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Se questa è sicurezza

Intervista a Felice Romano, segretario generale SIULP

di Giuseppe Candido

Poliziotto in rivolta: “Investire sulla sicurezza vuol dire risparmiare sugli effetti nefasti del crimine”

 

14 nov. 2009, Chianciano Terme. Felice Romano, segretario del SIULP è intervenuto al congresso dei Radicali Italiani a Chianciano. Dopo la manifestazione di tutte le forze di polizia del 28 ottobre scorso in Piazza Navona a Roma alla quale avevano partecipato quarantamila poliziotti per lanciare un “segnale netto, inequivocabile preciso, che non lascia scampo alcuno a chi di mestiere fa l’anguilla”, Felice Romano è intervenuto al congresso dei Radicali per portare la sua testimonianza e far conoscere gli obiettivi di quella manifestazione che, intrisa di una straordinaria umana unitarietà, è stata ignorata largamente da quasi tutti gli organi di stampa e informazione e che, come al solito, soltanto Radio Radicale ha ripreso e trasmesso integralmente. Il tutto, ovviamente, rivedibile e riascoltabile sul sito radioradicale.it per consentire ai cittadini di conoscere e deliberare. “Investire sulla sicurezza vuol dire, ha spiegato Romano, risparmiare sugli effetti nefasti del crimine giacché, è ora di ricordarlo, il danno arrecato annualmente dalla criminalità, organizzata e non, al Paese è quantificabile in una percentuale superiore di oltre due volte alle spese per la sicurezza: il 23% del PIL contro l’11,2% che viene investito annualmente. Se in un qualsiasi supermercato aumentano i furti, il responsabile aumenta gli addetti alla sicurezza e, a fine mese, riduce il danno”. E ancora: “In Italia si fa esattamente il contrario: aumenta l’insidia del crimine ed il Governo riduce gli uomini delle forze di polizia, ne taglia i mezzi, ne aumenta l’esasperazione insultandoli. Se non è follia questa.” Nel suo editoriale pubblicato da “The new Radikalna strana”, la Gazzetta aperiodica del congresso di Radicali Italiani, Felice Romano spiega come, invece, la tendenza di questo Governo sia quella di “smantellare le strutture che sono servite a raggiungere determinati obiettivi …” così come “E’ stato fatto con le strutture antiterrorismo, antimafia, ma anche anti microcriminalità”. Parole che, per il Governo, dovrebbero pesare come macigni se solo si fosse dato maggiore risalto a quella manifestazione del 28 ottobre alla quale Felice Romano rappresentava tutte le forze di polizia straordinariamente unite in una manifestazione-denuncia contro i tagli che, dopo il parlar tanto di sicurezza, questo governo ha fatto e continua a fare. Noi di Abolire la miseria della Calabria lo abbiamo intervistato a termine del suo intervento a Chianciano focalizzando il problema sicurezza per quanto attiene al mezzogiorno dove mafie, camorre e ‘ndranghete stanno già facendo salti di gioia per lo scudo fiscale che consente loro il facile rientro di capitali illegali dall’estero. Per questi motivi abbiamo deciso di proporre sia l’intero intervento di Felice Romano al congresso, sia la breve video intervista rilasciata in esclusiva per noi di “Abolire la miseria della Calabria” nella quale Romano parla degli effetti dei tagli alla sicurezza sulle regioni come La Calabria in cui maggiore è la presenza della criminalità organizzata nel tessuto economico e sociale.

 

Guarda l’intervento di Felice Romano al VIII Congresso di Radicali Italiani a Chianciano Terme

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IL FOLK COME SCIENZA: “Credere in ciò che fu significa credere in ciò che si è”

di Filippo Curtosi e Giuseppe Candido

Luigi bruzzano
Luigi bruzzano

Luigi Bruzzano, Giuseppe Pitrè e Giuseppe Cocchiara: nasce l’Etnografia


Sotto la strana e diversa veste della fiaba si troverà adombrata la storia e la religione dei popoli e delle nazioni

La nascita dell’etnologia come scienza, la critica degli illuministi sull’idea di superstizione, il malinconico trasporto per la natura primitiva, la poesia degli umili ed in genere la problematica delle tradizioni popolari largamente intese è insieme la scienza e la coscienza dell’anima collettiva. Una sorta di enciclopedia piena di amore per il documento culturale e filologico questo rappresenta, secondo noi, “La Calabria”, Rivista di Letteratura Popolare” diretta da Luigi Bruzzano, uno dei maggiori demopsicologi italiani dell’Ottocento e stampata a Monteleone di Calabria (oggi Vibo Valentia) dal 1888 al 1902. La rivista del prof. Bruzzano contribuisce a creare l’odierno concetto di folklore che, per usare le parole di Antonio Gramsci, presuppone che non venga studiato come “elemento pittoresco” ma in veste di “una concezione del mondo e della vita, implicita in grande misura, di determinati strati (determinati nel tempo e nello spazio) della società, in contrapposizione (anch’essa per lo più implicita, meccanica, oggettiva) con le concezioni del mondo ufficiali (o, nel senso più largo, delle parti colte della società storicamente determinate) che si sono successe nello sviluppo storico”.

Lo storico, che volesse indagare l’origine e lo sviluppo del folklore italiano, indagarlo nel suo aspetto concreto e puro, dovrebbe usare un metodo semplice e considerarlo, per usare le parole del maggiore folclorista del secolo scorso, Giuseppe Cocchiara, “una somma di esperienze e di interpretazioni personali”. Nel suo libro “Storia del folclore in Europa”, Cocchiara, di scuola del Pitrè, sottolinea che: “se le tradizioni popolari vanno considerate come formazioni storiche, il problema fondamentale che, data la loro natura, esse pongono, è un problema di carattere storico. E il compito dello studioso delle tradizioni popolari è quello di vedere come esse si sono formate, perché si conservano, quali sono stati e quali sono i bisogni che ne determinano non solo la conservazione, ma quella continua e direi naturale rielaborazione, dov’è il segreto stesso della loro esistenza, che è un continuo morire per un eterno rivivere”.

Quindi lo studio etnografico del folklore non per compiere esercizi di paragoni tra varie culture egemoni e subalterne come dice Nadel o proporre l’esaltazione acritica della tradizione in se ma, piuttosto, per una necessità conoscitiva che serve, è necessaria, a riappropriarsi delle radici della nostra Storia.

In una lettera del novembre 1929 Raffaele Pettazzoni, già famoso ed affermato storico delle religioni, scriveva una lettera a Giuseppe Cocchiara che a lui si rivolgeva con l’appellativo di “Illustre maestro” chiedendo di “Parlargli come un padre può parlare ad un figlio…per rendermi degno di Lei, della sua stima e della sua fiducia. Ella deve acquistare quella cultura e quel metodo etnologico che in Italia dovrebbe farsi faticosamente da sé e che per lo studio del folklore è essenziale. Ella vedrà che per gli inglesi il folklore è essenzialmente etnologia: in Italia il folklore è sempre stato altra cosa e lo stesso Pitrè non ha realizzato completamente il concetto moderno di folklore in questo senso. Ella, dunque, sarà mi auguro, il pioniere di un nuovo indirizzo di studi folklorici in Italia, l’indirizzo “antropologico” cioè etnologico”. Giuseppe Cocchiara fu allievo del Pitrè e fu lui a riordinare, a partire dal 1935, le collezioni del museo etnografico siciliano intestato allo studioso, ispirandosi sempre al principio che “credere in ciò che fù significa credere in ciò che si è”. Per Cocchiara fu fondamentale il contatto con Pettazzoni che gli consigliò di recarsi in Inghilterra per un perfezionamento dove, lo stesso, andò a prendere lezioni da Robert Marett, esponente di una scuola antropologica sociale molto avanzata e sviluppata vista la necessità di acquisire conoscenze di antropologia applicata per la gestione delle colonie. Cocchiara in un primo momento ha poca simpatia per Pettazzoni e se ne capisce la ragione. Storico, letterato non meno che filologo, uomo di sapere sterminato in cui la quantità non va mai a detrimento della qualità e del gusto, Raffaele Pettezzoni, rappresenta per Cocchiara la negazione di tutto ciò che in qualche modo si rifà all’ipotesi del collettivo. La sua teoria sulla formazione delle “chansons de geste” che sarebbero state in origine leggende, “leggende locali, leggende di chiesa” e si sarebbero trasmesse oralmente dai monaci ai giullari che percorrevano i grandi itinerari sacri, le vie dei pellegrinaggi, dando così vita ad una tradizione colta e popolare insieme, ad una collaborazione tra strati inferiori e superiori della società, questa sua teoria è perfettamente antitetica allo studioso siculo. Ma dal carteggio che i due studiosi si scambiarono tra il 1928 ed il 1959 si rileva come l’allievo siciliano considerasse una “guida spirituale” Pettazzoni. “Dalle lettere, dice Eliana Calandra, direttore del museo Pitrè, emergono due persone diverse da quelle che apparivano in pubblico. Assai più affine e congeniale al Cocchiara fu il Pitrè e l’elemento tipico di questa rassomiglianza e la fiducia che entrambi nutrivano nella “naturale grandezza e poeticità del popolo”. “Fede nel popolo” è infatti intitolato il primo dei capitoli che sono dedicati al Pitrè nella “Storia del Folklore in Europa” e nel terzo sono riferite le seguenti parole dell’illustre studioso siciliano scritte nel suo “Studio critico sui canti popolari siciliani: La storia del popolo si è confusa con quella dei dominatori….della sua storia è voluta farsene una cosa stessa con la storia dei suoi governi, senza tenere presente che egli ha memorie ben diverse di quelle che così spesso gli si attribuiscono si dal lato delle sue istituzioni e si da quelli degli sforzi prepotenti da lui durati a sostegno dei suoi diritti. Il tempo di ricercare quelle memorie, di studiarle con pazienza, di fecondarle con amore è venuto anche per noi. Il filosofo, il legislatore, lo storico, che cercano di conoscere intero questo popolo, sentono oggi mai il bisogno di consultarlo nei suoi canti, nei suoi proverbi, nelle sue fiabe, non meno che nelle frasi, nei motto, nelle parole. Accanto alla parola sta sempre il suo significato, dietro il senso letterale viene il senso misto e l’allegorico: sotto la strana e diversa veste della fiaba si troverà adombrata la storia e la religione dei popoli e delle nazioni”. Il Pitrè il 16 ottobre 1888 scrive: “La Calabria” di Luigi Bruzzano è utile per conoscere i popoli dell’Italia meridionale, il bravo e dotto prof. Bruzzano ha fatto opera buona, voglia il cielo che i suoi sforzi vengono coronati dal buon successo che meritano perché fanno opera doppiamente utile alla filologia e alla etnografia”. Luigi Bruzzano allo studio del mondo classico trasmesso dal suocero Ferdinando Santacatarina, fine letterato, latinista di fama nazionale, aggiunge un nuovo ed umano “Umanesimo”: lo studio della civiltà del popolo calabrese, civiltà che viene da lontano, dalla natura primitiva, barbara e selvaggia del popolo calabro. I professorini da caffè, così chiamava il Bruzzano le persone di cultura ufficiale, abbagliati da una pseudo cultura umanista, “ebbero davanti ai loro occhi una splendida visione spiegando davanti al loro sguardo un campo di lavoro inesplorato”. Esploratore audace e intelligente Bruzzano fu pioniere indiscusso dello studio dell’etnografia. Crediamo che, l’aver riproposto un’ampia antologia di testi folklorici pubblicati dalla rivista di Letteratura Popolare “La Calabria” debba essere considerato piuttosto come sforzo conoscitivo volto al riappropriarsi della nostra Storia, della nostra lingua. Un patrimonio al quale, le giovani generazioni soprattutto ma non solo, dovrebbero avere accesso facilmente.

