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Lucia Grillo: da Cannes, a New York… a Cosenza

di Franco Vallone

Ancora successo internazionale per la giovane attrice e regista calabroamericana

Lucia Grillo
Lucia Grillo

Lucia Grillo, l’attrice regista italoamericana figlia di calabresi di Francavilla Angitola emigrati a New York è a Cannes! Uno dei suoi film, Ad Ipponion, è stato accettato al Cannes Short Film Corner (l’importante mercato dei cortometraggi) e A pena do pana (altra sua produzione girata in Calabria con Vincent Schiavelli) verrà proiettato, sempre a Cannes, al Cannes Indipendent Film Festival. Lucia Grillo è da qualche giorno nella città del cinema anche alla ricerca di produttori per la sceneggiatura di un lungometraggio drammatico che si ambienterà proprio fra New York, la Grande Mela americana, e la Calabria. Intanto, visti i successi ottenuti con la sua ultima opera, appena tornerà in America da Cannes, continuerà la produzione di Terra sogna terra, il documentario sugli orti degli emigrati italiani, al fine di farlo diventare un lungometraggio. Vogliamo intanto ricordare che la versione “corto” del documentario sugli orti degli emigrati calabresi verrà proiettato il 5 giugno in Calabria, a Cosenza, presso il cinema Garden, al Festival Immagini da gustare, come evento speciale all’interno di Moda Movie 2010.

Lucia Grillo a New York attualmente produce il programma televisivo Italics, sulla cultura italiana e italoamericana (per il quale ha prodotto, diretto e montato la prima puntata dell’episodio “Jukebox”, con interessanti interviste a Vinicio Capossela e Jovanotti e gli “hardcore punk”, Killing Time, tutti italoamericani, che suonavano al famoso CBGB, e hanno fatto uscire un nuovo album proprio questo anno. “Sono 20 anni che suonano insieme – ci sottolinea la stessa Lucia – e sono conosciuti in tutto il mondo per questo genere di musica”.

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Eco tasse: un rivoluzione ambientalista, sociale e liberista

di Marco Cappato e Elisabetta Zamparutti
(Radicali italiani)

Pubblicato su “Il Foglio” del 01.05.2010

A 16 anni di distanza dal tremontiano “spostare le tasse dalle persone alle cose”, è necessario non solo passare dalle parole ai fatti, ma anche prendere in considerazione l’immenso patrimonio delle risorse naturali finora fiscalmente trascurato. Spostare le tasse “dal lavoro all’ambiente”, dunque: questa è l’urgenza per una rivoluzione fiscale che non si ponga soltanto l’obiettivo di una maggiore equità nei confronti dei lavoratori e di efficienza nella riscossione, ma anche di migliorare la qualità della vita rafforzando il libero mercato.

Aria, acqua e suolo sono risorse quasi sempre utilizzate senza che alcuno paghi un prezzo corrispondente al loro valore. Dalle emissioni di c02 all’inquinamento di mari e fiumi, dalla cementificazione del suolo alla distruzione di biodiversità, il consumo di risorse non rinnovabili sotto forma di inquinamento e esaurimento di capitale naturale è realizzato senza che le ricadute per tutti in termini di minore salute, benessere e ricchezza siano riconosciute nel loro effettivo valore economico. In termini globali, l’utilizzo di risorse naturali da parte dell’uomo ha da tempo abbondantemente superato la capacità del pianeta stesso di rigenerarle.

Nel mettere mano alla riforma di un fisco come quello italiano, che spreme i lavoratori e penalizza le imprese, bisogna dunque valorizzare il patrimonio dilapidato di risorse comuni ambientali. Il principio da affermare per una riforma fiscale sostenibile dovrebbe essere quello di una progressiva riduzione del carico fiscale sul lavoro al quale corrisponda un aumento della pressione fiscale sul consumo dei beni ambientali. Una prima occasione è resa urgente dallo sforamento degli impegni italiani in sede di Unione europea per la riduzione delle emissioni di co2. I Parlamentari radicali hanno presentato una proposta di legge per creare un’imposta “sui consumi di combustibili fossili” nei settori non soggetti al sistema dell’”emission trading” e “finalizzare il gettito derivante dall’imposta a ridurre il carico fiscale sui redditi da lavoro”. Gli ordini di grandezza inizialmente l imitati (si potrebbe partire da 13 euro a tonnellata di CO2 emessa, cioè circa 3 miliardi) diverrebbero importanti (35 miliardi) qualora raggiungessimo, con la necessaria gradualità, l’attuale livello svedese.Se il principio della carbon tax fosse esteso agli altri beni ambientali, l’incidenza sulla composizione del carico fiscale potrebbe in pochi anni diventare davvero significativa, a livello non solo nazionale, ma anche locale: consumo di acqua potabile al di là dell’uso domestico minimo; consumo del suolo; occupazione di suolo pubblico per automezzi privati; produzione di rifiuti domestici e industriali. In tempi di federalismo fiscale non si tratta di questioni marginali.

L’impatto e la sostenibilità politica di una riforma fiscale di questo tipo dipende da alcune condizioni.
La prima è che non possa avere in alcun caso come conseguenza l’aumento della pressione fiscale: ogni euro raccolto dalle tasse ambientali, qualunque sia il loro gettito complessivo, deve essere rigidamente vincolato alla corrispondente diminuzione di almeno un euro delle tasse provenienti dai redditi da lavoro e impresa. La pressione fiscale complessiva dovrebbe semmai nettamente diminuire, attraverso quella riforma delle pensioni e del welfare che Debenedetti ha proposto su questo giornale e sulla quale come Radicali abbiamo presentato diverse iniziative anche parlamentari.
Sempre sul piano sociale, la seconda condizione è che si neutralizzino gli effetti regressivi che ogni tassazione indiretta produce. Le compensazioni a favore dei più poveri non dovranno necessari amente avvenire sotto forma di esenzioni, ma preferibilmente di accesso a servizi pubblici anch’essi “virtuosi”, in particolare nel settore dei trasporti (pubblici e collettivi) o delle abitazioni (promuovendo la massima efficienza energetica). Solo garantendo il contenimento della pressione fiscale complessiva e l’eliminazione degli effetti regressivi si può ottenere il consenso sulle tasse ambientali. Anche per questo, incontreremo i sindacati dei lavoratori e degli imprenditori per discutere la nostra proposta.La terza condizione è quella di definire subito l’andamento del nuovo sistema di imposizione nel lungo periodo, anche tra venti o trent’anni: solo con aspettative certe si può innescare un circolo virtuoso sugli investimenti che portino a una transizione “dolce” verso settori e metodi di produzione più sostenibili.Una riforma del genere contribuirebbe ad avviare una vera e propria rivoluzione, oltre che “ambientalista” anche “sociale” (rispetto al costo del lavoro e all’evasione) e persino “liberista”, nel senso dell’applicazione del libero mercato, operando sul meccanismo dei prezzi invece che su dirigiste imposizioni di metodi produttivi o di altrettanto arbitrari e distorcenti “eco-incentivi”.

Non è invece una condizione, ma soltanto un ulteriore obiettivo, quello di coinvolgere la comunità internazionale. Se infatti è certamente vero che l’ambiente è questione globale, e dunque ogni azione isolata avrebbe un impatto limitato, ciò non significa che il nostro sistema economico subirebbe un danno a intraprendere politiche di avanguardia. Al contrario, oltre a sviluppare competenze imprenditoriali “verdi”, saremmo finalmente tra quel gruppo di Paesi virtuosi che hanno più da guadagnare che da perdere nel caso -probabile oltre che auspicabile- di consenso per accordi globali su ambiente e clima. Potremmo così sostenere proposte, come quella avanzata per ora senza successo dalla Presidenza svedese dell’UE, di una tassa europea sulle emissioni, da far pagare anche sui beni di importazione extra-UE. Per fugare ogni tentazione protezionistica, l’Europa potrebbe vincolarsi all a restituzione del gettito ai Paesi esportatori “inquinanti”, ma sotto forma di investimenti per la salvaguardia del patrimonio ambientale di quei Paesi. Anche sul piano internazionale, mercato e ambiente possono essere rafforzati assieme, e le eco-tasse sono lo strumento adatto.

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Il lavoro, la Calabria e l’emigrazione

