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Aspettando il Natale… a tavola

di Franco Vallone

Immagine sacra dedicata agli emigrati per il natale, 1952 - Raccolta emigrazione de “Le Stanze della Luna”, Vibo Valentia
Immagine sacra dedicata agli emigrati per il natale, 1952 – Raccolta emigrazione de “Le Stanze della Luna”, Vibo Valentia

Nel Meridione, ed in particolare in Calabria, la festa del Natale veniva celebrata con profondo senso religioso e con sentita partecipazione da parte di tutto il popolo. Dall’analisi degli atteggiamenti ritualizzati legati al periodo natalizio emergono elementi che sono da inserire in quello che viene comunemente chiamato folklore, ma che, in effetti, era ed è comportamento e costume delle culture popolari. Il tempo e lo spazio assumono, con l’avvicinarsi del Natale, una diversità, diventano luoghi e tempi speciali. La quotidianità veniva abbandonata, si costruivano spazi sacri, diversi, dove tutto si trasformava e si circondava di un alone di mistero e d’irripetibilità. Il paese stesso cambiava aspetto, o meglio, diventava un altro paese, si rinnovava nell’attesa della Santa Notte. Tutto veniva organizzato in funzione della notte straordinaria della Nascita Santa e del giorno di Natale, e i giorni che seguivano erano di attesa del Capodanno, del capo di misi e d’annu novu, ma anche di ritorno graduale, attraverso il Capodanno prima e l’Epifania dopo, alla normalità, alla fine della sacralità dello spazio e del tempo speciale. Una soglia immaginaria apriva le feste con la novena, un punto di entrata che si percepiva al suono delle zampogne, delle pipitule e delle nenie dei suonatori della novena presenti sulle strade di tutti i paesi e che annunciavano ogni sera l’approssimarsi del Natale. Nelle case, nelle chiese e per le strade venivano allestiti presepi con occhi di canne, muschi e casette di cartone, pastori di taju e creta e fondali di cieli stellati. Presepi che si rinnovavano nella tradizione di ogni anno. La sera, davanti a questi paesaggi pieni di luci di lumini, di frutta e di pastori, ma incompleti per l’assenza di Gesù Bambino nella grotta, venivano intonati canti e lodi.

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Particolare di Presepe pannaconese

Le famiglie riunite cercavano di rinsaldare vecchie amicizie, eliminando rancori, odio e inimicizie, sforzandosi di costruire pace, aprendosi al perdono e alla fratellanza. Tutti si riunivano per trascorrere insieme le feste. Gli anziani vivevano giorni felici in compagnia dei propri cari, degli emigrati che tornavano da lontano per le feste, se potevano tornare. I poveri venivano anche da altri paesi nella speranza di ricevere qualcosa, dei fichi secchi, delle zeppole, delle castagne, o per essere ospitati per un piatto di minestra calda ed un bicchiere di vino. Ma a proposito del pranzo natalizio c’è da dire che l’abbondanza alimentare, sognata tutto l’anno diveniva il punto da realizzare a tutti i costi. Il cenone di Natale era un rito vero e proprio, durante il quale si dovevano portare a tavola e mangiare, o quantomeno assaggiare, tredici pietanze diverse. In alcune zone della Calabria tredici dovevano essere i tipi di frutta da presentare sulla tavola. Una curiosità: molti presepi venivano allestiti con pittejare (pale di fichidindia) con i frutti più grossi attaccati, rami di arancio con arance sanguigne o dolci, fasci di mirtilli e corbezzoli, melograni, mandarini e qualche frutto fuori stagione, fuori tempo. Questi frutti servivano per colorare i paesaggi, le scenografie del presepe, ma anche per avere a Natale frutta a volontà. Le donne della famiglia, riunite, iniziavano a cucinare sin dalle prime ore dell’alba. Al mattino presto si sentivano già odori di broccoli e cavolfiori affogati, zucca fritta con la menta, stoccafisso con olive e patate, baccalà arrostito e fritto, frittelle e tante altre ricette tradizionali e poi i tredici tipi di frutta. In questa lunga lista dovevano essere presenti fichi secchi ripieni preparati a croce, limoncelli, sorbe, corbezzoli, melograni, arance, mandarini, castagne infornate, arance dolci, melone d’inverno, noccioline americane, castagne pasticcate, fichi d’india, nocciole, mandorle e noci.Era un vero e proprio contare e mangiare, assaggiare e cassarijari, passare in rassegna più pasti possibili, più pietanze, più dolci e più frutta; riferimenti legati certamente alle tradizioni più antiche e pagane, alle cene di Licinio Lucullo, ai Saturnali. Tutto questo produceva due tipi di comportamento temporale e spaziale: stare a tavola continuamente a giocare, mangiare e bere e l’andare in chiesa a pregare ed attendere, a mezzanotte, la nascita di Gesù tra le luci, gli addobbi e l’odore forte dell’incenso, del mirto e della cera di candela.

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Particolare di Presepe pannaconese

A casa i giochi di carte e di tombola avvenivano vicino al fuoco del braciere o attorno al focolare dove ardeva il cosiddetto zuccu di Natali, un grosso pezzo di legno scelto appositamente e benedetto con preghiere e riti comportamentali dal capofamiglia. Fuori, sulle strade, i bambini giocavano giorno e notte con le nocciole e la fosseja. Il Natale era anche momento di indossare i vestiti fatti cucire per l’occasione e le scarpe nuove della festa. Altro simbolo festivo erano i dolci fatti in casa in modo semplice, torrone di zucchero, mandorle e cannella, pignolata con il miele, pitte filate, zeppole, ciceriate, bucconotti, susumelle, crispeddi…La notte di Natale finalmente arriva, dopo la lunga attesa l’evento divino, straordinario, ed è subito festa. La messa di mezzanotte e non si sente più il freddo, il buio, il gelo. La notte di Natale è anche la notte dei segreti. Le anziane tramandavano rituali magici alle giovani. Procedure antiche contro le magarie, il malocchio e le affascinazioni. Le affascinazioni, le magarie, le parole, le formule rituali, le cose di magia di un mondo sotterraneo che solo in quella notte di bene poteva essere rivelato.

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Scarica gratuitamente i canti del Natale di Giuseppe Brinati ed estratti dalla rivista di letteratura popolare "La Calabria" (Anno VI n°3 - 15 Dicembre 1893)

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Da Tropea il Calendario di Enzo 2010

Tra le sue pagine manca l’ultima e inutile settimana del mese.

di Franco Vallone

Dedicato a tutti coloro che con gli euro non arrivano alla fine del mese

Una foto del calendario
Enzo Taccone

S’intitola “Il Calendario di Enzo 2010” e, come sottotitolo, riporta: ‘Sorridi… sei a Tropea!’. Un calendario tutto particolare dove, tra le sue colorate pagine, manca l’ultima e inutile settimana del mese. Infatti il curioso calendario è dedicato a tutti i tropeani, e agli amici di Tropea, che con gli euro non riescono ad arrivare alla fine del mese. L’Enzo raffigurato nel calendario è invece, a Tropea, un vero e proprio mitico personaggio. All’anagrafe si chiama Enzo Taccone è uno scrittore, pubblicista, musicista, intrattenitore, e altro ancora. Basso toracico e armonicista nel Coro Polifonico “Giosuè Macrì”, presentatore ufficiale, ballerino e musicista del “Gruppo Folk Città di Tropea”, Enzo Taccone è animatore dell’organizzazione della festa più antica tropeana, “Il tre della Croce”, nonché delle Associazioni “Terza Liceo” e “L’antico sentiero” per le escursioni “Tropea trekking”. Consulente della Scuola Media di Nicotera e di quella Elementare di Rosarno per aver effettuato corsi di addestramento alle danze popolari e folklore, il nostro bravo personaggio è anche il menestrello di brani calabresi e milanesi nel gruppo musicale “Gigi’s Band”, componente dell’Associazione milanese “Renzo e Lucia”, confratello della Seicentesca Congrega tropeana del Santissimo Salvatore e di Maria Maddalena degli Ortolani, attore cinematografico, poeta, imbattibile giocatore di ‘pirrocciolo’ e burraco, ballerino, collezionista di francobolli e di migliaia di bamboline provenienti da tutte le parti del mondo. E’ recente il contributo di Taccone in Sardegna, all’allestimento del Calendario 2009 (sulla pagina di giugno) della Federazione Italiana Tradizioni Popolari, ma lui di calendario ne voleva realizzare uno da vero protagonista, come per le belle modelle vip. Ed eccolo, detto e realizzato dal dinamico direttore di Tropeamagazine e Tropeanews, il romanotropeano Salvatore Libertino, progettato, realizzato e stampato, pronto il suo Calendario, già in edicola ed in libreria.“Dodici scatti esilaranti che cercano di dare una scossa, ed invitano al sorriso, cercando di alleviare la pesantezza della crisi che inesorabilmente si abbatte ogni giorno sulle spalle dei ‘trupiani’ e degli amici di Tropea che non riescono ad arrivare alla fine del mese. E’ dunque un calendario dedicato a loro, privo dell’inutile ultima settimana nei mesi che lo compongono, ma che fa ben sperare per il prossimo futuro con l’augurio a tutti di superare l’attuale difficoltà”. Una carrellata di figure e personaggi femminili interpretati, con garbo, ironia, intelligenza e capacità espressiva, da Enzo Taccone, funambolo del travestimento – novello Jean Cocteau -, aiutato dalla costumista Anna Accorinti e della preziosa collaborazione di Lucia Sacchi, a cominciare dalla “vaporosa danseuse di Can Can con lo sfondo dell’Isola, alla Bella Lavanderina davanti alle Tre Fontane, dall’esilarante giarrettiera rossa di Sor Enzina alla provocante Donna Rosina a cavallo del cannone puntato verso il largo del mare smeraldo, dalla severa ‘Maja spogliata’ alla “Zoccola” giuliva che gli ha dato un enorme successo alla Festa del Tre della Croce. Una continua filastrocca di sorrisi sostenuta dal DVD, curato sempre da Salvatore Libertino, del relativo backstage che continuerà a dispensare sorrisi a chi a volte la vita riserva delle sorprese inaspettate”. Enzo Taccone, che fa parte, tra le altre cento cose, anche dello staff dei fondatori della Protezione Civile del Comune di Tropea, devolverà totalmente il ricavato del suo calendario al sodalizio tropeano per l’acquisto di attrezzature. Appuntamento quindi in edicola e in libreria con 6,00 € Pro Protezione Civile di Tropea.


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Acqua pubblica … ma il servizio privato

