’accoglienza migliore, alzata d’un tratto la mano, a scatti la muoveva carezzando su e giù per le forme femminili: e qui succedeva davvero la tragedia, giacché la bella, offesa nel pudore, rispondeva botta per carezza, calcitrando, ossia buttando innanzi una gamba ad intervalli regolari, fino a che il maschio, stanco di prenderne, rompeva ogni tempo, e si sfogava con una tempesta di schiaffi e di scappellotti all’addolorata sempre ridente. E dalle bocche di tutti intorno sgorgavan le risate sincere, irrefrenabili, sonore come una grande corrente di gioia, mentre agli orecchi ormai avvezzi batteva quasi inascoltato il monotono ronzare della zampogna instancata. Più innanzi verso la chiesa, si danzava qua e là: erano soltanto giovinotti, che a die a due guidati da un organetto, muovevano a scatti, a giri saltando o piroettando, le gambe cinte dal velluto azzurrino, e s’incurvavano, guardandosi curiosamente le flessioni del ginocchio e si giravano intorno; ad un tratto un terzo si frammetteva, e, levato il berretto, fissava uno dei primi, questi cessava immediatamente, e la coppia, rinnovata in parte proseguiva la gara. Le vecchie li ammiravano, le ragazze alla finestra fingevano di non guardarli, qualche nonno, toltosi di capo il berretto verdastro, lunghissimo, vi frugava sino al fondo, ne traeva il cartoccio del tabacco, caricava tranquillamente la pipa.

Alle cinque di sera la chiesa s’era quasi empita di gente per la cerimonia grande, ed io vi entrai in mezzo ad una compagnia d’ampli toraci e d’ottoni, che, per mio meglio, si fermarono in fondo. Meraviglioso spettacolo! L’umile chiesetta era scomparsa, travestita sfarzosamente da teatro. Dietro l’altare modesto scendeva dal soffitto un ampio e greve manto di color rosso cupo, tondeggiante nei molli seni, nelle spesse concavità, e s’aggirava ai lati del vano intero, appoggiandosi alle colonne, ove si raccoglieva in addobbi gonfi, a guisa di quinte. Innumerevoli candele disposte in tre file sull’altare e a’ suoi fianchi schiarivano i fiori e gli ornamenti nuovi, ma sul primo cornicione sporgente lungo tutte le pareti dell’aula all’altezza di quattro uomini correva una fitta linea di ceri, coi lucignoli congiunti da un filo impeciato di resina. Infiammato questo in vari punti, la luce percorse rapida il giro, e piovve copiosamente dall’alto sui corpi e sui volti accesi nel rosso cupo uniforme; non bastando, s’ apersero alcuni becchi di gas acetilene e il calore cominciò a farsi insopportabile. Chi può ritrarre l’orgoglio soddisfatto, che traspariva calmo, sicuro dalle faccie di quei poveri contadini ? E l’ammirazione ineffabile delle donne sporche e stracciate, a bocca larga, ad occhi fissi, mentre al gonfio seno scoperto succhiava l’ultimo bambolone ? Ed anche il bestiame minuto dei bimbi nudi e seminudi s’era chetato … ma ad un tratto scrosciano nell’ambiente sonoro le prime battute della marcia reale e sullo sfondo appaiono dei cartelloni quadrati, mossi in leggero dondolio da una corda maneggiata dietro l’addobbo. Sui quadrati si disegnano dei busti spaventosi: gli angeli ribelli, e degli ammassi oscuri: le nuvole; da entro le quinte si proietta su loro i riflesso infernale dei bengala vermigli, ed ecco nell’orrida scena apparire in cartone intagliato la figura dell’arcangelo irradiata da bengala azzurri, minacciosa, brandente la spada. Il cozzo antico si rinnova brevemente fra i suoni italiani, e i demoni si sbandano nella rotta confusa, colle nubi, mentre un secondo S. Michele, quieto, glorioso succede al primo, nello splendore aureo di Paradiso. E gli uomini e le donne e i ragazzi si agitano nell’ammirazione irrefrenata, la marcia reale invade ormai fiocamente la chiesa rumorosa, il frastuono e il calore mi spingono al di fuori: eccomi uscito, al buio, sotto la immensa pace del cielo tempestato di stelle. Proseguo.