di Giovanna Canigiula
La prima pagina dell’Avvenire Vibonese del 18 marzo 1893 è interamente dedicata al fenomeno dell’emigrazione, in preoccupante ripresa dopo un breve rallentamento della corsa. La grave crisi agraria di fine secolo, infatti, colpisce la Calabria e, in particolare, il settore agricolo. Si calcola che, tra il 1870 e il 1915, abbia lasciato la regione un terzo della sua popolazione e che il picco sia stato raggiunto nel ventennio tra il 1892 e il 1911, quando se ne andarono 714.731 calabresi. Gli Stati Uniti rappresentavano il luogo con maggiori opportunità occupazionali tanto che, ad un certo momento, intervennero politiche restrittive per limitare l’ingresso di nuovi migranti. All’indomani dell’Unità d’Italia, l’estensione nelle regioni annesse della legislazione e del sistema fiscale piemontesi, attraverso le cinque leggi Bastogi, provocarono i primi problemi. Aggravio fiscale, unificazione commerciale, libero scambio, tradimento del problema demaniale, vendita dei beni ecclesiastici, aumento del costo della vita ma non dei salari, ruppero gli equilibri su cui poggiava la struttura feudale borbonica, tagliarono le gambe alla piccola industria, determinarono la crisi del settore granario, favorirono i potenti gruppi agrari a svantaggio del resto della popolazione. Una serie di calamità naturali, cui si aggiunsero la malattia del baco e la conseguente chiusura delle filande che garantivano lavoro stagionale alle donne, fecero il resto.
Pizzo è la spiaggia dell’imbarco che conduce a Genova, dal cui porto centinaia di migliaia di poveri partono per l’incantato Eldorado delle speranze. La situazione appare peggiorata: se, fino a un decennio prima, lasciavano la loro terra solo gli uomini validi  attratti dall’illusione di facili guadagni e con la speranza di un viaggio più o meno lontano dal quale si tornava, ormai attraversano l’Atlantico intere famiglie, dietro al peso di insopportabili miserie. L’emigrante del passato era ricordato attorno al focolare, una sua lettera o un vaglia ne testimoniavano il pensiero per i cari. L’esodo di fine Ottocento è più drammatico perché chi parte non torna e rescinde definitivamente il legame con la propria terra. Il motivo, si legge, non è che uno solo: l’impossibilità di vivere, sia pure di stenti, in patria. Non c’è possibilità d’illudersi: si emigra non per la lusinga di speranze rosee e lontane, non per l’attrazione che l’ignoto esercita sulle menti inculte, non per migliorare le proprie condizioni; si emigra invece per trovare un nuovo posto, nel quale la vita sia possibile. Il posto già occupato in patria non è più sostenibile. Non solo i poveri o gli artigiani sono fuori di posto, ma è la nostra società intiera spostata, i ricchi come i poveri stanno a disagio, vanno in cerca di un nuovo assetto, nel quale l’onesto lavoro sia possibile, e la vita resa più facile e meno colma di triboli e spine. Il ricco, o colui che può aspettare ancora, spera di trovare il nuovo posto in patria, chi non può aspettare sotto lo stimolo della fame parte, scappa, non guarda il pericolo futuro, pur di sottrarsi a quello permanente, incessante, continuo che lo minaccia. E’ un dato allarmante: ricco è colui che può permettersi il lusso di aspettare ancora. Intere famiglie vendono tutto, raccolgono gli ultimi risparmi, se ne vanno senza rammarico, anzi, col sollievo di non lasciarsi nulla alle spalle e di sottrarsi alle persecuzioni fiscali, all’incubo della liquidazione economica, alla miseria. L’immagine dell’emigrante è quella di un uomo che parte col coraggio che anima i disperati alla ricerca di pace. Le rivoluzioni politiche quotidiane, la febbre gialla, il vomito nero, gli orrori sotto tutte le forme, della vita vissuta sotto i tropici, ai quali va incontro, non lo sgomentano. Il settimanale tiene una piccola rubrica sull’emigrazione: il 24 marzo 1892, ad esempio, riporta una disposizione del Ministero che proibisce ogni operazione di emigrazione diretta al Venezuela per le cattive condizioni sanitarie di quelle contrade, invase da mortali epidemie. Il piroscafo “Colombo” proveniente dal Brasile, ebbe a soffrire molti decessi durante la traversata, ed ora sconta la quarantena prescritta al lazzaretto dell’Asinara. A bordo dello stesso trovansi varii nostri concittadini  di ritorno dall’emigrazione, disillusi dal sognato Eldorado. C’è chi torna e chi parte lo stesso e si sorride a chi cerca di trattenere, non si maledice nessuno, si è senza indignazione, calmi e rassegnati a crearsi una nuova patria perché, nella propria, la miseria è passata sulla testa di tutti e quelli che son creduti ricchi, in realtà sono pezzenti mascherati, che non possono dare lavoro agli altri perché anch’essi mancano del necessario, ed hanno oneri maggiori da sopportare.
Il Governo non impedisce la corrente          dell’emigrazione ma dirama circolari che danno conto del modo in cui si vive all’estero e invita alla prudenza: del 1891 è la Circolare ministeriale a firma di Ramognini, che raccomanda agli italiani che vogliano recarsi in Venezuela di accettare solo lavori lungo la linea Caracas- Valenza, una delle più sane. In quest’area, oltretutto, gli operai impiegati dalla ditta tedesca che ha in appalto i lavori di costruzione di una nuova ferrovia godono di sufficiente assistenza medica, per la quale hanno una ritenuta del 2% sui salari e però si suggerisce loro, essendo il vitto piuttosto caro, di non accettare contratti che non assicurino una mercede non inferiore a nove o dieci lire al giorno. Il 4 luglio del 1892, è pubblicata la circolare con cui il Prefetto Carlotti mette in guardia da eventuali truffe in Perù: molti possessori di buoni del debito esterno peruviano si sono riuniti in Società sotto il titolo “Peruvian Corporation” ed avendo ottenuto da quel Governo, in garenzia del loro credito, una certa estensione di terreno, hanno pensato di introdurvi famiglie italiane per affidarne loro la coltivazione. A questo scopo qualche Agente avrebbe già aperte trattative con la suddetta Società. Si vorrebbe con ciò tentare, a rischio e pericolo degli emigranti italiani, l’attuazione di quel progetto per ora solo vagamente ideato e che non presenta sicure garanzie di buona riuscita. Da qui il divieto ministeriale ad Agenti e Subagenti di compiere operazioni d’emigrazione per il Perù, fino a nuove disposizioni.
Gli immigrati italiani, infatti, vivevano ammassati negli slums delle metropoli statunitensi e lavoravano in condizioni disumane nei cantieri per le metropolitane sotterranee e per le ferrovie. Nel Sudamerica erano impiegati nei lavori agricoli, con paghe da fame e orari di lavoro massacranti. Leggendo questi pochi documenti si avverte l’incapacità del Governo di fronteggiare il fenomeno attraverso interventi che rimuovano le cause dell’emigrazione. La legge Crispi del 1888 e quella del 1901 che assegna allo Stato, attraverso il Commissario Generale dell’Emigrazione, il compito di tutelare e intervenire a favore degli emigranti prima della partenza, durante il viaggio e dopo, denunciano chiaramente il fatto che l’agire politico sia indirizzato non tanto a ostacolare il flusso migratorio, quanto a prendersi parzialmente cura, dopo averle ignorate o sottovalutate, delle condizioni di chi lasciava il paese. Secondo la redazione del settimanale è giusto che il Governo non impedisca l’emigrazione, bisogna però che si conoscano le difficoltà alle quali gli emigranti vanno incontro, partendo senza notizie sicure dei luoghi ai quali sono diretti. Viene così riportato per esteso l’invito che Piero Lucca, per il Ministro, rivolge alle Prefetture affinché pubblicizzino la legge del 26 febbraio 1891 per evitare delusioni, viaggi inutili e dispendiosi, e dolorose peripezie: essa stabilisce che non è permesso l’ingresso nel territorio dell’Unione agli stranieri idioti, pazzi, infermi, poveri che possano cadere a carico della pubblica beneficenza, affetti da malattie nauseanti o pericolose per motivi di contagio, condannati per reati infamanti, o trasgressioni che implicano turpitudine morale, ai poligami e ai lavoratori arruolati per contratto sia esso scritto, verbale o sottinteso, o che abbiano ricevuto danaro da altri come caparra di lavoro. E’ parimenti proibito entrare negli Stati Uniti con biglietto pagato da altri o assistiti da altri per l’espatrio nonché assistere o incoraggiare la importazione o immigrazione di stranieri a mezzo di avvisi, stampati o pubblicati all’estero. Nessuna compagnia o proprietario di navi può favorire l’immigrazione, a meno che non si accerti l’esistenza di ordinaria corrispondenza commerciale, pena una multa di mille dollari o un anno di reclusione o entrambi. E’compito del comandante denunciare, all’arrivo nei porti americani e prima dello sbarco, nome, nazionalità, ultima residenza e destinazione di ogni straniero agli ufficiali ispettori che, saliti a bordo, devono passare in rassegna tutti gli immigrati e possono consentirne uno sbarco provvisorio per sottoporli a visita in tempo e luogo designati, e trattenerli fino a ispezione ultimata. Un’ulteriore multa di 300 dollari è prevista per capitani, agenti, consegnatari o proprietari di navi che si rifiutino di pagare le spese di mantenimento per tutto il tempo che gli immigrati restano a terra e quello successivo per il ritorno a bordo.
Nonostante i rischi, le compagnie di navigazione, in questi anni, si fanno concorrenza, riducono i prezzi del transito, accordano facilitazioni, cercano di accaparrarsi il favore delle agenzie di emigrazione: la miseria fa fare buoni affari. Il paesaggio del sud, invece, tradisce gli abbandoni: lo esodo continua, e le nostre campagne diventano deserte: la vigna non si coltiva, le ulive non si raccolgono, e lo aratro non feconda più i nostri terreni. Come nei territori privi di popolazione il pascolo si estende, le mandrie si moltiplicano […]
Solo qualche anno prima, nel 1885, l’Avvenire Vibonese aveva seguito con attenzione gli sviluppi della discussione sulla crisi agraria in Parlamento, giudicandoli poco soddisfacenti dal momento che l’agitazione che serpeggiava nel Paese si mantiene tuttora sostenuta da un penoso disequilibrio fra la gravezza dell’imposta e la povertà della rendita. Aveva quindi proposto ad agricoltori e proprietari fondiari di aderire al Comitato Centrale della Lega di Difesa Agraria costituitosi a Torino, per poterne a loro volta costituire uno locale. Fuori dai limiti dell’appartenenza politico- ideologica ad un partito, aveva invitato a sostenere l’unico rimedio temporaneo possibile: l’aumento del dazio sull’importazione dei cereali. E riportato le parole di un illustre membro del Senato: “Le libertà economiche del 1848 furono una reazione contro il dispotismo politico, oggi la vostra Lega Agraria insorge contro il dispotismo dottrinario. Plaudo alle Provincie antiche, ieri iniziatrici dell’indipendenza politica, oggi iniziatrici dell’indipendenza economica”. Peggiorato lo scenario, non rimane, negli anni Novanta, che tenere informati sull’andamento del flusso migratorio e cercare di cautelare chi emigra attraverso una campagna d’informazione sui rischi cui si va incontro.
E battagliare, per chi resta, affinché l’istruzione diventi una priorità.