di Giuseppe Candido

Acque pubbliche
Acque pubbliche e decreto Ronchi

Questa settimana si è parlato tanto di privatizzazione dell’acqua e del così detto “decreto Ronchi”, il decreto 135, che ha introdotto alcuni elementi per disciplinare e razionalizzare l’erogazione dei servizi pubblici locali e le bandiere dei “no” alla privatizzazione dell’acqua hanno cominciato a sventolare. In particolare, con la nuova normativa, è stata introdotta la gestione privata per il servizio idrico integrato, per il servizio dei rifiuti e per il servizio di trasporto su gomma locale. Si tratta di servizi importanti che riguardano la qualità della vita quotidiana dei cittadini ma che riguardano anche la qualità dei conti pubblici e le tasche dei cittadini perché, come sappiamo, è su questi servizi che si annidano scarsa efficienza ed enormi sprechi delle pubbliche amministrazione locali. Nel decreto non sono state inserite alcune materie altrettanto importanti che necessiterebbero, per offrire convenienza ai cittadini, di una maggiore concorrenza come la distribuzione dell’energia elettrica, la distribuzione del gas naturale, del trasporto locale su rotaia e delle farmacie comunali. Quello dei servizi pubblici locali, vale la pena ricordarlo, è un settore assai in deficit delle pubbliche amministrazioni sul quale si è tentato, più volte, di mettere mano. E in effetti non sfugge a nessuno come, ad esempio, il servizio pubblico integrato dell’acqua e della depurazione sia obsoleto non soltanto nelle regioni del mezzogiorno e come, per fare un altro esempio, alcuni comuni calabresi non paghino neanche le bollette alla società che, per loro, gestisce il servizio idrico. Acquedotti comunali colabrodo che perdono oltre il 50% della risorsa, fognature e depuratori inefficienti, caratterizzano attualmente il servizio fornito. Per non parlare dei rifiuti in emergenza da oltre 14 anni nella nostra regione. Se è vero che l’acqua è, e deve rimanere, un bene pubblico prezioso, una risorsa pubblica limitata e da tutelare, con apposite leggi, dall’inquinamento e dall’eccessivo sfruttamento, se è vero che si tratta di un bene pubblico sul quale pesa l’incertezza del futuro, è pur vero che il servizio di distribuzione di questo bene pubblico è un servizio non degno di tale nome che la pubblica gestione offre in maniera inadeguata, in maniera sprecona, e ciò stante il fatto oggettivo che, ai cittadini, viene fatto pagare e viene fatto pagare anche abbastanza salato. Il decreto Ronchi di fatto non privatizza il bene acqua che rimane pubblico ma interviene invece sul servizio della distribuzione attualmente fatiscente in molte parti d’Italia. Si è valutato che le “mancanze” accumulatesi all’interno del servizio pubblico oggi in capo agli enti locali debbano trovare un correttivo. Con il decreto Ronchi si cerca, in sostanza, di intervenire essenzialmente su due punti: sulle modalità di affidamento e di conferimento dei servizi pubblici locali di rilevanza economica e sulla governance degli stessi. Pur mantenendo pubblico il bene acqua, il decreto prevede che il conferimento del servizio idrico debba avvenire in via ordinaria secondo due modalità: quella della gara, a cui potranno partecipare imprenditori e società di diritto privato in qualunque forma costituite o mediante l’affido a società miste pubblico – privato con il socio privato da selezionare sempre attraverso una specifica gara. Novità importante, non di secondo piano, è che le gare dovranno essere conformi ai principi del trattato comunitario, fatte cioè secondo un “modello europeo” e impregnate dai principi di “imparzialità, efficacia, trasparenza, economicità delle condizioni, pubblicità degli atti, non discriminazioni, mutuo riconoscimento e proporzionalità”. Inoltre nella nuova normativa si prevede che il privato selezionato con la gara debba avere “quote di partecipazione maggiori o uguali al 40%”, e debba assumere “rischi, impegni e specifici compiti operativi”. Tutto ciò a garanzia che si tratti davvero di privati motivati ad investire e a concorrere per rimediare ad una delle carenze gravi del servizio pubblico che, non dimentichiamolo, è proprio quella della carenza di investimenti. A queste modalità di affido e di gara sono affiancate, nello stesso decreto, alcune deroghe per cui è possibile il ricorso alla gestione dei servizi mediante società a capitale interamente pubblico qualora ricorrano “speciali condizioni economiche, sociali, ambientali, geomorfologiche e di contesto territoriale” tali da giustificare questa deroga. In ogni caso vanno rispettate le discipline comunitarie sia in ordine al controllo della qualità del servizio offerto e sia in termini di prevalenza dell’attività svolta nei confronti degli enti locali. Per la deroga a favore di società totalmente a capitale pubblico devono però essere prodotte relazioni con analisi di mercato che dimostrino effettivamente la convenienza della soluzione gestionale proposta. Inoltre, della procedura di gara si deve inviare “una relazione all’autorità garante per la concorrenza” che dovrà esprimersi, entro sessanta giorni, con un parere preventivo. Sarà da vedere, in base ai decreti attuativi che dovranno essere emanati per stabilire le soglie rispetto sulle quali l’autorità garante antitrust sarà chiamata ad esprimersi, e se questo parere dell’autorità antitrust avrà un effetto vincolante che precluda l’affido in caso di parere negativo oppure meramente consultivo per lo svolgimento della gara stessa. Senza entrare nel merito di ulteriori analisi, è bene soffermarsi su alcuni punti cruciali della discussione. Il professor Fabio Pammolli, docente di economia e menagement, nonché direttore del CERM, l’istituto privato per la “competitività e la regolazione dei mercati”, nella sua settimanale trasmissione su radio radicale ha sottolineato come, “rispetto ad altri sistemi di gestione del servizio idrico presenti in altri Paesi europei”, la nuova normativa rappresenti “una forte differenza rispetto a casi di gestione integralmente privatizzata del servizio perché il settore delle acque viene mantenuto nell’ambito del settore pubblico”. Certamente c’è anche, sottolinea ancora Panmolli, “Una eccessiva fiducia del decreto a reperire risorse economiche mediante le gare, un fiducia che si dovrà confrontare con i fatti”, soprattutto con questi chiari di luna di crisi. Un’eccessiva fiducia sia sull’entità delle risorse reperibili dai privati sia in termini di “capacità dello strumento della gara di introdurre, di per se, efficienza”. Su questo, spiega ancora Pammolli, si possono “avere riserve che segnalano la necessità di integrare il sistema della gara con altre misure che riguardino il contesto regolatore nel suo complesso”. Stenta cioè ad affermarsi “un principio di netta terzietà del regolatore”. Pertanto, piuttosto che un “no” ideologico alla privatizzazione dei servizi pubblici, quello idrico in testa, ci sembra importante capire, ed è questo, secondo chi scrive, l’aspetto più serio della faccenda, come tutto ciò verrà attuato e come, nel sistema federalistico che va oggi configurandosi, questo nuovo sistema di “gestione aziendale” sarà in grado di integrarsi in regioni come la Calabria e, in generale, nelle regioni del mezzogiorno, dove i capitali privati puliti di imprenditori disposti a rischiare nel settore pubblico non sono certo abbondanti e dove l’economia e le pubbliche amministrazioni hanno, come dichiarato anche dal Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, un così elevato tasso di infiltrazione e penetrazione della criminalità organizzata.

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Nel centenario della morte di Mario Pannunzio

di Vittorio Emanuele Esposito

Il Mondo
Il Mondo

Ricordare Mario Pannunzio oggi, in occasione del centenario della sua nascita, significa, almeno per i giovani e per quanti non l’hanno conosciuto di persona, richiamare alla mente l’esperienza de “Il Mondo”, il settimanale da lui fondato e diretto dal 1949 al 1966, l’ opera’‘, cioè, di maggior impegno e rilievo culturale e civile, in cui la sua individualità si è –crocianamente- concretizzata e totalmente risolta.

Mario Pannunzio è “Il Mondo”, l’organo e la sede di elaborazione della cultura politica antifascista, democratica e progressista che per quasi un ventennio ha trovato spazio nelle pagine e nelle rubriche che il suo direttore, come abile, quanto discreto, regista, alieno da tentazioni di protagonismo e deciso a rimanere sempre dietro le quinte, componeva e curava nei minimi dettagli, anche grafici, avendo sempre di mira la congruenza e l’efficacia dell’insieme.

Ecco perché, in fondo, è certo sempre interessante, ma in modo solo relativo, ricostruire storicamente le linee della sua biografia personale, chiarire le sue ascendenze intellettuali, interrogarsi sulla natura del suo ‘liberalismo’, distinguendo la sua posizione da quella dei collaboratori, dei redattori e delle firme ospitate sulle colonne del suo settimanale, dal momento che quello che conta di più è la ‘linea’ complessiva che emerge da quest’opera a più voci, in cui le singole parti si ricompongono in un tutto.

Questa ‘linea’ di politica culturale, o, meglio, questa ‘linea’ culturale, che autonomamente si metteva a servizio della politica, distinguendosi con nettezza dalla prassi politica che mira ad utilizzare strumentalmente la cultura, ha esercitato, grazie all’apporto di un élite intellettuale di grandissimo valore, una funzione educativa di eccezionale importanza nell’Italia appena nata alla democrazia moderna, riuscendo ad incidere sulla svolta storica degli anni Sessanta, cioè sulla svolta politica più ricca di promesse della storia repubblicana: quella dell’ ‘apertura a sinistra’ e del passaggio al centro-sinistra, attraverso il quale, programmaticamente, l’istanza della libertà si ricongiungeva strettamente con quella della giustizia sociale, in un rapporto, certamente difficile e problematico, ma coessenziale.

Perché, una libertà fine a se stessa può entusiasmare, e magari commuovere fino alle lacrime, le oligarchie economiche e sociali dominanti, ma soltanto l’ideale di una ‘libertà giusta’ può diventare fede comune e trasformare un aggregato di individui, sempre più atomizzati e ristretti in cerchie protettive, in una società, veramente ‘aperta’, in cui vengano superate le numerose, persistenti e paralizzanti chiusure corporative.

‘Liberale’ certamente Pannunzio fu, ma nel senso pregnante concettualizzato da Croce, per cui la libertà non può essere per sempre oggettivata in leggi e istituti, che in sé e per sé intrinsecamente la contengano e automaticamente la garantiscano dai suoi nemici. La libertà, infatti, vive soltanto nell’anima umana; è un’energia che deve essere alimentata attraverso una cura e un impegno costanti, e può accrescersi, così come può decadere, esprimendosi, di volta in volta, in processi, forme e istituzioni, più o meno adatti a consentirne l’ espansione, o, viceversa, posti in essere per limitarla o per opporle ostacoli che finiscono per soffocarla.

Questo fu il motivo che portò Croce a contrapporsi ad Einaudi e a negare che tra liberalismo e liberismo vi fosse un rapporto necessario. Una polemica, nata forse da un non compiuto reciproco chiarimento circa il rapporto tra i fini e i mezzi, che, da una parte, non rendeva ragione del comune rifiuto – di Einaudi e di Croce – del totalitarismo comunista e, dall’altra, metteva in ombra l’ apertura einaudiana verso le politiche sociali atte a far fronte ai ‘bisogni’ reali e ad incrementare, dunque, la libertà, pur nella convinzione che il mercato è stato storicamente e resta il mezzo, il meccanismo, migliore e senza alternative, per corrispondere alla ‘domanda’ effettiva di beni e di servizi.

Così come da un’incomprensione nacque il dissenso di Croce dai suoi discepoli di ‘sinistra’, molti dei quali confluirono nel Partito d’Azione e, dopo il suo scioglimento, entrarono a far parte dell’ambiente culturale de ‘Il mondo’, restando fedeli, come azionisti, alla ‘religione della libertà’ e distinguendosi dal maestro soltanto nell’individuazione delle forze che tradizionalmente si opponevano al suo progresso e nella volontà di lottare concretamente contro di esse, per la trasformazione sociale e l’affermazione, in Italia e nel mondo, di equilibri più liberali e più giusti.

Pannunzio fu, appunto, un’anima liberale: “uno dei pochi liberali autentici –scrisse Vittorio Gorresio – per l’istinto critico sicuro che lo guidava alla ricerca di soluzioni morali, culturali, politiche”, andando sempre in profondità e riuscendo a guardare le cose “da un angolo diverso e nuovo, mai nel modo generico proprio della maggioranza”.

Per questo egli fu un vero maestro di intelligenza politica e di anticonformismo. La sua eredità, ancora viva e solo parzialmente messa a frutto, ci invita ad approfondire i temi che furono al centro della ricerca e della riflessione de “il Mondo”: l’europeismo, l’economia di mercato (alla luce dei suoi più recenti sviluppi e delle sue indesiderabili conseguenze), il laicismo.

E ci addita la possibilità di una alternativa tra la subcultura cattolica e la subcultura marxista, che a lungo hanno prevalso in Italia, ritardandone il processo di modernizzazione, e rispetto ad una cultura pseudo liberale, strumentalmente ossequiosa verso la prima e dichiaratamente avversaria della seconda, nonostante questa non esista più.

Ci addita, cioè, la via di una “rivoluzione democratica”, senza la quale il paese non uscirà dalla crisi istituzio

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Eutelia “Agile”, l’Alcoa e il “capitalismo inquinato”

di Giuseppe Candido

Mentre di mattina volano cazzotti tra i lavoratori dell’”Alcoa” e la polizia che cerca di contenerne la disperazione durante la manifestazione contro il ritiro della cassa integrazione all’azienda sarda, nella serata dello scorso 26 ottobre abbiamo visto i lavoratori di Eutelia, oggi svenduti al costo di un euro alla società “Agile” per essere poi licenziati, manifestare sotto al palazzo del governo mentre i sindacati trattavano sulla sorte per i lavoratori di quell’azienda che Tremonti, ad Annozero, ha definito “un caso di cattiva gestione aziendale”. Ma i casi si susseguono: dal lodo mondadori passando per il caso parmalat e, arrivando all’oggi, con i casi Alcoa e Eutelia-Agile si ha la prova che il problema sia diffuso. Il problema è che in Italia, non essendoci delle ferree regole e dei seri sistemi di controllo delle società di capitali, si è perpetuata per decenni una sorta di deviazione del libero mercato che ha ingenerato quello che, Ernesto Rossi già nel 1952, aveva definito “capitalismo inquinato” prevedendo dettagliatamente le corruttele e gli intrecci tra politica affari e banche, quarant’anni prima, ciò che sarebbe poi di fatto avvenuto con tangentopoli e la fine della prima repubblica. Il caso Eutelia venduta per un euro alla Agile e quello dell’Alcoa, azienda sarda cui si toglierebbe oggi la cassa integrazione per evitare di mantenere un’azienda che non sta più, senza interventi statalisti, sul mercato testimoniano che l’inquinamento non solo persiste, ma anzi, dilaga ed è contagioso. Parmalat vendeva bond senza valore, Eutelia vende un’azienda di 1192 dipendenti ad un euro ad una società che, come le scatole cinesi, si suddivide in otto società “regionali” per poi prevedere il licenziamento dei dipendenti ci dimostrano che si tratta non di “un caso” isolato ma di un sistema diffuso e fallimentare di “non controllo” del libero mercato che, come ricordava quasi sessant’anni or sono lo stesso Rossi, se regolato dal solo desiderio individualistico di accumulare profitti può fare danni anche maggiori di quelli che facevano i regimi collettivistici comunisti. Oggi quel volume la cui ristampa è stata curata da Roberto Petrini (Ernesto Rossi, Capitalismo inquinato, Ed. Laterza, Bari, 1993) e che portava la prefazione di Eugenio Scalfari, meriterebbe forse una rilettura attenta. Un libro scritto nel 1952 ma dimostratosi già previgente e veritiero per gli anni novanta, di un sistema capitalistico distorto foriero di corruzione e di conseguenze nefaste verso gli strati più deboli. Scalfari, nella prefazione all’edizione del ’93, ricorda come Rossi fu “la bestia nera di forze e istituzioni potentissime: Il fascismo prima … e il nemico pubblico numero uno della “grande industria i cui capi, se l’avessero potuto avere dalla loro o ridurre al silenzio chissà cosa non avrebbero dato”. Quello che muoveva le critiche con articoli di giornale contro “I padroni del vapore”, “Non era un comunista, un socialista o comunque un fautore di soluzioni stataliste… Bensì un liberista, un liberal – democratico, un avversario leale del PCI, un amico di Luigi Einaudi e di Gaetano Salvemini, sostenitore della grande riforma roosveltiana del new deal.

