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La banalità del male e la tortura di oggi di cui c’è rischio di assuefarsi

Riflessioni #Radicali di Liberazione con un po’ di Satyagraha 

a cura di Giuseppe Candido  /

Dovremmo riflettere su quanto il male possa a volte diventare banale. L’Europa ci condanna per le condizioni inumane e degradanti delle carceri sovraffollate che costituiscono, nelle forme e strutturali e sistemiche, violazione dell’articolo 3 (rubricato sotto la voce Tortura) della Convenzione dei Diritti dell’Uomo. Ma ci stiamo abituando, ci si è assuefatti al fatto che i diritti umani, persino quelli fondamentali come la salute e la vita, nelle nostre carceri possano essere “sospesi”.

Secondo Hannah Arendt, (Le origini del totalitarismo, 1951, 2004 Einaudi) per i partiti totalitari il campo di concentramento” è un laboratorio per l’annientamento della personalità, prima ancora che per lo sterminio.

L’Europa di oggi, quell’Europa che a parole diciamo più forte, ci dice però che le torture per il sovraffollamento nelle carceri avvengono in modo strutturale. E anche la negazione del diritto alla salute per il quale il 22 aprile l’Italia è stata sanzionata, costituisce di per sé trattamento inumano e degradante che equivale a tortura. Tortura che poi porta, in moti casi, al suicidio di liberazione.

Nel 1961 Hannah Arendt segue per il settimanale New Yorker il processo del criminale nazista Eichmann1 accusato di aver coordinato la deportazione degli ebrei, rintracciato in Argentina da agenti israeliani e condannato a morte nel 31 maggio del 1962.

Nel libro La banalità del male2 pubblicato la prima volta nel 1963, l’autrice riporta un dettagliato resoconto del processo e una serie di considerazioni proprio sulle motivazioni che resero possibile il trasformarsi di un uomo banale, mediocre, in un demone capace di atrocità mostruose.

La Arendt afferma che il semplice pensare, riflettere sulle cose, la capacità di giudizio sulle implicazioni morali può evitare le azioni malvagie di chi invece si limita ad “obbedire ciecamente agli ordini”.

Per l’autrice era già allora evidente il paradosso della “Ragion di Stato” contro i diritti umani. Il riflettere sulle cose, la conoscenza e la capacità di giudizio, invece, potrebbero anche oggi riportarci sulla via dello Stato di Diritto.

Ma andiamo con ordine. La banalità del male sta nel fatto che i burocrati del Reich erano in realtà tutte persone “terribilmente normali” che erano però capaci di mostruose atrocità per il semplice fatto che non si fermavano a riflettere sugli ordini a loro dati e che il loro pensiero restava limitato alla leggi di Hitler che venivano rispettate incondizionatamente. In particolare, questo tipo di criminali commette i suoi crimini in circostanza che quasi impediscono di accorgersi che agisce male. Come nei processi a Norimberga, anche per Eichmann si sollevò il problema che non avesse violato alcuna legge già in vigore ma soltanto obbedito agli ordini. Allora, anche oggi dovremmo chiederci se il mancato rispetto dei diritti umani possa ancora essere tollerato da un Paese che si ritiene civile.

L’unica ipotetica sentenza che per la Arendt avrebbe avuto senso sarebbe stata basata perché Eichmann si era reso responsabile, commettendo crimini contro gli ebrei, di attentare all’umanità stessa, cioè alla sua base, il diritto di chiunque a esistere ed essere diverso dall’altro.

Uccidendo più razze si negava la possibilità di esistere all’umanità, che è tale solo perché miscuglio di diversità.

(…) Eichmann, tutto era fuorché anormale: era questa la sua dote più spaventosa.

Alla fine la Arendt si domanda se il male deve necessariamente essere annidato in qualcosa di più profondo. O se sia sufficiente assuefarsi alla “Ragion di Stato” di un regime contro lo Stato di Diritto.

Ecco perché Pannella, in sciopero della fame e della sete per aiutare Papa Francesco, il Santo Padre a fare ciò che fece l’ormai Santo Givanni Paolo II chiedendo al Parlamento nel 2002 provvedimenti di clemenza, vuole che l’Italia venga incriminata e processata da un tribunale penale internazionale per i suoi crimini contro l’umanità.

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NOTE al testo

1 Secondo la voce La Banalità del male, WiKipedia: Il processo ad Eichmann suscitò varie polemiche: in primo luogo perché Eichmann non venne mai legalmente arrestato, ma rapito dai servizi segreti israeliani in territorio argentino, dove godeva dell’asilo politico. Dall’Argentina Eichmann fu rapito e fatto passare clandestinamente in Israele, contro la volontà dell’Argentina. In secondo luogo perché Eichmann, nonostante fosse accusato di crimini contro l’umanità, venne giudicato dallo Stato di Israele, il quale non poteva costituirsi parte civile, giacché non ancora esistente all’epoca dei fatti contestati ad Eichmann. Inoltre, (ma non in ultimo) dato che i crimini contro l’umanità commessi da Eichmann venivano considerati crimini contro gli ebrei, dal momento che veniva giudicato in Israele, risultava contrario a qualunque diritto penale che le vittime (gli israeliani) giudicassero il carnefice, e non fosse un giudice imparziale a farlo.

2 Il titolo originale dell’opera è “Eichmann in Jerusalem – A Report on the Banality of Evil. Pubblicato nel 1963, il volume riprende i resoconti che Hana Arendt pubblicò come corrispondente del settimanale New Yorker per il processo ad Adolf Eichmann, gerarca nazista catturato nel 1960, processato a Gerisalemme nel 1961, condannato a morte il 15 dicembre 19661. L’esecuzione di Adolf Eichmann avvenne il 31 maggio del 1962 per impiccagione (pp.257–258). Fonte: it.WiKipedia.org/wiki/La_banalità_del_male

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La Pasqua con Pannella: la “democrazia reale” si sta sostituendo alla democrazia. Ecco cosa faranno i #Radicali che non si presentano alle elezioni

Pasqua con Pannella1: La democrazia reale si sta sostituendo alla democrazia.

Marco Pannella, Natale 25 dicembre 2013, Roma - III Marcia per l'Amnistia!
Marco Pannella, Natale 25 dicembre 2013, Roma – III Marcia per l’Amnistia!

C’è il bombardamento di Renzi in TV. … Uomo apparentemente agile perché non hai il peso delle convinzioni.Stanno pompando Alfano, che rischia di non superare la soglia del 4%”, ma “Si sta sicuramente cercando di fare stravincere il leader attuale dell’Italia. Sappiamo il collegamento che c’è tra ascolti e dato elettorale”.

I Radicali? … È venuto sempre più formandosi un convincimento: Questi qua non conviene farli parlare. … In questo regime c’è una forza politica alla quale all’opinione pubblica non è consentito di giudicarla.

Dobbiamo dare un contributo a noi stessi, ma a tutto il mondo, alla scienza, per analizzare quello che accade. … sempre di più la democrazia reale si sta sostituendo alla democrazia”. Non ci candidiamo perché riteniamo più importante poter dare, scientificamente, informazioni sul corpo malato della democrazia.

A questo punto, abbiamo un Presidente delle Repubblica che deve, per prudenza, sottostare a situazioni oggettivamente ricattatorie di questo nuovo astro italiano che c’abbiamo che, in sei mesi, da sindaco di Firenze viene plebiscitato come grande. … Lui (Renzi) sta nelle televisioni ed ha ascolti complessivi da periodo franchista … abita costantemente a casa degli italiani.

Cosa faranno i Radicali che non si candidano alle elezioni?

Dopo la conversazione settimanale di domenica con Massimo Bordin a Pasqua, Marco Pannella lunedì sera si è sentito male e, martedì 22 aprile, come c’ha fatto sapere Rita Bernardini, nella prime ore della mattina è stato operato all’aorta addominale.

Poiché dall’ospedale Gemelli di Roma dov’è ricoverato Marco, Rita Bernardini ci fa sapere attraverso Radio Carcere che Pannella sta meglio, che – addirittura – chiede i suoi sigari e raccomanda di non mollare le lotte in corso, per una sua pronta guarigione oltreché per i prossimi 84 anni che compirà il prossimo 2 maggio, sapendo di fargli cosa gradita non trovo niente di meglio per fargli gli auguri che trascrivere, per grosse linee, quanto il leone della politica italiana ha detto durante la tradizionale conversazione settimanale. Pannella se la prende con Matteo Renzi e, soprattutto, con la televisione italiana “di regime”, il sistema, cioè, della disinformazione radiotelevisiva che non consente ai cittadini di far conoscere la proposta politica dei Radicali e che non gli da’ spazio se non quando, appunto, rischia di tirare le cuoia.

Gli argomenti di riflessione politica sono molti, ma ovviamente Massimo Bordin, nel giorno della resurrezione, parte dalle parole del Papa per dare l’incipit alla conversazione con Pannella.

Le parole che Papa Bergoglio ha pronunciato Venerdì durante la via crucis, durante la sesta stazione, “dove ha parlato di condizione dei detenuti, del sovraffollamento nelle carceri citando i detenuti e gli immigrati come delle persone che soffrono oggi”, aggiunge Bordin, “sono un elemento che si ritrova valorizzato da RadioRadicale più che dal resto dell’informazione italiana”.

Pannella preferisce, però, parlare dell’atro argomento che pure Bordin propone: “quello più prettamente politico che riguarda, invece, il governo Renzi, gli 80 euro promessi a bonus e quello che ne consegue: il che fa il governo”, insomma. “L’uovo di Pasqua”, secondo Bordin che stuzzica Pannella, “Renzi lo mangia sereno perché tutto sommato le cose sembrano andargli abbastanza bene”.

In realtà, però, i due temi non sono del tutto slegati perché di fondo c’è l’informazione del regime italiano.

Marco Pannella, Emma Bonino e Ignazio Marino durante la III marcia per l'amnistia (Natale 2013)
Marco Pannella, Emma Bonino e Ignazio Marino durante la III marcia per l’amnistia (Natale 2013)

Abbiamo i dati del centro d’ascolto”, esclama Pannella.

Per chi si occupa della politica e delle dinamiche della politica li troverà interessanti. … Ci sono autorevoli parlamentari che si occupano di questi aspetti per motivi istituzionali e usano in genere i dati dell’osservatorio di Pavia per avere i dati sulla comunicazione.
Noi abbiamo un criterio del tutto nuovo.
Gli altri fanno (le statistiche, ndr) in base ai minuti e ai secondi che appaiono in tv o in radio. Innovazione del centro di ascolto è, invece, di dire a quanti cittadini italiani offerta la possibilità di ascoltare giudicare; … Attraverso il centro di ascolto non riusciamo a dimostrare che per esempio negli ultimi 12 13 giorni dall’inizio di aprile ad oggi il centro di ascolto può già dare indicazioni di voto! Perché abbiamo l’esperienza passata. Abbiamo questi dati: analisi degli ascolti dei tempi in voce nei telegiornali Rai. E viene questo: partendo dagli ascolti e non dai minuti, si monitora quanto ha potuto l’opinione pubblica giudicare l’uno o l’altro evento. (…) Dal 15 aprile ci sono 90 edizioni di TG della Rai TV e su questi gli ascolti avuti sono in totale un miliardo e 763 milioni. Non potenziali, ma ascolti reali. Questa – dice Pannella – è la novità rispetto agli altri dati. … Si può fare un rapporto (delle presenze) e con questo fare delle previsioni di voto precise”.

 In realtà, i dati cui fa riferimento Pannella durante la conversazione con Bordin sono pubblicati non sul sito ma sul blog del Centro d’Ascolto per l’informazione Radiotelevisiva.

E i dati pubblicati sono impietosi. Rivelano infatti la diversità di trattamento delle varie forze politiche e la non democraticità del sistema che – come pure evidenziava Vincezo Vita qualche giorno fa su Il Manifesto – di par condicio non ha nulla.

Nei telegiornali RAI, infatti, di un miliardo e 763 milioni di ascolti, dal primo al 15 di aprile, con ben 316 milioni di ascolti consentiti il PD svetta con il 17,9% seguito a ruota, nella scaletta della dispar condicio, dal Movimento 5 Stelle e Beppe Grillo con 291 milioni di ascolti pari al 16,5% del totale. Beppe Grillo non ha da lamentarsi come presenze in TV.

Seguono poi il governo, nella sua compagine dei ministri e sottosegretari, che hanno avuto nei primi 15 giorni di aprile 269 milioni di ascolti pari al 15,3%. Con 251 milioni di ascolti, pari al 14,2% del totale, nella classifica degli ascolti consentiti durante i telegiornali c’è Forza Italia.

Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, lui da solo, ha totalizzato altri 134 milioni di ascolti pari al 7,6% del totale che lo collocano al 5° posto della classifica.

Seguono poi Lega Nord (62 milioni di ascolti, pari al 3,5%), Sinistra Ecologia e Libertà (56 milioni di ascolti, 3,2%), Nuovo Centro destra di Alfano (55 milioni di ascolti, 3,1%), Fratelli d’Italia è al decimo posto (45 milioni di ascolti, 2,5%).

Per ritrovare i Radicali nella classifica della non democrazia italiana o, se vogliamo, della dispar-condicio, bisogna scendere molto più in giù nella classifica, arrivare sotto Scelta civica (32 milioni di ascolti, 1,8%), dell’Unione di Centro (23 milioni di ascolti, 1,3%) e del Centro Democratico (9 milioni di ascolti, 0,5%), sotto ancora a La Destra di Storace e Futuro e Libertà, rispettivamente con 5 milioni di ascolti (0,3%). Al 20 posto della classifica, finalmente, ci sono i Radicali cui, dal 1 al 15 aprile, sono stati dati solo 50 secondi durante le edizioni più notturne e consentendo così solo a 4 milioni di cittadini (0,2% degli ascolti totali) di ascoltarne e giudicarne la proposta politica.

Per Marco Pannella, il sistema dell’informazione radiotelevisiva italiana è totalmente anti democratico e di regime: “Valgono, tranne eccezioni, lo stesso tipo di comportamenti, lo stesso tipo di esclusioni e lo stesso tipo di inclusioni, magari anche ossessive come quella di Renzi”.

Con il Centro d’Ascolto dell’informazione Radiotelevisiva, dice Pannella,

Siamo in grado di dare un apporto alla teorica delle analisi dei movimenti politico elettorali e, dal punto di vista istituzionale, può essere importante. E allora diciamo che è evidente, che in questi ultimi giorni c’è il problema di far avere il 4% ad Alfano. È pacifico, perché ormai si da che quando c’è quel bombardamento in tutte le reti, si riesce a valutare chiarissimamente come l’ascoltatore, molto spesso, se non ha voglia di Grillo o Renzi, se ha sentito le cose che quel giorno dicono, poi dice basta e cambia canale.

(…) Sappiamo il collegamento che c’è tra ascolti e dato elettorale. (…) Uno studio del Centro relativo agli ultimi due anni tra agli ascolti consentiti ed esiti elettorali”, dimostrerà il nesso che c’è tra le due cose, “così si finisce con la questione della rete-non rete. Non importa se la gente ha visto il telegiornale in rete o, invece, direttamente in TV.

(…) Oggi, io che guardo quelle cose, finisce che potrei dire che in questo momento si sta sicuramente cercando di fare stravincere quanto possibile il leader attuale dell’Italia, perché è così che si muovono lor signori. Poi, appunto, quelli che devono venire più o meno dopo. Il movimento cinque stelle che, dai dati del Centro d’ascolto, è quasi a pari grado con le forze di governo complessivamente.