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Il Brigantaggio politico e i politici briganti

di Giuseppe Candido e Filippo Curtosi

Briganti
Briganti

Rileggendo la storia molto spesso ci si trova davanti a fatti, circostanze e situazioni che ricordano in maniera sorprendente quelli che oggi viviamo. Gli avvenimenti del 1799 e del 1806 che trovarono la loro conclusione nel 1815, aprirono un nuovo periodo nella storia della Calabria: il decennio francese e le persecuzioni del brigantaggio politico e sociale.

Presso la biblioteca comunale di Palmi sono conservate le carte della famiglia “Ajossa” tra le quali v’è un manifesto riguardante il periodo dell’occupazione francese nella Calabria Ultra e con il quale venivano pubblicate le taglie fissate sul capo di ben 859 briganti. Nome, Cognome e paese natale. Una lunga lista di ricercati che raffigura la mappa della ribellione nel territorio dove i calabresi si scannavano tra loro per sostenere, a seconda della posizione, i Francesi o i Borboni.

I fatti che caratterizzarono il trapasso dall’ancien regime allo stato moderno, evidenziano l’estrema violenza e virulenza dell’opposizione popolare al nuovo regime, che non effimera ma costante e valida, venne denominata per la prima volta dai francesi “brigantaggio”. Un nuovo regime dove la trilogia “legalite, liberté, fraternité” venne sostituita dagli alberi della libertà dai quali – come testimonia P. L. Cuirier – “s’impiccava facilmente e spesso”. La situazione in Calabria è particolare per le condizioni economico-sociali, per la vicinanza con la Sicilia, per il latifondo feudale e lo strapotere baronale. Questi fattori risultarono tutti decisivi per lo scaturire e il prolificarsi del brigantaggio. È noto anche ai non addetti ai lavori che, per primo il governo dei napoleonidi, abbia tentato di eliminare in Calabria il retaggio di un periodo medievale allora ancora vivo e presente, mettendo la nostra regione a contatto con le esperienze del mondo moderno. Ma per far questo in modo ineccepibile, bisognava se non risolvere, almeno tentare di risolvere i molteplici problemi esistenti, tra i quali il brigantaggio occupava una posizione primaria e considerevole. Gli sforzi furono notevoli, ma servirono a poco, poiché il periodo dell’occupazione fu troppo breve affinché i risultati si consolidassero e divenissero definitivi.

Della dominazione francese in Calabria, al rientro dei Borboni, restò soltanto un ricordo offuscato delle grandi riforme socio-istituzionali, e quello invece vivo e presente, delle violenze e delle prevaricazioni del periodo dell’occupazione e della feroce “repressione Manhes”.

In questo alternarsi di domini e avvicendarsi d’imprese guerresche, molto soffrirono e niente ottennero le masse contadine che furono sfruttate da tutti i protagonisti della lotta.

La Statistica murattiana” certifica lo stato di arretratezza socio economica, di degrado umano e civile, di primitività igienico sanitaria e di squallore ambientale.

I fattori primari del malcontento, la miseria e la fame di terra, perdurarono nonostante le riforme francesi, e propagandosi nel tempo pesarono sui calabresi finanche nel periodo post-unitario.

Intanto due sole remunerazioni per chi, preso dalla sete di giustizia e dall’insofferenza alle reiterate prepotenze, si ribellava: lo stigma di “brigate” e il conseguente annientamento da parte del potere istituzionalizzato.

L’entrata dei francesi in Calabria apportò grosse novità nel campo istituzionale che alimentarono le ostilità tra i vari partiti: mentre le classi degli aristocratici della borghesia e del piccolo artigianato si divisero tra patrioti e borbonici, le classi più misere, contadini, pastori, montanari etc. manifestarono una certa nostalgia per il regime borbonico; furono schieramenti non prettamente politici, fondati piuttosto sugli interessi, le ambizioni e le vendette personali. C’è chi sostiene che il brigante stesse con gli uni o con gli altri, altri sostengono invece che non stesse con i francesi né con i Borboni. Villari, nelle sue lettere sull’Italia Meridionale ed altri molti discorrendo del brigantaggio, vorrebbero trovarne le cause nella miseria, e nelle cattive condizioni del contadino. Ma sono smentiti dai fatti. Per Nicola Misasi (Cosenza 1850 – Roma 1923) nei suoi “Racconti Calabresi” edito nell’ottobre 2006 da Rubettino, il brigante fu allora “un prodotto spontaneo della vita calabrese”, … “di una natura forte e rigogliosa, la quale, diretta al bene, potrebbe essere capace di grandi delitti… Le donne incitavano i mariti, i fidanzati, i fratelli alla vendetta contro i francesi, gli sdolcinati maschi francesi”. Altro che repubblicani venuti a liberarci dalla schiavitù. Altro che “liberi, uguali e fratelli” dinnanzi alla legge come proclamato da loro. Secondo Misasi, e su questo concordiamo con lui, “Non è dunque la miseria soltanto che fa il brigante”. Se fosse vero il fatto che fu la miseria la causa principale del brigantaggio perché allora, si chiede Misasi, “la più parte dei briganti furono contadini agiati? Perché alcuni paesi ricchissimi, nei quali la proprietà è ben divisa, ove il contadino è retribuito più equamente che in altri siti, danno un buon contingente di briganti, ed altri paesi miserrimi, lungo un secolo, non ne contano neppure uno?”. Per comprendere meglio il fenomeno occorre soffermarci sul brigantaggio politico che “ci fu rimproverato del 1799, come un’onta, cui non bastò a lavare il sangue di mille e mille prodi calabresi, versato in cento battaglie e sui patiboli per la libertà d’Italia. … Ma io ho fede – continua Misasi – che quell’onta diverrà gloria per noi quando, diradate le nebbie, si studierà la storia delle nostre contrade col proposito di non arrestarsi alla superficie, ma di ficcar gli occhi in fondo per rintracciare il vero. Finora noi stessi ci gridammo barbari, lasciate che dica noi stessi ci gridammo popolo d’impotenti, rinnegando le nostre tradizioni, le nostre glorie, fummo paurosi di affermarci per quel che siamo e tendemmo supplicanti le braccia ad altri popoli per implorare da essi un raggio di luce e di civiltà. Colpa nostra se quei popoli ci trattarono da bambini e coi presero a scuola, non risparmiandoci le tiratine d’orecchio e le sculacciate, non leggendo o leggendo male la nostra storia; … Umili e sommessi aspettammo, e forse anche aspettiamo, di là il verbo rigeneratore, di là l’imbeccata del pensiero. Mutammo gli usi, i costumi, il linguaggio, financo il gusto, accettando nella nostra vita, nelle nostre case, nella nostra mensa tutto ciò che ci veniva dal di fuori …Tanta vigliacca condiscendenza ci fé credere, ed a ragione, popolo d’impotenti e di bambini”. Per tali motivi, prosegue Misasi, “il brigantaggio politico torna a gloria delle mie Calabrie”. Furono soprattutto i contadini a pagare le spese sia dell’eversione della feudalità sia l’accentramento delle terre nelle mani dei “galantuomini”. Essi furono ridotti alla condizione di semplici braccianti, “sottoposti alla soggezione di questi padroni che non solo non hanno mai fatto nulla per alleviare la miseria ed eliminare l’ignoranza, ma al contrario hanno fatto di tutto per tenerli schiavi ed asserviti”. Ed ancora oggi forse è così. Sicuramente non possiamo confondere il brigantaggio e il brigantaggio politico con l’attualità dei politici e dei “capimassa” briganti che avvelenano le nostre terre, le nostre acque e i nostri mari. Quello che la storia ci consente di leggere è che il brigantaggio fu un fenomeno spontaneo, naturale, un moto di ribellione alimentato dalla miseria ma diretto contro il “nuovo” come pure spontanea è quell’indignazione e quella voglia di ribellione contro il regime dei partiti che oggi, frequentemente, attraversa la società civile.

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Per una sociologia del brigantaggio: percorsi minori della storia

di Francesco Santopolo

Da questo numero iniziamo un viaggio tra i subalterni, quelli che, secondo la definizione di Amelia Paparazzo, vivono “tra rimpianto e trasgressione”, un’esistenza illuminata dalla luce della storia, solo quando si incontra con quella dei vincenti. Chi sono i subalterni? Ci sono i subalterni di classe: braccianti, contadini senza terra, contadini poveri e, nel nostro tempo, i precari. Ci sono i subalterni politici, almeno fino all’avvento del fascismo: radicali, anarchici, socialisti, comunisti. E, infine i subalterni di status: briganti, banditi sociali e quelli che Marx ha inteso comprendere nel lumpěproletriat, il “proletariato cencioso” che rappresenta i ceti più infimi della società. Di alcune di queste figure vogliamo tentare di tracciare una storia.


Per scelta e ragioni di spazio, questa non vuole essere la storia del brigantaggio ma solo un tentativo di anticipare i termini di una riflessione più ampia, a partire dalla definizione di un tipo sociale, il brigante appunto, per restituirgli una dimensione storica finora negata, almeno in parte.