Secondo Rossi il capitalismo italiano era (ed oggi dobbiamo constatare rimane) inquinato e la sua analisi, già nel ’52, prevedeva che “il libero mercato, la libera concorrenza e la libertà di accesso al mercato sono condizioni permanentemente a rischio, che debbono essere create e mantenute da apposite regole, il cui rispetto deve essere garantito da organi pubblici dotati di poteri penetranti di vigilanza e di sanzione”. In secondo luogo, l’economia mista, quella cioè fatta da aziende a partecipazione statale che ancora oggi è diffusamente presente nel nostro paese, “si risolve di fatto in una privatizzazione dei profitti e in una pubblicizzazione delle perdite”. Il capitalismo italiano, “a causa della ristrettezza del mercato dei capitali e della struttura duale del paese (nord-sud), è stato fin dal suo nascere fortemente intrecciato ai gruppi politici dominanti e al sistema bancario” ingenerando “una reciproca interdipendenza tra gruppi politici, gruppi industriali e gruppi bancari”. Un’interdipendenza che non solo perdura tutt’oggi ma che, anzi, si è andata aggravando con la presenza, nelle pubbliche amministrazioni e nell’economia legale, della criminalità organizzata che, nel mezzogiorno e la Calabria, rappresenta l’azienda privata più grossa in grado di inquinare il mercato anche con capitali illecitamente accumulati.

Ancora oggi, l’analisi di Ernesto Rossi centra il problema: quello delle regole e delle autorità necessarie a farle rispettare. Il problema, anche in Calabria, è quello delle regole e degli imprenditori onesti sostituiti dai soliti “prenditori” di finanziamenti pubblici, di contributi, di casse integrazioni in una sorta di capitalismo tarocco, inquinato appunto.

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Pensioni e Welfare. Un’idea semplice: posticipare volontariamente il pensionamento dei lavoratori

di Giuseppe Candido

Giuliano Cazzola e Pietro Ichino
Giuliano Cazzola e Pietro Ichino

Qualche volta, nelle analisi delle notizie economiche ci si limita solamente alla presentazione dei dati senza però formulare ipotesi o tenere conto di specifiche proposte politiche che sarebbero utili per la risoluzione dei problemi che emergono. Lo scorso 24 novembre l’Imps, Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, ha presentato il bilancio preventivo relativo all’anno 2010 i cui numeri e dati venivano spulciati con dovizia da Enrico Marro sul Corriere della Sera in un articolo dal titolo: “I conti della previdenza? Salvati dai precari”. Dall’analisi dei conti della previdenza, oltre che un attivo vertiginosamente in calo da 6,8 miliardi di euro del 2008 ai 2,8 miliardi previsti per il 2010, emergeva chiaramente che l’unica gestione separata dell’Imps in attivo è quella dei lavoratori parasubordinati, cioè di quei lavoratori con contratto a progetto già meno tutelati sotto altri punti di vista. L’attivo della gestione separata dell’Imps relativa ai lavori dipendenti si ridurà dal 3,7 a 2,7 miliardi di euro mentre continueranno a sprofondare nella voragine della passività, anche per il 2010, le gestioni relative agli autonomi: artigiani, commercianti, coltivatori diretti etc. Un buco complessivo di 10 miliardi di euro. L’Imps non è costretta a dichiarare bancarotta soltanto perché 1,6 milioni di lavoratori parasubordinati pagano i contributi senza però percepire pensioni da quel fondo poiché Istituito dal ’95 con la legge Dini e, come si dice in gergo, non ancora “giunto a maturazione”. Tutte le alte voci sono in rosso ed anche la gestione separata dei lavoratori dipendenti, con un attivo vistosamente in calo, presenta dei “buchi neri” fortemente in passivo per i dirigenti d’azienda (ex Impdai) che nel 2010 chiuderà il conto con una passività di 3 miliardi di euro. Una bancarotta, quella dell’Imps, evitata soltanto dal “sacrificio” contributivo dei precari che si sono visti aumentata l’aliquota contributiva al 26 e rotti per cento senza percepire pensioni. Contributi che servono a ripianare i deficit delle altre gestioni e che delinea quello che Marro definisce, a ragione, una sorta di “solidarietà alla rovescia”. E se non si vuole mantenere questa ingiustizia le strade possibili possono essere, secondo Marro, essenzialmente quattro: aumentare le tasse per tutti, aumentare l’imposizione contributiva, tagliare le prestazioni previdenziali o aumentare i limiti dell’età pensionabile. A questo punto però l’articolo finisce e le domande restano. Come risolvere il problema? Quale strada seguire? La prima strada indicata ci sembra però improponibile vista la già elevata pressione fiscale che grava sui cittadini nel nostro Paese e anche la seconda, quella di aumentare l’aliquota contributiva sui lavoratori, visti i costi del lavoro, tra i più alti in Europa, che ci sono in Italia. E anche di tagliare le prestazioni previdenziali manco a parlarne in un periodo in cui si discute così tanto della necessità di fare riforme degli ammortizzatori sociali per dare più garanzie. Rimane quindi, unica tra le vie indicate nell’articolo, quella dell’aumento dell’età pensionabile. Al giornalista sarà sfuggito che su questo argomento esiste anche la nuova proposta di legge che porta le firme del Professor Pietro Ichino e del Professor Giuliano Cazzolla che è in corso di sperimentazione da parte dell’Imps e cui ha preso parte, nella stesura, anche Marco Pannella. Una proposta di legge che ha messo insieme, su un progetto di riforma radicale, due massimi esperti della materia del PD e del PdL. Si tratta di applicare un’idea semplice: posticipare il pensionamento dei lavoratori su base volontaria. Depositata sia alla Camera e sia al Senato lo scorso mese di agosto, il nuovo regime delineato dalla proposta di legge bilancia adeguatamente gli interessi di tutte le parti in causa e configurando un risparmio pubblico per le casse dell’Imps. Il lavoratore che, volontariamente, intende posticipare il pensionamento potrà, proseguendo nell’attività lavorativa, godere di un trattamento economico superiore a quello che percepirebbe se andasse subito in pensione. Il datore di lavoro potrà continuare ad avvalersi delle maestranze di lavoratori con un elevato livello di esperienza a costi più contenuti in virtù della diminuzione dei contributi. Per l’Imps, inoltre, il rinvio del trattamento pensionistico si risolve in un risparmio netto sul piano economico. La notizia, riportata nella relazione di tesoreria di Michele De Lucia presentata lo scorso 12 novembre al congresso di radicali italiani a Chianciano, è che la la simulazione effettuata dall’Imps sugli effetti che la l’applicazione della proposta di legge avrebbe sui conti pubblici dice che si potrebbero risparmiare fino a due miliardi di euro all’anno che, in cinque anni, consentirebbero di ripianare il buco di dieci miliardi di euro della gestione dei lavoratori autonomi. Davvero un’idea semplice ma al contempo rivoluzionaria che, mentre l’Europa continua a chiederci di aumentare l’età di pensionamento delle donne e con i conti dell’Imps, forse non sarebbe male, quantomeno, prendere considerazione.

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La Basilicata avvelenata dalla malapolitica

di Maurizio Bolognetti

Proverò a raccontare uno dei volti di quella Peste Italiana che abbiamo descritto qualche mese fa, partendo da alcuni fatti. Proverò a descrivere un sistema di potere che nega legalità, Stato di diritto, democrazia, diritto alla conoscenza. Proverò a raccontare di controlli ambientali inesistenti, di dati manipolati, di villaggi edificati nell’alveo di piena di un fiume, di una politica incapace di gestire il territorio, ma capacissima di creare “emergenze” per meglio distruggere il diritto.

Il tutto nella consapevolezza che la partitocrazia crea corruzione e che la corruzione crea miseria, non solo economica.

L’avvelenamento coperto dal segreto istituzionale

Il Caso Fenice/Arpab

In Basilicata, dal 2000 è in funzione, nell’area industriale di San Nicola di Melfi, il più grande inceneritore d’Europa. L’inceneritore Fenice di proprietà del gruppo EDF. L’inceneritore tratta oltre 65000 tonnellate all’anno di rifiuti urbani ed industriali.

Il 3 marzo 2009, L’Agenzia regionale per l’ambiente della Basilicata(Arpab) comunica al Sindaco di Melfi “il superamento della concentrazione di soglia delle acque sotterranee”. Tradotto dal burocratichese: le analisi Arpab documentano la presenza nella falda acquifera del fiume Ofanto di agenti inquinanti cancerogeni. L’Arpab dal 2002, in base alla delibera n°304 della Giunta regionale, è tenuta a monitorare le matrici ambientali nell’area del vulture-melfese.

Il 12 marzo 2009, anche Fenice segnala al Sindaco di Melfi, all’Arpab, alla Regione e al Presidente della Provincia di Potenza “una contaminazione all’interno del perimetro del sito dell’impianto di termovalorizzazione”. E qui abbiamo il primo fatto piuttosto singolare: l’Arpab da comunicazione di un inquinamento in atto, il 3 marzo, mentre Fenice lo fa 9 giorni dopo. L’art. 242 del D.lgs 152/2006 prevede che “al verificarsi di un evento che sia potenzialmente in grado di contaminare il sito, il responsabile dell’inquinamento mette in opera entro ventiquattro ore le misure necessarie di prevenzione e ne dà immediata comunicazione ai sensi e con le modalità di cui all’articolo 304, comma 2”. L’articolo 304, comma 2, del D.lgs 152/2006 prevede che la comunicazione all’Arpab, alla Regione, al Comune, alla Provincia e al Prefetto avvenga entro 24 ore dall’evento inquinante; il Prefetto, a sua volta, è tenuto a darne comunicazione al Ministero dell’Ambiente entro le 24 ore. Fenice invia la comunicazione alla Prefettura di Potenza solo in data 8 aprile 2009.

Il 14 marzo 2009, il Sindaco di Melfi emette un’ordinanza con la quale “vieta l’utilizzo delle acque sotterranee emungibili dai pozzi presenti all’interno del perimetro del sito dell’impianto di termovalorizzazione Fenice, nonché di quelli a valle del sito stesso.”

Trascorrono due mesi e, il 22 maggio 2009, viene emessa una nuova ordinanza, nella quale si legge: “Allo stato attuale Fenice Spa non ha posto in essere gli interventi di messa in sicurezza idonei a garantire la sicurezza dei luoghi ed un efficiente contenimento dello stato di inquinamento delle acque sotterranee.”

Dopo la lettura delle ordinanze iniziamo a porre i primi interrogativi. In primis chiediamo, senza ricevere risposta alcuna, come mai la comunicazione di Fenice giunga con nove giorni di ritardo rispetto alla comunicazione dell’Arpab.

Verifichiamo l’assoluta mancanza di informazioni e di trasparenza nella gestione della vicenda da parte di tutti gli enti interessati. Non un solo dato inerente al monitoraggio delle matrici ambientali acqua e terra è reso pubblico sui siti di Arpab, Fenice, Regione, Provincia e Comune. Finalmente, trascorsi tre mesi dalla comunicazione Arpab, il 17 giugno viene comunicato alla popolazione che l’inquinamento da mercurio sarebbe stato determinato da una “piccola perdita a livello di una vasca di raccolta.

La notizia filtra dalle stanze di una blindatissima “Conferenza di servizio” convocata dal sindaco di Melfi e che vede la partecipazione di tutti i soggetti interessati(Regione, Provincia, Comune, Arpab, Fenice). Oltre alle cause che hanno determinato la presenza di mercurio, nulla trapela su cosa abbia provocato la presenza di altri pericolosi agenti inquinanti(alifati clorurati cancerogeni).

A questo punto chiediamo: da quanto tempo va avanti la “piccola” perdita? Non riceviamo risposta.

Ci armiamo di pazienza e chiediamo all’Arpab e alla Regione di fornirci i dati inerenti al monitoraggio ambientale del melfese. Avanziamo una prima richiesta in data 24 giugno 2009, citando la convezione di Aarhus del 25.08.1998, Direttiva 2003/4/CE del 28.01.2003, Legge n. 108/01, relativa alla ratifica da parte dell’Italia della Convenzione Aarhus, D.Lgs 195/2005, relativo al recepimento della Direttiva 2003/4/CE, Legge 241/90 e succ. mod. e int.