Dopo varie elezioni che si fa questo lavoro (il confronto, cioè, tra ascolti consentiti alle diverse forse politiche e successivo dato elettorale, ndr) puoi cominciare a fare delle ipotesi sull’11ª che farai domani, su quello che può con qualche probabilità avere come conseguenza elettorale”.

Tutto questo, per Marco Pannella,

“Non viene mai fuori nei dibattiti, a meno che non ci sia una presenza Radicale”

Massimo Bordin, a questo punto, è costretto a riassumere:

Stanno pompando Alfano, che rischia di non superare la soglia del 4%, però – cosa che appare contraddittoria – stanno pompando molto anche i 5 Stelle che è anch’esso con una volata, non sulla soglia ampiamente superata nei sondaggi che lo danno largamente sopra al 20%, ma perché molto vicino a Berlusconi”. In pratica, “Renzi pompato perché Presidente del Consiglio (i potenti, quelli non si sa mai. Si pompano sempre. È la ragione sociale della Rai. Più singolare che lo faccia Mediaset)”.

 Per Marco Pannella:

Ciò che si vede è che Grillo da anni (prima del semestre che precede le elezioni 2013, ndr) – stava a una certa quantità d’ascolti. A un certo punto accade che tutte le televisioni, le principali testate, quelle che hanno milioni di ascolto, questo è importante, a un certo punto Grillo continua a non andare perché non ama i dibattiti, ma tutte queste televisioni vanno da Grillo. E poi che uso ne fanno? Pigliano i due minuti e mezzo oratoriamente più efficaci e li sparano lì. È indubbio. Perché se accadesse – dice ancora Pannella – che sparano lui perché lui va bene, guadagnano ascolti con lui, sarebbe assolutamente un criterio doveroso, ma il problema è un altro: se tu lo metti in un posto che sai già che c’hai 4milioni d’ascolto, evidentemente. E infatti la “sorpresa Grillo” è una sorpresa – per chi studiasse queste cose con un po’ di serietà – assolutamente ingiustificabile come “sorpresa”.

Perché se guardiamo che cosa è successo nei quattro mesi prima delle elezioni dal punto di vista posizioni a questo punto sappiamo come, in che ordine di grandezza, potranno arrivare i leader politici, e questo diventa fondamentale.

(…) Per esempio quando Renzi e diventato uno dei cinque candidati delle primarie del PD i suoi ascolti erano quelli che erano, nel senso anche della frequenza. Poi quello che diventa interessante e che corrisponde la quantità di ascolti che sono stati consentite agli italiani di sentire Renzi con la “sorpresa” Renzi così come corrisponde la “sorpresa” Grillo. E quando dico sorpresa dico “sorpresa” dico sempre tra virgolette”.

Perché, per Pannella,

C’è un rapporto fisso da questo punto di vista. Quando noi diciamo che sono vent’anni che il trattamento dei Radicali è identico, sia che noi abbiamo parlamentari sia che ci troviamo a livello istituzionale, attenzione, come “quelli” che ponevano l’urgenza del problema del debito pubblico quando ancora non era neanche divenuto tema del dibattito, … dopo un mese allo 0,3 siamo passati a zero di ascolti consentiti. Poi continuiamo a seguire il problema “fame nel mondo” e, su questo, vorrei dire che forse il Papà si è un po’ sbagliato. Oggi Lui ha parlato della fame, mentre invece sui prigionieri e sul diritto … il termine non è stato evocato. Ed è noto che noi abbiamo coinvolto i Papi, i Presidenti della Repubblica, premi Nobel in quell’evento e, torno a dire, da soli. (…) Si può documentare che noi siamo andati, semmai, un po’ meno del pochissimo nel quale andavamo prima che iniziassimo, dopo la fame nel mondo, questa campagna, diciamo, del debito pubblico. È venuto sempre più formandosi un convincimento: Questi qua non conviene farli parlare”.

Poi Pannella spiega, ancora una volta, la posizione dei Radicali che alle prossime elezioni europee non sono candidati:

Noi dobbiamo dare un contributo a noi stessi, ma a tutto il mondo, alla scienza, per analizzare quello che accade. … Sono 20-25 anni che pure sulle cose per le quali accadeva che coinvolgevamo l’opinione pubblica internazionale, spessissimo il Parlamento europeo, spessissimo le giurisdizioni internazionali come all’ONU, corrispondevano quelle nei momenti di ulteriore compressione della possibilità di essere ascoltati che abbiamo avuto.

Allora quando questo accade per venti o trent’anni di seguito, significa che in questo regime c’è una forza politica alla quale all’opinione pubblica non è consentito di giudicarla … Se la quantità di ascolti è zero, beh allora sei zero”.

Per chiarire il concetto Massimo Bordin ringrazia l’intervento dal web di un ascoltatore che segnala, addirittura, “una formulazione precisa degli ascolti consentiti” di cui si parla.

Una formula semplice, perfetta”, dice Massimo Bordin ironizzando, “tanto che la capisco perfino io”.

La formula suggerita dall’ascoltatore è la seguente:

“tempo di parola per utenza raggiunta uguale ascolti consentiti, che è poi”, aggiunge Bordin, “quello che dici tu, tradotto in formula”.

Per avvalorare le sue affermazioni sull’esclusione dai media dei Radicali, Pannella fa esplicito riferimento alle condanne della Rai e dell’Autorità di vigilanza ottenute in riparazione delle violazioni dei mancati tempi televisivi.

Da 20 anni abbiamo la dimostrazione, di condanne date dall’autorità di vigilanza, dalla magistratura amministrativa e via dicendo, proprio per il comportamento (della Rai, ndr) nei confronti, guarda caso, proprio dei Radicali”.

Bisogna ricordare a chi legge e non segue direttamente le vicende Radicali che, dopo una battaglia legale durata 3 anni, lo scorso 2 maggio 2013, proprio quando Marco compiva i suoi 83 anni, il TAR Lazio ordinava “perentoriamente” all’Agcom di adempiere entro 30 giorni, proprio per l’assenza dalle trasmissioni politiche, altrimenti avrebbe nominato un Commissario ad acta. L’Agcom non ha, com’era prevedibile, adempiuto, ma la cosa grave è che neanche il commissariamento c’è stato, per cui il Tar ha smentito sé stesso.

Ricorderò che gli ascolti consentiti di Emma Bonino: nell’ordine dei soggetti politici analizzati, Emma, mi pare, è la cento …, non la seconda, la decima o la ventesima. La centosessanta o centocinquantesima, ecco. E continua ad essere questo. Io, per quel che mi riguarda, batto persino Emma; vado cioè più sotto in ascolti consentiti”.

Suggerirei anche ai ricercatori, per non dire ai giornalisti, di documentarsi un tantino di più di queste costanti. Su che cosa non é stato consentito alla gente di farsi un’opinione?

Per Pannella, “oltre al debito pubblico anche su tutte le cose che il Papa oggi dice, il problema del terzo quarto mondo, la miseria e via dicendo, anche su queste nessuno mette in dubbio che noi abbiamo fatto molto. Dal Parlamento europeo ai 130 Nobel, dalle quantità di denaro che abbiamo fatto dedicare alla campagna precise sullo sterminio della fame del mondo. Ma venendo poi al finanziamento pubblico dei partiti. Oggi si torna a discutere, al rimproverarsi, ma il popolo italiano si è pronunciato 15 18 anni fa, con solo noi a sostenere il referendum.

E sono state cose plebiscitarie. .(…)

È indubbio che noi abbiamo avuto per vent’anni il monopolio del mettere questo al centro della realtà politica italiana istituzionale e appunto lì è dimostrato che in quei momenti non è che c’è stato il risultato di una nostra situazione privilegiata nella comunicazione. (…)

Il problema grave oggi qual’è?

È che dopo 20 25 anni noi riteniamo di poter proporre qualcosa che, adesso, non diciamo più solo noi: c’è una democrazia reale che si sta sostituendo alla democrazia.

Cioè l’anti democrazia, via via, continua a serbare, per essere più efficace, alcune forme liturgiche di tipo democratico. È quello che, oggi, possiamo appunto documentare e che in quei casi la stretta informativa si è confermata e non cessa ancora, adesso, quando passano messi a divenire, s’è possibile, ancora più sapiente.

È importante che ci sia una forza politica come la nostra che fornisca, prima che arrivi il corpo sul quale si fa l’autopsia, nel decorso della malattia antidemocratica, di indicare quotidianamente le motivazioni patologiche che si stanno sviluppando su questo corpo sociale e, non è un caso, lo ripeto, che tutte le forze politiche adesso per esempio (lo denuncino, ndr).

Noi abbiamo deciso che cosa? Che noi non vogliamo essere assenti quando ci sono elezioni truffaldine espressioni gravissime dell’anti-democrazia. E allora cosa facciamo?

Facciamo come magari adesso mi fa piacere per loro i verdi che possono senza raccogliere le firme andare alle elezioni?

E devo dire su questo ci sarebbe da fare qualche osservazione direi quasi un pochettino ironica sulla corte costituzionale. Perché lo stesso ufficio della corte costituzionale che, meno di un anno fa, a proposito dei referendum radicali praticamente non ha riconosciuto le firme che avevamo depositate. È lo stesso ufficio. Mi viene da sorridere … la Cassazione, come si sono espressi sui referendum e (sull’ammissione della lista dei Verdi) che il partito sia europeo.

Noi riteniamo più importante poter dare, scientificamente, informazioni sul corpo malato della democrazia, mano mano che lo individuiamo, lo illustriamo e lo documentiamo; sicché non bisogna aspettare come col nazismo, di avere l’autopsia del corpo morto di quello Stato.

Siccome ho sentito, per esempio, Bonelli dire, “Noi, verdi, con le grandi battaglie che stiamo facendo”. Io devo dire, sarò distratto, ma proprio queste grandi battaglie dei compagni verdi, semmai io posso immaginare le posizioni ecologiste, insomma dell’impronta ecologica, sulla quale radio radicale fa anche, ormai da un semestre, delle informazioni purtroppo quasi in regime di monopolio, perché su queste cose è noto … ah … oggi, per esempio, comincia a esserci (su giornali, ndr) la cosa che scoppia sull’adriatico e altrove sul “NO TRIV”. Siccome in Italia s’è sentito parlare solo i No Tav; i NO TRIV, sui quali sono interessati l’Eni, l’Agip, e tutto questo tipo di (aziende, ndr) ufficialmente, allora viene fuori che, adesso, possono essere prese in considerazione tesi scientifiche che venivano ignorate, che mettevano in rapporto, in alcune realtà territoriali, le estrazioni e il regime di estrazioni, anche in mare, e il favorire o rendere più gravi i fenomeni sismici. Ma su questo, noi abbiamo continuato e continuano a documentare, così a rendere più gravi, anche, le condizioni ambientali in rapporto ai tumori. Per quel che riguarda, in particolare in Basilicata, parliamo dei dati (scientifici) che si sono cercati di occultare …, su Taranto città anche e non veniva fuori, i Verdi non se ne erano accorti. Noi si. E adesso devo dire le stesse cose sulla Campania, Vesuvio e altre questioni, ma anche in connessione con, appunto, le attività estrattive. E adesso, questo, viene fuori in Abruzzo. Non sono io che me l’invento. C’è il dubbio, a livello ufficiale, e noi lo dicevamo. A questo punto è venuta fuori la notizia sorprendente: le autorità, lo Stato praticamente, constata che queste attività estrattive stanno creando seri problemi che, da una parte, addirittura per trent’anni, hanno inquinato le acque minerali d’Abruzzo e l’abbiamo scoperto adesso. Come dire, Bussi e d’intorni. Parlo di cose accertate. Ma adesso, invece, creano dei problemi, l’abbiamo letto sui giornali, e i comportamenti dello Stato, da questo punto di vista, sono quelli che sono e noi possiamo dire che abbiamo sicuramente sollecitato la giurisdizione internazionale e sovranazionale superiore, finalmente noi avremo in una di queste settimane giudizi sul Vesuvio, sui Campi Flegrei, e via dicendo, proprio da parte della giurisdizione europea (della CEDU) oltreché italiana. Nel senso che, sappiamo, è stata costituzionalizzata la sede CEDU ed è anche organo di giurisdizione superiore anche in Italia. E le battaglie, devo dire di Bolognetti, e anche più di recente in Calabria.

E poi devo anche dire, non bisogna dimenticare, non solo in Campania ma anche qui nel Lazio, dove tante storie si sentivano sui rifiuti, Malagrotta eccetera, e adesso mentre Massimiliano Iervolino che faceva anche libri, ma il silenzio anche degli intellettuali specifici non è stato mai molto soddisfacente. E quindi diciamo, allora, il non ignorare il fatto che, dopo venti o trent’anni di questo Regime, le componenti che, secondo tutte le giurisdizioni internazionali, consentono di riconoscere come elezioni democratiche e non elezioni di copertura, importantissimo delle dittature, l’abbiamo sempre ricordato che nelle dittature tradizionali non votare era reato, c’era l’obbligo di votare, in quelle democratiche andare a votare, a firmare, eccetera, è una facoltà e non un obbligo. E anche questo, mi pare, dobbiamo metterlo nel conto. Perché andare a presentarsi quando non ti presenti a niente, perché che mandi, il biglietto da visita a casa dei 40 o 35 milioni di elettori italiani?

Queste cose sono illusorie. Perché ogni volta, come dire, ma forse due o tre o quattro, forse riusciamo ad eleggerli. Per carità, magari ne avrà cento, Bonelli o Ingroia. In fondo lo stimolo maggiore è questa, comprensibile, speranza di entrare in organismi parlamentari. Poi che cosa, pochissimi eletti, servono? Beh, credo che nel Parlamento italiano o in quello europeo un po’ ovunque, anche gli avversari riconoscono che pochi elettori radicali comunque hanno una funzione e restano nella Storia di quegli organismi. Mentre altri no.

A questo punto, Massimo Bordin riassume:

In effetti, tutte queste cose che tu hai notato, tutti questi avvenimenti, che sono diversi: da un lato c’è la siderurgia, dall’altro le estrazioni petrolifere, però un minimo denominatore ce l’hanno. Ed è il rapporto, poco trasparente, fra imprese e istituzioni locali. Cioè a dire: sono le istituzioni locali a mettersi d’accordo con le imprese e a mettere a tacere alcuni aspetti sui controlli. Lì è evidente che c’è anche il ricatto occupazionale delle imprese …

 Pannella:

“Hai ragione Massimo. Va aggiunta una cosa: che all’interno dei partiti che poi sono quelli che diventano partiti regionali, provinciali eccetera, a monte, sui grossi problemi dei settori produttivi delle imprese eccetera, io per tre anni ho avuto una contrapposizione che non diveniva ufficiale, con la maggioranza degli analisti politici di ispirazione non certo Crociana o Liberale, operanti in Italia, ma per cercare di far riflettere se per caso, il terzo stato italiano come quantità anche, quindi non solo qualità, fosse determinato da i luoghi di produzione di forte presenza sindacale, in genere, vicina al metalmeccanico o, invece, se non in tutto il lavoro impiegatizio statale, parastatale provinciale e via dicendo, (…).

E … Bordin: i Radicali non si presentano, ma secondo loro per chi dovrei votare?