La cuccagna è già vinta, le osterie riboccano di gente intenta alle salsicce, pochi uomini discorrono attorno ad una fanfara disposta sulla impalcatura della piazza maggiore. Ma allora corrono gli accenditori: in breve glia angoli più riposti s’aprono alla luce variopinta e la piazza fiammeggia; ecco apparire da lungi una carrozza, nella quale brillano i bottoni di un ufficiale dell’esercito, il messo comunale, acceso di zelo, rianima il patriottismo della fanfara, risuona la marcia reale, il paese si riversa nelle vie. Stordito prendo la via del ritorno, ma il transito è impossibile, troppo folta è la turba intesa ad ammirare i fuochi artificiali che drizzano al cielo due pirotecnici in gara.

E quando, spentosi l’ultimo razzo, spero di incamminarmi nella quiete, un’ondata di gente mi rapisce, mi trascina: è la fiaccolata in onore dell’angelo una lunga fila di giovani con torce fumigginose che corrono attossicando le vie sino alla chiesa; di là soltanto posso, se Dio vuole, dilungarmi nella campagna oscura, silenziosa … .

Ausonio Dobelli

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“Finanza creativa” del dottor Stranamore

di Giuseppe Candido

Giuliano Tremonti - dottor Stranamore?
Giuliano Tremonti – dottor Stranamore?

Martedì prossimo, 15 dicembre, ricominceranno i lavori sulla manovra fiscale con il Governo che, molto probabilmente, chiederà un’ennesima fiducia sul provvedimento prevedendo il disco verde sia al disegno di legge di bilancio e sia a quello sulla finanziaria per giovedì. La manovra che, al netto di sorprese dell’ultimo secondo, dovrebbe essere licenziata a Montecitorio senza modifiche, passerà poi in Senato, per la terza ed ultima lettura, la settimana prima del Natale. L’opposizione ha ridotto a soli 49 gli emendamenti presentati con il fine, dichiarato, di togliere “l’alibi dell’ostruzionismo” e consentire una discussione sul provvedimento “normale”, senza “l’esautorazione delle prerogative del Parlamento rappresentata dal voto di fiducia” e garantendo di arrivare al voto finale del provvedimento entro giovedì, con gli stessi tempi, in pratica, in cui verrebbe approvata qualora il Governo decidesse di porre la fiducia. Davvero una situazione paradossale. Per essere più chiari, Dario Franceschini, intervistato da Giovanna Reanda, ai microfoni di Radio Radicale ha dichiarato che “Difronte ad un’opposizione che – tutta insieme – presenta 49 emendamenti soltanto e garantisce di far approvare la finanziaria negli stessi tempi in cui verrebbe approvata col voto di fiducia è chiaro che, se a questa offerta la maggioranza dicesse no, il governo pone la fiducia perché ha paura che non ci sia tenuta politica tra i propri parlamentari”. E che tra la maggioranza vi siano delle crepe è evidente. In effetti, il Professore Giuliano Cazzola, economista riconosciuto e deputato del PdL, pure lui intervistato dalla giornalista, ha evidenziato le sue perplessità sulla manovra che, tra le risorse in entrata, vede soltanto la variabile rappresentata dallo scudo fiscale per il rientro dei capitali e l’utilizzo del TFR, il trattamento di fine rapporto dei lavoratori dipendenti, destinato per i fabbisogni dello Stato. Un’iniziativa, quest’ultima, che secondo lo stesso On.le Cazzola, “Rientra nel novero della finanza creativa cui ci ha abituato Giuliano Tremonti”. Anche se, continua Cazzola, “Il TFR dei lavoratori non corre nessun rischio, perché la legge prevede che, nenanche nel caso in cui le aziende con più di 49 dipendenti siano tenute a versare il TFR maturando al fondo gestito dall’IMPS, sono sempre le aziende a restare responsabili del TFR stesso nei confronti dei lavoratori e quindi i lavoratori andranno a riscuotere il TFR sempre dal datore di lavoro il quale si arrangerà con l’IMPS in termini di compensazione delle erogazioni sborsate rispetto a quello che deve dare, ad altro titolo, all’IMPS”. Un meccanismo questo che non danneggerà i lavoratori ma che, sostiene il deputato del PDL, rappresenta soltanto per modo di dire una “partita di giro” come invece l’ha definita Tremonti e questo perché, “In realtà sono risorse a disposizione dello Stato, che lo Stato aveva destinato ad altre finalità, e queste finalità oggi vengono cambiate. Si tratta di soldi che vengono tolte alle imprese e non vengono tolti ai lavoratori, ma un a diversa allocazione c’é”. Il parlamentare PDL spiega che “Di singolare c’è che, quando questa norma (sul TFR ndr) venne varata dal Governo Prodi nel 2007, queste risorse, cifrate in 6 miliardi di euro l’anno, dovevano essere destinate ad investimenti, soprattutto per opere pubbliche e infrastrutture e, in questi anni, sono serviti per la TAV, per le ferrovie dello Stato, per leggi a sostegno delle imprese. Oggi, in buona parte, per la parte cioè eccedente l’uso che si fa per la liquidazione del TFR, saranno destinate alla sanità, in parte in investimenti in conto capitale, per l’edilizia ospedaliera, ma, un’altra parte andrtà per interventi che rientrano nella spesa corrente”.