Praticamente in tempo reale, il direttore dell’Arpab ci risponde, prima a mezzo mail e poi a mezzo raccomandata, che non può fornirci i dati, perché “è pendente presso il Tribunale di Melfi, un procedimento inerente alle attività dell’inceneritore Fenice S.p.A.”

La motivazione non ci convince e a fine giugno reiteriamo la richiesta, citando una sentenza del Tar Abruzzo. Anche questa volta la risposta è picche, ma con un’aggiunta: l’Agenzia afferma che “sono proprio i dati del monitoraggio ad essere oggetto di indagine.

Il Dipartimento Ambiente della Regione Basilicata, invece, risponde dopo 65 giorni, il 27 agosto 2009, invitandoci a recarci presso gli uffici del Dipartimento. Dopo due ore di colloquio, apprendiamo che presso il Dipartimento non sono disponibili le matrici ambientali acqua e terra dei rilievi effettuati dall’Arpab.

Iniziamo a provare la sgradevole sensazione di trovarci di fronte ad un muro di gomma e ad un gioco delle tre carte finalizzato a negare qualsiasi tipo di trasparenza e conoscenza.

Passano le settimane e i mesi e dell’indagine in corso nulla emerge.

Iniziamo a svolgere un’inchiesta sul territorio. A metà settembre, i nostri sospetti trovano una conferma: entriamo in possesso di alcuni documenti indirizzati dal distretto di Polizia Provinciale di Rionero in Vulture alla Procura della Repubblica di Melfi in data 27 marzo, 6 e 15 aprile. Dalla lettura dei documenti, apprendiamo che dai rilievi effettuati dalla stessa Fenice emerge un inquinamento in atto della falda acquifera già il 6 febbraio del 2008 e che la stessa agenzia per l’ambiente era a conoscenza dell’inquinamento in atto perlomeno dal 14 gennaio 2009. Dunque, 13 mesi prima delle comunicazioni pervenute al Sindaco di Melfi, Fenice e Arpab avevano riscontrato la presenza di sostanze anche cancerogene nelle acque “in concentrazioni molto superiori ai limiti fissati nell’Allegato N° 5 alla parte quarta tabella 2 del D.Lgs n° 152/2006”.

Il 21 settembre 2009, scriviamo una lettera aperta alla Procura della Repubblica di Melfi per chiedere come mai non si sia proceduto al sequestro dell’impianto, o quanto meno del Forno rotante, e per sapere a che punto si trovino le indagini.

Il 25 settembre 2009, in un servizio trasmesso dal Tgr Basilicata, giunge la risposta della Procura e dell’Arpab.

Il sostituto Procuratore Renato Arminio afferma che l’indagine è in corso da marzo 2009, ma “che sarebbe stato irresponsabile chiudere l’inceneritore”.

Nello stesso servizio, il coordinatore provinciale dell’Arpab, Bruno Bove, afferma:”Non potevamo divulgare quei monitoraggi. Già dal marzo del 2008 eravamo a conoscenza dei livelli preoccupanti del mercurio nella falda, ma non spettava al nostro Ente lanciare l’allarme.”

Sulla base delle dichiarazioni del dr. Bruno Bove, in data 26 settembre, presentiamo un esposto-denuncia indirizzato alla Procura della Repubblica di Potenza. Nello stesso ipotizziamo a carico di dirigenti dell’Arpab la violazione dell’art. 331 c.p.p.

Nemmeno dopo le sconcertati dichiarazioni del dott. Bruno Bove, la Regione Basilicata, il Presidente della Giunta Vito De Filippo, l’Assessore all’ambiente Vincenzo Santochirico fanno sentire la loro voce. Continua la consegna del silenzio e il muro di omertà. Ma non c’è da stupirsi: il direttore dell’Arpab viene nominato dal Consiglio regionale su indicazione della Giunta e il direttore dell’Arpab, Vincenzo Sigillito, è uomo vicino al Consigliere regionale del Pd Erminio Restaino.

A metà ottobre, e in concomitanza con il preannuncio di un sit-in Radicale, che ha visto la presenza di Elisabetta Zamparutti e Bruno Mellano, l’Agenzia rende noti i dati delle matrici ambientali acqua e terra del periodo 2008 – 2009, inviando i dati ai giornali, ma non mettendoli a disposizione dei cittadini sul sito dell’Agenzia. Il 16 ottobre, il Direttore dell’Arpab dichiara che è disponibile a diffondere i dati del monitoraggio a chiunque ne faccia richiesta, “a patto, naturalmente, che si tratti di persone titolate e mosse da validi motivi”.

Il concetto di trasparenza, evidentemente, non rientra nella sensibilità del Direttore dell’Agenzia, che si decide a diffondere i dati solo dopo che gli stessi erano stati diffusi dai Radicali, che rendono pubblica una denuncia a carico di Fenice dalla quale si evince che l’Arpab sapeva dell’inquinamento dal febbraio del 2008.

Pochi giorni dopo, il Direttore dell’Arpab, Sigillito, dichiara: “L’Arpab non era tenuta a informare le istituzioni entro tempi determinati, rispetto all’inquinamento provocato da Fenice. Se l’avessimo detto prima, a cosa sarebbe servito? A creare allarmismi?”.

Non contento, il Direttore dichiara ancora ad una testata amica “I Radicali fino a prova contraria non rappresentano un’istituzione per cui non sono tenuto a fornire loro i dati.”

In molte altre parti del mondo, il funzionario pubblico protagonista dei fatti descritti sarebbe stato quanto meno allontanato. Il Direttore dell’Arpab, Sigillito, invece è tuttora in carica, e nessuno, tranne i Radicali, gli ha chiesto di togliere il disturbo.

Ci sono voluti sei mesi per poter conoscere dati sul monitoraggio ambientale, che dovrebbero essere di pubblico dominio, e dai quali emergono concentrazioni di mercurio anche 140 volte superiori ai limiti previsti dalla legge.

Dal 2002, non un solo dato inerente alle matrici ambientali acqua e terra è stato reso pubblico dall’Arpa Basilicata. Dopo la nostra azione, ad inizio Novembre, sono stati postati sul sito dell’Agenzia i dati 2008-2009, che ormai non era più possibile tenere segreti.

Abbiamo chiesto al Direttore di pubblicare anche i dati precedenti; e qui c’è stato quello che potremmo definire il colpo di scena.

Il Direttore dell’Agenzia, Vincenzo Sigillito, il 4 novembre scorso, ha dichiarato, in sede di Commissione consiliare permanente Attività produttive, Territorio e Ambiente, che l’Arpab non ha nessun dato inerente al termodistruttore Fenice per il periodo 2002-2006.

Ma questo noi lo avevamo scoperto già all’inizio di settembre, quando ci eravamo recati presso gli uffici della Regione. Resta una domanda: perché il direttore ha finalmente reso pubblica questa imbarazzante verità?

L’audizione in sede di Commissione consiliare permanente Attività Produttive, Territorio e Ambiente è stata solo un momento della guerra tra Corleonesi e Palermitani che caratterizza la vita politica della Basilicata. Se la Regione, Il Consiglio regionale tutto e i membri della Commissione avessero davvero avuto a cuore la legalità e la trasparenza, il diritto dei cittadini lucani a conoscere per deliberare, si sarebbero mossi mesi o anni fa. La verità è che la Regione e il Dipartimento Ambiente sapevano che il monitoraggio era carente e lo sapevamo anche alcuni di coloro che oggi si stracciano le vesti, gridando allo scandalo, come l’ex Verde Francesco Mollica. Non è un caso che il confronto con il Direttore dell’Arpab non abbia avuto come oggetto la questione del diritto a conoscere per deliberare dei cittadini. Infatti, il verbale contenente le dichiarazioni del Direttore dell’Arpab non è stato pubblicato sul sito della Regione. L’audizione di Sigillito ha fatto emergere un’imbarazzante verità, ma se quella verità deve essere usata solo per affondare l’attuale direttore dell’Arpab, per attaccare un uomo in quota al Consigliere regionale Restaino, e non per modificare lo status quo, domani non cambierà nulla nella gestione dell’Agenzia regionale per l’ambiente, che è solo lo specchio fedele delle peste lucana.

Noi, intanto, ci chiediamo, e abbiamo buone ragioni per farlo, se i dati 2002-2006 non siano stati distrutti o occultati.

A tutt’oggi, resta senza risposta una lettera aperta che, il 27 luglio 2009, con Marco Cappato abbiamo inviato al Presidente della Regione, Vito De Filippo, e all’assessore all’Ambiente Vincenzo Santochirico. Nella missiva ricordavamo ai destinatari quanto la stessa Regione scriveva nel DGR n° 1008 del 15 marzo 1996:“bisogna garantire alla popolazione uno strumento che permetta tra l’altro una semplice interpretazione ecologica delle informazioni.”

Verrebbe da commentare: le vie dell’inferno sono sempre lastricate di buone intenzioni.

Rispetto alla realtà dell’agenzia regionale per l’ambiente, aggiungiamo qualche informazione utile.

L’Arpab paga, per l’affitto della sede di Matera, ventiduemila euro al mese al signor Castellano, a cui vanno aggiunti altri sessantamila euro all’anno per la manutenzione ordinaria, versati allo stesso Castellano. Totale 324000 euro all’anno, che per sei anni(la durata del contratto) fanno 1.944.000 euro. L’affitto per Matera è decisamente fuori mercato.

A Matera, Castellano significa Semataf, una società che gestisce un impianto per il trattamento di rifiuti pericolosi. Nell’oggetto sociale della Semataf, così come risultante dalla lettura della visura camerale storica, leggiamo quanto segue: “la società ha quale oggetto sociale la costruzione e gestione, in conto proprio e/o di terzi, di sistemi per la depurazione dei reflui industriali e per lo stoccaggio, il trattamento e lo smaltimento dei rifiuti in genere, ivi inclusi i rifiuti industriali, ospedalieri, urbani e di ogni altra tipologia e provenienza.”

Va segnalato che i certificati di analisi del dipartimento provinciale dell’Arpab di Matera mancano della firma di un dottore biologo e di un dottore chimico. Per la precisione, i certificati redatti dall’ufficio suolo e rifiuti non hanno nessuna validazione da parte di un chimico e di un biologo; stessa cosa per l’ufficio risorse idriche ed alimenti, che svolge funzioni in materia sanitaria, analizzando acque ed alimenti destinati al consumo umano.

Percezioni e sinergie

Alla luce della copertura decennale delle informazioni sull’inquinamento ambientale suonerebbero addirittura comiche, se non si stesse parlando di cose serie, alcune dichiarazioni rilasciate dal Direttore dell’Arpab e dall’Amministratore delegato di Fenice.

Il 29 novembre 2008, il Direttore dell’Arpab, Vincenzo Sigillito, dichiara:“L’Arpa Basilicata considera il termovalorizzatore una risorsa estremamente positiva per il territorio lucano a maggior ragione in un momento in cui la regione è costretta a fronteggiare la problematica dello smaltimento rifiuti. Al tempo stesso, però, si riscontra, la percezione negativa che le realtà locali hanno dell’impianto di Melfi.” Gli fa eco l’amministratore delegato di Fenice, Patrick Lucciconi, il quale dichiara: “So bene che quando si ha a che fare con realtà simili a quella della Fenice è importante la comunicazione con le autorità locali, ma ancor più quella con i cittadini, perché quest’ultima fa la differenza tra la percezione positiva o negativa.” Caricato da Lucciconi, il direttore dell’Arpab si esalta e replica, affermando: “L’Arpa Basilicata ha offerto il proprio supporto tecnico-scientifico per avviare interventi informativi e di sensibilizzazione rivolti alle scuole sulle tematiche ambientali in generale e più in particolare sull’attività del termovalorizzatore di Melfi.” Ironia della sorte, le frasi citate vengono pronunciate nel corso di un incontro intitolato La promozione di forme di partecipazione più trasparenti e sinergiche con le realtà locali in un’ottica di governance territoriale.”

I veleni di Tito: un’immensa discarica abusiva per rifiuti tossici garantita dall’omertà della Regione Basilicata.

A Tito, piccolo centro alle porte di Potenza, c’è uno dei due siti di Bonifica di interesse Nazionale della Basilicata; l’altro si trova nella Val Basento(materano). Come abbiamo avuto modo di verificare sul campo, a Tito è mancato sia l’interesse che la bonifica. O meglio, l’interesse c’è stato, ma è coinciso con le parole peculato, omissione di atti d’ufficio, mancata vigilanza, assenza di caratterizzazione, falso.

Si inizia a parlare della necessità di bonificare l’area industriale di Tito nel febbraio del 2001. Pochi mesi dopo, il D.M. 468/2001 istituisce “Il sito di bonifica di interesse nazionale di Tito”; ancora pochi mesi, e nel luglio del 2002, sempre con Decreto ministeriale, si stabilisce il perimetro del sito e parte la fase di caratterizzazione, cioè la fase in cui vengono accertate le effettive condizioni di inquinamento.

In merito alla bonifica del sito di Tito scalo, è bene precisare che la Regione Basilicata individuò nel 2005 il Consorzio per lo sviluppo industriale della Provincia(ASI) quale stazione appaltante per gli interventi di messa in sicurezza di emergenza e bonifica.