a prima pagina dell’Avvenire Vibonese del 18 marzo 1893 è interamente dedicata al fenomeno dell’emigrazione, in preoccupante ripresa dopo un breve rallentamento della corsa. La grave crisi agraria di fine secolo, infatti, colpisce la Calabria e, in particolare, il settore agricolo. Si calcola che, tra il 1870 e il 1915, abbia lasciato la regione un terzo della sua popolazione e che il picco sia stato raggiunto nel ventennio tra il 1892 e il 1911, quando se ne andarono 714.731 calabresi. Gli Stati Uniti rappresentavano il luogo con maggiori opportunità occupazionali tanto che, ad un certo momento, intervennero politiche restrittive per limitare l’ingresso di nuovi migranti. All’indomani dell’Unità d’Italia, l’estensione nelle regioni annesse della legislazione e del sistema fiscale piemontesi, attraverso le cinque leggi Bastogi, provocarono i primi problemi. Aggravio fiscale, unificazione commerciale, libero scambio, tradimento del problema demaniale, vendita dei beni ecclesiastici, aumento del costo della vita ma non dei salari, ruppero gli equilibri su cui poggiava la struttura feudale borbonica, tagliarono le gambe alla piccola industria, determinarono la crisi del settore granario, favorirono i potenti gruppi agrari a svantaggio del resto della popolazione. Una serie di calamità naturali, cui si aggiunsero la malattia del baco e la conseguente chiusura delle filande che garantivano lavoro stagionale alle donne, fecero il resto.Pizzo è la spiaggia dell’imbarco che conduce a Genova, dal cui porto centinaia di migliaia di poveri partono per l’incantato Eldorado delle speranze. La situazione appare peggiorata: se, fino a un decennio prima, lasciavano la loro terra solo gli uomini validi  attratti dall’illusione di facili guadagni e con la speranza di un viaggio più o meno lontano dal quale si tornava, ormai attraversano l’Atlantico intere famiglie, dietro al peso di insopportabili miserie. L’emigrante del passato era ricordato attorno al focolare, una sua lettera o un vaglia ne testimoniavano il pensiero per i cari. L’esodo di fine Ottocento è più drammatico perché chi parte non torna e rescinde definitivamente il legame con la propria terra. Il motivo, si legge, non è che uno solo: l’impossibilità di vivere, sia pure di stenti, in patria. Non c’è possibilità d’illudersi: si emigra non per la lusinga di speranze rosee e lontane, non per l’attrazione che l’ignoto esercita sulle menti inculte, non per migliorare le proprie condizioni; si emigra invece per trovare un nuovo posto, nel quale la vita sia possibile. Il posto già occupato in patria non è più sostenibile. Non solo i poveri o gli artigiani sono fuori di posto, ma è la nostra società intiera spostata, i ricchi come i poveri stanno a disagio, vanno in cerca di un nuovo assetto, nel quale l’onesto lavoro sia possibile, e la vita resa più facile e meno colma di triboli e spine. Il ricco, o colui che può aspettare ancora, spera di trovare il nuovo posto in patria, chi non può aspettare sotto lo stimolo della fame parte, scappa, non guarda il pericolo futuro, pur di sottrarsi a quello permanente, incessante, continuo che lo minaccia. E’ un dato allarmante: ricco è colui che può permettersi il lusso di aspettare ancora. Intere famiglie vendono tutto, raccolgono gli ultimi risparmi, se ne vanno senza rammarico, anzi, col sollievo di non lasciarsi nulla alle spalle e di sottrarsi alle persecuzioni fiscali, all’incubo della liquidazione economica, alla miseria. L’immagine dell’emigrante è quella di un uomo che parte col coraggio che anima i disperati alla ricerca di pace. Le rivoluzioni politiche quotidiane, la febbre gialla, il vomito nero, gli orrori sotto tutte le forme, della vita vissuta sotto i tropici, ai quali va incontro, non lo sgomentano. Il settimanale tiene una piccola rubrica sull’emigrazione: il 24 marzo 1892, ad esempio, riporta una disposizione del Ministero che proibisce ogni operazione di emigrazione diretta al Venezuela per le cattive condizioni sanitarie di quelle contrade, invase da mortali epidemie. Il piroscafo “Colombo” proveniente dal Brasile, ebbe a soffrire molti decessi durante la traversata, ed ora sconta la quarantena prescritta al lazzaretto dell’Asinara. A bordo dello stesso trovansi varii nostri concittadini  di ritorno dall’emigrazione, disillusi dal sognato Eldorado. C’è chi torna e chi parte lo stesso e si sorride a chi cerca di trattenere, non si maledice nessuno, si è senza indignazione, calmi e rassegnati a crearsi una nuova patria perché, nella propria, la miseria è passata sulla testa di tutti e quelli che son creduti ricchi, in realtà sono pezzenti mascherati, che non possono dare lavoro agli altri perché anch’essi mancano del necessario, ed hanno oneri maggiori da sopportare.Il Governo non impedisce la corrente          dell’emigrazione ma dirama circolari che danno conto del modo in cui si vive all’estero e invita alla prudenza: del 1891 è la Circolare ministeriale a firma di Ramognini, che raccomanda agli italiani che vogliano recarsi in Venezuela di accettare solo lavori lungo la linea Caracas- Valenza, una delle più sane. In quest’area, oltretutto, gli operai impiegati dalla ditta tedesca che ha in appalto i lavori di costruzione di una nuova ferrovia godono di sufficiente assistenza medica, per la quale hanno una ritenuta del 2% sui salari e però si suggerisce loro, essendo il vitto piuttosto caro, di non accettare contratti che non assicurino una mercede non inferiore a nove o dieci lire al giorno. Il 4 luglio del 1892, è pubblicata la circolare con cui il Prefetto Carlotti mette in guardia da eventuali truffe in Perù: molti possessori di buoni del debito esterno peruviano si sono riuniti in Società sotto il titolo “Peruvian Corporation” ed avendo ottenuto da quel Governo, in garenzia del loro credito, una certa estensione di terreno, hanno pensato di introdurvi famiglie italiane per affidarne loro la coltivazione. A questo scopo qualche Agente avrebbe già aperte trattative con la suddetta Società. Si vorrebbe con ciò tentare, a rischio e pericolo degli emigranti italiani, l’attuazione di quel progetto per ora solo vagamente ideato e che non presenta sicure garanzie di buona riuscita. Da qui il divieto ministeriale ad Agenti e Subagenti di compiere operazioni d’emigrazione per il Perù, fino a nuove disposizioni.Gli immigrati italiani, infatti, vivevano ammassati negli slums delle metropoli statunitensi e lavoravano in condizioni disumane nei cantieri per le metropolitane sotterranee e per le ferrovie. Nel Sudamerica erano impiegati nei lavori agricoli, con paghe da fame e orari di lavoro massacranti. Leggendo questi pochi documenti si avverte l’incapacità del Governo di fronteggiare il fenomeno attraverso interventi che rimuovano le cause dell’emigrazione. La legge Crispi del 1888 e quella del 1901 che assegna allo Stato, attraverso il Commissario Generale dell’Emigrazione, il compito di tutelare e intervenire a favore degli emigranti prima della partenza, durante il viaggio e dopo, denunciano chiaramente il fatto che l’agire politico sia indirizzato non tanto a ostacolare il flusso migratorio, quanto a prendersi parzialmente cura, dopo averle ignorate o sottovalutate, delle condizioni di chi lasciava il paese. Secondo la redazione del settimanale è giusto che il Governo non impedisca l’emigrazione, bisogna però che si conoscano le difficoltà alle quali gli emigranti vanno incontro, partendo senza notizie sicure dei luoghi ai quali sono diretti. Viene così riportato per esteso l’invito che Piero Lucca, per il Ministro, rivolge alle Prefetture affinché pubblicizzino la legge del 26 febbraio 1891 per evitare delusioni, viaggi inutili e dispendiosi, e dolorose peripezie: essa stabilisce che non è permesso l’ingresso nel territorio dell’Unione agli stranieri idioti, pazzi, infermi, poveri che possano cadere a carico della pubblica beneficenza, affetti da malattie nauseanti o pericolose per motivi di contagio, condannati per reati infamanti, o trasgressioni che implicano turpitudine morale, ai poligami e ai lavoratori arruolati per contratto sia esso scritto, verbale o sottinteso, o che abbiano ricevuto danaro da altri come caparra di lavoro. E’ parimenti proibito entrare negli Stati Uniti con biglietto pagato da altri o assistiti da altri per l’espatrio nonché assistere o incoraggiare la importazione o immigrazione di stranieri a mezzo di avvisi, stampati o pubblicati all’estero. Nessuna compagnia o proprietario di navi può favorire l’immigrazione, a meno che non si accerti l’esistenza di ordinaria corrispondenza commerciale, pena una multa di mille dollari o un anno di reclusione o entrambi. E’compito del comandante denunciare, all’arrivo nei porti americani e prima dello sbarco, nome, nazionalità, ultima residenza e destinazione di ogni straniero agli ufficiali ispettori che, saliti a bordo, devono passare in rassegna tutti gli immigrati e possono consentirne uno sbarco provvisorio per sottoporli a visita in tempo e luogo designati, e trattenerli fino a ispezione ultimata. Un’ulteriore multa di 300 dollari è prevista per capitani, agenti, consegnatari o proprietari di navi che si rifiutino di pagare le spese di mantenimento per tutto il tempo che gli immigrati restano a terra e quello successivo per il ritorno a bordo.Nonostante i rischi, le compagnie di navigazione, in questi anni, si fanno concorrenza, riducono i prezzi del transito, accordano facilitazioni, cercano di accaparrarsi il favore delle agenzie di emigrazione: la miseria fa fare buoni affari. Il paesaggio del sud, invece, tradisce gli abbandoni: lo esodo continua, e le nostre campagne diventano deserte: la vigna non si coltiva, le ulive non si raccolgono, e lo aratro non feconda più i nostri terreni. Come nei territori privi di popolazione il pascolo si estende, le mandrie si moltiplicano […]Solo qualche anno prima, nel 1885, l’Avvenire Vibonese aveva seguito con attenzione gli sviluppi della discussione sulla crisi agraria in Parlamento, giudicandoli poco soddisfacenti dal momento che l’agitazione che serpeggiava nel Paese si mantiene tuttora sostenuta da un penoso disequilibrio fra la gravezza dell’imposta e la povertà della rendita. Aveva quindi proposto ad agricoltori e proprietari fondiari di aderire al Comitato Centrale della Lega di Difesa Agraria costituitosi a Torino, per poterne a loro volta costituire uno locale. Fuori dai limiti dell’appartenenza politico- ideologica ad un partito, aveva invitato a sostenere l’unico rimedio temporaneo possibile: l’aumento del dazio sull’importazione dei cereali. E riportato le parole di un illustre membro del Senato: “Le libertà economiche del 1848 furono una reazione contro il dispotismo politico, oggi la vostra Lega Agraria insorge contro il dispotismo dottrinario. Plaudo alle Provincie antiche, ieri iniziatrici dell’indipendenza politica, oggi iniziatrici dell’indipendenza economica”. Peggiorato lo scenario, non rimane, negli anni Novanta, che tenere informati sull’andamento del flusso migratorio e cercare di cautelare chi emigra attraverso una campagna d’informazione sui rischi cui si va incontro.E battagliare, per chi resta, affinché l’istruzione diventi una priorità.