In pratica niente aiuti alle imprese, niente investimenti per infrastrutture o per il rilancio dell’economia ma destinazione del TFR per coprire la spesa corrente della sanità col rischio, non infondato considerata la situazione della Sanità nelle diverse regioni, che diventi strutturale con l’impossibilità futura di destinare l’uso di tali risorse per gli scopi di sviluppo cui erano destinati in precedenza. Un aspetto, questo, se non altro originale considerati i tempi di crisi che invece richiederebbero, con questi chiari di luna, un’aiuto alle imprese sia come sgravi promessi e sia anche con la realizzazione e l’ammodernamento della rete infrastrutturale. “Non c’è traccia di aiuti neanche come sgravi IRAP. Una mossa di dottor Stranamore, una battuta simpatica – conclude Cazzola – che in qualche modo esprime la situazione”.

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Chiesa: “istituzione anacronistica”. Lo scisma è qui?

recensione di Alessandro Litta Modignani

Il viaggio di Chiaberge fra i cattolici adulti

Lo Scisma. Il libro di Riccardo Chiaberge
Lo Scisma. Il libro di Riccardo Chiaberge

Nel suo lungo viaggio fra i cattolici adulti (“Lo scisma – Cattolici senza Papa”, 300 pagine, Longanesi) Riccardo Chiaberge si reca in visita a una cospicua lista di quei credenti, quasi tutti cattolici praticanti, che mandano puntualmente il cibo di traverso alle gerarchie vaticane. Sono personaggi noti e meno noti, laici ed ecclesiastici, storie di vita e di fede che non rientrano nello stereotipo che vorrebbe il “buon cristiano” ligio ai dettami della Chiesa.

La carrellata parte dal frate eremita che si oppone “alla concezione anticristiana della vita e della famiglia diffusa dal berlusconismo”, non risparmia Radio Maria (“Per me è un veleno…. Un fanatismo lontano anni luce dal messaggio evangelico”) e osserva acutamente: “Celibe dev’essere il monaco, non il prete”. Poi è la volta della cosiddetta “secessione viennese”, con il suo cupo corollario di scandali a sfondo pedofilo. Sfilano i parroci di base, le suore comboniane, i gesuiti non allineati, i “missionari in Padania” – e naturalmente quelli in Africa, che distribuiscono preservativi per limitare la diffusione dell’Aids. Un apposito capitolo è dedicato ai “Preti in amore”, i vari Bollettin, Milingo, don Sante e molti altri.

Particolarmente ricco il fronte dei cattolici impegnati nella ricerca scientifica e nelle nuove frontiere della medicina, da Giorgio Lambertenghi Deliliers a Elisa Nicolosi, a Elena Cattaneo e naturalmente a quel don Luigi Verzé che ha ammesso di avere “staccato” su richiesta, dalla macchina che lo teneva in vita, un suo amico paziente terminale. Lambertenghi alza gli occhi al cielo commentando l’accanimento di chi vuole nutrire forzatamente un corpo dopo 17 anni di vita vegetativa: “Lo so, cosa vuole, i bioeticisti…. Oggi sono molto di moda. Molti di loro non conoscono gli ospedali, non sono mai stati in una corsia…. Persino Papa Giovanni Paolo II ha detto: lasciatemi tornare alla casa del Padre”.

Commovente e significativo il panorama degli “ex voto” affissi nelle bacheche del Regina Elena, a Milano, da quanti sono riusciti ad avere un figlio grazie alla fecondazione assistita, nonostante i veti della Chiesa: “Ci avete dato amore e speranza…. Avete compiuto il miracolo…. Il nostro sogno si è realizzato… Bisogna credere fino in fondo, sperare e pregare che il miracolo si realizzi…. C’è un angelo in cielo che non aspetta altro che di diventare un bambino….” e così via.