Noi iniziamo ad interessarci di Tito partendo dalla lettura di un verbale inerente alla conferenza di servizi decisoria tenutasi a Roma il 22 dicembre del 2008. Oggetto della Conferenza “Lo Stato di attuazione delle attività di caratterizzazione e di messa in sicurezza di emergenza sul sito di interesse nazionale.”

Dalla lettura del verbale dell’incontro, reso pubblico dall’Associazione Radicali Lucani, emergono gravi inadempienze e ritardi nell’opera di bonifica, e dati assai preoccupanti che fanno temere che l’inquinamento abbia prodotto danni che vanno ben oltre i perimetri stabiliti dalla burocrazia.

Leggiamo di monitoraggi incompleti, di dati discordanti, di rifiuti la cui destinazione risulta sconosciuta, di problematiche “non risolte”.

Il Ministero dell’Ambiente parla di “un contesto ambientale ancora caratterizzato da una pesante contaminazione da tricloroetilene in elevatissime concentrazioni tali da ipotizzare la presenza del prodotto libero in falda”. Lo stesso Ministero aggiunge che “a distanza di tre anni e mezzo le aziende e gli altri soggetti interessati hanno dimostrato limitato interesse e volontà nell’adoperarsi per conoscere e quindi, ove possibile, limitare la diffusione dell’inquinante che rappresenta un rilevante pericolo per la salute umana”.

Siamo partiti da qui, da questa frase, per effettuare un lungo viaggio in una terra devastata dai veleni. Abbiamo potuto documentare e verificare che, a otto anni dall’istituzione del “Sito di Bonifica di interesse nazionale di Tito scalo”, la bonifica è al di là da venire e i veleni stanno già da tempo inquinando acqua e terra ben al di là dei perimetri ministeriali.

Parlare dei veleni di Tito significa parlare dell’impresa Daramic, ma soprattutto delle 250000 tonnellate di fanghi industriali interrati nell’area ex-liquichimica nella cosiddettavasca fosfogessi”.

La Daramic

Nel 2005, la Daramic, una società che detiene il 65% del mercato mondiale per la produzione dei separatori per batterie automobilistiche, industriali ed applicazioni speciali, si autodenuncia, comunicando di aver causato “un pesante stato di contaminazione della falda e del terreno da tricloroetilene,tricloroetano, dicloroetilene, bromodiclorometano, cloroformio broformio, cloruro di vinile monomero, esaclorobutadene, tetracloroetilene.” Le sostanze citate sono tutte da considerarsi sostanze tossiche, cancerogene e persistenti. Al momento dell’autodenuncia, il sito di Tito già rientra nell’elenco dei siti d’interesse nazionale da bonificare.

Ma proprio in relazione all’inquinamento prodotto dalla Daramic, nel verbale ministeriale leggiamo notizie a dir poco inquietanti. Scrive il Ministero: “In corrispondenza del pozzo S13, nel mese di maggio 2008, è stata riscontrata un’elevata concentrazione di tricloetilene pari a 1590 milligrammi/litro non emersa nel mese precedente, tale circostanza potrebbe far presupporre ad uno sversamento puntuale”. Dunque nel 2008, a sette anni dall’istituzione del sito di bonifica, un agente inquinante, invece di diminuire, aumenta da un mese all’altro!

Ma non basta. Il Ministero segnala anche che alle acque alla trielina emunte è stato assegnato un codice CER(Codice europeo rifiuti) errato, ed aggiunge che l’impianto di trattamento/smaltimento di S. Nicola di Melfi, di proprietà del Consorzio industriale di Potenza(ASI), non è idoneo a ricevere i rifiuti costituiti dalle acque di falda emunte con codice CER(Codice Europeo Rifiuti) 19.13. Insomma, per il Ministero è stato possibile smaltire le acque inquinate presso l’impianto di proprietà del Consorzio industriale, solo grazie alla “errata” attribuzione del codice europeo rifiuti.

Da quanto scritto dal Ministero emerge un’ipotesi di peculato a carico dell’Asi Potenza. Peculato sui fondi destinati allo smaltimento di fanghi ed acque di falda contaminate, trattate e smaltite come rifiuti non pericolosi, con un risparmio sui fondi statali concessi per lo smaltimento dei rifiuti identificati dal cod. CER 19.13 e con conseguente arricchimento del Consorzio gestore.

LA VASCA FOSFOGESSI

Il grave inquinamento provocato dalla Daramic è assolutamente marginale rispetto ai veleni rivenuti nella zona industriale di Tito nel marzo del 2001 e di cui anche nel verbale ministeriale del dicembre 2008 non c’è traccia.

Marzo 2001: su mandato della Procura della Repubblica di Potenza, la Polizia Provinciale sequestra una discarica abusiva di 27000 mq.

L’area sottoposta a sequestro è di proprietà del Consorzio Asi di Potenza, che l’ ha acquistata dalla Liquichimica Meridionale Spa il 31 marzo del 1989.

La discarica è stata realizzata in totale violazione di quanto previsto dalla legge e senza alcuna autorizzazione. Il contenuto, è bene precisarlo, non ha nulla a che fare con le attività svolte dall’ ex-Liquichimica Meridionale.

Parlare dei fanghi industriali stoccati a Tito significa entrare in contatto diretto con chi dello smaltimento di rifiuti tossici ha fatto un affare.

Lo scenario che si presenta agli inquirenti è devastante: interrati in “trincee” e ricoperti da fosfogessi, contenitori in HPDE con all’interno decine di migliaia di tonnellate di fanghi industriali allo stato fluido.

Il dr. Mauro Sanna e il dr. Alessandro Iacucci, dopo aver analizzato i fanghi, affermano: “Questi fanghi incapsulati all’interno dei manti di HDPE per il loro elevato contenuto in metalli pesanti, visto lo stato di degrado e di cattiva gestione delle trincee, in completo stato di abbandono, possono essere causa di inquinamenti diffusi per la sottostante falda che affiora a breve profondità nel sottosuolo, una volta usciti dalle membrane stesse.

Siamo nel 2001 e chi analizza le “trincee” già parla di cattivo stato di conservazione.

Da quel marzo del 2001, di fatto, sui fanghi di Tito scalo cala un silenzio tombale. Non se ne parla e non si procede a nessuna bonifica o anche credibile caratterizzazione.

Otto anni dopo siamo tornati ad occuparcene noi, con una video-inchiesta, che documenta che il carico di veleni contenuto nell’area è finito nella falda e, da lì, nel torrente Tora e nel Basento. Un’associazione a delinquere dai contorni sfumati ha stoccato nell’area ex-liquichimica oltre 250000 tonnellate di fanghi industriali tossico-nocivi.

Eppure nel 1996, in un documento del Dipartimento ambiente della Regione Basilicata leggiamo: “L’area è estesa per circa 27000 mq con un’altezza media di circa 4 mt. In seguito tra il 1987 e il 1990, il sito venne destinato per lo stoccaggio dei fanghi di supero, stabilizzati e disidratati provenienti dall’impianto di trattamento delle acque reflue della città di Potenza e dei due nuclei industriali di Potenza e Tito.” Il documento in oggetto contiene un falso clamoroso: di stabilizzato nell’area ex-Liquichimica c’è solo l’assenza di interventi di bonifica e il silenzio omertoso di tutti gli enti coinvolti ad iniziare dalla Regione Basilicata.

Chi ha stoccato i fanghi?

Chiarito e ribadito che solo i fosfogessi sono il prodotto dell’attività industriale dell’ ex-Liquichimica, va detto che anche i fosfogessi rappresentano un serio problema ambientale. Infatti, sull’annuario ISPRA(Istituto superiore per la protezione ambientale, ex Apat) 2002, in relazione ai fosfogessi, leggiamo quanto segue: “L’impatto radiologico dell’industria dei fertilizzanti è connesso con l’elevata concentrazione di uranio 238 nelle fosforiti (minerali di partenza costituiti da fosfati di calcio) e nei loro derivati.”

Occorre sottolineare che lo stoccaggio di fanghi è avvenuto sotto la gestione del Consorzio industriale di Potenza.

I fanghi presenti all’interno delle trincee sono da classificare rifiuti speciali, codice CER(CODICE EUROPEO RIFIUTI) 198004. Tali fanghi sono di origine industriale e non di origine urbana, come riportato nelle progettazioni del Consorzio. Tra i veleni contenuti nei fanghi troviamo: Arsenico, Mercurio, Cadmio, Cromo, Piombo, Selenio, Rame, Nichel, Zinco.

La gestione della discarica abusiva può essere distinta in due fasi: la prima va dal 1989 al 1996; la seconda dal 1997 al 2001. Fino al 1996, la quantità di fanghi industriali stimata nell’area era pari a circa 170000 tonnellate; successivamente, e fino alla data del sequestro, si arriva a 250000 tonnellate.

Il Consorzio Industriale di Potenza, con delibera n°263 del 12/11/1997, stipulò un contratto con la Carlo Gavazzi Idross S.p.a., con sede a Catanzaro, per la gestione e manutenzione della linea trattamento fanghi a servizio dell’impianto di depurazione del comune di Potenza. Successivamente, il 19 giugno del 1998, la Gavazzi sub-appaltò la gestione e manutenzione alla Bioeco S.R.L. di Potenza, che attualmente risulta sciolta. E’ agli atti che alcuni amministratori della Bioeco e della Gavazzi e alcuni rappresentanti dell’Asi sono stati destinatari di una richiesta di rinvio a giudizio.

E’ interessante notare che dai formulari risulta quale produttore dei fanghi la Bioeco srl di Potenza, quale trasportatore la Cosmer Srl di Napoli e quale smaltitore finale la SI.TE, con sede in Roma ed impianti in Aia Monaci a Potenza. In realtà, la Bioeco Srl non è il produttore iniziale, ma solo una ditta intervenuta nella raccolta e gestione di rifiuti provenienti da diverse attività industriali del Mezzogiorno. I rifiuti non sono mai arrivati agli impianti SI.TE srl in area Monaci(area che, è bene sottolinearlo, è destinata al solo smaltimento di rifiuti urbani, e solo per questi attrezzata ed autorizzata), ma sono stati collocati nella vasca fosfogessi.

Con ogni probabilità, questa vicenda si concluderà senza nessuna chiara attribuzione di responsabilità, perché nel frattempo i reati contestati a colletti bianchi ed affini stanno per cadere in prescrizione. Trattasi, comunque, di una vicenda emblematica, dalla quale emerge tutto un mondo che fa affari con il traffico di rifiuti tossici. Dall’inchiesta da noi condotta sullo smaltimento dei fanghi nella vasca fosfogessi sono emerse numerose notizie di reato. Non a caso, sulla vicenda abbiamo presentato due esposti alla Procura della Repubblica di Potenza.

Anche a Tito, come per la vicenda Fenice, abbiamo registrato l’assoluta mancanza di trasparenza per ciò che concerne la diffusione dei dati inerenti all’inquinamento delle matrici ambientali acqua e terra. Poche settimane fa, in una lettera inviata a tutti i capifamiglia di Tito, abbiamo scritto: “Il piombo, la trielina e tutte le sostanze tossiche presenti nel sottosuolo di Tito stanno al vostro habitat come la tenia partitocratica sta alla democrazia”.

Da tutta questa vicenda emergono tali e tante omissioni a carico di tutti gli enti coinvolti, che risulta difficile poterle elencare tutte.

Quel che resta è il fin troppo eloquente contenuto delle ordinanze emesse dal sindaco di Tito, che scandiscono, a partire dal 2005, il degrado della falda acquifera.

Nel Luglio del 2005 si fa divieto assoluto di utilizzare “per uso umano, per irrigazione e per altre attività l’acqua prelevata dai pozzi presenti all’esterno del perimetro dell’area industriale e compresi in una fascia di mt 100 dal limite dell’area Asi”. Il provvedimento, con ogni probabilità, viene emanato con grave ritardo.

Nell’aprile 2009, in una delibera votata dal Consiglio comunale, si legge:“Non è stato possibile revocare l’ordinanza di divieto di utilizzo ai fini potabili dell’acqua dei pozzi per una distanza di oltre 150 metri rispetto a quella perimetrata dal competente Ministero. Il permanere di detta situazione di grave inquinamento, rischia di compromettere, in maniera irreversibile, le falde acquifere con possibili gravi ripercussioni sulla salute pubblica.”

Il 21 settembre 2009, il Sindaco di Tito è costretto ad emettere una nuova ordinanza. Questa volta si fa “divieto assoluto di utilizzo delle acque del torrente Tora”. Il Tora è affluente del super inquinato fiume Basento.

E pensare che per mesi, tutti, ad iniziare dallo stesso sindaco, hanno tentato di minimizzare la gravità della situazione. Di certo, oggi, dopo la nostra video-inchiesta, a nessuno potrà venire in mente di risolvere il problema della vasca fosfogessi con una colata di cemento. Resta una domanda che ci inquieta: perché, in tutti questi anni, nessuno ha voluto e saputo risolvere il problema determinato dalla presenza di questa discarica abusiva?

Il 23 luglio, sulla vicenda Tito scalo, con Marco Cappato abbiamo indirizzato una missiva al Presidente della Regione, Vito De Filippo, e all’Assessore all’Ambiente Vincenzo Santochirico. Ad oggi siamo ancora in attesa di una risposta ufficiale. Sui veleni di Tito, Elisabetta Zamparutti ha presentato numerose interrogazioni parlamentari firmate da tutti i deputati Radicali.