Pannella:

“Secondo noi, andare all’ammasso del voto, in queste condizioni pregiudicate strutturalmente quanto ad anti democraticità, il problema è quello: secondo vecchi schemi rivoluzionari di finanziare di armi quelli che non sono del regime. Oggi, invece, quello che abbiamo detto, e ripetuto adesso, di iscriversi al Partito Radicale così che noi che ci troviamo in una situazione che si aggraverà sempre di più, di ristrettezze gravi, totale, di mezzi, e se non ci presentiamo per nulla e, quindi, di conseguenza, non si avrà magari il rappresentante che sarebbe eletto, la situazione è tale che non solo non hai i quattrini del finanziamento pubblico, ma tutte le esenzioni di servizi che consentono un minimo di agibilità civile, non politica, vengono a mancare. … i Radicali hanno constatato, constatano e documentano, dopo vent’anni di polemiche e di smentite, che c’è da cogliere l’occasione di queste elezioni per far conoscere sempre di più, a studiosi e cittadini, che quello che loro sentono, “tanto è sempre la vecchia solfa”, “sono tutti uguali”, e via dicendo, ha un fondamento oggettivo. E che, quindi, queste elezioni sono la naturale estrema risorsa dell’anti-democrazia e del suo fallimento rispetto al credito che si fa agli ideali democratici. (…)

È indubbio che noi rischiamo di mettere fine a questa storia del Partito Radicale. Vent’anni di fascismo con le tecnologie di allora, quarant’anni, o cinquanta, di anti democrazia antifascista invece che fascista, producono disastri territoriali di tutti i tipi. Quelli per i quali l’Italia è davvero, comunque, su tutti i temi: ambiente, giustizia, è sempre o nei primissimi posti o negli ultimissimi posti, ogni volta che si pongono problemi di diritto, di diritti e, quindi, di correttezza istituzionale. … A questo punto, noi abbiamo un Presidente delle Repubblica che deve, probabilmente per prudenza doverosa ma costosa anche, sottostare a situazioni oggettivamente ricattatorie di questo nuovo astro italiano che c’abbiamo che, in sei mesi, da sindaco di Firenze viene plebiscitato come grande. Lui sta, almeno nelle televisioni ed ha ascolti complessivi da periodo franchista. Allora raggiungevano forse meno di un decimo di ascolti possibili di quelli che oggi riceve Renzi che abita costantemente a casa degli italiani. … All’improvviso Lui come candidato (alle primarie, ndr) è scattato ad essere il secondo in assoluto anche rispetto al Presidente del Consiglio che c’era. … Sta accadendo lo stesso, in realtà, per quelli che devono fare il 4%. C’hanno un’esperienza ormai e, quindi, noi diciamo che oggi noi dobbiamo prendere l’occasione di queste elezioni per cercare di cambiare qualcosa in Italia. (…)

Di Bolognetti (Maurizio, ndr) hanno acquisito lì (in Basilicata, ndr) una fiducia e una stima di tipo personale rispetto al loro conterraneo che da trent’anni loro conoscono; quando poi vedo che se lui va a Taranto, due anni fa ci è andato, e aveva già a Taranto compreso quale fosse la situazione che si stava sviluppando e la funzione del grande Nichi, il governatore di lì, rispetto ai proprietari dell’ILVA e del disastro assassino Tarantino perché di questo si tratta. Allora adesso io o anche un libro, l’ho già accennato, quello di Giuseppe Candido che sta per uscire, direi, su quel tipo di analisi radicale che quella, qui a Roma, di Massimiliano Iervolino ecc.

C’è quello di Bolognetti in Lucania e, appunto, questo di Giuseppe Candido importante, bello, anche per la Calabria. E a questo punto, torno a dire, bisogna cercare di chiarire, lo chiedo, perché la Bonino, la ministra degli esteri in Lucania arriva lei, lì dove la gente quando non l’ha mai vista gli da’ il 2% in più del plebiscito nazionale, e poi (alle regionali, ndr) ci sono 40 voti preferenziali su 40.000! Mi volete da’ una spiegazione? (…)

Radicali in altre liste? Quando Massimo Bordin chiede se c’è la possibilità che qualche radicale sia presente in qualche lista Pannella risponde:

“Mi pare che sarebbe logico! Perché corrisponde a quello che accadrebbe in molti partiti in casi numerosi. Io non credo che ci saranno casi numerosi ma credo che ce ne saranno di sicuro. … E so che significa, magari, poter essere letti, sappiamo l’importanza di essere nelle istituzioni perché sappiamo usarla non solo per sgovernarle o per fare quella politica che ci porta – in questi 40 cinquant’anni – nella situazione fallimentare del nostro territorio.

(…) È cosa automatica che, se non si verificasse poi se non con eccezioni che confermano la regola, sarebbe un’ulteriore dimostrazione del permanere della diversità radicale come diversità alternativa, socialmente, alle altre.

È naturale e di conseguenza, ho detto, se accadrà il modo eccezionale dimostra in modo positivo la diversità Radicale perché questi naturali istinti dovrebbero fare presenza ancor più evidente nella condizione della “fame” Radicale, concretamente delle difficoltà eccetera.

Quindi fornendo non sono più alibi ma più ragioni non da condividere magari ma ragioni. Però qui mi corre l’obbligo di dire noi una volta abbiamo avuto quando ancora in televisione qualche volta c’andavo una volta che abbiamo avuto 42.000 persone che si sono iscritti; allora mi pare costasse 200mila lire la tessera. …

Siamo molto attenti mi pare che oggi dobbiamo pur sapere che da radio radicale c’è il rischio di saturazione, … diventa un imbuto. Non c’è, attorno, la conoscenza di queste cose.

Io invece voglio credere che proprio questa nostra richiesta, questo nostro preannuncio, quello di fare una cosa più importante che, al limite, fare concorrenza Bonelli, Ingroia o altre cose del genere; e cioè fornire una forza anche di documentazione, che significa ricerca, e ci vuole tempo; perché ci vuole tempo in quanto non ci sono fondazioni che lavorino per noi per far sì che le nostre presenze sulle giurisdizioni internazionali e nazionali possono rappresentare un salto di qualità che faccia conoscere la forma di democrazia reale di adesso rispetto a quella di cinquant’anni fa.

Cioè di fare non, appunto, l’autopsia del corpo, ma fare l’anatomia e vedere quali sono i germi i virus che attaccano la salute e quali la difendono. E può avvenire appunto attraverso anche la sottovalutazione che si ha dell’importanza di riuscire.

(…) Era Loris fortuna che mi aveva colpito quando dicevano i radicali extraparlamentari e lui diceva testualmente: «Io non ho mai conosciuto una forza politica e culturale che abbia tanta capacità di occuparsi delle istituzioni, di nutrirle, di alimentarle, comunque, anche in termini critici di sostegno» e credo che, in effetti, questo ci rappresenti in modo positivo; se pensiamo poi anche le cose che convincevano, oltre a Loris Fortuna, anche Altiero Spinelli, per esempio, nei nostri confronti, ma che in questo momento (tornano d’attualità, ndr); ho detto che sono grato a Radio Radicale che credo l’abbia data due volte questa cosa singolare: vado a Monaco a ribadire, parlo in italiano agli uiguri, per ribadire la nostra posizione, quella del Dalai Lama e di Rebia Kader, in termini durissimi, chiarissimi e, mi pare, anche adesso stiamo vedendo essere accettata dai 50 rappresentanti che erano presenti a questo che era un loro consiglio nazionale e non già un congresso. L’elemento di afflato comune, di comprensione, è stato proprio quando dicevamo che dobbiamo aiutare la Cina a prendere più democratica la situazione anche degli Han oltre che di Pechino. …

Per Pannella, in Italia …

(…) Il processo di putrefazione di questi regimi non democratici che dal 1920, grosso modo con una breve pausa hanno governato il territorio italiano.

Abbiamo oggi un territorio che, in tutte le parti, parla in modo eloquente nel senso che esprime le situazioni patologiche che vengono solo da noi, magari, individuate per curarle mentre abbiamo comportamenti dei vari governatori che avvolte ci sembrano vecchi di quarant’anni. E devo dire c’è una cosa che mi pare importante: intanto questo fatto, veramente, di questa scorpacciata in posta di un uomo, non importa quale; da un mese, nei confronti di uno: il presidente del consiglio. Mentre dibattiti ci sono solo di quelli miseri o miserabili dibattitucci, di liti interne fra loro signori, cioè fra componenti di un’associazione che litigano enormemente. Ho sentito che viene la nostra vecchia osservazione, che avevo fatta già a proposito del peculato, ma abbiamo ridetto poi del falso in bilancio vengono oggi vi evidenziati come – anche tecnicamente – un crimine mentre era stato sostanzialmente depenalizzato di fatto.

Quello a cui assistiamo sono tipiche di chi di un direttivo di Associazioni. Non c’è mai una visione riformatrice che si contrappone. Come nel caso del voto di scambio sul quale c’è un dibattito scandaloso. Gli italiani assistono ad dissensi violenti costantemente come ne condomini votano contro ma governano e sgovernano assieme.

Riferendosi ai grillini, dice:

La partitocrazia ha capito che questi non sono pericolosi perché sul piano della protesta, della denuncia e anche dell’onestà che continua ad esserci dietro, ma non rappresentano un pericolo nella durata perché non sono propositivi. Perché non hanno un’idea del tipo di Stato, diciamo, anglosassone, europeo.

Ignorano i nessi e ci stanno, adesso, tra Stati vecchi all’anglosassone, come punto di riferimento, e il benessere sociale ufficiale anche spesso in buona parte tenendo presente le fasce più povere più umili.

(…) Una cosa mi ha colpito di Renzi: che essendo fiorentino e toscano, Toscana che ha sempre prodotto delle posizioni religiose e ti ha espressa nella storia da quelle savonaroliane a quelle di La Pira o cattolici-liberali o quelle che hanno portato la Toscana a essere una regione governata dal Pci e dai succedanei (…), non ho trovato nessuno tra quanti lo conoscono o hanno conosciuto che abbia detto: “aveva un periodo in cui era convinto …”. Mi pare una caratteristica: è uomo apparentemente agile perché non hai il peso delle convinzioni. La sua convinzione e che è possibile con abilità avere successo”.

Bordin: (…) In Vaticano c’è invece una formula: si trema e si trama.

Pannella: C’è una resistenza contro le riforme di Papa Francesco. (…) Lui non si rende conto che Giovanni Paolo II era andato in Parlamento perché aveva la saggezza per evitare che si accumulassero processi.

Lui non si rende evidentemente conto.

(…) Io dico che noi abbiamo al centro la mobilitazione dell’opinione se esistesse intellettuale dell’opinione conta ma diciamo dell’opinione dando fiducia nella gente comune ma so che a quelli noi non riusciamo in questo momento a corromperli con le nostre cose. Beh, la cosa di Emma Bonino e la cosa del parere del Presidente della Repubblica riuscirei a dirli in tre minuti; è quello che loro, adesso, non vogliono più aprirmi la possibilità di fare questo.

Però, … quello che è essenziale adesso e far udire, scrivere, l’essenziale delle cose che vengono negate in patente violazione del diritto italiano del diritto internazionale che connoti quindi in modo chiaro quello che, purtroppo, il Papa ritiene che sia già chiaro. Invece non è chiaro. (…)

Tendono a distrarre il problema del diritto e dei diritti che poi include quello penitenziario, ma se quello penitenziario non lo inquadri dicendo: guardate che tutti questi, alla fine con noi, adesso, riconoscono che è una misura strutturale che già costringe alla ri-forma. È un fatto che, di per sé è già riforma che non può più essere abbandonata. E questo è quello che non deve essere detto, è questo che non deve essere sentito. Magari preferiscono dibattere su Stefano Rodotà Presidente della Repubblica al posto di questo nostro. (…) Temo, però, che non potremo permettercelo alla lunga che li nostro territorio continui ad essere massacrato, con tutto il suo popolo, come lo è proprio perché un problema di diritto e di diritti negati che si traducono in morti ammazzati, tutto qua. Perché la percentuale, appunto, di malattie dovute, e in modo accelerato, al deterioramento delle possibilità di vita sui territori che noi abbiamo nel nostro Paese; è cosa che può avere l’eloquenza se, a un certo punto, qualche giornale di alta tiratura mostri le percentuali di tumori nei bambini. Queste sono le cose che dobbiamo fare ….

Assieme, aggiunge Massimo Bordin, a una campagna affinché tutti i territori che ne sono ancora sprovvisti, la Campania in primo luogo, si doti di un registro tumori regolarmente accreditato e che, periodicamente, rendano pubblici i dati di mortalità per ciascuna patologia oncologica.

Limk AIRTUM

1 Testo estrapolato dalla Conversazione settimanale di Massimo Bordin con Marco Pannella del 20.04.14 – Trascrizione a cura di Giuseppe Candido

Il link della conversazione settimanale integrale è il seguente: http://www.radioradicale.it/scheda/409096

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COREA DEL NORD: 80 PERSONE FUCILATE DAL REGIME

NESSUNO TOCCHI CAINO NEWS
Notizia dalla newsletter a cura di Nessuno Tocchi Caino – Anno 13 – n. 83 – 16-11-2013

11 novembre 2013: ottanta persone sono state giustiziate in pubblico nei primi giorni di novembre in Corea del Nord, in sette distinte località.

I capi d’imputazione: in qualche caso aver guardato video della televisione sudcoreana; in altri diffusione di materiale pornografico; prostituzione; anche il possesso di una Bibbia.
La notizia è stata diffusa dal Joong Ang Ilbo, un giornale conservatore di Seul. Il quotidiano cita informazioni raccolte tra i fuggiaschi nordcoreani.
Secondo queste voci l’esecuzione degli ottanta condannati è avvenuta in pubblico: nella città orientale di Wonsan, nella provincia di Kangwon, le autorità hanno radunato 10 mila spettatori, inclusi bambini, allo stadio Shinpoong, per la fucilazione di un gruppo di otto uomini e donne, avvenuta a raffiche di mitragliatrice azionate da soldati.
Parenti e amici dei giustiziati sarebbero stati inviati in campi di prigionia, un metodo che la Corea del Nord utilizza spesso per dissuadere chiunque dal violare la legge.
“Le notizie sulle esecuzioni pubbliche in tutto il Paese avranno un effetto raggelante sul resto della popolazione”, ha detto Daniel Pinkston, analista sulla Corea del Nord dell’International Crisis Group a Seoul. “Tutto ciò che queste persone vogliono è sopravvivere insieme alle proprie famiglie. Gli incentivi per non infrangere la legge sono molto chiari adesso.”

Per saperne di piu’:
http://www.huffingtonpost.com/2013/11/11/north-korea-public-execution_n_4252610.html

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L’amica Turchia, ovvero, quello che accadrebbe se l’UE aprisse gli occhi

di Carmelo Puglisi

Secoli fa – non a torto – v’era un certo timore quando i turchi erano alle porte. Ai tempi, esisteva ancora l’Impero Ottomano, uno dei più longevi e temuti imperi della storia, che svolse, forse indirettamente, anche un ruolo positivo, in ambito economico e culturale, fungendo da collegamento fra Europa ed Oriente, almeno fin quando non vi furono le prime scoperte geografiche che ridimensionarono il Mediterraneo e gli scambi che lì avvenivano, facendogli svolgere un ruolo relativamente secondario. Ma questa è storia.

Oggi, con questo lontano passato, esistono ancora delle analogie, e permangono preoccupanti discriminazioni, in gran parte ingiustificate.

Da decenni, la Turchia ha chiesto di poter entrare a far parte dell’Unione Europea, senz’ancora essere stata ammessa.
In precedenza, l’UE mise dei paletti e pose dei problemi assolutamente puntuali e legittimi per consentire l’accesso alla Turchia, e quest’ultima, specialmente negli ultimi tempi, ha fatto dei passi da gigante a livello di riforme e democrazia, proprio grazie alla spinta propulsiva che deriva dalla possibilità di entrare in quell’Unione Europea che oggi barcolla, scossa dalla crisi economica e non solo.