Briganti - http://nuovobrigantaggio.splinder.com/
Briganti – http://nuovobrigantaggio.splinder.com/

Con le sole eccezioni di Amelia Paparazzo (1984), Nicola Pedio (1996) e Aldo De Jaco (1978), la corposa letteratura specifica, e quella più generale sulla storia d’Italia che si è occupata del brigantaggio meridionale, rimane, per così dire, in superficie e quasi mai il brigante appare come soggetto nella storia della lotta di classe di cui è stato protagonista, sia pure con le specifiche peculiarità in cui era costretto un movimento di subalterni in una società di transizione verso la modernità.
Potremmo dire che la vera vittoria delle classi egemoni sul brigantaggio non fu la sua sconfitta militare ma la sua rimozione e il suo confinamento in una storia separata e minoritaria.
Non a caso, a ridosso delle “celebrazioni dell’Unità di Italia, tenute sul piano della più noiosa e inconcludente <>”, De Jaco poteva osservare che le ricerche storiche non avevano riportato “in luce elementi di quella angosciosa tragedia che fu la guerra del brigantaggio” (l. c.).
Il tentativo di sfatare luoghi comuni e visioni ideologiche è arduo ma questo non ci impedisce di tentare un approccio.
Quando si scrive, per esempio, “Il brigantaggio, che trova le sue radici in una società caratterizzata da profonde differenziazioni economico- sociali, non è un male endemico delle province più povere del Mezzogiorno d’Italia. Esso è un fenomeno universale che, pur presentandosi sotto forme ed aspetti diversi, è sempre rivolto contro il potere costituito da parte di chi si oppone al sistema” (Pedio, l. c.), si dice una cosa profondamente vera e una, se non proprio falsa, diremmo forzata.
È vero che il brigantaggio è un fenomeno universale nello spazio e nel tempo.
Non è altrettanto vero, o è un giudizio limitato a situazioni particolari e contingenti, che l’azione dei briganti è sempre rivolta contro il potere costituito.
Basterebbe ricordare tutte le volte che il brigantaggio si è prestato a sostenere le “ragioni” del potere, fosse solo quello rappresentato da un singolo signorotto o quello che, nella sua globalità, interpretava gli aspetti più reazionari e feroci del potere, come avvenne durante la repressione della Repubblica Partenopea.
Allora, il primo problema che si pone a chi volesse definire la collocazione sociale del brigante, è capire le ragioni e gli obiettivi del suo agire sociale.
In realtà, il brigante si muove contro il rapporto di dominio e subordinazione espresso dal potere come categoria assoluta che regola i rapporti umani e, anche quando sembra schierarsi con le forze conservatrici, non è detto che possa definirsi tout court reazionario.
Scrive Hobsbawn (1969, pag. 21) “Una rivoluzione sociale non è meno rivoluzionaria perché si schiera a favore della <>, secondo la definizione di chi ne è al di fuori, contro il <
>”. Nel caso della Rivoluzione Napoletana, per esempio, “I banditi- e i contadini- del Regno di Napoli che insorsero in nome del papa, del re e della fede contro i giacobini e gli stranieri erano dei rivoluzionari, mentre il papa e il re non lo erano” (Hobsbawn, l. c., pag. 21).
D’altronde i “briganti” si schiereranno con Garibaldi, il cui moto non era sicuramente reazionario.
La chiave di volta che ci fa capire quale fossero le ragioni dei briganti la ricaviamo dall’espressione usata dal capo brigante Cipriano La Gala da Nola, quando, ad un avvocato suo prigioniero che si era dichiarato filoborbone nel tentativo di salvarsi la vita, rispose: “Tu hai studiato, sei avvocato e credi che noi fatichiamo per Francesco II?” (sta in Molfese, l. c., pag. 130).
Proprio questa risposta/domanda ci fa capire che il brigante non sta con nessuno, né con i Borboni né con gli antiborboni. Sta con sé stesso e con le ragioni della sua ribellione, si schiera per il cambiamento e questo ne fa un rivoluzionario se ammettiamo che “Anche chi accetta lo sfruttamento, l’oppressione e la soggezione come norma di vita, sogna un mondo dove essi non esistono: un mondo di uguaglianza, di fratellanza e di libertà” (Hobsbawn, l. c. pag. 21-22).
Scopo del presente lavoro non è solo la ricostruzione storica di un fenomeno come il brigantaggio da sempre connotato di negatività ma coglierne le contraddizioni, nell’intento di ricostruire le connotazioni antropologiche di un tipo sociale peculiare qual è stato, per l’appunto, il brigante.
Il termine brigante, del tutto sconosciuto in Italia meridionale, e mai utilizzato in precedenza dal legislatore, era stato introdotto dai francesi per indicare “coloro che ad essi si opponevano” (Pedio, l. c., pag. 7).
Da allora, nel Regno di Napoli e in tutto il Mezzogiorno, quelli che prima erano chiamati banditi o fuorbanditi, divennero briganti e questo termine, derivato dal francese brigand con cui si indicavano i ribelli, fu tradotto in italiano in brigante o assassino, con un arricchimento etimologico che ci sarebbe piaciuto evitare.
Una prima spiegazione per definire il tipo sociale del brigante, ci viene da un grande scrittore meridionalista del passato quando dice: “Il popolo calabrese è agricolo … quando dunque gli mancano le terre irrompe violentemente nella Sila coi suoi strumenti rurali, o vi irrompe coi suoi strumenti da brigante” (Padula, 1878), confermando che, per alcuni, è “megliu n’annu tauru ca cent’anni voe!” (proverbio calabrese).
In letteratura la definizione del brigante ha seguito la strada delle stereopito.
Gramsci riferisce di una “circolare dell’Amma credo del 1916 in cui si ordina alle industrie dipendenti di non assumere operai che siano nati sotto Firenze” (1975, pag. 64-65).
Ma di tutt’altro avviso furono gli Agnelli che nel periodo 1925-26 fecero affluire 25.000 operai siciliani da immettere nell’industria”. Continua Gramsci, “fallimento dell’emigrazione e moltiplicazione dei reati commessi nelle campagne vicine da questi siciliani che fuggivano le fabbriche: cronache vistose nei giornali che non allentarono certo la credenza che i siciliani sono briganti” (l. c.).
De Amicis, nella novella Fortezza (1906) parla delle torture subite da un carabiniere catturato da un gruppo di briganti, sebbene manchi il particolare aggiunto da Gramsci sulla lingua mozzata. Pirandello ne “L’altro figlio” (1937) parla di briganti che giocano a bocce con i teschi.
La letteratura è piena di immagini truculente e sarà affrontata in queste pagine quando inizieremo a raccontare la storia di personaggi che, pur di estrazione sociale diversa, sono diventati briganti.
Così scopriremo che non ci furono soltanto i Mammone e i Ninco Nanco tra le fila dei briganti ma anche il prete Ciro Annichiarico, il massaro Angiolino Del Duca, il benestante Beppe Mastrilli, il figlo di un medico Pietro Mancino e il più noto brigante calabrese, quel Giosafatte Talarico che, pur di umili origini, aveva studiato in seminario ed era diventato aiuto farmacista, prima di darsi alla macchia e diventare brigante.

Bibliografia
De Amicis, E. (1906), Novelle, Milano, Treves.
Gramsci, A. (1975), Quaderni del carcere, vol. I, nota 50, Torino, Einaudi.
Hobsbawn, E. (1969), I banditi, Torino, Einaudi.
Molfese, F. (1966), Storia del brigantaggio dopo l’unità, Milano, Feltrinelli.
Padula, V. (1878), Il bruzio.
Paparazzo, A. (1984), I subalterni calabresi tra rimpianto e trasgressione, Milano, Franco Angeli.
Pedio, N. (1997), Brigantaggio meridionale: 1806-1863, Lecce, Capone Editore.
Pirandello, L. (1937), “L’altro figlio” da Novelle per un anno, vol. II, Milano, Mondadori.

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Obama, il Darfur e il genocidio nel deserto

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “il Domani della Calabria” del 18.07.2009