Le responsabilità della mancata bonifica della vasca fosfogessi vanno equamente distribuite tra Regione, Asi, Provincia ed Arpab. Il tutto anche grazie ai silenzi dell’opposizione di regime.

Ad oggi, non una parola, né un intervento nelle sedi competenti è pervenuto dall’on. Salvatore Margiotta, che pure è vicepresidente della Commissione ambiente della Camera dei Deputati. A fargli ottima compagnia, l’intera pattuglia lucana presente alla Camera e al Senato.

Val Basento. Pattumiera d’Italia

Nella Val Basento troviamo il secondo sito di bonifica di interesse nazionale della Basilicata. Anche in Val Basento, come a Tito, è mancato sia l’interesse che la bonifica.

Il sito dell’area industriale della val Basento è stato individuato quale sito di interesse nazionale con l’art. 14 della legge 31 luglio 2002 n.179.

Successivamente, con il D.M. 26 febbraio 2003, è stato definito il perimetro del sito che comprende sei comuni del materano: Ferrandina, Pisticci, Grottole, Miglionico, Pomarico, Saladra.

Nell’area basentana del sito, a ridosso del bivio di Matera, si trova il nucleo industriale di Ferrandina. A ridosso di tale area industriale, dopo il ponte che collega Ferrandina alla s.s. 407 Basentana, si trova il sito industriale ex-Liquichimica di Ferrandina, che è stato sede, sin dai primi anni sessanta e sino alla fine degli anni settanta, di industrie per la produzione di clorosoda, cloruro di vinile monomero e Polivinile Cloruro(PVC).

Nel 2005, sul sito Ricerca Italiana leggiamo di una ricerca sulla situazione del sito di Bonifica della Val Basento. In quella ricerca, viene affermato che “le analisi chimiche hanno permesso di rilevare la presenza di inquinanti in quantità superiori a quelle consentite dalle disposizioni legislative vigenti: elementi chimici di elevata tossicità, come mercurio, piombo, cromo, zinco, sono presenti in concentrazioni da decine a centinaia di volte più elevate di quelle ritenute nocive per la salute umana. Purtroppo le anomalie chimiche finora rilevate non si limitano ai soli sedimenti ed alcuni elementi sono presenti nelle acque di falda in quantità superiori a quelle ammissibili. E’ pertanto opportuna una specifica e puntuale caratterizzazione chimica, geochimica e biologica dell’Area con lo scopo di localizzare le possibili sorgenti di inquinamento, di tracciare le distribuzioni degli elementi chimici e di individuare i percorsi e definire la velocità di migrazione degli inquinanti.”

Quattro anni dopo, nel giugno del 2009, il Presidente dell’Organizzazione lucana ambientalista, Pietro Dommarco, denuncia l’assenza di bonifica dalle pagine del mensile “Altra Economia”(L’informazione per agire). Scrive Dommarco: “Di fronte al problema dell’inquinamento delle falde acquifere e di un centinaio di altri siti contaminati da idrocarburi policiclici aromatici, composti cancerogeni, solfati e metalli pesanti tracciati da uno studio della stessa Regione Basilicata nell’aprile del 2006 la risposta istituzionale è stata lenta.” Nell’articolo si disegna uno scenario che ricalca quello di Tito Scalo.

Nel mese di ottobre del 2009, decidiamo di occuparci della Val Basento e lo facciamo partendo proprio da Ferrandina, dove si trova lo stabilimento(dismesso) gemello della Liquichimica di Tito scalo. A Ferrandina troviamo, e documentiamo, l’ennesima storia lucana fatta di veleni e cassa integrazione, di bonifiche fantasma e inquinamento delle falde acquifere.

Potrà sembrare incredibile, ma a Ferrandina, all’interno di un sito di bonifica non bonificato, è stato autorizzato l’insediamento di uno stabilimento chimico, che il Ministero dell’Ambiente ha inserito nell’elenco degli stabilimenti suscettibili di causare incidenti rilevanti.

Parliamo della Mythen Spa, che, in base a quanto leggiamo nell’oggetto sociale, tratta anche solventi usati. I solventi usati, in base a quello che leggiamo sul Catalogo Europeo dei Rifiuti, sono considerati rifiuti pericolosi. Nell’area Mythen, grazie alla preziosa collaborazione di chi si occupa di reati ambientali, documentiamo l’assenza di rete fognaria e il fatto che la Mythen scarica le sue acque industriali direttamente nel Basento. La condizione dei piezometri installati all’esterno dello stabilimento dal Dipartimento Ambiente e Territorio, e che dovrebbero servire a monitorare la falda acquifera, è, per usare un eufemismo, “precaria”.

Come se non bastasse, nei pressi dello stabilimento c’è la cosiddetta “area confinata”. Trattasi di un sito che non ha nulla da invidiare alla vasca fosfogessi di Tito, ma con un po’ di sorveglianza in più. L’area in oggetto, infatti, è recintata e illuminata. Per ammissione di un Consigliere comunale di Ferrandina, tale ing. Recchia, l’area in oggetto contiene rifiuti di origine industriale con abbondante presenza di Mercurio e altre sostanze altamente inquinanti.

La Mythen, nel rispondere alla nostra video-inchiesta, afferma di aver bonificato 200 metri quadri a sue spese; ma la Mythen, come è scritto sul sito della società, ha acquistato in quell’area 60000 mq di terreni. La stessa società afferma dalle pagine de “Il Quotidiano della Basilicata” che ci sono delle “criticità nel processo di produzione”.

Il termine criticità sembra essere ricorrente nelle risposte della Mythen. Infatti, in un articolo del luglio 2006, intitolato “Chiazze gialle nel Basento”, la Mythen, nel rispondere a chi accusa l’azienda di produrre inquinamento, oltre a negare qualsiasi attività inquinante, afferma che stanno “risolvendo delle criticità nel processo di produzione”.

Nel novembre del 2008, l’assessore all’ambiente della Regione Basilicata, Vincenzo Santochirico, dopo un incontro con il management della Mythen, parla di “criticità che non agevolano la produzione, come ad esempio la mancanza della rete fognante”.

Ma di situazioni strane, che meriterebbero di essere approfondite, nella Val Basento ce ne sono tante.

Il 15 ottobre del 2008, viene data una valutazione di impatto ambientale favorevole per la costruzione di una centrale per lo stoccaggio di gas naturale nell’area Grottole-Ferrandina. La valutazione viene, però, concessa con prescrizioni, e precisamente viene richiesto “di effettuare uno studio della situazione di possibile contaminazione dei suoli dell’area individuata, con particolare riferimento ad alcuni analiti quali Cromo, Cadmio, Vanadio, Mercurio, Rame e Piombo.”

La Val Basento è una bomba ecologica ed è anche una sorta di “terra di nessuno” per lo smaltimento illegale di rifiuti. Ma in Val Basento si registrano anche situazioni anomale per ciò che concerne lo smaltimento di 351mila tonnellate annue di rifiuti industriali. E’ il caso della Semataf, del gruppo Castellano, che in documenti ufficiali denuncia 218 tonnellate di fanghi di perforazione in entrata, ricevuti dall’Eni di Potenza e Foggia, mentre alla voce destinazione le 218 tonnellate crescono, diventando 228, con destinazione impianto di smaltimento Semataf di Guardia Perticara. Poi ci sarebbero i conti che non tornano in relazione alle attività svolte dalla società Tecnoparco di Pisticci(MT). Nel 2006, la Tecnoparco dichiara di aver ricevuto 43000 tonnellate di soluzioni acquose di scarto dalla Semataf ,che, invece, dichiara di averne spedite a Tecnoparco 1100. Anche in questo caso i conti non tornano.

Verrebbe da chiedere alla regione Basilicata quanto abbia incassato in questi anni dalle ecotasse versate da Fenice, Tecnoparco, Semataf e Criscuolo.

Concludendo, anche in Val Basento, come a Tito, bonifica e monitoraggi carenti, traffico illegale di rifiuti e conti che non tornano sullo smaltimento ufficiale di rifiuti industriali altamente tossici e pericolosi.

Il dottor Nicola Maria Pace, all’inizio degli anni novanta indagava proprio sul traffico di rifiuti in Basilicata: fu promosso e trasferito.

In un’intervista rilasciata il 18 ottobre alla Gazzetta del Mezzogiorno, il lucano dr. Pace afferma:…“diciamo che in Italia abbiamo una produzione di rifiuti che obiettivamente può essere smaltita con le normali strutture esistenti solo nella misura del 30 per cento. Al piccolo cabotaggio provvede la piccola manovalanza e alle situazioni più complesse quella organizzata, da qui le ecomafie, le cui centrali possono agire su scala internazionale, appoggiate anche da entità di livello superiore. I territori delle nostre realtà scarsamente presidiati e della cui fragilità abbiamo già detto, finiscono per diventare terreno fertile per vari tipi di illegalità. Non ultime quelle mascherate dall’offerta di posti di lavoro. Un copione che si ripete attraverso strutture che altrove sarebbero state rifiutate perché realizzate in violazione a tutte le norme in materia di gestione dei rifiuti.”

La Val D’Agri

La Basilicata Hub petrolifero

In Basilicata c’è il più grande giacimento petrolifero in Terraferma d’Europa. Solo il potenziale stimato del giacimento di idrocarburi della Val D’Agri, dove opera l’Eni, è di oltre 900 milioni di barili(in Val d’Agri si estrae l’80 per cento del petrolio italiano). Il valore complessivo dell’oro nero presente in Val D’Agri è di circa 20 miliardi di dollari. In Val d’Agri ci sono 55 pozzi in produzione. Insomma, scherzando, qualcuno anni fa ha rinominato la Lucania, Basilikuwait. Il problema è che la Val d’Agri non è un deserto e le estrazioni vengono effettuate in una zona ricca di sorgenti, boschi e instabile per frane. Sul sito blog energia, nel 2008, si leggono grida di giubilo per le concessioni rilasciate a Total, Shell ed Exxon, che sanciscono l’apertura del secondo polo di estrazione della provincia di Potenza, in località Tempa Rossa di Corleto Perticara. Quanto brevemente descritto, credo, renda chiaro il ruolo strategico che la Basilicata riveste per il nostro Paese. Di tutta questa ricchezza in Basilicata resta davvero poco, e soprattutto, il poco che resta viene speso davvero male. Parlare di petrolio in Basilicata significa parlare di monitoraggi carenti e incidenti collegati alle estrazioni petrolifere. E allora occorre dire che quanto ripetutamente denunciato da alcune organizzazioni ambientaliste, quali la Ola, è semplicemente incredibile. In Val d’Agri, da oltre dieci anni, è assente una rete di monitoraggio che rilevi in continuo tutti gli inquinanti (ivi compresi IPA, COV, Benzene, H2S Idrogeno Solforato), così come previsto dagli accordi Eni-Regione. L’idrogeno solforato è il sottoprodotto principale dell’opera di idro-desulfurizzazione del petrolio. A detta di autorevoli scienziati, un contatto quotidiano, anche con basse dosi di H2S, dell’ordine di grandezza delle normali immissioni nell’atmosfera di un centro di idro-desulfurizzazione, ha effetti di alta tossicità per la salute umana. Un documento molto istruttivo sul tema è stato prodotto dalla professoressa Maria Rita D’Arsogna(docente universitaria in California). Quello che c’è scritto nel documento in oggetto non è per niente confortante per gli abitanti della Val d’Agri, che vivono a poche decine di metri in linea d’aria dal Centro Oli di Viggiano. L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) consiglia di fissare il limite di rilascio di idrogeno solforato a 0,005 parti per milione (ppm); negli Stati Uniti, il Governo federale raccomanda un limite di 0,001 ppm, con limiti differenti fissati da Stato a Stato (ad esempio la California pone il limite dello 0,002 ppm, ed il Massachussetts dello 0,006). In Italia, il limite massimo di rilascio di idrogeno solforato, secondo quanto stabilito dal decreto ministeriale del 12 luglio 1990, recante le “Linee Guida per il contenimento delle emissioni degli impianti industriali e la fissazione dei valori minimi di emissione”, è di 5 ppm per l’industria non petrolifera e 30 ppm per quella petrolifera. E tutto questo nonostante sia ormai noto nella letteratura medica e scientifica che quest’ultimo valore è non solo seimila volte più alto dei valori raccomandati dall’OMS, già applicati negli USA, ma anche causa di danni irreversibili per la salute umana. Nel 2002 e nel 2005, in Basilicata ci sono stati due incidenti rilevanti che hanno riguardato il centro oli di Viggiano. Incidenti gravissimi, sui quali non sono stati mai forniti i dati relativi all’emissione dell’idrogeno solforato(Conoscere per deliberare?). In una ricerca curata dall’Università della Basilicata, pubblicata dall’International Journal Food Science and Technology, risulta che nel miele prodotto nella Val D’Agri si trovano alti tassi di benzeni ed alcoli. La rete di monitoraggio in Val D’Agri è carente, e per lungo tempo l’Eni ha rivestito il duplice ruolo di controllore e controllato. Come se non bastasse la questione collegata al rilevamento dell’Idrogeno solforato e di altri inquinanti, da alcune settimane è scoppiata una nuova polemica sul rilevamento del biossido d’azoto. Nella polemica, manco a dirlo, è coinvolta l’Arpa Basilicata. Premesso che nelle aree interessate dall’estrazione di idrocarburi la Regione Basilicata ha predisposto un affiancamento di Metapontum Agrobios all’Arpab, accade che, nel periodo compreso tra giugno e luglio 2009, i dati dei due enti sul Biossido d’Azoto entrino in contraddizione. Allarmanti, quelli presenti sul sito Metapontum Agrobios, che mostrano superamenti per 13 giorni consecutivi nel mese di giugno e 12 giornate off-limits nel mese di luglio(per un totale di 25 giornate ); tranquillizzanti i dati Arpab rilevati tra il 10 e il 31 luglio, che non fanno registrare alcun superamento della soglia massima di biossido d’azoto, che è di 200ugr(microgrammi)/mc. Per il biossido d’azoto, il Decreto Ministeriale 60/2002, che ha recepito con tre anni di ritardo la direttiva 1999/30/CE, concernente i valori limite di qualità dell’aria ambiente, fissa alcuni limiti massimi in relazione ad una media oraria(200 ugr/mc per 18 giorni in un anno). La Metapontum Agrobios registra in Val D’Agri 25 giornate di superamento della soglia d’attenzione in soli 2 mesi. Sul sito dell’Agenzia provinciale per la protezione dell’Ambiente della Provincia autonoma di Trento, in relazione al Biossido d’Azoto, leggiamo quanto segue: “il biossido d’azoto si può ritenere uno degli inquinanti atmosferici più pericolosi…il biossido d’azoto esercita il suo effetto tossico principalmente sugli occhi, sulle mucose e sui polmoni. In particolare, il gas è responsabile di specifiche patologie a carico dell’apparato respiratorio.” In Val D’Agri si registrano picchi di malattie tumorali ed aumento delle infezioni broncopolmonari. Di certo la malapolitica, che produce l’incapacità di governare un territorio, in Lucania fa più male anche dell’Idrogeno solforato.