Poi è successo qualcosa. L’ingresso della Turchia sembrava imminente, ma il processo ha subito di colpo un rapido arresto. Forse, chi nei confronti di questo Paese nutre dei timori e pregiudizi, dovuti principalmente all’avversione verso la religione islamica, vedendo che effettivamente la Turchia si stava impegnando a fondo per adattarsi ai requisiti che l’UE aveva imposto, ha tirato il freno a mano; una mossa che ha prodotto diversi effetti negativi.

Infatti, qualora l’UE chiudesse definitivamente la porta in faccia alla Turchia, i successi e i passi avanti fatti negli ultimi anni, rischiano di essere vanificati completamente. Certo, la Turchia ha ancora da lavorare, come ad esempio riconoscere una volta per tutte il genocidio degli armeni, ma non deve assolutamente cadere vittima dei pregiudizi di qualche politico bigotto seduto ai posti di comando.

L’ingresso della Turchia all’interno dell’UE gioverebbe a tutti, e non solo da un punto di vista economico. Nonostante la crisi degli ultimi anni, la Turchia continua a chiedere con convinzione ed interesse di essere ammessa nell’UE, e sarebbe un errore impedire ciò, senza addurre valide motivazioni, che devono naturalmente andare oltre quelle geografiche, che non reggono più, visto l’ingresso consentito a Paesi come Cipro e Bulgaria.

Tuttavia, il tempo scorre. Dopo decenni di attesa, la Turchia ha posto come limite il 2023. Se entro quell’anno, per vari motivi, l’UE non le consentirà l’ingresso, la Turchia rimarrà definitivamente fuori.

Sarebbe uno sbaglio. Vorrebbe dire tirare una linea sulla cartina geografica, e se questo fosse dovuto al fatto che la religione maggiormente diffusa in Turchia è quella islamica, sarebbe ancora peggio. L’Unione Europea non ha, nei requisiti di ammissione, quello di dover professare in larga maggioranza una religione o un’altra.

Se invece qualche politico incravattato guarda ancora alla moderna Turchia come molti guardavano all’Impero Ottomano di un tempo, allora farebbe meglio a girare le lancette del suo orologio e mettersi al passo coi tempi.

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L’ipocrisia in Italia

di Maria Elisabetta Curtosi

Riporto di seguito una delle tante lettere che scrisse Indro Monntanelli lettera al suo amico e collega Edmund Stevens (1953):

L’ipocrisia in Italia è dettata dal senso dell’«opportuno». È spicciola, pratica e utilitaria. Quando un italiano vuol cambiare partito, non fa un esame di coscienza; si limita a un calcolo di convenienza. Una cinquantina d’anni fa, a Capri, una ricca famiglia inglese si mise in testa di convertire gli abitanti al protestantesimo. E in un certo senso ci riuscì perché tutti i neofiti avevano diritto a mangiare gratis. Ma a un certo punto scoperse che ogni domenica andavano a confessarsi da un prete cattolico che aveva dato loro il permesso. Frattanto i missionari erano caduti completamente in miseria, perché i loro seguaci di fede ne avevano poca, ma di appetito molto. E allora furono gl’«ipocriti» che mantennero loro senza punto domandargli in cambio la conversione al cattolicismo.

No, una vera e propria ipocrisia in Italia non c’è; ma non c’è per la ragione molto semplice, e poco nobile, che gl’italiani non hanno un Ideale. Essi accettano sé stessi. Non si sforzano di essere diversi e migliori di ciò che sono. In America l’ipocrisia nasce da questo tentativo. La donna americana che, prima di fare l’amore con un uomo che non è suo marito, beve, un po’ per stimolare con l’alcol i suoi desideri, ma soprattutto per poter credere l’indomani di aver agito senza il controllo della coscienza, certo è un’ipocrita; ma lo è perché ha nell’animo un’idea di onestà e di pulizia da preservare contro le proprie debolezze. Ricordo la mia indignata sorpresa quando, all’indomani della mia prima esperienza erotica americana, mi vidi trattato con estrema freddezza dalla mia compagna che si rifiutò di parlarne. Ero furioso. Da buon italiano, mi sembrava offensivo e ignobile che una donna avesse dimenticato o provasse disgusto per una notte d’amore con me. E non riuscii a perdonarglielo.

(1) Indro Montanelli, (Fucecchio 1909 – Milano 2001) giornalista. Laureato in Legge e Scienze politiche, inviato speciale del “Corriere della Sera”, fondatore del “Giornale nuovo” nel 1974 e della “Voce” nel 1994, è tornato nel 1995 al “Corriere” come editorialista. Ha scritto migliaia di articoli e oltre cinquanta libri fra i quali ricordiamo: XX Battaglione eritreo, I cento giorni della Finlandia, Qui non riposano,Le stanze, L’Italia del Novecento (con Mario Cervi), La stecca del coro, L’Italia del Millennio (con Mario Cervi), Le nuove stanze.

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Le regole del consumismo

di Maria Elisabetta Curtosi

E’ evidente che siamo giunti a un punto di svolta nella “guerra economica” mondiale, almeno per quanto rigurada la sostenibilità.

Fresca è la notizia che le aziende diventano sempre più “responsabili”, infatti da un po’ di tempo sentiamo parlare di corporate social responsability (Csr) appunto. Ovvero le piccole e medie imprese  non dovranno  essere solo ossessionati dalla ricerca di profitti in tempi sempre più brevi, spinti dal capitale finzanziario e che finiscono per rispondere sempre meno a domande sociali reali  e sempre più ubbidiscono ai propri imperativi di crescita infinita ma dovranno considerare l’impatto sociale e ambientale; sarà un’importante responsabilità.

Nel 2011 il 68% delle imprese prevede di aumentare i propri investimenti in sostenibilità in quanto si considera imprescindibile il legame tra i risultati economici e l’impegno per quest’ultima. Inoltre l’ Adnkronos ci informa che <<Da un’indagine svolta su 200 aziende, dall’Economist Intelligence Unit e commissionata da Enel, l’87% dei manager ritiene che la responsabilità sociale di un’azienda rappresenterà un fattore ancora più importante e strategico nei prossimi tre anni.>>

Siamo in un momento storico in cui il consumismo è alla base della nostra vita sociale, ne detta le regole. Ma ancor più chiaro e fulmineo  risulta l’intervento del Professore di Storia Contemporanea dell’Università La Sapienza, Piero Bevilacqua a delineare un processo sempre più allarmante:  << Si continua a seguire una logica di accumulazione in una fase storica dello sviluppo capitalistico in cui occorrerebbe attivare una logica della distribuzione: distribuzione di risorse, di beni, di lavoro, di cultura. Si continua a seguire una logica dell’accrescimento quando la possibilità di migliorare le nostre condizioni di vita è palesemente legata a una logica della diminuzione: meno ore di lavoro, meno merci, meno dissipazione di risorse naturali e di energia, meno consumo, meno velocità, meno fretta >>.

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In missione per conto di Caino. Intervista all’On. Sergio D’Elia, segretario di Nessuno Tocchi Caino

di Giuseppe Candido

“La pena capitale è un “ferro vecchio” della storia. Le vie per l’abolizione sono infinite”

L’associazione che da anni lotta per l’abolizione della pena di morte nel mondo presenta il suo rapporto annuale.

4 agosto 2012 – Titolare dell’iniziativa all’ONU nel dicembre 2007 che portò all’approvazione della moratoria universale della pena di morte, lo scorso 3 agosto, presso la sede di Via di Torre Argentina a Roma, l’associazione Nessuno Tocchi Caino ha presentato il rapporto annuale sull’abolizione della pena di morte nel mondo. Oltre al Ministro per gli Affari Esteri, Giuliomaria Terzi di Sant’Agata, erano presenti numerosi ambasciatori: Finlandia, Svezia ma anche Turchia, Romania e Benin.

Il Rapporto 2012 – curato anche quest’anno dall’On. Elisabetta Zamparutti ed edito da Reality Book con la prefazione dello stesso Sergio D’Elia – conferma un’evoluzione positiva verso l’abolizione con 155 Paesi che hanno deciso di abolirla per legge o in pratica (i Paesi totalmente abolizionisti sono 99; gli abolizionisti per crimini ordinari sono 7; quelli che attuano una moratoria delle esecuzioni sono 5; i Paesi abolizionisti di fatto, che non eseguono sentenze capitali da oltre dieci anni o che si sono impegnati internazionalmente ad abolire la pena di morte, sono 44) mentre i Paesi mantenitori sono saliti a 43 rispetto ai 42 del 2010 sol perché il Sudan del Sud, divenuto indipendente dal Sudan nel luglio del 2011 ha mantenuto la pena di morte. Nel 2011 sono inoltre diminuiti i Paesi che hanno fatto ricorso alle esecuzioni capitali: 19 rispetto ai 22 del 2010 e sono diminuite le stesse esecuzioni, almeno 5.000 nel 2011, a fronte delle almeno 5.946 del 2010, fondamentalmente per il significativo calo delle esecuzioni in Cina che sono passate dalle circa 5.000 del 2010 alle circa 4.000 del 2011. La Cina è la prima sul triste podio dei paesi “esecuzionisti”, seguita dall’Iran, con almeno 676, un aumento spaventoso rispetto alle 546 del 2010 e dall’Arabia Saudita che con almeno 82 esecuzioni ha addirittura triplicato quelle compiute l’anno precedente. Dal rapporto si apprende che “i paesi totalitari ed illiberali sono responsabili del 99% del totale mondiale delle esecuzioni, mentre quelli democratici dell’1% con gli Stati Uniti che ne hanno compiute 43 nel 2011 (un dato che conferma il calo delle esecuzioni in corso da anni in America) e Taiwan 5. In controtendenza il Giappone che invece nel 2012 ne ha già eseguite 5”.

Sergio D'Elia, segretario di Nessuno Tocchi Caino
Sergio D’Elia, segretario di Nessuno Tocchi Caino

Abbiamo raggiunto Sergio D’Elia telefonicamente per avere dettagliate informazioni sulle novità che emergono dal rapporto e per fare il punto sulla lotta per l’abolizione della pena di morte nel mondo.

D: Onorevole D’Elia, lo scorso 3 agosto è stato presentato il Rapporto annuale di Nessuno Tocchi Caino sulla pena di morte. Quali sono le novità più importanti e qual’è la prospettiva futura per l’abolizione della pena di morte del mondo?

R: In primo luogo si conferma una tendenza, ormai irreversibile, verso l’abolizione della pena di morte che, ormai, è divenuta un “ferro vecchio” della Storia dell’umanità di cui, però, bisogna ancora definitivamente liberarsi come ci si è liberati dalla tortura, dalla schiavitù e da altri strumenti mortiferi. Sicuramente abbiamo svolto un’opera che ci ha consentito, in questi diciannove anni dalla nascita nel ’93 di Nessuno Tocchi Caino, di far abolire, attraverso le iniziative intraprese paese per paese ma, soprattutto, attraverso l’iniziativa in sede delle Nazioni Unite all’Assemblea Generale dell’ONU che ha portato alla moratoria. Quando abbiamo iniziato, nel ’93, erano 97 i Paesi membri dell’Assemblea che ancora mantenevano la pena di morte. Ora ne abbiamo 56 in meno di quei 97 paesi. La risoluzione (dell’ONU, ndr) è stata una pietra miliare.

D: Nel dicembre del 2007 è stata votata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite la moratoria sulle esecuzioni capitali. Una battaglia che ha visto Nessuno Tocchi Caino affianco al Governo italiano. Cosa è cambiato da allora?

R: La moratoria è stata sostenuta da una coalizione mondiale di Paesi abolizionisti rappresentativi un po’ di tutti i continenti ma guidata, innanzitutto, dal Governo italiano che ha avuto un ruolo fondamentale e con il quale, da almeno 20 anni, siamo stati partner per questa battaglia.

La situazione oggi è quella di dover dare attuazione concreta a quella Risoluzione in una quarantina di paesi (sono ancora 41 Paesi rimangono ancora mantenitori della pena di morte). Di questi, però, solo una metà di essi ancora, ogni anno, chi più chi meno, pratica la pena di morte. E per porre definitivamente fine allo Stato che uccide, allo “Stato Caino”, occorre che, soprattutto i Paesi che hanno sostenuto all’ONU la risoluzione sulla moratoria universale delle esecuzioni capitali, si impegnino concretamente affinché sia rispettata ovunque. Io dico che le vie per l’abolizione della pena di morte sono infinite. Noi le abbiamo praticate tutte e continuiamo a farlo: la via parlamentare, la via dell’opinione pubblica nazionale, la via della comunità internazionale, ma anche la via, veloce e concreta, della “non collaborazione” da parte dei paesi che hanno abolito la pena di morte, alla pratica della pena di morte nei paesi in cui ancora vige.

D: In che senso “non collaborazione”?

R: Faccio un esempio: nel giro di un mese, un annetto fa, l’Italia – campione mondiale per la lotta all’abolizione della pena di morte, che l’ha abolita nel ’47 dalla propria Costituzione, che si rifiuta di estradare chi rischia la pena di morte verso i paesi che ancora la mantengono – rischiava essa stessa di essere complice dei paesi che ancora la praticano. La via della non collaborazione l’abbiamo attuata un anno fa impedendo ad una filiale italiana di una multi nazionale farmaceutica di produrre in Italia il penthotal che era destinato per gli Stati Uniti. Lo abbiamo fatto con iniziative parlamentari, con manifestazioni, conferenze stampa. Quello è stato un passaggio cruciale perché sulla scia della prima anche altre società multinazionali hanno preso la decisione di non consegnare più il penthotal né il penthopartital che intanto aveva sostituito il primo nelle carceri americane. Addirittura è accaduto che il Vietnam, che è passato dal plotone d’esecuzione all’iniezione letale appena un anno fa, in quest’anno non ha giustiziato nessuno perché non è riuscito a procurarsi, sul mercato internazionale, le sostanze letali necessarie a poter praticare la pena di morte. E quindi questa è una strada. Un’altra strada l’ha intrapresa un’altra organizzazione che si chiama “Uniti contro l’Iran nucleare”, un’organizzazione che si occupa soprattutto di contrastare il rischio che il regime dei Mullah possa dotarsi dell’arma nucleare, ma che è diventata anche un associazione che si batte contro la pena di morte e che ha fatto un’interessante campagna che ha cominciato a dare i suoi frutti. Cioè quella denominata campagna delle gru che, in Iran, sono diventate lo strumento usato per praticare le impiccagioni. Loro (gli attivisti, ndr) hanno ottenuto che tre società giapponesi multinazionali, che vendono gru in tutto il mondo, hanno deciso di scindere tutti i contratti commerciali con l’Iran proprio perché hanno verificato che le loro gru venivano utilizzate per fare le impiccagioni. Insomma, queste sono altre strade che si possono percorrere, come quella sul penthotal che abbiamo percorso in prima persona noi, che ha causato in alcuni stati americani il rinvio delle esecuzioni e, alcuni stati, addirittura sono arrivati all’abolizione della pena di morte anche per questo. Il prossimo autunno, in novembre, si voterà in California un referendum per abolire la pena di morte. Certo, questo non soltanto per problemi legati alla carenza dei farmaci letali ma anche perché la California ha verificato che condannare a morte, tenere nel braccio della morte 10-15-20 anni un detenuto prima di giustiziarlo, costa molto di più che tenerlo in carcere anche tutta la vita. E quindi stanno adesso discutendo con un referendum se abolire la pena di morte, anche in base a questi dati economici. Pragmaticamente americano come ragionamento, però. Loro sono particolarmente rigorosi sui bilanci statali. Hanno verificato che il bilancio della Giustizia penale, proprio per il mantenimento della pena di morte, costa tantissimo e quindi vogliono rientrare nei calcoli dei loro bilanci anche eliminando questa pena. Poi ci sono le prese di posizione dei parenti delle vittime che, piuttosto che spendere tanto (ci sono cifre altissime soprattutto in Stati come il Texas) per mandare, una o due volte l’anno, qualcuno a morire, chiedono di utilizzare meglio quei fondi per investigare e risolvere quei crimini e quei reati che rimangono insoluti e di cui non si conosce il colpevole. E sono i parenti delle vittime, oltre agli investigatori e i dipartimenti di polizia, che fanno questa proposta. Diciamo che si sta muovendo moltissimo anche in Paesi un tempo prettamente sciatte ad istanze umanitarie come la Cina.