Dopo il G8 dell’Aquila, il passaggio in Africa di Barack Obama è stato salutato come un momento storico. Un discorso, quello tenuto ad Accra nella capitale dello stato del Ghana, di cui gli africani sentivano il bisogno anche se non sono stati affrontati temi cruciali come il genocidio che si sta perpetuando in Darfur o come l’esodo dei profughi somali che in questi giorni allarma l’alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite. Come faceva notare Drew Hunshaw su tocqueville.it, il suo unico passaggio alle violenze in Darfur è stato quello di affermare che “quando c’è un genocidio, questo non è semplicemente un problema americano”. Un passaggio troppo scarno che non chiarisce la posizione americana sull’emergenza in Darfur e sull’esistenza o meno di un genocidio in corso. Ci si poteva aspettare di più da un presidente americano le cui origini risalgono proprio dal continente nero. Era lecito sperare in qualche parola in più soprattutto se si considerano gli scarni aiuti economici stanziati dagli otto grandi durante il vertice dell’Aquila che, come faceva notare Gian Antonio Stella, sono veramente una miseria: “cinque euro e 18 centesimi all’anno per ciascun africano; 43 centesimi al mese” che, se annunciati con la cifra di 20 miliardi in tre anni, sembrano invece una grande cosa. Poco per il clima, pochi gli aiuti economici e poche anche le parole sui genocidi e sui massacri africani in corso. Qualche mese fa, il Darfur è tornato al centro dell’attenzione dei media internazionali quando la Corte Penale Internazionale ha emesso il mandato di arresto nei confronti del suo presidente Omar al Bashir. Ma l’emergenza umanitaria non si è risolta e non si risolverà senza andare alle radici del conflitto: la desertificazione e la perdita di terre fertili che spinge etnie diverse alla prevaricazione continua. La regione occidentale del Sudan ha già visto seppellire dalle 200 mila alle 400 mila vittime, 39 villaggi cancellati, distrutti. E’ il genocidio nel deserto del nuovo millennio. Stefano Cera, rappresentante dell’associazione “Italians for Darfur” ha spiegato, in una recente intervista rilasciata al Cecilia Tosi per la rivista Left, che il problema è che “si parla di emergenza umanitaria ma non del conflitto e dei modi per risolverlo.” Ma dei modi per risolvere il conflitto in Darfur non vi è indicazione nel discorso “storico” di Obama. “Questa è una guerra – ha spiegato ancora Cera – che non si può liquidare come scontro di civiltà. (…) Non ci sono, infatti, differenze religiose né di colore della pelle tra i gruppi che si combattono. C’è invece la lotta per la conquista di terre fertili, esacerbata dalle strumentalizzazioni politico ideologiche e da un problema globale come il surriscaldamento del clima, che ha portato desertificazione e siccità”. La crisi in Darfur è iniziata negli anni Ottanta, quando divenne il luogo di transito dei ribelli del Chad che lottavano contro il loro governo con il sostegno della Libia. La loro presenza – spiega ancora la Tosi su Left – congiuntamente alla progressiva diminuzione delle terre fertili coltivabili ha portato nei pastori nomadi di etnia araba “il senso di appartenenza ad una comunità più ampia, distinta da quella degli africani di etnia fur, tradizionalmente coltivatori stanziali. (…) Negli anni successivi l’arabismo si è diffuso e le ondate di siccità hanno inaridito acri di terra fertile. Così, le armi lasciate dai ribelli chadiani sono finite nelle mani di altri ribelli noti come Janjaweed, le milizie del deserto”. Da allora è iniziato uno sterminio dell’etnia fur che ancora continua: un genocidio che ha per causa primaria la desertificazione. Un genocidio per le terre fertili e per il quale non sono certo sufficienti i 5 euro e 18 centesimi all’anno stanziati dai grandi del G8 per ogni africano. “Guerriglieri e massacratori – ha dichiarato Stefano Cera – che combattono una guerra per procura del governo sudanese, anche se Bashir ha sempre negato di aver orchestrato le loro azioni”. E così, un’intera popolazione è costretta da anni a fuggire dalle proprie case e a costruire una “nazione parallela fatta di campi profughi disseminati su tutto il territorio del Darfur e al di là del confine occidentale, in Chad e nella Repubblica Centroafricana”. “Due milioni di persone – ha dichiarato Sulliman Ahmed, rappresentante dei rifugiati del Darfur in Italia – che sopravvive lungo il confine”. E dopo la decisione della Corte Penale Internazionale di spiccare il mandato di arresto nei suoi confronti, il Presidente Bashir se l’è presa con le Organizzazioni Non Governative cacciandone 13 che rappresentavano, da sole, il 40% degli aiuti umanitari presenti in Darfur e la situazione non è certo migliorata. Ecco perché dal presidente americano ci si aspettava qualche parola in più sui dittatori africani e sui massacri in corso in quel continente. Perché quella del Darfur non è l’unica emergenza umanitaria del continente nero: in Somalia, ha dichiarato in una nota dello scorso 26 giugno l’Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite, 26.000 civili in fuga da Mogadiscio in soli 24 giorni. Una “forte preoccupazione” quella espressa dall’UNHCR, “per la spirale di violenza e per l’aggravarsi della crisi in Somalia che sta mettendo in fuga la popolazione. Gli scontri in corso tra le forze governative e i gruppi di opposizione (…) stanno mietendo una lunga scia di vittime, distruzione e nuovi esodi”. Lo scorso 19 aprile i rifugiati del Darfur in Italia si sono ritrovati, in una manifestazione sotto al Colosseo, per chiedere pace e giustizia per la loro terra. Pace e giustizia senza le quali non è possibile arrestare il genocidio in corso e che avrebbero dovuto trovare un posto di maggiore rilievo nello storico discorso di Barck agli africani e ai suoi dittatori.

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Per non dimenticare Srebrenica

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “il Domani della Calabria” del 11.07.2009

11 luglio 1995. I soldati serbo bosniaci comandati da Ratko Mladic uccidono più di 7000 mussulmani, traditi dalle Nazioni Unite e dall’Europa. Nel luglio di 40’anni fa l’uomo metteva piede sulla luna. Una ricorrenza che tutti si affrettano a ricordare. Ma l’11 luglio dovrebbe poter essere occasione anche per non dimenticare quel genocidio che, 14 anni fa nel 1995, fu compiuto a Srebrenica nella Repubblica Serba della ex Jugoslavia. La città in teoria era stata dichiarata area protetta dall’ONU ma diventò il teatro dell’unico caso legalmente provato di genocidio verificatosi sul suolo europeo dopo la seconda guerra mondiale. Nel 1993, un rapporto dei volontari dell’UNHCR, l’alto commissariato per i rifuggiati delle Nazioni Unite, descrisse l’inferno di Srebrenica: “i profughi erano accampati nelle strade bloccate dalla neve. Intere famiglie soffrivano la fame e sopravvivevano masticando radici e mangiando foglie. La scabbia e i pidocchi imperversavano”. Per proteggere la popolazione civile, Srebrenica era stata designata come area protetta dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che aveva anche chiesto la proclamazione del cessate il fuoco e il disarmo delle unità bosniaco-mussulmane. Un promessa di protezione e un piano che che convinse molti civili, che avrebbero potuto lasciare Srebrenica, a rimanere. Le forze di pace dell’Onu avevano un mandato limitato, ma i bosniaci affamati guardavano a quelle truppe, coi loro giubbotti antiproiettili, i caschi blu e i blindati, come ad un protettore. Ma come avrebbero scoperto, vivere in un’area protetta non comportava alcuna garanzia di protezione.

Srebrenica
Srebrenica - foto www.sfgate.com

I bosniaci mussulmani, in termini di razza, sono identici ai serbi e ai croati con i quali condividono il loro paese. Sono tutti slavi del sud di pelle bianca. Parlano la stessa lingua. L’unica differenza è la religione. Eppure, l’11 luglio del 1995 fu realizzato il genocidio di più di settemila uomini e ragazzi mussulmani. Al momento del massacro la protezione doveva essere garantita da un battaglione olandese assegnato alla missione ONU. Ma il battaglione era dotato di armamenti inadeguati e privo di un supporto sufficiente, non fu in grado di agire mentre i serbi conquistavano Srebrenica. Quattordici anni fa l’area protetta di Srebrenica cadde nelle mani dei militari serbo-bosniaci dopo che le Nazioni Unite avevano “deciso” che non era più possibile proteggere l’area.

La stampa internazionale raccontò il fallimento dell’ONU: “quella mattina, migliaia di uomini, donne, bambini ed anziani mussulmani implorarono l’aiuto dei caschi blu di stanza nella vecchia fabbrica di batterie di Potocari, a pochi chilometri da Srebrenica. Il soccorso venne negato: quei caschi blu olandesi furono taciti complici di quel massacro”. “La notte e i cinque giorni successivi l’aria intorno a Srebrenica risuonò delle urla degli uomini e dei ragazzi che venivano mutilati, massacrati, sepolti vivi, oppure uccisi e gettati nelle fosse comuni”.

Si dice che chi è sopravvissuto alla strage di Srebrenica porta negli occhi il dolore immenso e la paura vissuta in quei giorni. In occasione dei dieci anni dal massacro Lorna Martin, su “the observer” noto quotidiano britannico, ha raccontato la storia di Fatima e Damir e di una foto che sconvolse il mondo. La foto di Ferida Osmanovic è stata pubblicata sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo: una donna con una abito bianco e un cardigan rosso, impiccata ad un albero con un cappio ricavato dalla cintura e dallo scialle. Fatima e Damir Osmanovic hanno solo quella foto della loro madre, ma non hanno la forza di guardarla. Una foto che ancora oggi resta l’icona di quel genocidio perpetuato su suolo europeo e che sollevò numerosi interrogativi nel senato statunitense di allora: qual era il nome di quella donna? Da dove veniva? Quali torture e umiliazioni aveva subito?

In occasione del decimo anniversario del massacro, Fatima e Damir sono tornati per la prima volta in quella che un tempo era la loro casa a Srebrenica ed hanno raccontato la storia di quella foto: “Quando sono qui provo una grande rabbia” ha esclamato Fatima alla giornalista che l’accompagnava. “Non posso davvero credere che tutto questo sia successo a noi e alle altre famiglie”.

Nei giorni successivi circa 40.000 persone furono deportate, le donne vennero sistematicamente violentate e più di 7.000 uomini e ragazzi furono trucidati. Mentre Ratko Mladic – ancora ricercato dal tribunale penale internazionale per il suo ruolo nel massacro – entrava a Srebrenica, migliaia di persone fuggirono verso Potocari, dove c’era il quartiere generale olandese il cui comandante aveva assicurato che l’Onu avrebbe autorizzato attacchi aerei per proteggerli. Ma di aerei non se ne videro. Mentre il massacro era già in corso i serbi dissero agli olandesi che avrebbero evacuato Potocari, passando al vaglio gli uomini per individuare i “criminali di guerra”. Invece portarono via uomini e ragazzi e li uccisero in massa nei boschi circostanti il villaggio. Noi oggi dobbiamo ricordare per non dimenticare cosa è avvenuto, di così atroce, a due passi da casa nostra e non permettere più, in futuro, che simili avvenimenti abbiano a ripetersi.

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Una montagna di rifiuti, il ciclo integrato e l’incantesimo degli inceneritori

di Giuseppe Candido

Foto: Giuseppe Candido
Foto: Giuseppe Candido

I titoli dei quotidiani non lasciano dubbi: i rifiuti in Calabria sono un bel guaio. Soprattutto con l’avvicinarsi dell’estate, il problema dei rifiuti e della depurazione tornano d’attualità in maniera preponderante. “Quella discarica dimenticata: un vergognoso sipario che deturpa la città” è il titolo di un articolo sul caso di una (ennesima) discarica abusiva a Rossano, ancora abusivamente utilizzata nonostante il sequestro effettuato dalla benemerita in relazione alla presenza di eternit. “Rifiuti pericolosi a cielo aperto” è invece il titolo utilizzato per la notizia del sequestro, a San Gregorio d’Ippona nel vibonese, di una discarica di 300 mila metri cubi in cui venivano abusivamente, manco a dirlo, smaltiti rifiuti pericolosi provenienti dalla demolizione di edifici. Discariche abusive, siti di stoccaggio provvisorio che diventano definitivi e a cui la Regione non riesce a stare dietro con le bonifiche. Il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 12 settembre del 1997 dichiarò lo stato di emergenza nella Regione Calabria in ordine alla situazione di crisi socio-economico-ambientale determinatasi nel settore dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani. Stato di emergenza ambientale che con successivi decreti è stato prorogato sino ad oggi ed allargato anche per la questione della depurazione. Un’emergenza che dura da circa dodici anni e che ancora non vede una soluzione definitiva.