Record di malattie Tumorali in Basilicata

La verde Basilicata, che fa registrare una bassissima densità abitativa, si accinge a detenere il record italiano per ciò che concerne l’incidenza delle malattie tumorali.

In uno studio redatto da alcuni medici dell’Istituto Superiore di Sanità, in collaborazione con l’Istituto Tumori di Milano, si afferma che in Basilicata l’incidenza delle malattie tumorali cresce come in nessun’altra parte d’Italia. Il tutto viene descritto in uno studio dal titolo “Current cancer profiles of the italian regions”. Intervistata dalla Gazzetta del Mezzogiorno, la dott.ssa Gabriella Cauzillo, dirigente dell’Ufficio regionale della Basilicata per le Politiche della prevenzione sanità pubblica, ha affermato: “L’incidenza dei tumori maligni in Basilicata è in aumento e lo confermo. Inoltre, la velocità di aumento dell’incidenza da noi è superiore.

Il 28 ottobre, nel corso di una seduta del Consiglio Provinciale di Potenza, dedicata all’inquinamento delle falde acquifere e alla questione della gestione dei rifiuti, il dr. Giuseppe Morero ha affermato che il tasso di diffusione dei tumori nel Vulture sembra troppo alto. Nel corso del suo intervento, il dott. Morero ha sottolineato che l’incidenza delle malattie tumorali, nelle zone attorno all’inceneritore Fenice, dovrebbe almeno far riflettere.

Ma forse non è solo la riflessione ad essere mancata in questi anni. La Basilicata da mesi vive un’emergenza rifiuti che richiama alla memoria l’emergenza della confinante Campania. La piccola Basilicata avrebbe potuto essere il fiore all’occhiello dell’Italia in materia di riciclaggio dei rifiuti, ed invece solo l’8% della monnezza viene riciclato. Il 73% dei rifiuti lucani finisce in discarica e la restante parte viene incenerita. Da mesi assistiamo ad un Tour della monnezza con discariche al collasso, costi di raccolta che lievitano, strani incedi segnalati in alcune discariche. Discariche che, nella maggior parte dei casi, sono di vecchia concezione, cioè scarsamente impermeabilizzate sul fondo, senza un sistema di collettamento e recupero energetico biogas e prive di gran parte degli accorgimenti che impediscono la contaminazione con le matrici ambientali a contatto. Ci siamo più volte interrogati su questa “emergenza”, chiedendoci se essa sia solo figlia dell’incapacità di gestire un territorio, oppure voluta, indotta. Di certo è un’ “emergenza” sulla quale volteggiano già troppi avvoltoi; alcuni di questi sono già pronti a proporre l’apertura di nuovi inceneritori. Le cosche della partitocrazia lucana, più che occuparsi di realizzare un ciclo virtuoso nella raccolta dei rifiuti, si sono concentrate sulla creazione di società partecipate che hanno moltiplicato i costi di raccolta.

Dal Dissesto ideologico al dissesto idrogeologico

La vicenda Marinagri

Ci siamo occupati per lungo tempo, da quando Marco Cappato e Maurizio Turco sedevano tra i banchi del Parlamento Europeo, della vicenda Marinagri. E mi è venuto da pensare proprio alla vicenda Marinagri leggendo dei fatti di Messina. Il fiume di inchiostro che è stato versato dopo i fatti di Giampileri, riecheggia le stesse parole, le stesse riflessioni, che abbiamo letto e ascoltato dopo i fatti di Soverato e quelli di Sarno. In Italia il 48% del territorio è a rischio frana; in Italia si verifica uno smottamento ogni 45 minuti; in Italia dal 1918 al 2009 ci sono state 15000 frane gravi e oltre 5000 alluvioni. E ancora, dati che raccontano del rischio idrogeologico, noto, arcinoto, con 7 comuni italiani su dieci a rischio. E poi il documento “Ecosistema a rischio”, redatto dalla Protezione civile in collaborazione con Legambiente, dove troviamo la fotografia dei tanti disastri annunciati: 1700 comuni a rischio frana, 1285 comuni a rischio alluvione, 2596 comuni a rischio frana e alluvione. Messina, Sarno, Soverato, il Vajont, tutte tragedie attribuibili a quel dissesto idrogeologico, figlio del dissesto ideologico. Nel nostro libro bianco/giallo, “La peste italiana”, c’è un capitolo dedicato al dissesto idrogeologico. In quel capitolo ricordiamo che L’Agenzia Europea per l’Ambiente ha documentato un progressivo aumento delle catastrofi naturali in Italia. Oggi, il 38% delle vittime di alluvioni in Europa sono italiane. Ma veniamo alla Basilicata, che in base a quanto descritto dal rapporto redatto dalla Protezione Civile, vanta 56 comuni a rischio frana, 2 comuni a rischio alluvione e 65 comuni a rischio frana e alluvione, per un totale di 123 comuni a rischio. I comuni lucani, gioverà ricordarlo, sono 131. Eppure, con leggerezza, o meglio con scelta criminale, in Basilicata si è consentito di edificare un megavillaggio turistico nella fascia di pertinenza fluviale del fiume Agri, nell’area golenale di un fiume. Attualmente il villaggio è sottosequestro per disposizione dell’autorità giudiziaria. La città di Policoro, dove il villaggio è ubicato, è stata più volte soggetta ad inondazioni. Non vorremmo che tra dieci o cinquanta anni qualcuno debba scrivere, in relazione alla Venezia sul Mar Ionio: Tutti sapevano! Per quanto ci riguarda abbiamo ritenuto opportuno e doveroso diffidare l’Autorità di Bacino della Basilicata, attraverso un atto stragiudiziale, con il quale abbiamo invitato l’Adb ad avviare un procedimento amministrativo in via di autotutela per l’annullamento degli atti che hanno portato alla previsione dell’edificabilità sia pure con l’imposizione delle prescrizioni.

In un articolo apparso su Left qualche mese fa, Marco Cappato, occupandosi della vicenda di Tito scalo affermava: “La Basilicata è una delle regioni italiane dove è più chiaro come il dissesto idrogeologico sia il frutto avvelenato di quel dissesto ideologico prodotto da sessant’anni di regime fondato sulla corruzione e l’illegalità.”

Un mese dopo, sempre su Left, in un articolo dedicato alla vicenda Fenice, Elisabetta Zamparutti affermava: “il degrado del nostro territorio da tutti i punti di vista – ambientale e idrogeologico – è frutto del degrado della classe dirigente del Paese.”

Leonardo Sciascia, deputato Radicale e autore e dell’Affaire Moro, scrive in uno dei suoi racconti: “Il nome di uno scrittore, il titolo di un libro, possono a volte, e per alcuni, suonare come quello di una patria.”

In questi mesi, la mia patria, e non me ne vorrà spero, è stata una frase di Marco Pannella, che descrive alla perfezione le storie di veleni industriali e politici di cui ci siamo occupati: “La strage di legalità ha sempre per corollario nella storia, la strage di popoli.”

Come chiudere questo intervento? Visto il tema trattato vorrei farlo citando Roberto Saviano che in Gomorra scrive:“Ti sfogliano lentamente. Una foglia al giorno fin quando ti trovi nudo e solo a credere che stai combattendo con qualcosa che non esiste, che è un delirio del tuo cervello.

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Poggiare la prima pietra: la bretella per il ponte che verrà

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “il Domani della Calabria” del 24 novembre 2009

Associazione No Ponte
Associazione No Ponte

Secondo molti sostenitori del ponte sullo stretto, le principali motivazioni addotte per spiegarne la necessità è che il Sud, Calabria e Sicilia in testa, sarebbe miracolato da un “rilancio delle condizioni economiche e sociali dell’area interessata oltreché da una riduzione infrastrutturale che colpisce il Mezzogiorno sin da prima dell’Unità. Il Ponte dovrebbe favorire l’integrazione tra le diverse modalità di trasporto così da “soddisfare la domanda di un crescente bisogno di un più efficiente collegamento tra il continente e la Sicilia”. Ciò nonostante le recenti statistiche definiscano il traffico in diminuzione. E poi se fosse solo questo il vero problema, il traffico, verrebbe facile pensare che col sistema degli aerei cargo e delle “vie del mare” incentivati dall’unione europea, anche dal punto di vista economico la costruzione del ponte sembrerebbe poco consigliabile. Giulia Maria Mozzoni Crespi presidente del FAI, il fondo per l’ambiente italiano, è intervenuta alla trasmissione del 21 novembre scorso di “ambiente Italia” su Rai tre definendo il ponte sullo stretto un’opera non solo inopportuna ma anche contraria al buon senso. Oggi molti calabresi sono impegnati a tentare di bloccare i lavori della “bretella” che, nel progetto in variante, è opera necessaria alla costruzione del ponte. Stiamo parlando quindi della prima pietra o, quantomeno, della prima opera funzionale a quello che sarà il ponte sullo stretto. Poi arriveranno anche i piloni. La bretella è necessaria per la costruzione del ponte ma, ci chiediamo: il ponte è necessario alla Calabria e alla Sicilia? E’ questa forse la vera domanda cui dovremmo, noi calabresi, siciliani, darvi risposta perché è di Scilla e Cariddi che si discute. Dovremmo, noi, decidere se vogliamo vederle collegate, per i prossimi 150 anni fino a quando, cioè, non cadrà per usura, da un enorme, gigantesco, ponte di acciaio e cemento o se, invece, lasciarle così agli occhi dei nostri figli, nipoti. Vorrei fare un paragone: Immaginate due immobili dirimpettai intrisi di storia e cultura ma fatiscenti, vecchi, talmente vecchi che in alcuni punti sono pronti al crollo, coi vetri rotti, con gli scarichi otturati, i tubi dell’acqua con la ruggine e che perdono come cola brodi, pensate se, i due amministratori di quei condomini, per idea geniale di entrambi, pensassero di spendere i pochi soldi che avranno in cassa nei prossimi anni ed investirli tutti in un ponte per collegare i due tetti, o due balconate, ed evitare così di scendere le scale, attraversare la strada e trovarsi nell’altro condominio. Ci verrebbe subito di dire che si tratta di follia. Tutti, anche i bambini, capirebbero che sarebbe certo meglio occupare quei soldi per investire sul risanamento del territorio, sull’adeguamento e/o la rottamazione del patrimonio edilizio non adeguato a resistere agli eventi sismici la cui frequenza, in Calabria, è storicamente oltre che geologicamente, provata.