D: Dopo la battaglia per la moratoria delle esecuzioni capitali, oggi ha ancora senso sostenere in questa “missione per conto di Dio e di Caino”, l’associazione che tu guidi da oltre dieci anni?

R: Beh, io dico sempre che Nessuno Tocchi Caino è una sorta di società per azioni. Mutuando questo termine dall’ambito economico finanziario, è letteralmente così. Nel senso che l’iscriversi a Nessuno Tocchi Caino equivale a sottoscrivere l’azione di una società, in questo caso di un’associazione radicale; chi contribuisce direttamente acquista una quota, la propria, di un impegno, di un’opera e di un’iniziativa che poi ritorna in termini di “guadagno” – tra virgolette – perché ritroviamo un mondo più giusto, più umano. Un mondo dove, finalmente, ci possiamo liberare di questo anacronismo della Storia che è la pena capitale.

Per approfondire (dalla Newsletter di NTC, Anno XII n°56 del 4 agosto 2012)

LE PROSPETTIVE DELLA CAMPAGNA DI NESSUNO TOCCHI CAINO

L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite tornerà a votare nel dicembre 2012 una nuova Risoluzione a favore di una Moratoria sull’uso della pena di morte e Nessuno tocchi Caino è impegnata su due fronti di iniziativa a sostegno della Risoluzione.

Il primo è aumentare il numero dei Paesi cosponsor e dei voti a favore della Risoluzione. A tal fine, con il supporto del Ministero degli Affari Esteri italiano, Nessuno tocchi Caino ha previsto di compiere nei prossimi mesi missioni in Africa in 4 Paesi – Zimbabwe, Ciad, Repubblica Centroafricana e Swaziland – dove negli anni più recenti sono stati compiuti passi significativi verso l’abolizione della pena di morte.

Il secondo fronte è rafforzare il testo della nuova Risoluzione con due richieste fondamentali da rivolgere esplicitamente ai Paesi che praticano ancora la pena capitale. La prima richiesta è di abolire i “segreti di Stato” sulla pena di morte, perché molti Paesi, per lo più autoritari, non forniscono informazioni sulla sua applicazione, e la mancanza di informazione dell’opinione pubblica è anche causa diretta di un maggior numero di esecuzioni. E’ il caso, ad esempio, di Cina, Iran e Arabia Saudita, che non a caso risultano essere tra i primi Paesi-boia al mondo. La seconda richiesta è di limitare ai “reati più gravi” l’applicazione della pena di morte e di abolire la sua previsione obbligatoria per certi tipi di reato.

Infine, Nessuno tocchi Caino propone che la nuova Risoluzione chieda al Segretario Generale dell’ONU di istituire la figura di un Inviato Speciale: non solo di monitorare la situazione ed esigere una maggiore trasparenza e limiti più restrittivi nel sistema della pena capitale, ma anche di continuare a persuadere chi ancora la pratica ad adottare la linea stabilita dalle Nazioni Unite: “moratoria delle esecuzioni, in vista dell’abolizione definitiva della pena di morte”.

L’audio dell’intervista

(Ci scusiamo per la scarsa qualità della registrazione telefonica e per i pochi ma pur presenti “disturbi di fondo” che, ahi noi, non siamo riusciti a rimuovere per scarsa padronanza degli strumenti di elaborazione audio)

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Cibo, cultura, evoluzione: la straordinaria storia del pane

di Francesco Santopolo

Premessa

La storia proposta in queste note non ha inteso seguire l’intero percorso di un cibo che ha accompagnato l’uomo nel suo cammino ma si ferma nel punto in cui la panificazione inizia a presentare una sostanziale omologazione di processo, fatta eccezione per alcune differenze che ancora resistono in varie parti del mondo, conservando specificità ascrivibili alla storia dell’uomo, dei luoghi in cui vive e delle risorse di cui dispone.

Per l’Europa, questo momento si può far coincidere con il Medioevo, quando la tecnica panificatoria è già definita nelle sue linee essenziali, pur facendo registrare adattamenti tecnologici in età moderna e contemporanea. È parere di chi scrive che la tecnologia, nel passaggio da una manifattura artigianale ad una manifattura industriale, non abbia modificato il processo ma si sia limitata ad imprimervi un’accelerazione e ad introdurre sistemi di controllo, a partire dal momento in cui le biotecnologie sono passate dall’applicazione affidata a metodi e tradizioni della cultura popolare (Pre- Pasteur Era), a quella legata alle scoperte di Pasteur sui microbi come agenti attivi della fermentazione (Pasteur Era) e alla scoperta degli antibiotici (Antibiotic Era).

In sostanza, poiché in molti passaggi il lavoro umano è stato sostituito dalle macchine, sono cambiati gli “attori” del processo ma questo è rimasto sostanzialmente invariato, salvo la perdita di alcuni caratteri organolettici che solo la manualità può conferire al prodotto.

Cibo come cultura

Sebbene si tenda a relegare l’alimentazione e il cibo nell’ambito ristretto delle esigenze fisiologiche, non v’è dubbio che essi rappresentino un punto di osservazione privilegiato, tanto per etnologi e antropologi, quanto per gli storici. Questo perché, le relazioni tra cibo, modo di procurarselo e modo di consumarlo, sono in stretta connessione con le risorse dei luoghi abitati dagli uomini, dei rapporti sociali, della cultura e degli atteggiamenti mentali di ogni popolazione e rappresentano uno dei tratti evolutivi che hanno accompagnato l’uomo nel suo cammino.

Facciamo un esempio estremo: le larve del Punteruolo rosso, che preoccupano il nord del mondo perché considerate una minaccia per la sopravvivenza delle palme, per alcuni popoli della Papua Nuova Guinea rappresentano una fonte importante di ferro e zinco e soddisfano fino al 30% del loro fabbisogno proteico (Martin et al., 2000).

Non è per caso che Claude Lévi-Strauss abbia “costruito” la sua Mitologica sul cibo e sulle connessioni tra questo e le altre funzioni vitali (espellere, fecondare, riprodursi) e che storici e antropologi abbiano fornito testimonianze importanti su queste interconnessioni e su come e perché la storia dell’alimentazione può essere “un buon punto di osservazione per ricostruire le condizioni di vita della popolazione e verificare l’incidenza concreta, quotidiana, che una certa struttura economico- sociale ebbe sulla vita degli uomini. A patto, s’intende, di non considerare il tema del consumo alimentare in modo aneddotico ma di coglierlo nella dimensione sociale- come a dire, storica- che gli è propria” (Montanari, 2004).

Res non naturalis definirono il cibo medici e filosofi antichi, a cominciare da Ippocrate, includendolo fra i fattori della vita che non appartengono all’ordine «naturale», bensì a quello «artificiale» delle cose. Ovvero, alla cultura che l’uomo stesso costruisce e gestisce” (Montanari, 2004). Il cibo è cultura quando si produce, è cultura quando si trasforma, è cultura quando si consuma e questi atti, considerati singolarmente o come insieme, riflettono i valori di riferimento di un popolo e ne tracciano la storia.

Una storia che parte da lontano

Tra 3,7 (Tobias) e 5 milioni di anni fa (Jhoanson e White), dalle prime scimmie antropomorfe, comparse verso la fine dell’Era Terziaria, emergerà il genere Homo. Punto di partenza di questa fase evolutiva era stato il Ramapithecus che si era evoluto nell’Australopithecus afarensis.

A tre milioni di anni si genera un “cespuglio” genetico: gli Australopiteci vanno ad imbucarsi in due “nicchie” senza sbocco: da una parte A. africanus e A. robustus, dall’altra A. aethiopicus e A. boisei. Sul terzo ramo si colloca l’Homo habilis, seguito dall’Homo erectus e dall’Homo sapiens e, infine, dall’Homo sapiens sapiens che dovrebbe identificarsi con il nostro stadio evolutivo, salvo, ovviamente, alcune debite eccezioni che si muovono nel segno della regressione. Le ricerche e i ritrovamenti fossili non consentono ancora di stabilire con precisione come e perché sia avvenuto il passaggio dal Ramapithecus agli Austrolopiteci e alla specie Homo.(R. Leackey et al. 1979) ma sono state trovate sufficienti tracce per seguire l’evoluzione dell’Homo erectus, tra l’altro ricostruite magistralmente da Roy Lewis (1992) nel romanzo “Il più grande uomo scimmia del Pleistocene”.

Protagonisti del romanzo di Lewis, sono Edward e la sua famiglia.

Edward è il prototipo della ricerca evolutiva. Arriverà ad “inventare” il fuoco, semplicemente trasportandolo all’accampamento con un ramo acceso alla fiamma di un vulcano in eruzione, “fonderà” il matrimonio esogamico, la politica e la retorica. Accanto ad Edward troviamo altri due prototipi: il reazionario zio Vania che rifiuta l’innovazione e sceglie di continuare a vivere sugli alberi e il fratello Ian, tornato da un viaggio in Francia, Cina, India e Arabia e in procinto di ripartire per l’America (Lewis, l. c.). L’immaginazione letteraria di Lewis si basa su un dato accertato.

Circa un milione di anni fa, l’Homo erectus cominciò la sua lunga marcia spostandosi dall’Africa all’Asia e poi in Europa, mosso da una spinta evolutiva che lo porterà ad esplorare nuovi spazi e a sperimentare le proprie capacità di adattamento e acquisire nuovi caratteri (Leackey et al., l. c.)

Questa non è la sola eredità che ha lasciato il nostro antenato. Questo ominide aveva anche iniziato ad osservare la natura e ad utilizzarne i prodotti spontanei. Scoprì i cereali, cominciò a nutrirsene e, presumibilmente, dopo averne consumato per molto tempo i semi crudi che inumidiva nella bocca, iniziò a frantumarli fra due pietre e a bagnarli per renderne più agevole la masticazione.

Ma la fantasia dell’Homo erectus non si fermò al semplice rudimentale impasto e, casualmente, imparò che posto a riposare su una pietra esposta al sole, acquistava un sapore particolare.

Con la scoperta del fuoco imparò a cuocerlo regolarmente, come già aveva iniziato a fare con la carne degli animali abbattuti. Senza entrare nella controversia tra natura e cultura, possiamo convenire che il passaggio dal crudo al cotto rappresenta “il momento costitutivo e fondante della civiltà umana”(Montanari, l. c.). E non c’è alcuna contraddizione se con Il crudo e il cotto (1974) Lévi-Strauss fa emergere una contrapposizione tra stato di natura e stato di cultura e con Dal miele alle ceneri (1970) compie una svolta e mette in relazione un cibo già pronto (il miele) con uno che deve essere bruciato (il tabacco) perché questo “non toglie che nella rappresentazione simbolica che gli uomini hanno storicamente dato di sé, il dominio del fuoco e la cottura degli alimenti siano stati percepiti come il principale elemento di costruzione dell’identità umana e di evoluzione dallo stato «selvatico» alla «civilizzazione»”(Montanari, l. c.). L’uomo è il solo animale che “costruisce” il proprio cibo e anche quando si nutre di prodotti naturali tal quali, lo fa “preparandoli” (verdure condite con altri ingredienti) per renderli più nutrienti o appetibili o, semplicemente, per ostentare uno status (macedonie, dolci). Dalle prime esperienze dell’Homo erectus, la storia dell’uomo e del pane riparte con la scoperta e la successiva domesticazione dei cereali, processo che ha segnato il passaggio da una società di cacciatori- raccoglitori nomadi ad una società stanziale dedita all’agricoltura. Si può tentare di dare un senso a questo mistero evolutivo, ricostruendo per sommi capi la nascita dell’agricoltura che la maggior parte degli studiosi fissa a circa 8-9000 anni a. C. (Anderlini, 1981; McKibben, 1989; Leakey et al., 1979 e 1980), mentre per altri si sposta di qualche migliaio di anni (Bairoch, 1999, vol. I; Diamond, 2006). La differente datazione è legata a problemi di metodo (1) ma, in linea di massima, uno scostamento di mille- duemila anni in un tempo così lungo, non infirma la possibilità di tentare un esame comparato che ricostruisca il rapporto e il complesso di relazioni che l’uomo riesce a stabilire con l’ambiente e con gli altri organismi viventi con i quali divide spazio e risorse trofiche.

Questa ricostruzione deve necessariamente partire dalla scoperta dell’agricoltura, momento che si fa convenzionalmente coincidere con la fine della preistoria.

McCorriston e Hole (1991) sostengono che l’agricoltura sarebbe comparsa tra gli 80 e i 150 km dal Mar Morto attorno a 10.000 anni fa, ossia -8.500/-8.000 nel Medio Oriente, -6.000/-5.000 nell’Asia propriamente detta, – 5.000 in Africa, -7.000/-6.500 nelle Americhe -6000/-6500 in Europa (Bairoch, l. c.). Questo processo potrebbe aver seguito due vie: scoperta spontanea e diffusionismo.

Nonostante le discussioni che ancora affascinano alcuni ricercatori, crediamo che le due ipotesi coesistano, piuttosto che collidere. In Italia, per esempio il modello fu portato da immigrati che provenivano dall’oriente nel 5500 a. C. circa (Rossini et al., 1987) ma in zone del mondo lontane tra loro si hanno quasi contemporaneamente segni dell’inizio di un processo che doveva cambiare il modello di vita dell’uomo. Tracce sono state trovate alle foci dell’Indo, nella penisola di Shantung, tra Pechino e Nanchino, alle foci del Fiume Giallo (Leakey et al., 1979). Tuttavia, quando si dice che l’agricoltura si affermò nella Mezzaluna fertile, si intende che qui ebbe un carattere di continuità mentre in altre zone subì vicende alterne, come in Mesoamerica dove si tornò più volte all’economia di caccia e pesca e l’agricoltura, pur essendo comparsa da circa 10.000 anni, dovette aspettare 6-7.000 anni per diventare un modello stabile, con la coltivazione di mais, zucche e fagioli (Leakey et al., l. c.).

Il nuovo modello doveva determinare altri cambiamenti. Primo, fra tutti, la crescita demografica.

Si stima che, fino al 12- 10.000 a. C., nel mondo si contassero poco meno di un milione di abitanti e solo dalla rivoluzione neolitica in avanti, la popolazione mondiale comincia a crescere, sia pure lentamente, raggiungendo circa duecento milioni nel primo anno dell’era cristiana.

Con la nascita dell’agricoltura gli uomini potevano disporre di nuove risorse alimentari e si spostavano frequentemente alla ricerca di nuove specie vegetali da domesticare e di luoghi più adatti per coltivarli. La scoperta dell’allevamento ha consentito di percorrere la stessa strada, allargando gli orizzonti dell’uomo e fornendogli sufficienti risorse per riprodursi.