Non entro nella polemica, tutta politica e giudiziaria, di come siano stati spesi (male) i soldi della comunità europea: consulenze ad amici, appalti pilotati a ditte in odor di ‘ndrangheta e dipendenti fantasma (41) come scrisse (leggi denunciò) nella sua relazione il prefetto Antonio Ruggiero quando abbandonò la struttura commissariale calabrese. Non vale la pena anche perché, quando a farlo è qualche magistrato, o anche qualche giornalista, lo si trasferisce. Ma vorremmo cercare di capire. Cercare di capire perché siamo così indietro colla raccolta differenziata (solo il 18% della raccolta totale a fronte dell’obbiettivo, ormai non più conseguibile del 65% entro il 2010). Vorremmo capire perché le discariche si stanno riempiendo, tutte, con velocità maggiori e in tempi più brevi di quelli che erano stati previsti da progetto. Vorremmo capire perché, soprattutto, in una terra che dovrebbe puntare tutto sulla valorizzazione delle sue enormi ricchezze paesaggistiche ed ambientali, si continua invece a gettare rifiuti senza differenziarli, in discariche abusive e stoccando materiali pericolosi che mettono a serio rischio la nostra salute e l’ambiente: l’aria, le acque superficiali, le acque sotterranee, il mare e il suolo. Ci piacerebbe capire perché, in Calabria, non si riesca a far partire quel benedetto “ciclo integrato” dei rifiuti e perché non si riesca a passare dalla tassa sui rifiuti (cd Tarsu) ad una tariffa che tenga conto non soltanto dei metri quadri di abitazione ma anche della quantità dei rifiuti prodotti e del virtuosismo che i cittadini hanno nell’effettuare la raccolta differenziata. Soltanto nel 2007, noi calabresi abbiamo prodotto 990.672 tonnellate di rifiuti, una montagna di monnezza, di cui soltanto il 18 % (178.321 tonnellate) di raccolta differenziata. Quattrocentosettantotto i chilogrammi di rifiuti prodotti da ciascun calabrese in un anno e di cui soltanto ottantasei raccolti differenziando il materiale: una vergogna. Siamo ancora troppo distanti da quel 65% previsto dalla legge del 2006 che prevede il raggiungimento dell’obbiettivo entro il 2010 o, al massimo, entro il 2012.

Già questo consente di fare una prima valutazione. Un serio ciclo integrato dei rifiuti, che è l’alternativa al continuo aprire discariche e inceneritori, dovrebbe incentivare la riduzione della produzione di rifiuti. Come? Incentivando, per esempio, consumi “alla spina” di bevande e detersivi, e riutilizzando più volte i contenitori. Risparmieremmo pure. Leggere i giornali e le riviste on line consentirebbe di risparmiare circa 70 Kg/anno pro capite di carta. Bere acqua del rubinetto o riutilizzando i contenitori di vetro per acquistarla sfusa, assieme all’uso di bicchieri di vetro, consentirebbero un risparmio di oltre 125 Kg/anno pro capite di plastica.

Nell’ultimo piano regionale approvato per la gestione dei rifiuti in Calabria sono state evidenziate le principali criticità del sistema che riguardano sia aspetti strutturali sia aspetti funzionali. Accanto al deficit di impianti dovuto al non avvenuto completamento di alcune strutture, si lamenta l’insufficienza proprio della raccolta differenziata e il totale mancato avvio della raccolta differenziata dell’umido organico. Il tutto in un contesto, come si legge nello stesso piano regionale, reso scarsamente efficiente per l’eccessivo numero di “sotto ambiti” e di società che gestiscono la raccolta differenziata. Gli obiettivi del piano previsti per la raccolta differenziata non sono stati conseguiti e, anzi, si è ancora ben lontani dal loro raggiungimento. Tali criticità di sistema sono particolarmente rilevanti poiché causano un effetto a catena sulle altre fasi del trattamento dei rifiuti. Infatti, in assenza di un’adeguata raccolta differenziata aumenta il carico di rifiuti sulle discariche dove viene immessa una quantità di rifiuti tal quale superiore a quella prevista e superiore ai limiti fissati dalla normativa vigente. Situazione aggravata, se ciò non bastasse, dalla mancata utilizzazione degli impianti per la valorizzazione della raccolta differenziata e dalla scarsa funzionalità del sistema di raccolta a causa dell’attuale suddivisione del territorio regionale in 14 sotto ambiti in cui l’affidamento della raccolta differenziata ad una società mista all’interno di ciascun sotto ambito è inadeguata.

Ma se questo è il panorama regionale la domanda è: come uscirne? Come avviare la fine di un’emergenza che dura da dodici anni? Costruendo altre discariche? Nuovi inceneritori? L’alternativa c’è, ma necessita di un salto culturale: si chiama “ciclo integrato dei rifiuti” e prevede, come già accennato, il passaggio da una tassa ad una tariffa sui rifiuti: chi più produce rifiuti più paga.

Oltre alla riduzione alla fonte dei rifiuti da incentivare con la diffusione di comportamenti “ecologici” dei consumatori, il ciclo integrato prevede la raccolta differenziata porta a porta, il compostaggio e il trattamento meccanico-biologico a freddo.

A differenza del sistema a cassonetti stradali, quella porta a porta ha dimostrato di consentire di arrivare, in tempi brevi, a percentuali tra il 65 e l’85% di differenziata. Non è un’utopia: a San Francisco (USA) dove sono 800.000 gli abitanti, il 67% dei rifiuti viene raccolto in maniera differenziata. A Novara (100.000 abitanti) si arriva al 70% di differenziata. Stesse percentuali in alcuni quartieri di Reggio Emilia dove il sistema porta a porta è integrato con quello delle isole ecologiche. E ancora: a Roma, nel quartiere Colli Aniene, si arriva al 63%; a Treviso (oltre 220.000 abitanti) addirittura il 75% dei rifiuti sono differenziati. Ma la differenziata non basta: è necessario innescare a valle una filiera del riciclaggio per produrre nuovi oggetti e dalla quale è senz’altro possibile creare posti di lavori “ecologici” che potrebbero diventare un volano positivo contro la crisi in atto. L’organico, anch’esso raccolto porta a porta, andrà agli impianti di compostaggio per produrre fertilizzante. Ciò può essere fatto anche a livello domestico o condominiale per produrre concime per le proprie aree verdi.

Per quello che comunque non è riciclabile è ancora troppo presto per la discarica o per l’inceneritore. Lo si può trattare senza incenerire ed evitando di inviare in discarica le ceneri tossiche o il materiale tal quale ancora putrescibile e quindi pericoloso per i percolati che produce. Mediante il trattamento cd meccanico-biologico a freddo che in Germania risulta in grande evoluzione: 64 gli impianti di TMB contro i 73 inceneritori. I rifiuti che rimangono indifferenziati e non riciclati vengono dapprima selezionati da appositi macchinari cercando di recuperare ancora vetro, metalli ed altro materiale riciclabile. Dopodiché il rimanente viene inviato in appositi “bio-reattori” chiusi e con “bio-filtri” che essiccano, a 40-60°C, ciò che rimane. Il tutto senza bruciare e producendo biogas utile per far funzionare l’impianto stesso. Il materiale così essiccato è ridotto del 40 – 50% rispetto alla massa in ingresso, non è più putrescibile e non è nemmeno una cenere tossica come quella che invece esce dagli inceneritori. Essendo reso inerte, il materiale prodotto dal trattamento meccanico biologico lo si può riciclare in edilizia come sottofondo stradale. Gli inceneritori non eliminano le discariche ma, anzi, producono ceneri tossiche in quantità pari a circa il 25% di ciò che viene bruciato, e che richiede particolari accorgimenti per essere smaltite. Come scrisse nel 1993 il Wall Street Journal: quello degli inceneritori è (e resta ancora) il metodo più costoso di smaltimento dei rifiuti. Un impianto di trattamento meccanico biologico costa invece il 50-70% in meno di un inceneritore e il materiale che rimane è riutilizzabile come inerte o per produrre combustibile da rifiuti. Nell’ambito di un ciclo integrato dei rifiuti, assieme alla raccolta differenziata porta a porta e al compostaggio dell’umido, il trattamento meccanico biologico a freddo viene accettato più facilmente dalle popolazioni perché ha costi ambientali decisamente inferiori consentendo di abbattere gran parte degli inquinanti: 5 kg di polveri prodotte per tonnellata di rifiuti trattate contro i 38 kg degli inceneritori; 78 Kg di ossidi di azoto (nitrati e nitriti) contro i 577 kg per tonnellata di rifiuti trattati con inceneritore; scarti solidi pesanti a tossicità media contro quelli a tossicità alta sempre degli inceneritori; pochi fumi a bassa tossicità contro elevati quantitativi di fumi ad elevata tossicità degli inceneritori; 40 nanogrammi di diossine per tonnellata trattata che, con particolari accorgimenti, possono scendere addirittura a 0,1 nano grammi, contro i 400 nanogrammi rilasciati degli inceneritori per ogni tonnellata di rifiuti trattati.

Il ciclo integrato e il trattamento meccanico biologico a freddo per uscire dall’emergenza senza cadere nell’incantesimo degli inceneritori che volge al termine in tutta l’Europa.

E’ questa la politica da perseguire, per risolvere una volta per tutti il problema dei rifiuti. Per evitare che, colmate le discariche esistenti deflagri la bomba “monnezza” e la si contenga con i “salubri” inceneritori.