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Emigrare e immigrare

di Franco Vallone
Emigranti calabresi a Buenos Aires Archivio Franco Vallone

Le due statue, policrome e inghirlandate di tutto punto, di San Basilio Magno, protettore di Cessaniti, e della Vergine Santissima della Lettera, venerata nella frazione Pannaconi, avanzano lentamente assieme, tra la gente, in una processione un poco più corta del solito. La marea di gente in movimento prosegue lenta, in un itinerario processionale, anche al di là dell’Oceano. Le due Cessaniti, quella calabrese e quella in Argentina,  si guardano allo specchio con San Basilio e la Madonna della Lettera. Cessaniti e Pannaconi, portati sulle spalle, come ogni anno, come al  solito, dalla stessa gente di Cessaniti sparsa nel mondo. I calabresi escono fuori dalle loro case, come formiche, si ritrovano e si   riuniscono ancora una volta per le strade assolate di Buenos Aires. Dopo la messa portano fuori dalle chiese i loro santi, ricordano i passi del  loro lontano paese per ringraziare, per fede o per abitudine, per rinnovare il  rito e il senso più profondo dell’unità della loro comunità, nella  consapevolezza di vivere in una lontananza obbligata, in una terra straniera oramai divenuta ritualmente familiare e quotidiana. Un rito per sentirsi, almeno per un attimo, a casa e per pensare, ancora una   volta e con nostalgia, ad un vicino prossimo ritorno in Calabria.

Il festante corteo avanza faticosamente tra le auto in sosta, tra la gente  del mondo nuovo, con la nostalgia nel cuore nel ricordo dei parenti  lontani, … …degli amici e dei conoscenti, delle strade di casa o di chi  ormai non c’è più. I cessanitoti si stringono l’uno con l’altro per stare assieme almeno un giorno, ancora un giorno, nel ricordo della loro  festa. Una strada, quella che si attraversa, fatta di migliaia e migliaia di chilometri di mare. Un viaggio che anche Italiano Domenico di Favelloni si fece nel lontano 1910 su un bastimento sgangherato. Le   partenze avvenivano abitualmente da Napoli, o da Genova e poi si   affrontava l’infinito Atlantico fino a Buenos Aires. Di questi lunghi  viaggi Domenico Italiano ne fece tanti, alcuni sono anche testimoniati  dai suoi biglietti d’imbarco. Uno di questi interminabili viaggi lo fece  nel 1928 col vapore, di bandiera italiana, “Augustus”. Il biglietto di  viaggio testimonia il camminare per il mondo di Domingo. Da Favelloni a  Napoli e poi scalo a Genova prima di prendere il largo nell’oceano. Il   giorno della partenza da Napoli è il 6 luglio. La cabina, che gli tocca e gli consegnano, è la numero 686, il letto B, il biglietto è lo 00100.   Domenico Italiano ha trent’anni ed è uno dei tantissimi giovani  calabresi in cerca di lavoro, di fortuna e di una nuova vita al di là dell’Oceano.
Calabresi arrivano nelle americhe Foto archivio Franco Vallone
Oggi riusciamo a conoscere anche il menu della cucina del bastimento e sapere cosa Domenico Italiano ha potuto mangiare in quei giorni di viaggio. Il menù di bordo, giorno per giorno, prevedeva tra l’altro pasta all’acciuga, baccalà in umido con patate, pasta e ceci al lardo con patate, carne al ragù con cipolle cotte… Con il suo biglietto di terza classe economica, un pezzo  di carta, piegato in due, di colore rosso, il signor Italiano affrontò   il primo mistero di quello che veniva definito altro mondo tanto era lontano e sconosciuto, il secondo, quello definitivo e infinito, lo  avrebbe affrontato molti anni più tardi, nella sua Favelloni Piemonte,  dopo il ritorno dalla ‘Merica. Domenico Italiano partì per l’Argentina con il suo baule dell’emigrante ritrovato anni dopo da Padre Maffeo Pretto, scalabriniano calabroveneto in missione nel Sud Italia proprio  per studiare il fenomeno delle migrazioni. Quel baule è oggi un simbolo prezioso e famoso delle “Stanze della luna” di Vibo Valentia, guardato con gli occhi incantati da migliaia di visitatori provenienti da tutto il mondo, sguardi colmi di retorico e del nostalgico nel Museo dell’Emigrazione Italiana nel Complesso del Vittoriano, a Roma. Ieri quel baule è servito come utile contenitore delle povere cose di  Domingo.
Un corredo per il corpo e per l’anima, una coperta, maglie e mutandoni di lana, un coltello per il pane, un rasoio e un pennello da barba, documenti e fotografie della famiglia lasciata al paese, lettere sgrammaticate mai inviate e mai arrivate e tanti ricordi infiniti. Ed oggi ancora una bella e inattesa sorpresa: dopo l’uscita di alcuni volumi sull’emigrazione calabrese (“Il Baule dell’Emigrante, il bagaglio della memoria”; “I Calabresi che scoprirono la ‘Merica”; “ItaliAmerica, il viaggio sul mare grande come il cielo”) in cui più volte si parla di  Italiano Domenico di Favelloni di Cessaniti, a Milano la regista  Fiorella Cicardi gira un video per uno spettacolo teatrale dal titolo “Bastimenti” che racconta proprio di Domingo Italiano, di Argentina, di emigrazione, di sogni, speranze e disperazione, di terre lontane, di nostalgia… Cataldo Perri autore dell’opera si ritrova il signor Italiano sulle tavole di palcoscenico dello spettacolo in Italia e in Argentina.  In fondo il destino di questo antico uomo di Favelloni è, da sempre, proprio il viaggio, il camminare per portare la sua testimonianza di uomo, di lavoro e di fatica, di fede, di calabrese nel mondo. Una delle immaginette religiose, raffigurante San Filippo d’Agira, contenuta nel baule di Italiano Domenico, riporta proprio una scritta in corsivo,  ingiallita e sbiadita dal tempo: “Cognato Carissimo Con piacere ti mando  la figura del nostro gra (nde) Santo protettore, con la speranza che il  nostro S. protettore ti voglia guardare da tutti i pericoli e il buon  idio voglia che ti guariscie dei dolore che tieni !… un paternoster e un  gloria patre. Non ti scordare di noi. Pronta risposta tuo Bruno. Si è fatta una bona festa”.  Sulle belle cartoline pubblicitarie le agenzie di navigazione mostravano  bellissime navi e promettevano comodi viaggi su veloci e moderne imbarcazioni che poi, in realtà, si dimostravano solo sgangherati  vaporetti. Partivano emigranti e bastimenti, da porti vicini e lontani, da Pizzo Calabro, Messina, ma principalmente da Palermo, Napoli e Genova.
Partivano con la speranza di attraversare l’Oceano in tempi brevi, invece non bastavano trenta giorni di navigazione. Gli emigranti dovevano affrontare “quel mare grande quanto il cielo, un mare così grande che sembrava non finire mai”, trenta o quaranta giorni di mare e cielo per arrivare a New York, la famosa Ellis Island, la loro Novayorca  o a Bruccolino o a Bonosairi o a Muntivideo… New York, Brooklyn, Buenos Aires, Montevideo tanti nomi strani per   l’emigrante che partiva per la ‘Merica senza conoscere la nuova lingua,  con la sola speranza di un futuro migliore. I bastimenti partivano con  il loro carico d’umanità stipato su ponti e stive e si portavano  appresso sacchi strapieni, bauli, topi e valigie, stracci e ogni genere  di cose. Gli emigranti partivano con la speranza che solo la ‘Merica poteva offrire, tutti assieme, alla ricerca di una nuova vita. Molti di loro  trovavano lavoro e soldi per vivere dignitosamente, altri solo lontananza e un infinito senso di nostalgia. Lasciavano affetti, le case e le cose, si portavano dietro, racchiuso nel portafogli, il loro   scrigno della memoria, le foto dei parenti più cari, le immaginette  sacre dei propri santi. San Francesco di Paola per il lungo viaggio sul mare, Santa Lucia per gli occhi, Santi Cosma e Damiano a protezione della salute. Tanti santi diversi per arrivare bene e ricominciare, sotto la loro protezione, la nuova vita al di là dell’Oceano. Nel nuovo continente ricostruivano la nuova immagine fatta, molte volte con l’illusione di una vita diversa, da anelli di giallo oro americano,  scarpe nere lucide e scricchiolanti, portafogli di pelle di coccodrillo, un’auto e un vestito nuovo per fare le foto da spedire ai parenti rimasti al paese.
Molte volte vestito, accessori e automobili erano solo noleggiati per il tempo necessario per fare le foto e poter dire, almeno  attraverso l’immagine spedita “ecco come stiamo bene, qui in America”.
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Crisi economica e fine del lavoro