Che l’Italia non abbia bisogno di “opere faraoniche” e che bisogna invece intervenire per ridurre il rischio idrogeologico lo ha detto anche la più alta carica dello Stato dopo che per anni geologi e associazioni ambientaliste non parlano d’altro. Cerzeto, Beltramme, Crotone, la frana sull’A3 e più di recente i fatti di Messina non si possono dimenticare. La Calabria è la regione dove il 100% dei comuni presenta aree a rischio idrogeologico per frana o per alluvione. Una regione, la nostra, dove i cantieri per l’ammodernamento della Salerno Reggio Calabria, sono spesso interrotti per le frane oltre che per le infiltrazioni mafiose. La questione del rischio idrogeologico e il degrado dei corsi d’acqua sono un problema prioritario per tutto il Paese ma per il mezzogiorno in particolare. Un problema che, se affrontato, consentirebbe anch’esso di promuovere sviluppo e occupazione. Il ricorrere di fenomeni di dissesto idrogeologico negli ultimi anni non può essere più attribuito ad eventi naturali o alle intemperanze di un clima eccezionale ma a un modello di sfruttamento intensivo e poco programmato del territorio: un dissesto idrogeologico causato dal disastro ideologico e l’incapacità di governare il territorio dei politici che ci hanno amministrato ai vari livelli. Oggi è a questo che dobbiamo dare rimedio, è questa l’opera faraonica da compiere: risanamento idrogeologico del territorio senza dimenticare che la nostra è un anche una regione geologicamente “ballerina” ad alto rischio sismico per la presenza di un’edilizia, anche pubblica, ormai vetusta che andrebbe risanata o “rottamata” per avere edifici, almeno quelli pubblici, che resistano agli eventi sismici. Insomma, una grande opera di risanamento ambientale e una grande opera di rottamazione dell’edilizia vulnerabile al posto di un solo ponte le cui basi poggeranno sulla faglia numero 50 del modello neotettonico d’Italia. E poi, ci chiediamo se, per avvicinare Sicilia e Calabria al resto del mondo, non sarebbe meglio trovare in agenzia qualche volo “lowcost” in più.


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L’oro nero sulla nostra testa

di Giuseppe Candido

Fra pochi giorni i grandi della terra si riuniranno a Copenaghen per discutere dei cambiamenti climatici in corso, di ambiente e di politiche energetiche mondiali. Produrre energia senza inquinare è diventata un’esigenza mondiale non più rinviabile.

Ciò nonostante lo scorso 16 novembre le agenzie hanno battuto la notizia secondo cui la quindicesima Conferenza delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico che sarebbe dovuta servire a stabilire nuovi vincoli per le emissioni di gas inquinanti, superando il precedente Protocollo di Kyoto, i cui obiettivi di riduzione delle emissioni arrivano al 2012, non prevederà invece nulla di tutto ciò a causa del “Patto di ferro fra Usa e Cina” in base al quale nessun accordo sui tagli alle emissioni di CO2 potrà essere raggiunto al prossimo vertice di Copenaghen.

Insomma, abbiamo così tanto bisogno di energia che non possiamo rinunciare a bruciare petrolio e carbone. Ma forse le cose sono destinate a cambiare in breve tempo. Ci si è accorti infatti che, sopra la nostra testa, vi è un vero e proprio “giacimento energetico” costituito dai venti, veri e propri fiumi d’aria, ad alta quota. Il potenziale energetico di queste correnti è dieci volte superiore rispetto a quello dei normali venti a bassa quota. L’idea di utilizzare speciali turbine eoliche montate su “aquiloni” per produrre energia elettrica sfruttando i venti presenti in alta quota non è nuova. Già in passato, alcune università e centri di ricerca hanno proposto alcune ipotesi di soluzione tecnologica. Ma le cose stanno evolvendo velocemente. A Berzano S. Pietro, fra le colline a est di Torino, a settembre è stato testato il primo prototipo per lo sviluppo di una centrale eolica d’alta quota. Si chiama Kite Wind Generator, e invece delle lente e ingombranti torri a turbina, basa la produzione di energia su enormi aquiloni collegati a una turbina ad asse verticale. Col termine Kite (aquilone) Gen si indicano un’intero gruppo di sistemi, di nuova concezione, volti ad estrarre energia dal vento a costi competitivi con il carbone. La Kite Gen Research, azienda titolata di specifici brevetti, punta a stravolgere il campo della produzione di energia eolica grazie a un sistema tutto italiano che trae ispirazione direttamente dalle spettacolari evoluzioni dei Kite surfer .

Una torre eolica tradizionale, come quelle che vediamo installare anche in Calabria, è un rotore orizzontale in grado di sfruttare il vento a poche decine di metri dal suolo richiedendo l’installazione su crinali o parti elevate del territorio con forte ricaduta paesaggistica. Il Kite Gen è invece un’aquilone o una “giostra” di aquiloni pilotati da un sistema automatico, che sfrutta i venti presenti a quote tra i 500 e i 10.000 metri e che può essere installato, con buona resa in termini di ore effettive a potenza nominale, anche in pianura.

Il vento di alta quota ha, infatti, la caratteristica di essere quasi sempre presente ed è molto forte (15 m/s ovvero 2 kW/m2), mentre quello a livello del terreno è forte in pochi siti e per circa 1700-1800 ore all’anno. Il vento che si pensa di utilizzare è quello intorno agli 800 metri di altezza con velocità medie di 7 m/s e potenza specifica di 200 W/m2 .

Sembrerebbe quasi fantascienza se non fosse che dallo scorso mese di settembre è stata avviata, a Berzano S. Pietro, in provincia di Asti, la prima produzione di energia mediante una versione prototipo in configurazione singola a “sten”, cioè con uno stelo alto 25 metri. Lo stelo comanda un grande aquilone a forma allungata, analogo a un Kite surf, ma di alcune decine di metri quadrati.

La trazione, durante la salita, fa girare alternatori anche da tre megawatt. Raggiunti gli 800 metri, è sufficiente tirare una sola fune (che nel Kitesurf viene detta fune di depower) per mettere l’aquilone in posizione d’ala a “bandiera”, riavvolgendo velocemente le funi con minimo dispendio energetico; attorno ai 400 metri, l’aquilone è rimesso in posizione di portanza e il ciclo si ripete: la risalita avviene con produzione di energia elettrica. Uno yo-yo che, per oltre 5000 ore annue di saliscendi, produce molto di più di una normale torre. Nel caso di un sito permanente è necessaria l’istituzione di una zona di non sorvolo per i piccoli aereomobili poiché i corridoi delle linee aeree sono situati ad altezze decisamente superiori, intorno agli 8-10mila metri. Senza contare che sulle centrali nucleari dismesse presenti in Italia esiste già un divieto di sorvolo. E ciò è da considerare pure in relazione al fatto che un’impianto di Kite Gen multiplo a “giostra”, un carosello di 1500 m di diametro, in grado di produrre fino a potenze dell’ordine di un GigaWatt, paragonabili a quelle di una centrale, ad un sesto del costo attuale del kilowattore nucleare. Il tutto senza nessuna emissione di anidride carbonica e senza produrre le famose scorie nucleari che poi non si sa dove buttare.

Guarda la simulazione su you tube

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STALKING e CYBERSTALKING

di Antonino G.E. Vecchio

Sportello anti stalking
Sportello anti stalking

I Criminologi conoscono oramai da tempo il fenomeno del “molestatore assillante”. Già nei primi del 900 infatti, lo Psichiatra De Clèrambault aveva descritto una topologia di soggetti con disturbi mentali che assediavano le loro prede con finalità sessuali, incuranti del loro diniego, in un quadro di vero e proprio delirio di passione erotica e di gelosia.

Più di recente, nel mondo anglosassone a seguito di fatti di sangue eclatanti eseguiti da squilibrati soprattutto ai danni di attrici e divi dello spettacolo il fenomeno ha trovato nuove attenzioni anche al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori ed è stato ridefinito con il termine di “stalking”, preso in prestito dal mondo dei cacciatori (letteralmente “to stalk”: fare la posta).

Galeazzi e Curci (2001) del Dipartimento di Patologia Neuropsicosensoriale dell’Università di Modena, hanno coniato il termine di “molestatore assillante” e propongono la seguente definizione: “….un insieme di comportamenti ripetuti ed intrusivi di sorveglianza e controllo, di ricerca di contatto e comunicazione nei confronti di una vittima che risulta infastidita e/o preoccupata da tali attenzioni e comportamenti non graditi…”.

Il comportamento di stalking presenta comunque numerose sfaccettature e solo in alcuni casi è ascrivibile ad un conclamato disturbo psichiatrico con manifestazioni deliranti o con anomalie patologiche della personalità. Nella prevalenza dei casi si rilevano, infatti, motivazioni razionali attinenti ad un desiderio di vendetta o all’incapacità di dirigere ed elaborare cognitivamente l’abbandono di un partner o di un’altra figura significativa a cui lo stalker è legato.

Gli strumenti tradizionali degli stalker sono primariamente il telefono e la presenza fisica incombente nei luoghi frequentati dalla vittima. Sono state descritte anche tecniche diverse come danneggiamenti a cose di proprietà della vittima o l’uccisione dei suoi animali domestici.

Alla luce delle ricerche più recenti, sviluppate in prevalenza nel mondo scientifico statunitense, è possibile sintetizzare tre tipologie di persecutori:

1)Soggetto che non riesce ad accettare l’abbandono del partner o di altre figure significative, quindi attua una vera e propria persecuzione nel tentativo maldestro di ristabilire il rapporto o semplicemente vendicarsi dei torti subiti nel corso del distacco. Sono i molestatori statisticamente più pericolosi per quanto riguarda la possibilità che lo stalking degeneri in atti di violenza fisica nei confronti della vittima;

2)Soggetto che sfoga attraverso lo stalking, un rancore dovuto a cause molteplici nei confronti di una persona con cui sono entrati in conflitto, al di fuori di un rapporto affettivo. Normalmente questi stalking presentano un livello di pericolosità contenuta per l’ipotesi di violenza fisica.

3) Molestatori sessuali abituali o conquistatori maldestri, che individuano l’oggetto del loro desiderio nella vittima (anche sconosciuta) ed effettuano una serie di tentativi di approccio incapaci o incuranti dei segnali di fastidio da parte della vittima. Normalmente è pressoché innocua.

Talvolta si rilevano soggetti che possono essere inseriti parzialmente in più di una delle tre categorie. Statisticamente, nella maggior parte dei casi di stalking, la vittima è di sesso femminile ed esiste una relazione pregressa tra vittima e molestatore. Le molestie assumono solitamente il carattere di “ondate” o “campagne di stalking”, di durata variabile da pochi giorni a diversi anni. Normalmente le ondate durano diversi mesi se non sono interrotte da un elemento esterno alla relazione (es. la denuncia da parte della vittima). Talvolta poi il comportamento della vittima “rinforza” involontariamente l’azione dello stalker che può ad esempio equivocare un tentativo di convincimento a interrompere le molestie fatto in un tono civile e cortese come un’implicita accettazione della persecuzione. Altre volte, specie negli stalker animati da rancore, sono viceversa i segni di disagio e di paura che rinforzano la sua motivazione.

Da quando internet è divenuto uno strumento di comunicazione di massa, hanno cominciato a manifestarsi casi di minacce, di intimidazioni, di molestie e di persecuzioni, attuati attraverso i servizi classici della rete. In alcuni casi, il molestatore ha realizzato anche delle pagine web, inserendovi messaggi intimidatori indirizzati alla vittima o informazioni private e riservate su di essa. In alcuni casi lo Stalker ha pubblicizzato sul web dei falsi servizi erotici della vittima che è stata subissata di messaggi imbarazzanti. In altre circostanze il molestatore ha messo on-line delle foto della vittima, reperite durante una pregressa relazione sentimentale o scattate di nascosto durante un appostamento (fonte: Dipartimento di Polizia di New York-1996-2000). Da ciò che evidenziamo, il contrasto al cyberstalking non appare facile anche per le numerose opportunità di anonimità offerte dalla rete. Fondamentale in tal senso è una stretta collaborazione tra fornitori di servizi e organismi investigativi. Sul versante dei comportamenti attuabili dalle vittime per difendersi dalla molestia è di fondamentale importanza chiarire subito che il comportamento dello stalker non è gradito con una comunicazione con tono educato ma fermo e inequivocabile. Se la molestia continua è importante evitare di rispondere aspettando che il soggetto si stanchi e la smetta. Se questo non avviene o se i comportamenti persecutori siano altamente lesivi è di fondamentale importanza sporgere rapidamente denuncia presso un qualsiasi ufficio della Polizia Postale e delle Comunicazioni ( ufficio previsto in quasi tutte le Questure, ma sicuramente nelle Questure Capoluogo), avendo cura di conservare tutte le e-mail ricevute e la copia di eventuali pagine web offensive o minacciose (con relativa URL).

In Italia le condotte tipiche dello Stalking sono punite dal reato di “Atti Persecutori” (art.612-bis del Codice Penale). Tale reato è stato introdotto in Italia con il D.L.23.02.2009 nr.11, convertito nella Legge 23/04/2009 nr.38, promosso dal Ministro per le Pari Opportunità. Esso costituisce una sorta di specializzazione della già esistente norma sulla violazione privata: delinea infatti in modo più specifico la condotta tipica del reato e richiede che tale condotta sia reiterata nel tempo e tale da <<cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura nella vittima>> , l’elemento soggettivo richiesto è dunque il dolo generico, avendo cura di precisare che- qualificato lo stalking quale reato d’evento- il soggetto dovrà anche rappresentarsi e volere uno degli accadimenti descritti dalla norma

(fonte: Osservatorio Nazionale Stalking dell’Associazione Italiana di Psicologia e Criminologia).

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