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Quando eravamo tutti migranti

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “il Domani della Calabria” del 14.05.2009

Migranti italiani
Migranti italiani

Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri nel paese d’Egitto (Esodo 23, 9). E’ il tema della memoria che s’intreccia con quello dell’alterità e che nella Bibbia si ritrova sovente. L’invito a ricordare, ad avere memoria, in particolare, quando si parla dell’atteggiamento da avere verso gli stranieri, verso coloro che non fanno parte della comunità “identitaria” dovrebbe essere raccolto da chi si occupa di politiche, ancor di più se chiamato a governare. Se non serve ricordare, come ha fatto con l’ orda di Gian Antonio Stella, che migranti lo siamo stati anche noi italiani; se non è sufficiente, per noi calabresi, rileggere le pagine dell’Avvenire Vibonese che pubblicava, alla fine dell’ottocento, le notizie sui migranti che dalla Calabria partivano verso le Americhe e i relativi provvedimenti dell’allora Commissario dell’emigrazione, forse è il caso di rileggere la Bibbia che ci rammenta che il primo straniero è stato proprio il Cristiano. E’ strano davvero: impieghiamo un sacco di tempo ad imparare qualcosa, ci costa tanta fatica e poi, in breve lasso di tempo, dimentichiamo. Eppure anche noi abbiamo conosciuto la puzza delle stive, l’amaro in bocca del lasciare – forse per sempre – la propria terra, i propri cari, per la ricerca di una vita meno misera. Ci guardiamo allo specchio ma non riusciamo più a scorgere quel figlio, quel nipote, di migranti quali siamo. Se la terra da cui ci sfamiamo si inaridisce dovremmo morire sul posto? Abbiamo piedi o radici? Noi siamo rimasti sul posto quando a “seccare” di miseria era la nostra terra? La nostra Calabria? Non amiamo essere costretti a ricordare e dimentichiamo. Thomas Eliot forse aveva ragione nell’affermare che “il genere umano non può sopportare molta realtà”. E noi italiani vogliamo dimenticare, vogliamo fingere di essere diversi da quello che siamo o da quello che siamo stati. Un bel Paese ma dalla gente immemore che l’Europa e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifuggiati (UNHCR) devono “richiamare”. Proprio mentre cultura e letteratura italiane sono in fiera a Torino sotto il titolo “Io, gli altri” e parlano all’attualità con titoli come “La morte del prossimo” di Luigi Zoja, “Mai senza l’altro” di Michel de Certau, o ancora più espliciti, come “Ricordati che eri straniero” di Barbara Spinelli, proprio mentre fiumi di parole si spendono sul tema delle nuove e vecchie migrazioni, in Italia la politica del Governo è chiara: rispedire a casa lo straniero, senza preoccuparsi neanche se queste persone abbiano, o no, diritto ad asilo perché perseguitati nel loro paese d’origine. Duecento trenta migranti soccorsi dalla Guardia Costiera e dalla Guardia di Finanza italiane nelle acque internazionali di competenza maltese, sono stati “ricondotti” in Libia (paese, tra l’altro, non aderente ai trattati internazionali sui rifugiati) e senza neanche un’adeguata valutazione della loro possibile necessità di protezione internazionale. Anche se non sono disponibili informazioni sulle nazionalità dei 230 migranti – ha specificato con una nota l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite – nell’anno 2008 circa il 75% delle persone che sono giunte in Italia via mare ha fatto richiesta di asilo e, al 50% di costoro, è stata riconosciuta una forma di protezione internazionale perché ne avevano il diritto. Solo sulla base di questi dati è leggittimo ipotizzare percentuali simili tra quelle 230 persone riaccompagnate in Libia con la “nuova linea” del Governo Italiano e del suo Ministro degli Interni Maroni. Non solo gente in fuga dalla miseria e in cerca, legittima, di una vita migliore, ma anche perseguitati politici in fuga dal loro paese. Persone che possono essere individuati e uccisi. Non basta nascere per esistere, è necessario avere una cittadinanza. Non ci sono diritti dell’uomo in quanto tale? Abbiamo o non abbiamo diritti, non perché siamo esseri umani, persone, ma perché cittadini, perché abbiamo passaporti di una certa nazione dove abbiamo avuto fortuna di nascere. E se dovesse tornare ad inaridirsi di nuovo anche la nostra di terra?

L’appello dello scorso 7 maggio rivolto alle autorità italiane e maltesi da Antònio Guterres, Alto Commissario per i rifugiati, era chiaro: “assicurare alle persone salvate in mare e bisognose di protezione internazionale, il pieno accesso al territorio e alla procedura d’asilo nell’Unione europea”. Invece no, l’appello è rimasto inascoltato e ha vinto l’Europa dei dei Governi Nazionali: le 230 persone sono state “riaccompagnate” in Libia dalle nostre motovedette “guidate” da Maroni. Perché loro, ha dichiarato il Presidente del Consiglio, “non sono come la sinistra, non sono per un’Italia multietnica”. Un radicale mutamento delle politiche migratorie del Governo italiano che ha fatto indignare non soltanto l’Alto Commissario per i Rifugiati ma anche la chiesa Cattolica e tutti coloro memori che emigranti lo eravamo pure noi.

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Calabria: frane a gogo’ e ci scappano pure i morti

di Giuseppe Candido (*)

Ma non è Dio ad averli voluti. Il dissesto ideologico la vera causa del disastro idrogeologico.

Calabria imbottigliata”, “Unʼintera provincia in ginocchio”, “Morte e interrogativi”. Sono questi i titoli che hanno campeggiato sui quotidiani calabresi subito dopo lʼevento franoso che la sera del 26 gennaio scorso ha travolto e ucciso due persone sullʼautostrada Salerno Reggio Calabria. Circa 10.000 metri cubi di materiale incoerente hanno travolto e divelto come un grissino un muro di sostegno in cemento armato. Fare però qualche riflessione a mente fredda forse potrà risultare utile.

Anche se oggi mi dedico maggiormente allʼinsegnamento delle scienze nella scuola media, faccio il geologo in Calabria dal 1994 e dire che i geologi lo avevamo sempre detto mi sembra riduttivo. Non da geologo, ma da calabrese soprattutto. A sentire le parole del Presidente della Regione Agazio Loiero, recatosi sul posto, sembrava che lʼevento non fosse prevedibile e che lʼeccezionalità delle precipitazioni fosse la vera causa della tragedia. Ma non è così, la vera causa è lʼincapacità dellʼattuale classe politica e dirigente calabrese nel governare il territorio e nel passare dalla sola gestione dellʼemergenza ad una sana opera di prevenzione e mitigazione dei rischi.

Troppo facile lodare il “modo dignitoso” con cui la famiglia di Danilo Orlando ha affrontato il dramma: “Lo ha voluto Dio”. Ma la politica deve assumersi le sue responsabilità. La Calabria e i calabresi pagano oggi il prezzo di un pluriennale uso – dissennato e distorto – del territorio da parte di Sindaci, e presidenti di Province e Regione. Premesso che esiste un Piano per lʼAssetto Idrogeologico (PAI) che, dal 2001, ha bene identificato e riportato su apposite mappe le aree in frana e le relative aree a rischio e che lʼautostrada risulta più volte intersecata da dette aree in frana come facilmente verificabile da chiunque collegandosi al sito dellʼautorità di Bacino della Calabria, ci chiediamo perché non si siano eseguiti gli opportuni interventi di monitoraggio e controllo. Ci chiediamo pure come mai non si facciano interventi di consolidamento per ridurre i rischi e addirittura si arrivi ad aggravarli convogliando, come ammesso candidamente dal Sindaco di Altilia, le acque bianche proprio in corrispondenza dellʼarea in frana che, come si sa, non tanto vanno dʼaccordo con lʼacqua? Ma il male che ha ucciso in questʼoccasione due persone è un male diffuso su tutto il territorio. Più di settemila le frane rilevate dallʼautorità di bacino e segnalate a tutti gli enti interessati con apposite cartografie, rischio di alluvione esteso su molte centinaia di ettari di pianure assieme alle aree a rischio di erosione della costa forniscono lʼidea delle dimensioni e della gravità del dissesto idrogeologico della Calabria. Lo scrittore Giustino Fortunato definì la Calabria “sfasciume pendulo sul mare”. Cerzeto, Filadelfia, Favazzina, Pannaconi sono soltanto alcuni nomi dei centri abitati coinvolti con fenomeni franosi che hanno messo a rischio opere e vite umane.

Una Carta del Piano per lassetto idorgeologico della Calabria
Una Carta del Piano per l'assetto idorgeologico della Calabria

La frana sullʼA3 è quindi da considerarsi lʼepilogo di un disastro annunciato che vede nellʼincapacità della classe politica e dirigente il principale responsabile. Negli anni poco o nulla è stato fatto per una più attenta programmazione strutturale del territorio e per interventi di monitoraggio e controllo dei movimenti franosi. Si pensi a tutti i dissesti sulle provinciali e sulle statali calabresi sistematicamente invase da fango e che si verificano ogni qual volta cʼè un evento meteorico eccezionale, ma non più così tanto straordinario. E mentre per risanare il dissesto idrogeologico si spendono 300 milioni di euro lʼanno per gli stipendi dei diecimila forestali calabresi, le conseguenze del dissesto idrogeologico calabrese sono sotto gli occhi di tutti. Anche sotto quelli, piangenti, delle madri, dei padri, delle famiglie, degli amici delle vittime. Emergenza maltempo? Non cʼè periodo dellʼanno che la Calabria non sia costretta a fronteggiare una emergenza: emergenza frane, emergenza alluvioni, emergenza incendi boschivi e, paradossalmente, emergenza siccità. Per non parlare poi di emergenza rifiuti e di emergenza inquinamento che si prorogano di legislatura in legislatura, di commissariamento in commissariamento.

Un flusso di emergenze il cui intreccio costituisce la questione ambientale calabrese. Una questione ambientale che oltre ai problemi in termini di sicurezza coinvolge ogni attività economica, sociale. Una questione ambientale la cui risoluzione costituirebbe, oltretutto, un volano di sviluppo economico al quale la Calabria e i calabresi devono poter ambire. La politica calabrese per anni ha gestito il territorio e la edificabilità dello stesso con soli fini clientelari senza preoccuparsi dei problemi, neanche quando gli li hanno messi sotto gli occhi con le cartografie del PAI nel caso del rischio idrogeologico. Un dissesto idrogeologico generato, o quanto meno compartecipato, dal disastro ideologico di una classe politica calabrese volta piuttosto a preoccuparsi di fare il favore a questo o a quello che non a fare un favore alla collettività, magari mitigando i rischi con opportune opere di consolidamento o, quantomeno, predisponendo una adeguato sistema di monitoraggio delle frane non consolidate. Fiumi di denaro dei fondi europei non sono serviti a risolvere le emergenze ambientali come i milioni di euro spesi per i forestali non ha risolto né diminuito il rischio idrogeologico. La politica, invece di occuparsi di come spartirsi e spendere i soldi in clientele, con i venti di federalismo fiscale che vanno soffiando, farebbe meglio ad occuparsi di governare il territorio in maniera sostenibile mitigando i rischi idrogeologici conseguenti a quegli eventi che tanto straordinari più non sono.