Il libro di Chiaberge conia un neologismo: “dolorismo”, termine con il quale il gesuita Padre Carlo Casalone descrive una visione arcaica e un po’ sadica del cristianesimo: “Non è stato il dolore a salvarci, ma l’amore”. Purtroppo di “doloristi” se ne sono radunati un po’ più del necessario al capezzale di Piergiorgio Welby, commenta l’autore.

La donna ? Nel ’95 la Congregazione per la dottrina della fede, presieduta da Joseph Ratzinger, dice che la sua esclusione “è fondata sulla parola di Dio, scritta e costantemente conservata e applicata nella tradizione della Chiesa”; che “è stata proposta infallibilmente” dal pontefice; e che dunque “si deve tenere sempre e ovunque da tutti i fedeli, in quanto appartenente al deposito della fede”. Chiaro, no?

Chiaberge parla di un “crescente distacco dei vertici romani dal popolo di Dio” e di una Chiesa “istituzione anacronistica, l’ultima monarchia assoluta in Europa dopo il crollo dell’Ancien Règime, una piramide tutta al maschile in un mondo dove le donne hanno ormai raggiunto quasi dappertutto ruoli di comando”. Per contro, il mondo cattolico seguita a esprimere quella “creatività cristiana che nessuna gerarchia, per quanto ottusa, potrà soffocare”, per usare le parole di Jean Delumeau. Quest’ultimo aggiunge: “Oggi i progressi dell’embriologia ci dicono che la fecondazione dura più di venti ore, e che solo un ovulo fecondato su tre arriva a impiantarsi nell’utero. Soltanto a partire dal 14° giorno è certo che l’ovulo non darà vita a due gemelli. E allora perchè non decidere che la persona umana comincia solo quando appaiono i primi rudimenti del cervello?”. Già, perché?

Monsignor Sergio Pagano si spinge a dire: “Le cellule staminali, la genetica, qualche volta ho l’impressione che siano condannate con gli stessi preconcetti che si avevano verso le teorie di Copernico e Galileo”, ma il genetista Bruno Della Piccola, presidente di Scienza & Vita, subito lo bacchetta: “Fermare la ricerca sulle staminali embrionali non è affatto oscurantismo”. A volte, almeno in Italia, gli scienziati arrivano a essere più clericali del clero, chiosa Chiaberge.

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La Rossa di Tropea sul calendario Agip Gas 2010

di Franco Vallone

calendario agip gas 2010
calendario agip gas 2010

E’ il nuovo Calendario AgipGas 2010, patinato, colorato e stampato in tiratura altissima, in distribuzione in questi giorni gratuitamente in tutta Italia. Il calendario, denominato “Terra Mater” e sottotitolato “Dalla nostra terra, i sapori dell’Italia”, presenta, nelle sue dodici facciate, il meglio della produzione tipica nazionale. C’è il Prosciutto di Norcia per gennaio, il radicchio di Treviso per febbraio, il pane di Altamura per marzo, il carciofo Romanesco ad aprile, a giugno la carota del fucino, il fico d’India dell’Etna a luglio e il peperone di Senise ad agosto, il fungo di Borgotaro a settembre, mentre, rispettivamente, i mesi di ottobre, novembre e dicembre sono dedicati alla mela della Val di Non, alla Castagna di Montella e al famoso pecorino sardo. Una intera pagina del calendario, quella relativa al mese di maggio è dedicata alla Cipolla Rossa di Tropea, “famosa nel mondo, si legge testualmente, per il suo profumo e per la sua leggerezza, si distingue dalle altre varietà per la sua dolcezza. Definita per le sue qualità “Oro Rosso di Calabria”, la cipolla rossa di Tropea viene coltivata lungo la costa medio alta tirrenica calabrese, su appezzamenti assolati prospicienti il mare, che si affacciano sullo Stromboli, il leggendario vulcano delle Eolie. I suoli dove si coltiva sono di natura vulcanica, freschi, profondi e ricchi di potassio, responsabile della particolare fertilità. la raccolta viene praticata da metà aprile a fine maggio. è un prodotto IGP dal 2008″. Il colorato calendario 2010 di AgipGas dedica a tutta l’intera pagina lo stesso tipico inconfondibile colore della cipolla tropeana e completa il tutto con tre gustose ricette gastronomiche: la zuppa di cipolle rosse di Tropea, le Cipolle rosse di Tropea gratinate e i medaglioni di cipolle rosse di Tropea panate.