di Francesco Santopolo

Sebbene la civiltà umana si sia strutturata attorno al concetto di lavoro e il lavoro rappresenti una componente essenziale dei processi economici, il mercato, assunto a feticcio ideologico, lo sta escludendo dal processo e oggi si contano oltre 200 milioni di disoccupati e un tasso di esclusione vicino al 7%. La cosa incredibile è che, senza arrossire, “gli economisti ortodossi ci assicurano che l’aumento del tasso di disoccupazione rappresenta un <<aggiustamento>> di breve termine alle potenti forze create dal mercato che stanno spingendo l’economia mondiale verso la Terza rivoluzione industriale” (Rifkin, 2000). La possibilità che, in un raro momento di lucidità, gli economisti capiscano che caduta dei salari significa caduta della domanda e crollo del mercato, è una cosa che non potrà mai accadere, visto che anche dopo il 1929 sono stati lasciati indisturbati a confezionare bufale. Vediamo di avviare un ragionamento. Nell’esaminare i redditi e le loro fonti, Marx scriveva “Capitale-profitto (guadagno d’imprenditore più interesse), terra-rendita fondiaria, lavoro- salario, questa è la formula trinitaria che abbraccia tutti i misteri del processo di produzione sociale” (Marx, 1965). Più avanti la formula si riduce a “Capitale-interesse, terra-rendita fondiaria, lavoro- salario” in quanto “l’interesse […] appare come il prodotto proprio, caratteristico del capitale” per estensione la comprendiamo genericamente nell’interesse, cioè, il compenso spettante al capitale terra. Ai fini del ragionamento che vogliamo avviare, questo ci consente, una forzatura concettuale che riduce la formula trinitaria alla formula binaria capitale/salario, in cui per capitale si intendono i mezzi di produzione (capitale fisso e capitale circolante) e per salario il reddito da lavoro. L’analisi del binomio capitale- lavoro, e la loro relazione col fattore demografico, ci consentono di ricostruire le origini e i caratteri della crisi economica che stiamo attraversando ma anche di affermare che, per la peculiarità con cui si esprime il processo di produzione sociale, crescita economica e crisi non sono categorie antitetiche ma tra loro correlate e strettamente funzionali. In sostanza- e non è un paradosso- le crisi dell’economia traggono origine dalla sua crescita. Partiamo dalla popolazione e dal suo trend di crescita. Per raggiungere gli attuali 6,9 miliardi di abitanti, la storia demografica del mondo ha dovuto superare alcune fratture. Secondo la teoria della catastrofe di Toba, una prima frattura si sarebbe verificata nel 70.000 a. C., e avrebbe decimato la popolazione, fino a ridurla a poche migliaia di individui. Dopo questo evento, la popolazione si attestò attorno a 1 milione di individui, si mantenne stabile fino al 10,000 a. C. e solo dopo la scoperta dell’agricoltura prese a crescere in maniera esponenziale, raggiungendo i 200 milioni nel primo anno dell’era cristiana e continuando la sua crescita fino alla Peste di Giustiniano (VI secolo d. C.) che si stima abbia fatto registrare 25 milioni di morti. Sia pure interrotta, di tanto in tanto, da qualche epidemia (una ogni 20 anni tra il 1348 e il 1487), la crescita è stata costante e ha raggiunto un picco del 2,2% nel 1963, con la frattura della pandemia della Morte Nera (XVI secolo), che colpì tutto il mondo allora conosciuto e si presume abbia ridotto la popolazione umana da 450 a 350-375 milioni. Siamo partiti dall’elemento demografico perché non è indifferente, rispetto al nostro ragionamento. In sostanza, considerando il processo produttivo concluso con l’equazione capitale/salario/capitale, se a nuovi investimenti corrisponde una maggiore offerta di beni e servizi, alla crescita dei salari, correlata alla crescita demografica che crea nuovi soggetti e nuovi bisogni, corrisponde una crescita della domanda. Qui però si incontrano due problemi.
Il primo afferisce alla differenza del tasso di crescita dell’offerta e della domanda, il secondo alla distribuzione della ricchezza. Esaminando il primo punto e considerando un profitto lordo costante del 100% e un capitale costante pari a 100, il saggio medio di profitto sarà del 50% . Supponiamo, ancora, che il capitale costante raddoppi e il profitto lordo rimanga sempre il 100%, il saggio medio di profitto scenderà al 33%. Impegnando un capitale fisso quadruplicato, a parità di profitto lordo (100%), il saggio medio di profitto scenderà al 20%. Questo perché “la progressiva tendenza alla dimunizione del saggio generale del profitto è […] solo un’espressione peculiare al modo di produzione capitalistico” “La caduta del saggio del profitto non deriva da una diminuzione assoluta, ma soltanto da una diminuzione relativa dell’elemento variabile del capitale complessivo, dalla diminuzione di esso in confronto all’elemento costante “ (Marx, l. c.). Detto in altri termini, alla crescita di investimenti che producono beni e servizi (offerta) non corrisponde una pari crescita di salari (domanda).
Tendenza confermata dai numeri, come rileva un rapporto dell’International Labour Organization (ILO) in cui si afferma che la produttività mondiale è aumentata del 26% ma il numero delle persone occupate è aumentato solo del 16,6%.
Questa difformità di crescita ha portato a oltre 200 milioni di disoccupati e, secondo i dati resi pubblici dalla FAO, il 19 giugno 2009 nel sud del mondo si contavano 1 miliardo e 20 milioni di affamati, un sesto della popolazione che- si fa per dire- vive sul pianeta. E, ancora, rispetto al 2008, nei primi sei mesi del 2009 gli affamati sono aumentati di 100 milioni per effetto della crisi globale e dell’intreccio perverso tra recessione e disoccupazione.
Se la prima ha portato ad un aumento dei prezzi dei beni alimentari, per cui con gli stessi soldi si comprano meno alimenti, la seconda ha ridotto drasticamente le rimesse degli immigrati che hanno perso il posto di lavoro e le loro famiglie hanno meno soldi da spendere. Sempre secondo la FAO, gli affamati “sono 642 milioni in Asia e nel Pacifico, 265 milioni nell’Africa subsahariana, 53 milioni in America Latina e nei Caraibi, 42 milioni nel Vicino Oriente e nell’Africa del nord. E sono 15 milioni quelli che non hanno cibo sufficiente in paesi come il nostro” (Nigrizia, 7-8/09). Nel momento in cui la forbice tra il mondo dell’opulenza percepita e quello della scarsità reale tende ad allargarsi, il “sistema cibo” diventa una problema reale, sia per chi ne ha troppo, sia per chi non ne ha abbastanza: i primi non vendono, i secondi non comprano. È cresciuta la produttività ma l’Ilo ha rilevato che i lavoratori poveri del mondo, quelli che, pur avendo un lavoro, vivono con meno di 2 dollari americani al giorno, sono 1,37 miliardi. Quanto alla seconda questione, cioè alla distribuzione della ricchezza, il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (PNUD), ha rievato che il 20% della popolazione mondiale più ricca dispone dell’83% della ricchezza, il 20% della popolazione più povera dispone dell’1,4% e al restante 60% della popolazione rimane il 15,6% (Madera, 1999). Negli Stati Uniti, per esempio, l’1% della popolazione possiede il 40% della ricchezza, il 20% un altro 40% mentre il restante 79% di popolazione deve accontentarsi del 20% (Madera, l. c.). In queste condizioni, il liberalismo “a tutti i costi” che privilegia l’offerta (impresa e mercato), senza considerare l’occupazione (domanda), rappresenta uno degli aspetti più affascinanti e perversi delle discipline economiche, soprattutto per la banalità con cui si esprimono risultati e congetture, ammantandole di costruzioni complesse, talvolta, al limite della paranoia. D’altronde se l’allora segretario del Pds Massimo D’Alema, ha potuto dichiarare “Io sono un liberale” (Bevilacqua, 2008) e mantenersi serio, è possibile pensare che i liberali di casa nostra si siano sentiti gratificati da questa, sia pure non autorevole, new entry. Né possiamo meravigliarci se Richard Sobov, assistente al CIO della Lincoln, esprimendo un’idea condivisa da tutto il mondo delle imprese, ha dichiarato “Tendiamo a privilegiare l’investimento, prima di assumere nuovo personale” (Rifkin, l. c.), ignorando che questa scellerata proposizione aveva antecedenti teorici in David Ricardo che, nel 1819, aveva affermato che in economia la quantità di occupazione è irrilevante perché non influisce sulle rendite e sui profitti che originano nuovi investimenti. Posizioni lecite, certo, ma solo per chi è convinto che il cervello sia solo un ingombro anatomico. Che il messaggio di Ricardo, lungi dall’assumere un carattere messianico, dovesse rivelarsi un’autentica bufala, è stato ampiamente dimostrato da tutte le crisi economiche che hanno attraversato il capitalismo, compresa quella che stiamo vivendo. Restando ancora nel limbo dei classici, nel 1798 Thomas Malthus aveva previsto che, entro la metà del XIX secolo, la crescita della popolazione sarebbe stata eccedente ripetto alla disponibilità di cibo, Le previsione malthusiana non si è avverata nei termini in cui era stata enunciata ma si è espressa, con connotazioni più perverse, nel paradosso che, ad una disponibiltà alimentare pari a 1,5 volte il fabbisogno dell’intera popolazione mondiale (Smith, 2004), corrispondono 1,1 miliardi di affamati. Davvero l’occupazione è ininfluente rispetto al mercato? Davvero abbiamo bisogno degli OGM per vincere la fame nel mondo o non è vero che gli OGM, al pari di altre tecnologie, lasceranno per strada altri milioni di uomini senza lavoro?
Non è il caso di cominciare a pensare a nuove forme di occupazione, prendendo atto che alcuni processi, come la sostituzione del lavoro umano con le macchine, sono irreversibili? Pensare ad un’agricoltura non petrolio- dipendente, per esempio. Pensare di utilizzare la competenza dei geologi per limitare frane, erosioni e perdita di suolo per desertificazione, senza accontentarsi di intervistarne qualcuno dopo un evento, salvo, poi, a contiunare sulla strada percorsa perché quell’evento si verificasse.
La domanda è: esiste una vita “oltre il mercato”?
Negli ultimi anni, all’esterno della dicotomia governo- mercato, si è aperta una terza possibilità, definita la “terza forza basata sulle comunità locali” (Rifkin, l. c.).
In questo settore, “altrimenti noto come indipendente o volontario, l’accordo fiduciario cede il passo ai legami comunitari, e la cessione volontaria del proprio tempo prende il posto delle relazioni di mercato imposte artificialmente e fondate sulla vendita di se stessi e dei propri servizi”, e proprio perché escluso dalla logica del profitto, attraverso la riduzione dei salari, il terzo settore “è scivolato ai margini della vita pubblica, costretto all’angolo dal dominio sempre più forte delle sfere del mercato e dello Stato” (Rifkin, l. c,). Questo settore occupa già una buona parte della vita sociale e il volontariato spazia dall’istruzione alla ricerca, dall’assistenza sanitaria ai servizi sociali, dalle arti alle religioni, dall’assistenza ai diversamente abili al disagio giovanile, dai malati di AIDS ai malati terminli. In futuro, disoccupazione e minore impiego di lavoro, forniranno sempre maggiori quote di tempo libero improduttivo, per sé stessi e per i processi di accumulazione. A noi spetta valutare come farlo rientrare nel processo e invertire la logica dell’espulsione. Dal punto di vista della produzione di ricchezza “uno studio condotto dall’economista Gabriel Rudney, di Yale, nei primi anni ottanta è giunto a stimare che la spesa delle organizzazioni di volontariato americane fosse più elevata del prodotto interno lordo di tutti i Paesi del mondo, con la sola eccezione di quelli appartenenti al Gruppo dei Sette” (Rifkin, l. c.).
Si tratta di prendere atto che, da una parte, la logica del profitto tenderà ad utilizzare sempre meno lavoro e, dall’altra, il volontariato può fare cose che il settore pubblico e quello privato non faranno mai. I sociologi francesi lo hanno definito “economia sociale” e Thierry Jeanter ha scritto che questa “non è misurata allo stesso modo in cui si misura il capitalismo […] ma il suo prodotto integra i risultati sociali con i guadagni economici indiretti” (Thierry Jeanter, 1986). Si tratta, in altri termini, di stipulare un nuovo contratto sociale fornendo la giusta risposta a quanto osservava nel 1819 Simonde de Sismondi, in risposta alle allucinazioni di Ricardo: “La ricchezza è davvero tutto e gli esseri umani assolutamente niente?
Bibliografia
Bevilacqua, P. (2008), Miseria dello sviluppo, Bari, Laterza.
Madera, R. (1999), L’animale visionario, Milano, Il Saggiatore.
Marx, K. (1965), Il Capitale, Libo III, cap. XLVIII), Roma, Editori Riuniti.
Rifkin, J, (1995), La fine del lavoro, Milano, Baldini & Castoldi.
Simonde de Sismondi, J. C. I. (1819), Nouveaux principes d’économie politique. Sta in Rifkin, l. c.
Smth, J., M. (2004), L’inganno a tavola, Ozzano dell’Emilia, Nuovi Mondi Media.
Thierry, J. (1986), La Modernisation de la France par l’economie sociale, Parigi, Economica. Sta in Rifkin, l. c.
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I 150 anni dell’unità d’Italia e Giuseppe Mazzini, precursore del nuovo diritto pubblico europeo