(*) geologo dal 1994

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Vite tra(t)tenute

di Giovanna Canigiula

Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia

Vite tra tenute è una testimonianza sulla vita in carcere realizzata dai detenuti dell’Alta Sicurezza  della Casa Circondariale di Vibo Valentia. Imputati o condannati per tipi di reati previsti dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, vivono al primo piano di un padiglione inaugurato nel 1997 in condizioni di sovraffollamento: in venticinque celle, che potrebbero ospitare 50 detenuti,  sono rinchiuse circa 70/80 persone, con una media di tre per cella, senza nessuna osservanza, al momento dell’assegnazione, degli artt. 27 reg. esec. (osservazione della personalità), 14 e 64 o. p. (separazione imputati- condannati, separazione giovani- adulti, necessità di trattamento individuale o di gruppo).  Meno della metà dei carcerati sono definitivi, i più sono giudicabili ed appellanti.

La testimonianza è figlia dell’adesione, da parte dei detenuti, al progetto sperimentale ATHENA, elaborato nel 2004 dal Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Calabria con lo scopo di favorire la socializzazione, la partecipazione attiva dei soggetti alla “gestione” del carcere e la costruzione di un sistema sociale migliore. L’assunzione dell’impegno ha dovuto vincere molte resistenze dal momento che, come i detenuti scrivono, il carcere controlla un ampio ventaglio di benefici e di oneri essenziali, a volte decisivi e nessuno è disposto a rischiare il trasferimento in altri istituti e l’allontanamento dai propri familiari per avere protestato contro limitazioni e privazioni.

L’aspetto più doloroso della vita in carcere è, senza dubbio, l’essere privati della libertà e, quindi, della possibilità di intrecciare o conservare relazioni con parenti e amici. Tra le testimonianze, infatti, significativa è quella di un detenuto che rimpiange il carcere di Palermo perché, anche se vecchio e “rigoroso”, gli consentiva di usufruire della visita settimanale dei familiari, essenziale per chi è costretto, per anni o per la vita, a vivere tra le quattro pareti di una cella in cui, all’essere socialmente morto, si aggiunge la sofferenza di dovere quotidianamente alternare la branda allo sgabello per la mancanza di spazio, dividere un vano bagno di un metro quadrato con altre persone, scambiare forzate conversazioni, temere per la propria sicurezza personale a causa di detenuti violenti ed aggressivi o dell’azione repressiva del  personale carcerario, subire continui controlli. L’elenco dei danni psico- fisici è lungo: danneggiamento della capacità individuale di pensare e agire in modo autonomo, perdita di valori e attitudini, isolamento, perdita di stimoli dovuta all’adattamento a un ambiente povero e al ritmo lento e monotono della vita istituzionale, estraniamento, diminuzione della stima in se stessi e conseguente dipendenza dalla struttura, anestesia emotiva, ansia e depressione che possono portare ad episodi di autolesionismo, suicidi e violenza. E poi danni visivi e all’apparato digerente e dentario, patologie dermatologiche, compromissione del sistema respiratorio, disturbi del sonno. Ammalarsi in carcere è una vera tragedia perché, nel luogo in cui si può morire ma non guarire, si è come orsi feriti che nulla possono fare a tutela della propria salute,terminali di un apparato sanitario già mal funzionante all’esterno, inceppato dietro le sbarre, dove si paga lo scotto di carenti risorse finanziarie, di personale che è, quindi, costretto ad operare per tamponare la malattia più che per curarla, di un apparato che non interviene per prevenire, quanto invece per accertare e tenere sotto controllo, il tutto con i tempi consentiti in un carcere. Il carcere diventa, così, un’“istituzione totale” che annienta, anche se vi sono momenti in cui urge il bisogno dianimare le vigilie; vivere nell’esistente, dare un senso alle cose, al tempo, alle ricorrenze;  attivare sentimenti, ricordi, emozioni; collegarsi con la mente ed il cuore ai personali legami forti che sono fuori, lontani quanto dentro, e vicini in ognuno nella prospettiva. La speranza prende allora i colori della creatività: è l’albero di Natale realizzato con bottiglie di plastica, carte colorate e mezzi di fortuna; sono i dolcetti tradizionali che si preparano a Pasqua con ciò di cui si dispone; sono le trombette e le maschere appese a Carnevale alle pareti della cella. E’ il caffè che si fa trovare ai familiari nel giorno delle visite.

L’arte di arrangiarsi è una di quelle cose che si impara abbastanza presto. L’Ordinamento Penitenziario prevede la somministrazione quotidiana di tre pasti, preparati nelle apposite cucine degli Istituti ad opera di detenuti e internati che svolgono la mansione per tre mesi. A tutti è però consentito di tenere, in cella, fornelli di dimensioni e caratteristiche conformi alle prescrizioni ministeriali e di ricevere quattro pacchi al mese, di peso complessivo non superiore ai venti chili, contenenti abbigliamento e generi di consumo comune tassativamente indicati in tabelle fissate dalla direzione dei singoli Istituti. Ogni anno il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria stabilisce i limiti delle somme che possono essere spese per gli acquisti e la corrispondenza e questa è una voce importante perché i detenuti preferiscono, anche quando il servizio cucina è accettabile, preparare da sé ciò che consumano. Scatta, infatti, una sorta di rifiuto nei confronti dell’istituzione che porta a vivere come imposizione ciò che ti viene somministrato: l’affermazione della propria identità passa attraverso la preparazione dei piatti, centro motore di un’esistenza altrimenti immobile.

Ogni detenuto, al momento dell’ingresso in cella, ha in dotazione dall’Istituto un cucchiaio, una forchetta, due piatti e un bicchiere di plastica dura, Niente coltelli. In due metri quadrati, inoltre, deve organizzare una cucina. Che fa? Nella parete sopra il tavolino attacca ganci adesivi, resi più resistenti con accorgimenti particolari, per appendervi le pentole. Queste, una volta usate e lavate, vengono lasciate asciugare su scolapiatti di manifattura artigianale: sulla parete sopra il lavandino si mettono tre ganci a forma di triangolo, ai due ganci che costituiscono la base si aggancia un lato di un cestello, all’altro si lega un laccio di plastica ricavato dai sacchetti della spazzatura e vi si lega il centro della parte opposta del cestello. Cestelli variamente sovrapposti servono a contenere frutta, conserve e stoviglie. Con cartoni, bottiglie di plastica, pezzi di legno, vinavil, strisce di plastica  si realizzano tavolini, leggii, vasi, soprammobili, portariviste, portaritratti, portalettere, portacenere, porta bicchieri, sturalavandini, pattini per le brande. Con un appendiabiti di plastica è possibile ottenere una bilancia: basta appendere, alle due estremità, quattro lacci che sorreggono due piatti di carta. I pesi, da cento cinquanta e dieci grammi, si possono realizzare inserendo del sale in dei contenitori di plastica. Per stirare si usa la caffettiera con acqua bollente. Acqua e candeggina servono da deodorante. Tra i sistemi di fabbricazione di un forno, ve n’è uno ingegnoso: si appoggia su uno sgabello un fornello da campeggio smontato della base d’appoggio e del bruciatore, poi rimontato dalla parte interna dello sgabello medesimo,  se ne copre il tronco con un lenzuolo o una coperta o un asciugamano inumiditi; si capovolge quindi lo sgabello e lo si poggia su una base, si incastra o si appende una pentola avendo cura che non tocchi la fiamma e se ne ricopre la parte superiore. Basta accendere e il forno funziona. Le bevande, invece, si tengono al fresco mettendo le bottiglie dentro calze bagnate o in secchi d’acqua in cui si svuota una bomboletta di gas. Le grattugie si ottengono da coperti o da scatole di latta bucherellati. Con una penna, tre astucci e tre pezzi di filo interdentale si fabbrica un telecomando; con tubicini in pvc e cestelli da frutta un comodo stendibiancheria da attaccare alle grate.

Nel bagno, a forma di trapezio con basi di due metri per uno, vi sono un lavandino con specchio, tazza e bidet. Anche qui, visto il numero di ospiti per cella, l’organizzazione è fondamentale. Alla destra del lavandino scatole di pasta e pacchetti di sigarette rivestiti di carta argentana o fazzoletti decorati ospitano gli effetti personali di ciascun detenuto. Un palo di scopa incastrato all’altezza del rivestimento delle mattonelle serve per agganciare gli appendiabiti e tenere in ordine vestiti, accappatoi e la busta con i panni sporchi. Il porta scarpe è realizzato con i cilindri di cartone dei rotoli di carta igienica, tagliati in otto punti su un’estremità: le frange si piegano verso l’esterno a 90° e si incollano su un cartoncino rotondo. Appendini di plastica riscaldati e tagliati a forma di gancio diventano, invece, porta rotoli. Progressi enormi: negli anni ’70 i bisogni fisiologici si facevano, senza privacy ad eccezione della coperta con cui ci si avvolgeva, dentro un buiolo, cioè un bidoncino, che veniva ritirato due volte al giorno e nel quale si bruciava un foglio di giornale per coprire gli odori; non c’era lavandino; la doccia si faceva una volta a settimana e ci si asciugava con un lenzuolo; ci si cambiava una volta a settimana.

Com’è la giornata tipo di un detenuto nel carcere di Vibo? Il buongiorno, alle sette, è dato dallo scricchiolio del giro di chiavi nella serratura del blindo esterno dell’ingresso della cella. Dopo circa un quarto d’ora lasciano le celle i detenuti addetti alla preparazione della prima colazione (latte, the, caffè) e, intorno alle 7.50, viene aperta la cella del vivandiere che provvede alla distribuzione. Alle otto un agente passa per le celle e chiede se qualcuno vuole iscriversi per avere contatti con l’ufficio di matricola o con l’infermeria. A giorni alterni, dalle 8.30 alle 11.00 e dalle 15.30 alle 18.00, è consentito fare la doccia.  Dalle 9.00 alle 11.00 ci sono le classiche due ore d’aria in cui si osservano regole codificate: ci si divide in gruppi, gli anziani stanno al centro e non bisogna voltare loro le spalle quando si raggiunge l’estremità del cortile che non va mai attraversato trasversalmente. Se si preferisce frequentare la scuola, le lezioni durano fino alle 12.00, ora in cui viene servito il pranzo in cella. Per ingannare il tempo, il regolamento prevede l’uso della carte napoletane ma non di quelle francesi. Per realizzarle, allora, i detenuti comprano 55 cartoline plastificate, le tagliano a metà, le rifiniscono e le disegnano. Due volte a settimana, per gruppi di quindici e per un’ora e mezza, si può andare in una sala a giocare a biliardo, ping- pong, dama e carte. Una volta a settimana si può utilizzare il campo di calcio. La palestra è in cella: con bottiglie, pali e strisce di maglia si realizzano i pesi.