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Dai “professionisti” ai docenti dell’antimafia

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “Il Domani della Calabria” il 10.12.2009 con il titolo “La ‘ndrangheta non cade a pezzi

Quando Leonardo Sciascia scrisse “I Professionisti dell’antimafia, il famoso articolo pubblicato il 10 gennaio 1987 sul Corriere della Sera, non avrebbe mai immaginato che le cose, in Italia, potessero evolvere come invece hanno fatto regalandoci un Paese in cui, alla notizia dell’arresto di un paio di boss siciliani latitanti, ministri e politici della maggioranza esultano e cantano vittoria, autoproclamndosi, addirittura, dei veri e propri “docenti dell’antimafia”. Dai magistrati “professionisti dell’antimafia” di cui parlava Sciascia, oggi siamo ai politici “docenti dell’antimafia”. “La Mafia è già in ginocchio” dice Alfano. Ma la mafia e la ‘ndrangheta sono sempre li, anzi la ‘ndrnagheta si espande più forte che mai e rappresenta, nel mezzogiorno e non solo, un problema enorme. Ed anche i sei miliardi di euro sequestrati rappresentano una goccia nel mare se rapportati ai soli traffici della ‘ndrangheta che può vantare un fatturato di oltre 69 miliardi di euro all’anno come dichiarato dal procuratore nazionale antimafia Grasso. Nella seconda delle due “autocitazioni” che il giornalista di Racalmuto fece precedere a quel suo articolo per “… Servire a coloro che hanno corta memoria e/o lunga malafede” ricordava quanto scritto in “A ciascuno il suo” (Einaudi, Torino, 1966), il suo libro in cui scriveva che “L’Italia è un così felice Paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua… Ho visto qualcosa di simile quarant’anni fa: ed è vero che un fatto, nella grande e nella piccola storia, se si ripete ha carattere di farsa, mentre nel primo verificarsi è tragedia; ma io sono ugualmente inquieto”. Oggi potremmo dire che la mafia parla in inglese e fa gli affari su internet. E anche noi siamo inquieti. La mafia, dichiarò alla stampa calabrese circa un anno fa il magistrato Giuseppe Ayala, “sopravvive grazie ai silenzi della politica”. Un fenomeno la cui fine “sta ritardando per una complicità dovuta anche alla classe dirigente”. Dopo i due arresti eccellenti la maggioranza sembra essersi convinta che la lotta alla criminalità organizzata sia a buon punto. Forse, con la “mafia” siciliana, il taglio di qualche testa di capi clan potrà considerarsi una piccola vittoria, ma cosa ci dicono della ‘ndrangheta che, a detta di tutte le relazioni delle varie procure e direzioni distrettuali, è la forza criminale meglio organizzata, che vanta i traffici più lucrosi, con fatturato da capogiro e che maggiormente inquina il tessuto economico e sciale con i suoi capitali illegali non solo la Calabria? Cosa ci raccontano di una vittoria e di una lotta da “docenti dell’antimafia” se, dopo anni di duri colpi, la ‘ndrangheta oggi è più forte che mai? Insomma, ci si vanta degli arresti che compiono Polizia e Carabinieri ai quali, tra l’altro,– come più volte denunciato dal Siulp – si sono tagliate le risorse mentre si varano leggi che consentono, nel pieno anonimato, di rimpatriare capitali illecitamente accumulati all’estero e di cui non vi è garanzia alcuna di come gli stessi siano stati accumulati. Se condividiamo l’idea di Maroni di costituire un’agenzia nazionale per i beni sequestrati alla mafia, dovrebbero spiegarci, da docenti, come si intende farlo. Con un piano che prevede l’anonimato per il rientro dei capitali? Se è giusto richiamare i magistrati al proprio lavoro appaiono esagerate le parole di Alfano che parla di mafia come di un cadavere. Oggi la questione criminalità organizzata nel mezzogiorno è gravissima ed è tutt’altro che sconfitta. Sempre per citare Sciascia ricordiamo che “Il conseguente comportamento, che il primo fascismo ebbe nei riguardi della mafia, si può riassumere in una specie di sillogismo: il fascismo stenta a sorgere là dove il socialismo è debole: in Sicilia la mafia è già fascismo. Idea non infondata, evidentemente: solo che occorreva incorporare la mafia nel fascismo vero e proprio. Ma la mafia era anche, come il fascismo, altre cose. (…) Sicché – continua Sciascia – se ne può concludere che l’antimafia è stata allora strumento di una fazione, internamente al fascismo, per il raggiungimento di un potere incontrastato e incontrastabile. E incontrastabile non perché assiomaticamente incontrastabile era il regime – o non solo: ma perché talmente innegabile appariva la restituzione all’ordine pubblico che il dissenso, per qualsiasi ragione e sotto qualsiasi forma, poteva essere facilmente etichettato come “mafioso” ” Oggi le cose, cambiando le parole Sicilia con Mezzogiorno e Fascismo con regime della partitocrazia, stanno ancora come magistralmente le dipingeva Sciascia. L’ultima relazione di Mario Dragi non lascia certo dubbi sul grado di infiltrazione e pervasione della criminalità organizzata nei gangli della pubblica amministrazione del mezzogiorno. Cantare vittoria, a scavalco delle dichiarazioni di Spatuzza, per qualche arresto operato dalle forze dell’ordine ci sembra quantomeno fuorviante. Non vorremmo che, e il rischio esiste ora come allora, si usi “l’antimafia come strumento di potere”, o peggio, come sloga che consenta, oggi, di spingere sul “legittimo impedimento” o su qualche altra norma poco costituzionale.