L’apostolo che ci ha mostrato il cammino verso un nuovo mondo

Uno di quegli eroici veggenti. “Mentre l’Italia dormiva, egli vegliava pensava e agiva

Per l’Unione dei partiti radicali. Per “la sovranità del popolo, libero di ogni laccio di chiesa costituita e militante”

per cura di Giuseppe Candido e Filippo Curtosi

“Foste schiavi un tempo,
poi servi,
poi salariati:
sareste fra non molto,
purché lo vogliate,
liberi produttori e fratelli nell’associazione.”

Prima l’unione della Lombardia al Regno di Sardegna, la fusione con l’Emilia, la Romagna e la Toscana sino al loro congiungimento alla Sicilia, al Mezzogiorno, alle Marche e all’Umbria e, nel 1861, venne proclamato il Regno d’Italia. L’embrione era stato generato. “Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato; Noi abbiano sanzionato e promulghiamo quanto segue: Articolo unico: Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi Successori il titolo di Re d’Italia. Ordiniamo che la presente, munita del Sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta degli atti del Governo, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato. Da Torino addì 17 marzo 1861”. Il 21 aprile 1861 quella legge diventa la n. 1 del Regno d’Italia. Mancavano però, ancora, il Veneto che vi si aggiunse nel 1866, Roma e il Lazio sotto al dominio papalino sino al 1870, la Venezia Tridentina e la Venezia Giulia per le quali si dovette aspettare sino al 1918. E’ la storia è più bella che il secolo XIX offre all’Europa nel campo delle unificazioni nazionali. Un grande esempio che il Risorgimento italiano ha donato al mondo intero realizzando l’unità attraverso la libertà.
Il 17 marzo del 2011 l’Italia compirà 150 anni. Il Paese del “bel canto”, acciaccato ma ancora in piedi, ne ha fatta di strada dal lontano 17 marzo 1861 in cui il neonato Parlamento (con sede a Torino presso il famoso “Palazzo Carignano”) sancì la proclamazione del Regno d’Italia. Ma spesso gli anniversari, le ricorrenze, si accavallano e, il prossimo 10 marzo, sarà pure il 139mo anniversario dalla morte di uno degli uomini considerato, assieme a Giuseppe Garibaldi, Vittorio Emanuele II e Camillo Benso, uno dei padri della patria. Con Giuseppe Mazzini, il più grande degli esuli dopo Dante, “il pensiero vola allo scoglio di Caprera, a quel Pantheon dell’umanità, ove riposa l’eroe leggendario – l’uno rappresentante il pensiero della patria, l’altro esprimente l’azione popolare, mentre l’Italia giaceva sotto il giogo dei preti e dei tiranni”. Qualcuno oggi polemizza se l’Unità d’Italia sia stata un bene oppure una fregatura, soprattutto per il mezzogiorno. Noi non vogliamo entrare in queste considerazioni e vorremo invece concentrare l’attenzione su una delle figure cardini della Giovine Italia. Nato a Genova il 22 giugno del 1805 Giuseppe Mazzini, politico e patriota, si presenta ai giovani, ancora adesso, come una figura “luminosa”.

Giuseppe Mazzini
Giuseppe Mazzini

La repubblica, come necessità storica sorgerà dai cento errori governativi che terranno dietro ai cento commessi; sorgerà, dal convincimento degli animi, che la guerra ogni giorno alla libertà degli italiani, alle associazioni, alla stampa, al voto, è conseguenza inevitabile del sistema, non d’uno o d’altro ministero; sorgerà dal senso di pericolo mortale e di disonorare che lo spettacolo di corruzione dato da un governo senza dignità e senza amore, susciterà presto o tardi, onnipotente negli uomini che hanno a cuore l’avvenire della Patria”.
Tutti gli uomini, per quanto di nazionalità diversa, già separati dal tempo, e aventi concetti filosofici opposti, vedute contraddittorie sul modo di considerare molti particolari dell’organizzazione sociale, possono nondimeno sentirsi collegati insieme da un vincolo supremo.