L’ordinamento penitenziario attribuisce al detenuto il diritto all’istruzione e lo Stato è obbligato, in base all’art. 33 comma 2, a garantire la fruizione dei corsi scolastici, soprattutto di quelli obbligatori. La scelta di frequentare una scuola non è dettata dall’interesse per l’istruzione ma dalla possibilità di evadere dalla monotonia di una giornata segnata da due possibilità: stare in cella o uscire all’aria aperta.  Con in più il piacere di sentire e vedere persone che vengono dal mondo esterno, assaporare la sensazione di respirare una boccata di libertà, provare il gusto di conversare con “altri” di altro. Il detenuto ha pochi stimoli per programmi ideati per ragazzi di 6- 18 anni, frequenta magari le lezioni per guadagnarsi possibilità da spendere una volta fuori, si rapporta però all’istituzione scolastica come a un corpo rigido, quasi estraneo ai suoi interessi e alle sue prospettive. Studiare non è facile: come si fa se uno cucina, un altro ascolta musica, un altro guarda la TV? Non si hanno contatti con altri studenti e, se c’è un intoppo ad esempio nella soluzione di un problema, non si dispone che di se stessi di fronte al testo. Scoraggiante. Tuttavia il D.A.P. Calabrese ha stipulato anche un protocollo d’intesa con l’Università della Calabria per coloro che ambiscono a un titolo superiore ed in alcuni istituti penitenziari, come quello di Catanzaro, sono stati avviati corsi della facoltà di giurisprudenza, con docenti che tengono lezione in carcere e studenti che dispongono di celle singole per poter studiare. Vibo ha seguito a ruota l’iniziativa.

Il sistema carcere tende a essere conservatore e refrattario ai cambiamenti. Le tecniche usate dal personale sono consolidate:  rimandare richieste, ordini, disposizioni a un’autorità responsabile esterna, seguendo il principio del “lavarsene le mani”; svuotare di significato le proposte in conflitto con gli interessi dominanti; rendere impraticabili le proposte innovative; dilatare fino a “nuovo ordine” l’attuazione di una proposta; sminuire un’idea o un’iniziativa senza osteggiarla apertamente; appropriarsi di un’idea apportandole sottili cambiamenti.

Anche la comunicazione segue delle direttrici. Relazioni di tipo orizzontale sono quelle fra detenuti, per i quali vale anzitutto la regola secondo cui a megghiu  parola esti chidda chi nun nesci e ciò per la convinzione di essere continuamente controllati e intercettati, il che favorisce un dialogo per parabole o per gesti. Comunicare tra persone che vivono lo stesso disagio porta, però, a parlare sempre delle stesse cose e se all’inizio è consolante, col passare del tempo intristisce, l’interesse si spegne e si diventa taciturni. Di tipo verticale è la comunicazione tra detenuto e staff dirigenziale che avviene secondo regole precise. Al mattino l’agente di sezione annota la richiesta di colloquio avanzata dal detenuto, viene stilato un elenco, generalmente il colloquio arriva quando ormai le ragioni della richiesta sono state superate dagli eventi. Il sistema di relazioni spesso è tale che, per evitare ritorsioni, il detenuto è indotto a comportamenti remissivi e furbeschi e ciò porta a sviluppare personalità asociali, genera rabbia e rafforza la solidarietà del sottosistema in cui ci si rifugia. Quando avviene, il colloquio del detenuto col direttore si svolge in una stanza che resta aperta e alla presenza di un assistente: viene così annotato tutto ciò che dice stando in piedi di fronte alla scrivania. Il rapporto con l’agente penitenziario è, invece, complesso. Molti agenti criminalizzano il detenuto in quanto responsabile del loro “odiato” lavoro e lo guardano con gli occhi omologanti, svogliati e veloci della società di cui fanno parte: il detenuto è il “diverso” che va rinchiuso, isolato, ibernato, eliminato dal corpo sociale. Spesso utilizzano espressioni e atteggiamenti che vengono percepiti come vessatori, provocatori e prevaricatori e si innesca un rapporto conflittuale che rende l’agente guardiano e, al tempo stesso, ladro di dignità e di umanità. Per contro vi sono agenti professionali che, pur rigorosi, sanno operare un approccio differenziato e individualizzato, non hanno pregiudizi, non sono razzisti, basano il sistema relazionale su regole chiare, fondate su diritti e doveri e ispirate ai principi della cultura del rispetto. Non esercitano un potere, ma prestano un servizio.

Scioperare in carcere è un modo per dare voce alla sofferenza dei detenuti. Se, poi, la protesta è nazionale e fa notizia sui quotidiani, è il modo per denunciare le condizioni d invivibilità, per sollecitare l’intervento delle istituzioni, per interloquire con quella parte della società cinica che considera il carcere una discarica sociale. A Vibo, i detenuti dell’Alta Sicurezza hanno dato vita aSpazio Ristretto, un giornale nato dalla collaborazione con l’I.T.C. “G. Galilei”, in cui si affrontano i problemi della vita dentro, si promuove la cultura dei Diritti e della Solidarietà, si discute di giustizia e legalità: giustizia è rispondere con progetti di bene al male ed agire con giustizia significa attuare l’opera dei diritti umani, architrave della democrazia a prescindere da tutte le condizioni o status.Sanzione penale e pena detentiva, scrivono i detenuti, non sono l’unica risposta possibile per difendere i cittadini e la società da delitti e violenze. Nel 90 % dei casi, chi sta in carcere ha una storia di emarginazione sociale alle spalle, percorsi educativi insufficienti, povertà materiali e culturali. Al termine della pena, il “rientro” in società fa scontare una doppia emarginazione e l’impossibilità di reinserimento lavorativo e sociale determina quel circolo vizioso che dal carcere riconduce al carcere. Tendere al recupero sociale del condannato significa preoccuparsi di quale soggetto rientrerà nella società una volta scontata la pena: è meglio accogliere cittadini recuperabili o relitti senza speranza?

I detenuti, attivissimi, hanno curato e promosso anche una pubblicazione, dal titolo Ogni società ha il carcere che si merita, in cui non solo hanno raccolto riflessioni sul mondo- carcere, ma indicato una serie di proposte di modifica legislative del sistema sanzionatorio, evidenziandone le incongruità sotto il profilo politico- criminale e l’inefficienza delle pene che trasforma il carcere in una entitàcriminogena. Hanno scritto a tutti: ai Magistrati di  Sorveglianza dei Tribunali della Calabria, agli Ordini degli Avvocati e alle Camere Penali della Calabria, ai candidati alla Presidenza della Regione Calabria, agli operatori del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria di Catanzaro, ai parlamentari calabresi, ai sindaci delle 11 città sedi di carceri, agli assessori comunali dei servizi sociali, ai presidenti delle Amministrazioni provinciali, agli assessori provinciali dei servizi sociali.

In Vite tra tenute la parola che ricorre più di frequente è “uomini”. I detenuti che si cimentano a fare i giornalisti si rivolgono, infatti, alla copia dell’uomo che in ognuno di loro c’è. Alunni adulti che considerano la libertà un dono speciale, che vogliono far riflettere sul fatto che diversi sono coloro che li considerano tali, che vivono il loro giornale come la pedagogia evangelica che l’uomo mette in atto con altri uomini, che superano col lavoro il senso di soffocamento insopportabile che dà l’amara realtà della cella, della gabbia, del chiuso, del dolore per il dolore, della sofferenza per la sofferenza. Che recuperano anche la loro calabresità attraverso raccolte di poesie, filastrocche, proverbi.

Uomini che, se viene loro data un’opportunità, svolgono attività teatrali, realizzano cortometraggi, si improvvisano attori. E che, nel luogo della sofferenza, ritrovano le condizioni ideali per parlare alle proprie anime. Citano E. Dickinson: L’anima è per se stessa/ Un imperiale amico/ O la più angosciante spia/ Che un nemico possa mandare. Per legge la pratica spirituale è considerata uno strumento di rieducazione del recluso. Tale attività è però vissuta come vuoto cerimoniale: la messa settimanale, spesso con il rito abbreviato per esigenze di servizio, la presenza del vescovo nelle ricorrenze annuali solenni, l’incontro periodico con il cappellano sono visti come distrazioni che non sollecitano l’animo alla riflessione sulle proprie modalità di essere o al ripensamento del proprio passato. Ciò che chiedono è altro: la possibilità di avviare processi di riflessione sui temi esistenziali, sui valori, sui principi che costituiscono il motore portante delle dinamiche dei rapporti sociali, parlare all’interiorità di ognuno e farla parlare.

Esseri deprivati, maschere che reprimono o dissimulano le sensazioni che provano, affidano alla scrittura i desideri  di libertà, amore, gioia, prospettiva, futuro, normalità, serenità. Voci dal Silenzio è una raccolta di poesie curata sempre dall’I.T.C. di Vibo, pensieri in libertà dedicati a genitori mogli e figli,  al cielo alla luna e alle stelle ai quali si è detto arrivederci, ai fratelli fuori dai cancelli, agli amici alla scuola all’amore, alla voglia di vivere e alla paura di vivere, alla rabbia alla pazienza ai sogni, alle mosche che fanno compagnia, ai sogni e alle attese. Tutto ciò che per Te…è inutile…/ Per noi è…bisogno;/ Tutto ciò che per Te è… insignificante…/ Per Noi è…importante;/ Tutto ciò che per Te è…superfluo…/ Per Noi è…necessario;/ Tutto ciò che per Te è…complicato…/ Per Noi è…semplice;/ Tutto ciò che per Te è…tempo perso…/ Per Noi è…vita;/ Tutto ciò che per Te è…da buttare…/ Per Noi è…da salvare;/ Tutto ciò che per Te è…ignoranza…/ Per Noi è…scuola;/ Tutto ciò che per Te è…cemento…/ Per Noi è…panorama; /Tutto ciò che per Te è…fatica…/ Per Noi è un…sollievo;/ Tutto ciò che per Te è…uffa…/ Per Noi è…libertà.

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