Questi eventi, solitamente indicati come spartiacque tra storia e preistoria, hanno fatto intravvedere nella nascita dell’agricoltura la fine della preistoria ma, in realtà, la storia non coincide con la produzione di beni ma con quella del surplus e degli scambi perché, quando alla “produzione di mezzi di sussistenza, di generi per l’alimentazione, di oggetti di vestiario, di abitazione e di strumenti necessari per queste cose ha corrisposto [] la riproduzione degli uomini stessi: la riproduzione della specie” (Engels, 1963) che porterà, da una parte, alla produzione di surplus da scambiare e, dall’altra, alla divisione del lavoro.

L’uomo non è più soggetto alla natura ma inizia a dominarla per i propri interessi iniziando un percorso che doveva portarlo verso le società moderne.

Il dominio dell’uomo sulla natura comincia con la domesticazione di piante e animali:

Domesticazione indipendente di piante e animali indigeni:

Località Piante Animali Data*
Vicino Oriente Grano,piselli,olivo Pecora, capra 8.500 a.C
Cina Riso, miglio Maiale, baco <7.500 a.C
Mesopotamia Mais.fagiolo,zucca Tacchino <3.500 a. C.
Ande/Amazzonia Patata,manioca lama, cavia <3.500 a.C
USA est Girasole,chenopodio Nessuno 2.500 a:c.
Sabel (?) Sorgo,riso Gallina faraona <5.000 a. C.
Africa equatoriale Igname, palma Nessuno <3.000 a. C.
Etiopia (?) Caffè, teff Nessuno Non nota
Nuova Guinea (?) Banana, canna da zucchero Nessuno 7.000 a. C. (?)

E, analogamente, l’uomo fece con specie non indigene:

Località Piante Animali Data*
Europa ovest Papavero, avena Nessuna 6-3.500 a.C
Valle dell’Indo Sesamo, melanzana Bovini asiatici <7.000 a.C
Mesopotamia Mais, fagiolo,zucca Asino, gatto <6.000 a. C.

*Data più antica

Fonte: Diamond, l. c.. Modificato.

A supporto di una società in evoluzione compariranno “in varie parti del mondo i primi villaggi, i primi insediamenti umani certi in Nordamerica. Finisce, con l’ultima glaciazione, il Pleistocene e inizia l’era geologica più moderna, chiamata Olocene o Postglaciale” (Diamond, l. c.).

Siamo ancora in una fase in cui la densità della popolazione è molto bassa, varia con le condizioni climatiche e sarà solo dopo la comparsa dei primi villaggi che, con l’economia del surplus, si creeranno le premesse per la nascita delle città databile, almeno in Mesopotamia, attorno al 6-5000 a. C. (Sjoberg, 1980), perché “L’esistenza di un vero e proprio centro urbano non presuppone semplicemente un surplus alimentare, ma anche la possibilità di immagazzinare e scambiare questo surplus” (Bairoch, l. c.).

La nascita delle città, che gli Australiani hanno definito “tirannia della distanza che si aggiunge alla tirannia dell’agricoltura” (Bairoch, l. c.), riduce il valore economico del surplus. I costi e le difficotà di trasporto, abbinati alla bassissima densità di popolazione delle società preneolitiche, spiegano perché non fosse possibile la comparsa di città vere e proprie prima di questi eventi.

Quasi contemporaneamente alle città nasceranno la scrittura (Godart, 1992) e la matematica (Kline, 1999), come strumenti indispensabili per regolare gli scambi e supportare il nuovo modello.

All’inizio l’uomo è concentrato sui prodotti essenziali per la sopravvivenza (farro, grano, mais, riso) ma, quando con il surplus di produzione, cominciano gli scambi e fanno la loro comparsa i consumi di status, legati alla maggiore disponibilità di risorse, l’interesse si sposta su altri beni.

Con gli scambi ha inizio un massiccio ricorso all’emigrazione che, sebbene in tempi storici abbia assunto caratteri peculiari, è un fenomeno antico nella storia dell’uomo, anzi è iniziato nelle società pre- umane con l’Homo erectus. I gruppi di Homo erectus che, circa un milione di anni fa, attraversando una piccola striscia di terra arida, si spostarono dall’Africa in Asia e poi raggiunsero l’Europa se, da una parte, “rappresentavano le avanguardie della definitiva conquista della terra da parte della popolazione umana” (Leakey et al.,1979), dall’altra non può essere considerata soltanto “la migrazione di un popolo alla conquista di nuovi spazi” (Leakey et al., l.c.) se consideriamo che alla vigilia della rivoluzione neolitica, si stimava una densità di 9 abitanti per km quadrato per le aree tropicali, di 0,1 per l’Europa occidentale e di 1 ogni 150-350 per le zone artiche (Bairoch, l. c.)

È lecito, piuttosto, convenire che “La diffusione di Homo erectus nei continenti settentrionali fu [] la conseguenza inevitabile di un particolare sforzo evolutivo” (Leakey et al.,l. c.).

Il pane entra nella storia

Le prime sperimentazioni di coltivazione in Medio Oriente risalgono almeno al 7.000 a. C., ma è con l’arrivo dei Sumeri che l’agricoltura farà un grande balzo in avanti, grazie alla loro abilità nell’uso dell’acqua per l’irrigazione. A partire dal periodo di Uruk, venne introdotto l’aratro a trazione animale e l’irrigazione estensiva, favorendo così una ricca produzione agricola.

Per superare i problemi di siccità, i campi erano realizzati nelle aree adiacenti ai canali e posti più in basso rispetto a questi, per permettere all’acqua di defluire naturalmente.

I campi erano sistemati con il lato corto vicino al canale e venivano irrigati e arati in senso longitudinale disponendo le coltivazioni a “doppio pettine”. Il ricorso alla rotazione biennale (riposo/coltivo), consentiva economia di acqua e mantenimento della fertilità. Le zone adiacenti ai canali erano destinate alla coltivazione di cipolle, aglio, legumi e palme da dattero e solo i terreni non irrigabili venivano destinati a cereali, principalmente orzo e frumento. Alcuni campi venivano abbandonati per eccessiva salinizzazione dovuta al pessimo drenaggio che portava all’accumulo di sali nello strato arabile. Questo spiega perché nei territori pianeggianti del sud mesopotamico predominava l’orzo, notoriamente più resistente alla salinità, mentre nella parte settentrionale c’era un sostanziale equilibrio fra orzo e frumento. Per la semina dei cereali che, in generale, si effettuava contemporaneamente, veniva usata una seminatrice, mentre la mietitura prevedeva l’impiego di gruppi di tre uomini: uno per falciare, uno per formare i covoni e un terzo, probabilmente, per guidare l’attività degli altri due. Dopo la mietitura passavano i carri trebbiatori per separare le spighe dal culmo e un carro per raccogliere i chicchi. Il riparto del prodotto era pari a 1/3 per il coltivatore e 2/3 come riserva da portare nel magazzino del tempio o del palazzo.

Già nel terzo millennio a. C. si consumavano focacce, come è stato possibile rilevare da una tavoletta di Nippur in cui è scritto: «Quando mi alzavo presto la mattina, mi volgevo a mia madre e le dicevo: “Dammi la colazione, devo andare a scuola!”. Mia madre mi dava due focacce e io uscivo; mia madre mi dava due focacce e io andavo a scuola».

Importanti ritrovamenti archeologi, ci dicono che, già nel 4000 a. C., in Egitto si usava panificare in diverse varietà, tra cui il pane dolce e un’antenata della pizza.

La contemporanea disponibilità di orzo, farro e avena portava gli Egizi ad utilizzarli macinandoli e impastandoli contemporaneamente. Plinio il Vecchio (1984) ricorda che in Egitto si otteneva farina anche dall’olira” (la terza specie di spelta, n. d. r.).

L’iscrizione “io coltivai il grano, venerai il dio del frumento in ogni valle del Nilo. Nessuno ha mai conosciuto fame o sete durante il mio regno”, attribuita al faraone Amenemhat I (XII dinastia, circa 2040 a.C.), rende l’idea di come l’agricoltura fosse l’attività più importante dell’antico Egitto e la coltivazione del frumento quella cui si affidava la prosperità del paese.

L’inondazione corrispondeva per gli Egizi alla fase Alchet, quella successiva, quando il Nilo si ritirava lasciando i campi generosamente fertilizzati, era la fase Peret,. La terza fase,detta Shonon, corrispondeva al periodo meno piovoso dell’anno. Gli strumenti utilizzati erano l’aratro di legno, la zappa con una larga lama di legno e la falce per mietere.

La razione dei soldati reali comprendeva circa due chili di pane a testa ma il consumo maggiore era riservato alle classi più umili, tanto che gli Egizi erano stati soprannominati dai greci artophagoi (mangiatori di pane).

L’alimentazione era integrata con cipolle, porri, meloni, cetrioli, fagioli, sedano, fave, ceci, lenticchie e lattuga. Per l’irrigazione gli Egizi non avevano attinto alla scuola sumerica e il loro sistema consisteva nel trasportare l’acqua nelle giare, anche se, dal contatto con la Siria avevano appreso lo Shaduf che era un metodo per sollevare le acque

Gli Egizi, per fare mattoni, utilizzavano anche la paglia pressata, tagliuzzata, mischiata a fango e seccata al sole.

La macina del grano era affidata alle donne e con la farina ricavata si facevano pane e focacce salate o arricchite con semi di sesamo o di papavero. Con l’aggiunta di uva o miele, si facevano i dolci.

Tornando al pane, dopo i primi passi si trattava di affinare ulteriormente la tecnica e dopo qualche secolo si scoprirono casualmente gli effetti della fermentazione (5.000 a. C.) che si avviava spontaneamente se l’impasto veniva lasciato per un giorno all’aria prima di cuocerlo, anche se una leggenda riferisce che la fermentazione si era avviata accidentalmente quando le acque del Nilo avevano inondato i magazzini in cui era conservata la farina.

Gli Egizi utilizzarono ugualmente la farina bagnata ed ebbero modo di scoprire gli effetti della fermentazione.

Poi si passò alla frantumazione dei semi di cereali in un mortaio e alla separazione al setaccio della parte nutritiva del chicco dall’involucro che lo racchiude. Più tardi la cottura cominciò ad essere fatta al chiuso, in un vaso o in una buca scavata nel terreno e riscaldati dal fuoco.

Quando la temperatura era abbastanza alta, il fuoco veniva spento e, tolta la cenere, si introduceva il pane, prima di chiudere il vaso con un coperchio o la buca con una grossa pietra.

Poi vennero i primi forni in argilla che avevano forma conica. Sulla parte esterna veniva poggiato il pane che cadeva a terra quando la cottura si era completata.

Anche la lievitazione fu una scoperta casuale.

Il primo fattore lievitante utilizzato, oltre alla pasta acida, sembra essere stata la birra che una serva egizia avrebbe versato inavvertitamente sull’impasto. La paura di essere punita, la indusse a tacere sull’accaduto ma l’incidente consentì di ottenere un pane più soffice e fragrante che portò ad adottare la lievitazione come prassi normale nella preparazione del pane e la pratica fu in seguito adottata in Mesopotamia, Creta, Grecia e Magna Grecia.

Un’altra versione vorrebbe che siano stati i cuochi alla corte dei Medici di Firenze a utilizzare il lievito di birra per migliorare la lievitazione del pane, e che questa pratica sia poi stata esportata in Francia da Maria de’ Medici, moglie di Enrico IV (Barbieri, 2006).

Successivamente si affinò la tecnica di cottura con la costruzione di forni internamente divisi in due parti: nella parte inferiore ardeva il fuoco, in quella superiore cuoceva il pane.

Dalla Mesopotamia e dall’Egitto, che erano state culla di civiltà dal Neolitico in avanti, il modello del pane cominciò a farsi strada in altre parti del mondo.

Secondo Strauss (2009), al tempo in cui gli storici collocano la guerra di Troia (ca. 1.200 a. C.), i Greci si nutrivano ancora di lenticchie e orzo tanto da osservare con meraviglia e invidia la piana di Troia coperta di messi di grano. Ma è solo la congettura di uno storico che tende a connotare di arretratezza la cultura alimentare e l’agricoltura greche, le cui caratteristiche generali si muovevano già attorno alle colture mediterranee: cereali, vite e olivo (Gallo, 1997) e “Per quanto riguarda i cereali, che hanno un ruolo di primo piano nel consumo alimentare (secondo una stima attendibile, forniscono il 70-75 per cento del fabbisogno calorico complessivo), ancora predominante in epoca classica […] è la coltivazione dell’orzo, che resiste meglio ai mutamenti climatici e assicura rendimenti più elevati” (Gallo, l.c.).

In realtà, la Grecia ha pochi terreni coltivabili e “La più limitata diffusione del frumento, che è il cereale più adatto alla panificazione […] è del resto sottolineata dalla marcata specializzazione regionale di tale coltivazione, che, ad eccezione della Tessaglia, appare per lo più tipica di aree situate al di fuori della madrepatria greca (la Libia, la Tracia e, soprattutto, il Ponto)” (Gallo, l. c.).

Disponiamo, però, di altre notizie che confermano che in Grecia si faceva uso di grano almeno tre secoli prima della guerra di Troia. Si tratta delle tavolette in Lineare B trovate a Pilo e Cnosso.

In “Una fondamentale tavoletta di Pilo [si] indica in quantità di semenza di grano” (Musti, 1989). Ritroviamo il pane e la focaccia in Aristofane (I Cavalieri, 424 a. C.), quando Salsicciaio dice ”E io giuro sui pugni e le coltellate che ho preso fin da ragazzo, che ti batterò invece, se no, inutilmente sarei cresciuto a tozzi di pane” e Demostene risponde“A tozzi di pane come un cane?” Poi, Paflagone dice a Salsicciaio: “Ti porto una focaccia impastata con l’orzo di Pilo” e Demostene “L’altro giorno avevo impastato a Pilo una focaccia laconia”. Per inciso, la focaccia laconia era fatta con grano comune (cfr. Plinio il Vecchio, l.c.).

Il nutrimento base della popolazione greca era costituito da cereali impastati con acqua e cotti per fare “polente” e minestre, oppure cotti direttamente sul fuoco in forme di pani e focacce.

Generalmente si accompagnavano a frattaglie cotte di animali, trippa arrostita in pentola; oppure a verdure crude o cotte condite con olio, insalata o formaggi. Da tutte le fonti (tra cui l’Odissea) risulta che nella Grecia antica si fece grande uso di frumento e di orzo.

I greci avevano ben 72 tipi di pane e il compito della panificazione era affidato alle donne, per divenire un lavoro maschile quando si cominciò a panificare di notte perché al mattino si potesse disporre di pane fresco.

Passando ad altre aree, nel Lazio, in piena età del ferro, non si coltivavano grani superiori a cariosside nuda ma orzo, il cui pappone sarà poi denominato polenta e, soprattutto, farro (far o adoreum) che in realtà era il Triticum dicoccum (Scrk.) e non il Triticum spelta (L.).come erroneamente è stato identificato da qualcuno (Pucci, l. c.).

Tuttavia, “poiché le due specie sono distinguibili con difficoltà all’analisi botanica, converrà limitarsi a dire che nei contesti più arcaici di Roma finora studiati (una ventina) farro e/o spelta assommano complessivamente al 58 per cento della produzione del Lazio tra X e VII secolo” (Pucci, l. c..) e, nonostante avessero a disposizione un territorio fertile per la coltivazione di cereali più pregiati, si dedicavano alla coltivazione del farro, da cui il termine farina per indicarne il prodotto di frantumazione. Carattere distintivo dell’agricoltura del Lazio, rispetto ad altre regioni, era la prevalenza dei cereali inferiori mentre in Etruria, per esempio,”si coltivavano le specie più nobili” (Pucci, l. c.). “Dovunque si poteva, diverse specie di cereali erano coltivate insieme [per] limitare il rischio di un cattivo raccolto [e] questo insieme di cereali, che comprendeva anche il miglio, il panico, l’avena e la segale (lo stesso che in età medioevale sarà chiamato mestura) costituiva la farrago” (Pucci, l. c.).