Il vincolo che ci unisce a Mazzini, secondo Yves Guyot, direttore de “La Siécle”, quotidiano francese stampato come “giornale politico, letterario e d’economia sociale” tra il 1836 e il 1932, è il seguente: “Al veder mio v’hanno, al di sopra di tutte le questioni secondarie, due grandi dottrine: la dottrina del regresso e la dottrina del progresso: La prima si riconosce da’ eguenti sintomi: predominio dei più sopra i pochi: strumento di si fatto predominio, la menzogna e la forza: oppressione dell’uomo che si riflette sulla donna: annullamento del fanciullo mercé quelle due oppressioni in accordo fra loro: quindi atonia intellettuale, morale e fisica: spoliazione de’ deboli a beneplacito di tutti. In sì fatto ambiente: l’ira d’individuo ad individuo, da religione a religione, da credenza a credenza, da città a città, da favela a favela, da razza a razza: la guerra, fine supremo dell’umana attività!
La seconda, all’incontro, ha per intento: il rispetto della personalità, quale che ne sia il sesso o l’età, la patria e il colore: l’eguaglianza di tutti dinnanzi al Diritto: la protezione dei deboli, la distruzione dei privilegi usurpati dai forti; la libertà per tutti; libertà di disporre della propria persona sotto la propria responsabilità; libertà d’andare, di venire, di operare; libertà di pensiero, di parola, di scritto; libertà di associarsi pel compimento di tutti quegli atti, che, se commessi da individui isolati, non sarebbero considerati criminosi: fusione di tutti i componenti la famiglia umana, nella progressiva evoluzione.
E questa dottrina fu quella che Mazzini insegnò: al suo trionfo Ei consacrò l’intera sua vita: e la profonda traccia da Lui lasciata nell’animo di quanti lo conobbero, è prova inconfutabile dell’efficacia dell’opera sua. L’umanità mi appare quale immenso ammasso di tronchi mutilati, inconsci, ciascuno dei quali si va piegando e ripiegando in dolorose convulsioni; tutti urtandosi, dilaniandosi, divorandosi gli uni gli altri ne’ loro perenni sforzi per riunirsi e costituire un Essere guidato da un’intelligenza e da un’unica volontà. E stimo suoi più grandi benefattori coloro che, afferrando i tronchi del mostro, gettandosi fra quelle ritorte, immergendo il braccio nelle fauci divoratrici per strappar loro la preda, senza timore di esserne soffocati, lacerati, o contaminate dalle loro brutture hanno lavorato a ricostruire le vertebre affiacchite, affinché, al ridestarsi della coscienza che era venuta meno, l’Umanità scoprisse il suo ideale di perfettibilità, e lo attuasse. Mazzini fu uno di quegli eroici veggenti. Quanti credono nel Progresso, conclude il giornalista, gli debbono il tributo del loro rispetto e della loro ammirazione. Ed io vi sono riconoscente di avermi offerto l’occasione di deporre il mio”.
Le idee di Mazzini e la sua azione politica, senza dubbio contribuirono in maniera decisiva alla nascita dello Stato unitario italiano, la cui polizia lo costrinse però alla latitanza fino alla morte, a Pisa nel 1872. “Il corpo a Genova, il Nome ai Secoli, l’Anima all’Umanità”. Idee che furono di grande importanza, anche successivamente all’Unità, nella definizione dei moderni movimenti europei e per l’affermazione della democrazia attraverso la forma repubblicana dello Stato. “X MARZO” era il titolo di un foglio stampato a Napoli – il 10 marzo ovviamente – nel 1889, presso lo stabilimento tipografico dell’Iride. Ritrovarlo assieme alle “antiche riviste calabresi” di un facoltoso signore deceduto è stato un caso davvero fortunoso poiché lo stesso veniva spedito al “Distinto Giovane Signor Ferdinando Grano” in Monteleone di Calabria. Non solo il Guyot. Sul foglio sono riportati scritti del Mazzini stesso alternati a fantastici editoriali di scrittori.
Mazzini “Si presenterà luminoso al secolo venturo per queste ragioni chiare: Fu araldo dell’Idea nazionale e fondò la Giovine Italia; Fu precursore del nuovo diritto pubblico europeo e fondò la Giovine Europa; Derivò l’azione dal pensiero ed ordinò la filosofia e le lettere ad alto fine politico; Intese l’inutilità di parlare ai poteri costituiti ed alle generazioni vecchie e si rivolse alle generazioni nuove ed al popolo con lingua di popolo. Fu inteso. Il suo pensiero fu convincimento, carattere, vita sua e vita di nazione. Tanto s’ingrandisce di anno in anno quanto s’impiccolisce la distanza fra lui ed il suo ideale” scriveva Giovanni Bovio.
Il pensiero politico e sociale dimostrano che Giuseppe Mazzini fu davvero una di quelle “grandi anime che visitano d’epoca in epoca, l’Umanità per annunciare un nuovo ordine di cose
”.