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Ascoltare le parole degli altri. Frammenti di vita

di Franco Vallone

Carmela Cocciolo
Carmela Cocciolo

Il prossimo 12 dicembre 2009, presso la Sala delle Laudi del Vescovato di Mileto, si terrà la presentazione del volume di Carmela Cocciolo dal titolo “Frammenti di vita”. Il fermarsi ad ascoltare le parole degli altri, l’osservare la natura ed i piccoli-grandi protagonisti, gli uomini, che credono, illudendosi, di poter cambiare il corso della loro vita senza l’aiuto quotidiano di Dio; sono, questi, gli argomenti del volume postumo di poesie di Carmela Cocciolo, pubblicato dalle Edizioni Ursini di Catanzaro. Per la poetessa, scrivere è stata durante la sua esistenza quasi una necessità vitale e quotidiana. Stimolata com’era a captare, con grande sensibilità, ogni più piccola pulsione, interna ed esterna, ha composto versi che il silenzio le ha consegnato. Nata a San Calogero, in provincia di Vibo Valentia l’8 giugno del 1927 e scomparsa a Paravati nel gennaio del 2006, Cocciolo ebbe in vita una forte passione per la poesia; passione che, malgrado la poetessa abbia frequentato solo la scuola elementare, si è trasformata in vera e propria attività creatrice. La Cocciolo ha infatti pubblicando ben due raccolte, la prima nel 1994 dal titolo “Parole allineate” e la seconda nel 2000 con il titolo “Parole e sogni”, edite con una bella veste tipografica dallo stesso editore Ursini. “La sua poesia – scrive oggi il figlio della Cocciolo, Angelo Varone – è soprattutto intrisa di sprazzi di vita vissuta e, comunque, sempre arricchita con delicatezza dai suoi genuini sentimenti. Parlando della famiglia amava definirla una ricchezza. Schietta e diretta nel comunicare non amava le mezze misure”. “Una poesia – sottolinea nella prefazione il noto critico letterario Fulvio Castellani – che “crea sensazioni, che fa riflettere, che spinge a dialogare con noi stessi, per quanto semplice essa possa essere, merita di essere letta ed ascoltata, in silenzio”. È quanto si può dire della poesia di Carmela Cocciolo, una donna che con i versi ha inteso trasferire agli altri quell’io gioioso che è stato in lei. Ed è stata una gioia, la sua, che si è sostanziata usando parole che si intersecavano sul filo di una rima spontanea e di un giro di assonanze che danno veramente il senso del finito e dell’infinito al tempo stesso”. Nel volume, appena pubblicato, oltre alle sue poesie troviamo filastrocche e quadretti dalla singolare compostezza espressiva, ci imbattiamo con i suoi paesaggi dell’anima che trasmigrano in direzione di un dopo che diventa assai spesso sogno, irrealtà agognata ed a tratti acquisita. Cocciolo ha usato il grimaldello dell’amore per esprimere le proprie ricchezze interiori, quel festante connubio tra generosa intuizione emotiva e saggezza. Poesia semplice, ma altrettanto musicale, ritmica, sinuosa. Ed è stata questa la sua forza. «Io le spine le prendo piano / e qualcuna mi punge la mano», aveva scritto, tra l’altro, la poetessa di Paravati, quasi a voler rimarcare, con la sua consueta grafia legata ad una saggezza, che la vita va vissuta fino in fondo.


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