La farrago che, inizialmente, costituiva il cibo base dell’alimentazione umana, “col tempo decadde a foraggio per gli animali, e come tale viene trattata dagli scrittori de re rustica” (Pucci, l. c.).

Fino alla scoperta del maggese (tra VIII e VI secolo), le popolazioni del Lazio adottarono “i sistemi più elementari del «campo ad erba» ossia del campo abbandonato fino a che non ricostituisce la sua fertilità, o quello del debbio, per il quale si disbosca e poi si brucia il legno per fertilizzare la radura, coltivandola fino al suo esaurimento” (Pucci, l. c.).

Dalle focacce salate ricavate dalla farina di farro i Romani, a contatto con i greci, passarono al pane di frumento lievitato e costruirono i primi forni pubblici in cui lavoravano fornai greci portati a Roma come schiavi.

Ma “È noto tuttavia che per un lungo periodo i Romani si cibarono di puls e non di pane” (farinata ottenuta facendo bollire cereali macinati in acqua o latte, n. d. r.). e che “di tutti i cereali presso il popolo romano per 300 anni fu usato solo il farro” (Plinio il Vecchio, l. c.).

L’alimentazione antica di Roma e dei territori contermini era basata sui “cereali a cariosside vestita [che], per essere consumati, devono essere prima private delle glume. Perciò essi erano usualmente torrefatti” (Pucci l. c.) e “La preparazione della farina di farro […] presenta nella società arcaica un’importanza politico- sociale direttamente proporzionale all’importanza politico- religiosa di questo alimento” (Pucci, l. c. Si veda anche F. Toubert, 1973).

Per il suo carattere rituale, la preparazione della farina di farro era affidata alle Vestali, con un procedimento particolare: “I chicchi venivano prima torrefatti, poi battuti e infine macinati. Con la farina così ottenuta e il sale si preparava la mola salsa, indispensabile per ogni genere di sacrificio, immolare, ossia cospargere di mola salsa la vittima, divenne sinonimo di sacrificare” (Pucci, l. c.).

In febbraio si celebravano i Fornacalia, feste dedicate alla dea Fornax per celebrare la torrefazione del farro e l’immissione al consumo del prodotto dell’anno precedente (Pucci, l. c.), nota, anche, come Festa degli sciocchi “perché nei tempi antichi i coloni erano inesperti, tostavano troppo il farro e talvolta bruciavano anche le loro capanne” (Ferrari, l. c.).

Il farro da utilizzare per la semina non doveva essere tostato.

Nel mito di Ino, moglie di Atamante, si dice che abbia fatto tostare i chicchi destinati alla semina. Naturalmente il grano non spuntò e Ino fece accusare del misfatto, per sbarazzarsene, i figli di primo letto del marito, (Ferrari, 2008)

Per la panificazione, i romani utilizzavano due tipi di lievito.

Il primo consisteva di miglio mescolato al vino dolce e lasciato a fermentare per un anno, il secondo di crusca di frumento lasciata a macero per tre giorni nel vino dolce e poi fatta essiccare al sole (Plinio il Vecchio, l. c.).

In questo periodo erano già state messe a punto le macine di pietra di lava che si facevano ruotare con la forza motrice degli schiavi o degli animali. A Vitruvio si deve l’invenzione del mulino ad acqua ma la tecnica si diffuse solo dopo che Quinto Candido Benigno fece costruire in Francia otto mulini mossi contemporaneamente dall’acqua.

In epoca feudale i contadini, in cambio del lavoro nei campi, ricevevano una parte del raccolto ma erano obbligati a cuocere il pane nel forno del padrone.

Il pane del contadino era fatto con poca farina e molta crusca. Spesso venivano utilizzati cereali minori come il miglio e il pane destinato ai poveri si chiamava “pan rozzo”, mentre ricchi, nobili e “cittadini” consumavano carne e pane bianco di cereali.

Nel Medioevo, quindi, l’agricoltura comincia ad identificarsi con i cereali e questa scelta traccerà un preciso spartiacque che delinea lo status sociale.

Il frumento viene coltivato solo per i ricchi e i cittadini, per i poveri e i contadini vengono utilizzati in misura massiccia i cereali minori.

Questo non denota “la decadenza della coltura del frumento e il predominio assunto dai grani inferiori” (Montanari, 1979) ma rappresenta una scelta determinata dal fatto che la maggior parte della popolazioni è costituita dai poveri cui sono riservati la segale, il miglio, l’orzo e l’avena che, nei dati del polittico di Santa Giulia di Brescia, rappresentano il 72% delle riserve, con la segale che, da sola, occupa il primo posto con il 40% dei “grani” conservati (Montanari, l. c.).

Il sistema più diffuso di macinazione era quello romano con i mulini ad acqua e si dovette ricorrere a regole severe per tutelare i mugnai.

Coloro che utilizzavano i mulini dovevano pagare una tassa (tassa sul macinato). Il mugnaio doveva pesare il grano prima di macinarlo, restituire al proprietario la giusta quantità di farina e veniva retribuito in natura. Per assumere la qualifica di fornaio era necessario un lungo tirocinio come garzone e, raggiunta le necessaria esperienza, si doveva giurare davanti alle autorità di cuocere pane a sufficienza e di non barare sulla qualità e quantità di pane prodotto.

Ai garzoni competeva l’onere di trasportare il pane in una gerla e consegnarlo casa per casa e il consumatore era tutelato dall’obbligo del fornaio di produrre e consegnare pane ben cotto, pena un’ammenda in denaro e il risarcimento con un’altra infornata.

In giro per il mondo

Se il processo di panificazione ha raggiunto una certa standardizzazione (frantumazione di cereali, impasto, fermentazione, cottura), permangono ancora differenze, tanto in ordine agli ingredienti da cui si ricava la farina, quanto in alcuni valori simbolici.

Partiamo dalla definizione canonica del pane come prodotto ottenuto dalla lievitazione e cottura in forno di un impasto a base di farina di cereali e acqua, per avviare una riflessione.

La definizione proposta ha il vantaggio di un impatto immediato nel nostro immaginario ma, non v’è dubbio, che è tutta dentro una spirale culturale eurocentrica che afferisce al sistema di valori del mondo occidentale e non tiene conto che forme e modo di consumare il pane, sono il risultato delle risorse disponibili, dei rapporti sociali nelle diverse aree del mondo e rappresentano l’identità dei popoli e la loro storia,

Nel sud- est asiatico (India, Cina, Giappone) si fa uso di farina di riso, in Africa e nei Paesi Arabi farina di miglio o di sesamo, in Etiopia e in Eritrea farina di Teff (Eragrostis tef), nei paesi freddi del nord Europa farina di segale, in Mesoamerica farina di mais, quinoa, patata.

Queste differenze, sebbene riconoscibili nella tradizione, sono anche il risultato delle condizioni ambientali che hanno determinato l’elaborazione di specifici modelli alimentari.

L’uso del riso nel sud-est asiatico, non è una scelta determinata dalla maggiore diffusione e disponibilità di questo cereale ma trova le proprie ragioni nelle cause stesse che hanno determinato la domesticazione di questa pianta, qualche millennio dopo che nella Mezzaluna fertile era già stato domesticato il frumento.

Nel caso specifico, ma in tutti gli altri casi, prima di indagare sul processo di domesticazione, bisognerà indagare sui processi di selezione naturale che hanno determinato la struttura ecologica in un ambiente dato.

In altri termini se, per definizione, l’ecologia studia “tutte le relazioni o i modelli di relazione tra gli organismi e il loro ambiente” (Odum, 1988), l’azione antropica è preceduta dalla selezione naturale che determina la biocenosi di un ambiente dato.

Nel caso della Cina, l’agricoltura nasce e si sviluppa in un ambiente naturale difficile che ha richiesto grandi lavori di sistemazione e di bonifica.

La selezione è avvenuta sugli altipiani in cui predomina il loess che è “un suolo formato dall’accumulo millenario, durante il Pliocene, di sabbia e limo portati dal vento “ (Saltini, 2009)

V’è da aggiungere che “Il clima della regione del loess è quello tipico del monsone: d’estate i venti dell’Oceano portano precipitazioni copiose e continue, d’inverno spirano dalla Siberia venti freddi e asciutti” per cui si formavano “dopo le piene del monsone, isole galleggianti dalle quali dispiegavano i culmi” (Saltini, l. c.) di quelli che i paleobotanici hanno dimostrato essere i progenitori del riso, specie risultata vincente nella competizione con altre specie per l’adattamento a vivere nell’acqua.

La segale è il cereale più diffuso nel nord Europa, ma anche nell’Italia continentale, per la sua rusticità e perché adattato ai climi freddi..

Il Teff, cereale coltivato e utilizzato nell’alimentazione umana da 7.000 anni, è una pianta erbacea annuale che presenta semi di diametro inferiore a 1 mm e questo lo rende adatto alla vita seminomade delle popolazioni che ne fanno uso, dal momento che in una pugno si può trasportare un numero di semi sufficiente a seminare un intero campo.

Prima che fosse conosciuto il pane di frumento, nelle Americhe si consumava solo pane di farina di mais, cui si aggiungeva, nelle zone montane delle Ande, quello di farina di Quinoa (Chenopodium quinoa) che ha costituito un alimento base per quelle popolazioni, tanto che per gli Inca era la «chisiya mama» (madre di tutti i semi).

Dopo la conquista spagnola, la cultura andina dovette fare i conti con l’eurocentrismo cattolico che considerava sacro solo il pane di frumento, per cui la coltivazione della quinoa venne scoraggiata, se non proprio combattuta, fino a quando, anche l’ottuso fondamentalismo religioso, non dovette ammettere che l’ambiente andino è poco adatto alla coltivazione del grano, mentre la quinoa si avvantaggia dello sforzo di adattamento di migliaia di anni di storia evolutiva.

Nei momenti di crisi gli andini facevano ricorso a farina di patata, ottenuta con un procedimento singolare per ottenere quello che gli Inca chiamavano chuňu

Il procedimento consisteva nel lasciare le patate a gelare all’aperto e schiacciarle con i piedi al mattino per allontanare l’acqua. Il procedimento andava avanti per cinque giorni, finche il chuňu, completamente disidratato, poteva essere conservato integro o trasformato in farina bianca e leggera che poteva essere conservata per anni (von Hagen, l. c.), che è un bel risultato se consideriamo che “La patata fu messa al bando per tre secoli dagli europei, in quanto ritenuta causa della lebbra” (von Hagen, l. c).

Pane e conflitti

In questa rapida ricostruzione non vengono presi in considerazione i conflitti legati a momenti particolari della storia (economia di guerra) ma solo quelli che sono esplosi quando la disponibilità di pane è stata utilizzata come strumento di lotta politica e di repressione sociale.

A Roma, per esempio, l’istituzione dello schiavismo e la disponibilità di manodopera a basso costo, aveva indotto molti proprietari terrieri a trasformare i fertili territori del Lazio e di altre regioni italiane in orti e frutteti, per cui l’approvvigionamento di grano dell’impero dipendeva dalle province (Sicilia, Egitto, Africa).

Questo rendeva vulnerabile il potere centrale che, a partire dal VI secolo a. C. cominciò ad avere seri problemi di approvvigionamento e fu travagliato dallo spettro di carestie ricorrenti.

Nel 273 Firmo bloccò le forniture dall’Egitto per indebolire il potere di Aureliano.

Nel 397 in Mauretania, la ribellione capeggiata da Gildone ebbe come conseguenza immediata il blocco dei rifornimenti di grano e la conseguente carestia che mise in ginocchio l’impero.

Nel 409 Eracliano bloccò il rifornimento di grano per indebolire Prisco Attalo e nel 412 utilizzò lo stesso espediente contro Flavio Onorio.

Lo stesso farà nel 423 Bonifacio nei confronti di Primicerio.

In precedenza, quando il problema si era presentato, non erano mancate misure “illuminate” per venire incontro alle esigenze del popolo.

Nel 123 a.C. Caio Gracco aveva imposto il prezzo politico e la distribuzione gratuita ai poveri.

Augusto aveva istituito l’Annona per distribuire gratuitamente grano a circa centomila persone.

Queste misure, però, non portarono alla soluzione del problema e si rese necessario il sempre più frequente ricorso a cereali minori come orzo e segale e, qualche volta, piselli e fave.

Nei secoli successivi, la produzione di grano riprese con relativa abbondanza ma l’esplosione endemica della ruggine del grano (2) e della segale cornuta (3) riportarono di nuovo lo spettro della fame, parzialmente soddisfatta con le piante alimentari importate dalle Americhe.

Patate e mais posero fine alle carestie e furono alla base dell’esplosione demografica.

Ma altri conflitti erano in agguato.

Nel 1630 ci fu la rivolta dei milanesi che assaltarono i forni per procacciarsi grano e farina.

Nel 1748 Benedetto XIV emanò norme per la liberalizzazione del commercio, revocò alcuni privilegi delle classi egemoni ed emise un bando contro le privative.

Con l’Unità d’Italia e l’istituzione di una nuova moneta, il peso calmierato del pane fu fissato a 16 libbre e il prezzo a 20 centesimi al pezzo ma, nel 1868, l’istituzione di una nuova tassa sulla macina di 2 lire/quintale per il frumento e di 1 lira/quintale per il frumentone, vanificò la politica dei prezzi.

Tra il dicembre del 1868 e il gennaio del 1869, esplosero i “moti del macinato” finiti davanti ai fucili dei soldati che lasciarono “237 morti, 1099 feriti, 3.788 arrestati” (Foa, 1973).

Solo a S. Giovanni in Persiceto si contarono 10 morti.

A connotare, ancora, l’importanza del pane come alimento, vale ricordare il termine cumpanaticum con cui si indica ogni altro alimento che ne accompagna il consumo. Su questo binomio sono nate alcune espressioni popolari, come “mangiara pana e curteddu” (mangiare pane e coltello), usata dai braccianti meridionali per fornire un’immagine della propria povertà, sottolineata dalla mancanza di companatico, o ancora il proverbio contadino “col pane asciutto si fanno i bei bambini”, con la variante calabrese “Salute e pane asciutto”, amara consolazione dei poveri.

Conclusioni e un’appendice

Concludiamo qui la nostra storia per evitare il rischio di scivolare nell’aneddotica, ricordando che, se il cibo è linguaggio, il pane, cibo per antonomasia, si presenta con codici di comunicazione diversi, assumendo valori simbolici come il pane azzimo (Matzah) che gli Ebrei consumano per ricordare l’esodo dall’Egitto o come la complessa simbologia ancora riscontrabile nella tradizione calabrese. In Calabria si aggiungono- e questo giustifica la breve appendice proposta- oltre ai molti valori simbolici che afferiscono alla straordinaria ricchezza di capitale sociale che, attorno al pane, conserva una forte simbologia del dono attraverso lo scambio di pane o di pasta madre tra vicini, anche molti proverbi che aiutano a tracciare la storia dei subalterni.

Alcuni sono precetti come “Chi vô mangiàri pane e viviri vino simmina jermànu (segale) e chianta erbino (vite selvatica)” (Spezzano, 1992).

Altri esprimono lo stato di miseria dei poveri come “‘A casa ‘e pezzienti’un mancanu tozzi” (Caligiuri, 1999) che indicano anche l’ospitalità dei poveri e la loro capacità di adattamento perché “Chine ha pane e ‘jermanu ‘un more de fame” (Caligiuri, l. c.).

Altri ancora, sono espressioni di ribellismo sociale come “A chine te caccia llu pane, càcciacci la vita” (Caligiuri, l. c.), perché, come ebbe a scrivere Vincenzo Padula, “Il popolo calabrese è agricolo [] quando dunque gli mancano le terre irrompe violentemente nella Sila coi suoi strumenti rurali, o vi irrompe coi suoi strumenti da brigante” (Padula, 1878) e decide che è “megliu n’annu tauru ca cent’anni voe!” (è meglio un anno toro che cent’anni bue).

Il pane tradizionale in Calabria è identificato con due termini equivalenti: Pana ‘e casa o Pana casaloru. La valenza culturale del pane è evidente dalle tradizioni che si conservano e dal loro valore simbolico. Dal pane a cuddhura del periodo natalizio a quello pasquale, alla pitta ‘nchiusa, alla pitta collura per la commemorazione dei defunti, al pane di S. Antonio e a quelli che celebrano la nascita, il battesimo, il matrimonio.

Normalmente prodotto con farina di frumento tenero e duro, nei periodi di carestia si ricorreva anche a cereali minori come mais, orzo, avena, miglio, farro oppure a patate, castagne, ghiande o a prodotti ancora più poveri come il lupino e il grano saraceno, a riprova che la storia del pane in Calabria è anche storia della fame e della miseria delle popolazioni che hanno imparato a surrogare l’ingrediente principale con quanto la natura poteva offrire.

La fantasia femminile ha fatto il resto inventando il pane aromatizzato con sesamo, finocchio selvatico o peperoncino per fornire sapore e dignità al cibo dei poveri.

Dalle varie miscele di farina di cereali sono nati pani tipici come la pizzata di Nardodipace, il biscotto di grano di Reggio Calabria, il pane ai semi di finocchio di Serra S. Bruno, il pane di grano duro di Mangone, il pane con la giuggiulena (sesamo) di Reggio Calabria, il pane a cuddhura (ciambella) decorato con figurine a rilievo, la focaccia ai fiori di sambuco.

Il pane di Cutro e il pane di Donnici, pur nel passaggio dalla produzione artigianale a quella industriale, conservano caratteristiche organolettiche uniche ma il solo Pane di Cerchiara- è un nostro parere personale- conserva qualità non riproducibili, legate a tradizioni secolari sostanzialmente non modificate dalla nuova tecnologia di processo.

Per la lievitazione del pana ‘e casa si usa la pasta madre o pasta acida, conservata appositamente dalla panificazione precedente.

L’impasto consistente in farina, acqua, sale marino, pasta madre ed eventuali erbe aromatiche, si esegue in una vasca di legno detta maidda o maiddra.

Una volta formate le pagnotte, si stende la metà di una tovaglia sul timpagnu (piano di legno), si posano le pagnotte e si ricoprono con l’altra metà della tovaglia sulla quale si stende una coperta di lana per facilitare la lievitazione.

Segue un rituale religioso che consiste nell’imprimere su ogni pagnotta un segno a forma di croce e recitando: “Crisci, crisci pasta, comu nostru Signuri ‘nta la fascia”.

Finita questa operazione si imprimono tre segni di croce equidistanti sull’impasto rimasto nella maddra, si baciano una per una con la mano, facendosi ogni volta il segno della croce.

Per la cottura si usa legna di bosco del genere Quercus ma il pane più fragrante e aromatico si ottiene con rami secchi di olivo e di arancio.

 

Note

(1) Di norma, la datazione al radiocarbonio (14C), applicato a tutti i materiali trovati che lo contengono, si basa sul fatto che l’isotopo, decade molto lentamente a 14N, isotopo stabile dell’azoto. Il 14C si produce continuamente nell’atmosfera in un rapporto con il 12C pari a 1:1 milione. In 5.700 anni, il 50% del 14C diventa 12C ed è diventato troppo scarso nel reperto da analizzare. Il metodo più attendibile è quello di datarlo in base al rapporto tra 14C e 12C. Questo metodo si chiama “calibrato” e si va affermando l’uso di scrivere le date non calibrate in tondo e quelle calibrate in maiuscoletto. (Diamond, 2006).

(2) L’agente di malattia della ruggine del grano è il fungo Puccinia graminis, definito dai romani maxima segetum pest.

(3) L’agente di malattia della segale cornuta è il fungo Claviceps purpurea, responsabile dell’ergotismo. Dalle ife di questo fungo si è partiti per sintetizzare LSD.

 

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Cercano di sabotare i referendum

di Giuseppe Candido

25 anni esatti dal disastro di Chernobyl in Ucraina. Il più grave incidente nucleare, l’unico di livello 7, insieme a quello dello scorso 11 marzo a Fukushima dove però, più che l’errore umano, è stato il violento terremoto e, ancor peggio, il conseguente tsunami ad aver causato il disastro.

A Chernobyl furono violate invece tutte le regole di sicurezza e di buon senso e, paradossalmente, tutto ciò avvenne proprio durante un test di sicurezza: un brusco e incontrollato aumento di potenza del reattore causò l’aumento di temperatura dell’acqua di raffreddamento e la sua conseguente scissione in idrogeno e ossigeno. L’aumento di pressione fece il resto, il contatto con l’idrogeno e la grafite incandescente causarono l’esplosione con conseguente emissione di una nube di materiali radioattivi su vaste aree intorno alla centrale. 336.000 persone furono evacuate per sempre e reinsediate altrove. Le nubi radioattive raggiunsero l’Europa orientale, la Finlandia e la Scandinavia arrivando, con livelli di contaminazione via via minori, anche in Francia e in Italia. Le vittime accertate, riconosciute dalle organizzazioni internazionali come direttamente collegate a tumori contratti per l’incidente, sarebbero 65 e 4.000 invece le presunte ma Greenpeace parla di 6 milioni di vittime in tutto il mondo. Il ricordo di quel disastro, cifre a parte, non può non richiamarsi con l’attualità. Tre anni più tardi, anche in considerazione di quel disastro, gli italiani avevano denuclearizzato il paese rinunciando al nucleare con un referendum nel 1989.

Adesso, dopo averlo reintrodotto “alla grande”, il governo pur di evitare che si voti il referendum cerca di metterci una toppa con l’annunciata moratoria per un anno. Un provvedimento che, in realtà, semplicemente posticipa la scelta ad un “successivo momento” condizionandola a quelle che si definiscono genericamente “le verifiche fatte dall’Unione europea”. Non sarà, per caso, che si vuole evitare il referendum? Anche perché, sull’acqua, d’improvviso c’è la proposta del sottosegretario allo Sviluppo Economico che, mediante l’istituzione di un autority, vorrebbe evitare pure quel referendum. Insomma, tutto sa di boicottaggio finalizzato a che non si votino quei referendum. L’articolo 75 della Costituzione sancisce il diritto dei cittadini ad esprimersi, informati, sui quesiti referendari. E pure l’articolo 39 della legge n° 352 del 1970 parla chiaro: solo “Se prima della data dello svolgimento del referendum, la legge, o l’atto avente forza di legge, o le singole disposizioni di essi cui il referendum si riferisce, siano stati abrogati, l’Ufficio centrale per il referendum dichiara che le operazioni relative non hanno più corso”. La legge prevede che le operazioni di voto non si tengano più solo in caso di “abrogazione”. E ciò è ancora più evidente se si tiene conto della pronuncia della Consulta del 1978 che, addirittura, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di questo articolo rispetto all’art. 75, comma 1, della Costituzione “limitatamente alla parte in cui non prevede che se l’abrogazione degli atti o delle singole disposizioni cui si riferisce il referendum venga accompagnata da altra disciplina della stessa materia, senza modificare né i principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente né i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti, il referendum si effettui sulle nuove disposizioni legislative”. Del tutto evidente, nel caso del nucleare, che un semplice rinvio non può impedire che il referendum si voti. E lo stesso vale per i due quesiti sull’acqua volti ad abrogare alcuni aspetti del decreto Ronchi e su cui si vorrebbe intervenire con un decreto a 50 giorni dal voto a campagna in corso. Un decreto che dovrebbe poi essere sottoposto al voto parlamentare. È evidente che, neanche in questo caso, ai sensi della legge e della sua interpretazione fornita dalla Consulta, il voto referendario può essere annullato. Probabilmente, anzi sicuramente, il fatto che non ci siano ragioni valide per evitare i referendum su acqua e nucleare è noto anche a Palazzo Chigi. Per cui, se non si possono evitare i referendum, il vero obbiettivo sarà quello di farne fallire il quorum. E ciò lo si fa attraverso due diverse strategie: da un lato si evita che la gente venga informata mediante l’assenza totale di dibattito nelle televisioni del servizio pubblico televisivo. Dall’altro canto si fanno continui proclami ed annunci in merito alla moratoria del nucleare e l’istituzione di un’autorità di garanzia per l’acqua, in modo da far passare tra la gente il messaggio che, tutto sommato, le questioni referendarie non sono così importanti visto che il governo, appunto, ci ha già pensato lui, ragion per cui si può tranquillamente andare a mare. D’altronde la partitocrazia, sia di destra sia di sinistra, ha sempre digerito malissimo i referendum vivendoli sempre come il più grande pericolo per se stessa ed ha sempre operato, a volte anche contro costituzione, per ridurne l’efficacia ed eliminare le scelte compiute dagli italiani. Bisogna ricordare che la scheda referendaria, prevista dalla costituzione, fu negata ai cittadini per oltre vent’anni salvo concederla ai clericali che volevano abrogare la legge sul divorzio. Poi, dinnanzi alla possibilità aperta nel paese dai referendum radicali (aborto, nucleare, depenalizzazione droghe leggere, finanziamento pubblico dei partiti, responsabilità civile dei magistrati ecc.) furono più volte sciolte le camere pur di evitare il voto referendario o fecero leggine per sovvertire le scelte degli italiani. Valga ad esempio quanto fatto dai partiti sul finanziamento pubblico abolito per referendum e reintrodotto, neanche dopo un anno, mediante il sistema dissennato e truffaldino dei rimborsi elettorali non legati alle spese effettivamente documentate ma concessi in base ai consensi riportati. Bisogna quindi andarci a votare e cercare, nel silenzio colpevole e doloso del servizio pubblico televisivo, di far raggiungere il quorum. Andare a mare non conviene anche perché, se ci pensano loro, di sicuro fanno danno.
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L’ideologia dell’indipendenza nazionale e la fine di Schengen

di Giuseppe Candido

Sottoscritto il 14 giugno 1985 fra il Belgio, la Francia, la Germania, il Lussemburgo e i Paesi Bassi l’accordo di Schengen intendeva eliminare progressivamente i controlli alle frontiere comuni e introdurre un regime di libera circolazione per i cittadini degli Stati firmatari, degli altri Stati membri della Comunità o di paesi terzi.
Successivamente, la convenzione di Schengen firmata il 19 giugno 1990 dagli stessi cinque Stati membri e successivamente entrata in vigore nel 1995, completò quell’accordo definendo “le condizioni di applicazione e le garanzie inerenti all’attuazione della libera circolazione”.
Obiettivi dichiarati della convenzione adottata poi da tutti i paesi membri erano l’abolizione dei controlli sistematici delle persone alle frontiere interne, il “rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne, la collaborazione delle forze di polizia e la possibilità, per esse, di intervenire in alcuni casi anche oltre i propri confini. Inoltre la convenzione prevedeva il coordinamento degli stati dell’Unione nella lotta alla criminalità organizzata di rilevanza internazionale come ad esempio mafia, traffico d’armi, droga e immigrazione clandestina.
Era il sogno degli Stati Uniti d’Europa che avrebbe dovuto concretizzarsi con un esercito degli Stati Uniti d’Europa, un Ministro degli Esteri europeo in un’Europa federale e federalista.
“L’ideologia dell’indipendenza nazionale” si legge nel Manifesto di Ventotene, “è stata un potente lievito di progresso; ha fatto superare i meschini campanilismi in un senso di più vasta solidarietà contro l’oppressione degli stranieri dominatori. Essa portava però in sé” i germi del nazionalismo imperialista, che la nostra generazione ha visto ingigantire fino alla formazione degli Stati totalitari ed allo scatenarsi delle guerre mondiali”.
Le cose però cambiano, i contesti divergono e l’Europa non è quella che i suoi più alti Padri costituenti avrebbero voluto. Gli Stati nazionali continuano a soffocare la Patria europea. Dopo aver fatto sparire la Bandiera blu con le stelle e dopo aver abolito l’Inno alla gioia come inno europeo oggi assistiamo alla morte della libertà di circolazione. A che punto sia oggi quel trattato, dopo la crisi Italia-Francia per la gestione degli immigrati, è sotto gli occhi di tutti. Non parliamo poi i quel sogno europeo. L’Onda dei migranti apre una crisi nell’Unione europea, è il titolo con cui apre in prima pagina nei giorni scorsi El Pais.
La valanga di migranti provocata dalle rivolte arabe ha aperto una nuova spaccatura nell’Unione europea. L’Italia ha accusato la Francia, sottolinea il noto quotidiano spagnolo, di violare i principi base dell’Unione dopo che le autorità francesi hanno bloccato il passaggio dei treni provenienti da Genova per impedire l’ingresso di tunisini. E che “Parigi blocca i migranti tunisini alla frontiera italiana” se ne accorge lo stesso Le Monde che però si spinge ben oltre nell’analisi.
“Ad una settimana dal vertice Franco-Italiano del 26 Aprile, i due Paesi hanno aggiunto un nuovo soggetto di discordia a quelli che già li oppongono, bloccando la circolazione dei treni tra Ventimiglia e la Costa Azzurra. Domenica, si legge ancora sul quotidiano d’oltre Alpe, Parigi ha provocato la reazione indignata del Governo italiano che ha denunciato questa misura come illegittima.” In causa, ovviamente, è la decisione presa dall’Italia di accordare un permesso di soggiorno provvisorio per circa 20.000 tunisini arrivati a Lampedusa dopo la caduta del regime di Ben Ali. Per il Governo Italiano, spiega Le Monde, questi permessi temporanei, in base agli accordi Schengen, devono permettere agli immigrati, che per la maggior parte vogliono andare in Francia, la loro libera circolazione. Per Parigi, invece, gli immigrati devono giustificare una residenza in Francia, un titolo di trasporto (cioè un biglietto) e delle risorse economiche per l’auto sostentamento.
Domenica scorsa, un centinaio di tunisini muniti di un permesso di soggiorno provvisorio, accompagnati da 250-300 militanti francesi ed italiani, avevano preso posto su quello che Le Monde definisce il “treno della libertà”. Da Genova verso la Francia, con l’obiettivo di “sfidare i blocchi dei governi e garantire il libero accesso al territorio europeo e ricordare che “nessun essere umano è illegale”. Parigi ha però deciso di bloccare il convoglio alla frontiera di Ventimiglia, ufficialmente, “in ragione dei rischi per l’ordine pubblico”. Unica causa per cui l’accordo di Schengen poteva essere sospeso temporaneamente.
Forse, in un momento come quello che oggi l’Italia sta vivendo, parlare di regressione del processo d’integrazione europea e di morte dell’Unione intesa come unione di popoli e non solo unione commerciale, può sembrare inutile, quasi velleitario. Eppure il tramonto di quel sogno, il declino di un’idea d’Europa unita non solo da un’unica moneta e dall’abolizione dei dazi sulle merci, ma anche dalla condivisione di territori, di culture e di tradizioni, proprio nel momento in cui i nazionalismi, dal Belgio alla Finlandia passando per i Paesi Bassi, si affermano e si rinforzano, dovrebbe costituire una preoccupazione seria per classi dirigenti del nostro Paese.

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