Così Cajo Renzetti nel ricostruirne il pensiero politico e sociale per quel numero Unico del 1889 a diciassette anni dalla morte. “Mazzini fu uno di quegli eroici veggenti”. “Queste potenti individualità sorgono, confusamente presentite da molti, sul morire di una fede religiosa allo spirare di un periodo storico filosofico. Sorgono potenti della sintesi del passato e forti dell’intuito divinatore dell’avvenire. Ardentemente amano, e però nella lotta contro l’errore si scagliano cavalieri della morte. La loro virtù atterra e suscita, abbatte ed edifica. L’epoca li deride li calunnia li perseguita, ed essi perseguono immutati, paghi della riconoscenza del futuro”. Giuseppe Mazzini patriota cospiratore legislatore filosofo e letterato, “Siffattamente agitò redarguì ammaestrò e risospinse per oltre quarant’anni la vecchia Europa, che fondò una patria, l’Italia, e gittò le prime pietre di una civiltà”. Tra la chiesa cattolica ed il secolo, egli evocò la libertà di pensiero e di coscienza. Tra la libertà ibridamente sposata al principato, la democrazia. Tra i capitalista e il salariato, il libero produttore”. La missione di Giuseppe Mazzini è essenzialmente “Rigeneratrice morale umanitaria, e questa si estende a tutti i popoli ed abbraccia tutte le nazioni.” “Senonché egli nasce in un paese decaduto da tanti secoli, fra un popolo diviso e oppresso per molti despoti, e deve consacrare anzi tutto le proprie facoltà a ridestarlo a sospingerla alla conquista dell’unità e della libertà , le due prime basi le due prime leve potenti d’ogni durevole e salda conquista sociale”. Eccolo quindi dalle carceri di Savona, al triumvirato della Repubblica Romana del 1849; e dalla Giovine Italia, alla Alleanza universale dei popoli”. Egli è l’uomo dei politici ardimenti che col fervore di un antico ascende la gloriosa tribuna dei Gracchi, e più fortunato e più innovatore di Crescenzio di Arnaldo di Stefano Porcari e di Cola da Rienzo, decreta la fine del Papa e del re, proclamando la sovranità del popolo, libero di ogni laccio di chiesa costituita e militante, sciolto d’ogni tirannide di mediazione spirituale o temporale. Egli è l’uomo delle redentrici aspirazioni che detta il libro dei Doveri dell’Uomo, dove con sapienza mirabile tenta armonizzare la libertà colla legge, l’individuo coll’aggregazione, la proprietà col lavoro, la donna coll’uomo. E in tutto questo suo processo filosofico umanitario, due grandi e belle figure spiccano luminosamente, i due primi ed ultimi esseri della creazione, i due tipi eternamente giovani della società, la Donna e l’Operaio. Proprio nelle ultime linee dei Doveri dell’Uomo, quasi estremo legato ai posteri, egli ha scritto: “L’emancipazione della donna dovrebbe essere costantemente accoppiata per voi, coll’emancipazione dell’operaio, e darà al vostro lavoro la consacrazione d’una verità universale.” Mazzini è cultore altissimo dell’arte, ma, continua il Renzetti, “l’arte per l’arte non costituisce il suo ideale. Per lui arte significa missione, missione morale e sociale. L’arte gli si presenta come l’insegnamento del bene mercé gli allettamenti e le attrattive del bello. Mazzini è amante della patria, ma resta assai lontano da quel patriottismo pel patriottismo per il quale oggi molti, repubblicani un giorno, riposano stanchi sugli allori dell’unità, carichi il petto di ciondoli regi. La patria per lui corrisponde, prosegue, ad una delle tante specie di quella divisione di lavoro così utile alle produzioni. Come nelle grandi fabbriche meccaniche vi sono diversi opifici, ciascuno dedicato a lavori diversi di una macchina stessa, così nel grande arsenale del mondo vi sono parecchie officine, le patrie, concorrenti ad elaborare gli elementi della macchina comune, l’umanità. Ma essa patria può anche sparire col tempo, appunto perché ci educa alla fratellanza cosmopolita.” Tant’è vero che, nei Doveri dell’Uomo, lo stesso Mazzini afferma la possibilità che “La patria sacra in oggi, sparirà forse un giorno, quando ogni uomo rifletterà nella propria coscienza la legge morale dell’Umanità”. Mazzini è fautore della libertà, della libertà la più ampia, la più sconfinata, ma, il liberalismo per il liberalismo non costituisce il suo ideale. “La libertà senza l’uguaglianza è una pianta sterile, uniforma vuota di sostanza”. Per Mazzini, scrive egli stesso nelle Opere, “La libertà non è un principio, ma quello stato in cui lo sviluppo di un principio è concesso ad un popolo. Non è il fine, ma il mezzo per raggiungerlo.” Qual’è dunque l’ideale degli ideali di Giuseppe Mazzini? “L’Umanità, lo sviluppo di tutte le facoltà fisiche e morali di quanti vivono, il miglioramento di tutti, la redenzione di quanti ha tipi manchevoli irregolari e deformi la natura, di quante ha vittime la società, di quanti ha martire la vita; la felicità massima e possibile della creatura, il benessere morale e materiale di tutti, dovere di procacciare il benessere sociale, la progressiva divinizzazione dell’uomo”. Così rispondeva, nella prima pagina di quel X Marzo, foglio unico del 1889 per ricordare il padre della patria scomparso diciassette anni prima, il giornalista Cajo Renzetti. “E per ascendere a questa città futura, egli accenna a due principi fondamentali, la nozione del dovere e la virtù del sacrificio; avvegnanché per lui la vita significa missione, compito di trasformare le cose a favore di tutti, dovere di procacciare il benessere sociale”. Da queste considerazioni emergono i concetti i concetti di famiglia, di legge, di stato, di proprietà, di popolo, quali, purtroppo, ancora oggi molto spesso non sono. “La famiglia è appunto la cellula embrionale di ogni umano consorzio. Essa col suo magistero di amore e a mezzo della prossimità, prepara ed educa i cittadini alla patria, come la patria li educa e li prepara all’umanità. La legge scritta non può essere che un riflesso, una fotografia, per così dire, della legge morale e naturale. Gli uomini nulla creano, ma scoprono; essi dunque debbono investigarla nel loro tempo ed attraverso la tradizione. Nessuno quindi può dettarla a capriccio, ed essa deve venire liberamente discussa e unanimemente accettata”. Lo stato, secondo il concetto mazziniano, non decapita i delinquenti, perché “il suo codice penale protegge la società, e ne educa gli individui; non legalizza la prostituzione, perché ripudia il lenocinio; non sparge le locuste della burocrazia, perché fa pochissime leggi e buone; non si circonda di baionette permanenti, perché tutti i suoi cittadini militano; non tiene gabellieri alle porte o alle dogane, perché non ha corte, né lista civile, né balli diplomatici, né livree di ministri, né galloni di generali: non compra coi fondi segreti , perché non ha spie, e non ha spie, perché tutto si può dire e stampare intorno ai problemi sociali, e l’interesse della sussistenza dello stato è comune; ivi i migliori per ingegno e virtù hanno dovere e diritto al raggiungimento dei pubblici negozi, e vengono eletti da tutti, rimanendo sindacabili, amovibili, responsabili.”
Lo stato mazziniano “rinuncia al carnefice, al gabelliere o al delatore, e, senza atteggiarsi a grande impresario della pubblica felicità, si riserva due sole ed uniche funzioni, la funzione esemplare e quella e la completiva. Dove manca l’esempio, lo stato promuove; dove difettano le facoltà dei privati in opere di pubblica utilità, esso concorre, disponendo, naturalmente, di mezzi maggiori a quelli de’ privati.
Questa specie di stato favoreggia, stimola, inizia a proteggere le tendenze e le spontaneità collettive. Esso può dirsi uno stato patriarcale che invece di perpetuare sé stesso ed allargare la propria sfera d’azione, tende mano mano ad innalzare il cittadino fino alla libertà, cancellando, ogni giorno che passa, una riga della propria legge. Tale stato, infine, a guisa del buon padre di famiglia, scende lieto nel sepolcro, vedendo adulti e felici i suoi figliuoli.” La proprietà, secondo quanto la intese Giuseppe Mazzini non è, e non può essere il risultato della frode, dell’usura della fortuna. La proprietà deve avere un ben “più giusto fondamento, più onesta origine, il lavoro”. Nei Doveri dell’Uomo, lo stesso Mazzini ha scritto chiaramente che la proprietà “è il segno, la rappresentazione della quantità di lavoro, col quale l’individuo ha trasformato sviluppato accresciuto le forze produttrici della natura”. Essa dunque è il frutto di un lavoro compiuto, e siccome in una società fondata sulla eguaglianza tutti hanno dovere e diritto al lavoro, ne consegue che “la proprietà non può, né deve agglomerarsi nelle mani di pochi e tiranneggiare il lavoro”. “La proprietà, mutabile e trasformabile in virtù della legge di progresso, deve continuamente scindersi e frantumarsi così che torni accessibile a tutti, e tutti possano, meritando col lavoro, appropriarsela”.
Forse non è l’utopia pura, forse è il modello cui uno stato dovrebbe tendere, ma sappiamo bene, a distanza di 150 anni, che non è andata precisamente così. Questo Stato, in cui viviamo l’oggi, non tende mano ad innalzare il cittadino fino alla libertà. Non favoreggia, non stimola, non protegge le tendenze e le spontaneità collettive dei suoi cittadini. Non educa e, soprattutto, non rieduca i cittadini con carceri da paese incivile e che rendono, per la loro inumanità, 15 volte maggiore il tesso dei suicidi al loro interno. E’ uno stato che spesso “sparge locuste burocratiche” per non semplificare la vita dei suoi cittadini e per compromettere la vita stessa democratica scegliendo, per legge, la via partitocratica della nomina al posto dell’elezione, dell’insindacabilità e dell’inamovibilità invece della responsabilità. Proprio per questo, forse, ricordare oggi il pensiero di Giuseppe Mazzini, di uno di quei padri fondatori dell’Italia, della tanto festeggiata Unità d’Italia, non serve ad un suo tripudio storico ma può essere utile per sottolinearne la rivoluzione necessaria e il lungo cammino che non è ancora stato sufficiente a renderlo, questo Stato, davvero democratico. D’altronde, lo ricorda nei suoi scritti* il genovese, “tutte le rivoluzioni sono nella loro essenza sociali , che l’ordinamento politico è la forma e non altro dei mutamenti, e che non si ha diritto di chiamare i milioni al sacrificio della quiete e della vita, se non proponendo loro uno scopo di perfezionamento collettivo, di miglioramento morale comune a tutti.”
Ciò che Giuseppe Mazzini scriveva nel 1862 allo scrittore socialista spagnolo Ferdinando Garrido sul manifesto, che esisteva fra i democratici ed i socialisti spagnoli, noi, senza tema di errore, possiamo oggi ripeterlo e ricordarlo a tutti i democratici a proposito delle cause che tengono disuniti le diverse gradazioni del nostro partito. La sola differenza sta in questo che nel 1862 in Spagna il manifesto era fra pochi socialisti e tutto il partito repubblicano, mentre ora in Italia il dissidio è grande, perché il “partito radicale” è diviso in tatti piccoli gruppi, per quanti il progresso delle scienze sociali, l’attuale regime costituzionale, la miseria invadente ed in proporzione di questa, il malcontento, ne hanno formati. “Ai repubblicani, ai socialisti, agli anarchici, ai “comunardi” e via dicendo a tutti i radicali in generale”, noi ripetiamo, come ripeteva in quel foglio M. Florenzano, le parole di Giuseppe Mazzini: “Havvi un terreno comune abbastanza vasto perché vi possiamo stare tutti uniti. Per noi non esiste rivoluzione, che sia puramente politica. Ogni rivoluzione deve essere sociale, nel senso che sia suo scopo la realizzazione di un progresso decisivo sulle condizioni morali, intellettuali ed economiche della Società. E la necessità di questo progresso, essendo più urgente per le classi operaie, ad esse anzitutto devono essere rivolti i benefici della Rivoluzione. E neppure può esserci una rivoluzione puramente Sociale. La quistione politica, cioè a dire l’organizzazione del potere, in un senso favorevole al progresso morale, intellettuale ed economico del popolo, è tale che rende impossibile l’antagonismo della causa del progresso, è una condizione necessaria alla Rivoluzione Sociale. E’ necessario all’operaio la sua dignità di cittadino, ed è garanzia per la conquista della liberà. (…) Riuniamoci dunque, compatti sotto un vessillo comune, che dica: Libertà per tutti, Progresso per tutti. Associazione di tutti per poter perseguire il fine unico che tutti ci proponiamo”.
Per ciò ci piace brindare a questo X Marzo, pure noi, colle parole che in suo onore pronunciò Giuseppe Garibaldi a Londra, nel 1864, in casa del grande agitatore russo Herzen: “Bravo Mazzini che, mentre tutta Italia taceva, parlava di Patria agli italiani; quest’Uomo che, mentre Italia dormiva, vegliava, pensava e agiva; bravo al mio Maestro, il Maestro di noi tutti.” D’altronde i Farisei, per dirla alla Kaiser, gridarono la croce al cospiratore; ma “quando dai due emisferi i Popoli avranno imparato a conoscerlo”, lo chiameranno col suo vero nome e “saluteranno in Giuseppe Mazzini l’apostolo, che ci ha mostrato il cammino in un nuovo mondo”.

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Le persone reinventano l’informazione: Nasce Net1News

Care amiche e amici di “Abolire la miseria della Calabria”,

Net1news
Nettuno, dio delle acque correnti e del mare

a seguito dell’invito riservato ricevuto, come direttore editoriale, ho il piacere di annunciarvi che, anche il nostro periodico nonviolento di storia, arte, cultura e politica laica e liberale calabrese ha inteso aderire al progetto di Net1news, la prima rete italiana di blog d’informazione libera il cui principio di base è molto semplice: Unire le forze. Noi, manco a dirlo, siamo baluardi per la categoria: Calabria. Ci stiamo raccomandando per quella della Politicas 🙂

“Prima eravamo nessuno oggi siamo Nettuno” recita il motto un po’ goliardicamente. Nettuno era considerato il dio delle acque correnti che in seguito divenne, dopo il 399 A.C., il dio del mare trasformandosi nell’equivalente del dio greco Poseidone. Cicerone nel trattato Sulla natura degli dei così lo descrive: «…Il primo regno, cioè il dominio su tutto il mare, fu affidato a Nettuno che la tradizione vuole fratello di Giove …». Oggi net1news si propone quindi come dominio del e nel mare dell’informazione libera on line costituita dai tanti blog e siti web d’informazione come il nostro che avranno visibilità e daranno visibilità a Nettuno che, di conseguenza, crescerà proporzionalmente d’interesse in base all’interesse che l’onda libera dell’informazione aderente saprà suscitare. Per il momento, il banner nell’angolo in alto a destra del nostro sito rinvia al blogspot di Net1news. Dal 25 aprile sarà invece attivo il dominio ufficiale www.net1nwes.org

Il progetto parte dal Veneto ma ha già contagiato molti siti d’informazione libera in tutta Italia con l’obiettivo comune di creare un’area compartecipata – non un semplice aggregatore di notizie – su cui far convivere diverse aree tematiche e categorie geografiche. Una piattaforma web che non sarà una semplice vetrina ma un’area in cui la notizia, l’analisi e l’editoriale saranno visualizzati in base all’interesse che essi suscitano negli utenti del web. Unire la visibilità di ciascuno per creare un sito appetibile dal punto di vista pubblicitario e i cui i profitti saranno condivisi tra i siti e blog partecipanti proporzionalmente ai lettori che avrà interessato.

Net1News verrà presentato ufficialmente al prossimo Festival Internazionale del Giornalismo in programma a Perugia dal 21 al 25 aprile 2010. L’appuntamento, intitolato Le persone reinventano l’informazione e organizzato dal giornalista Vittorio Pasteris, è per sabato 24 aprile. Il nostro relatore sarà Giacomo Vizzotto, project manager di Net1News assieme a Massimo Romanello. All’incontro parteciperanno Salvatore Aranzulla blogger, Alessandro Bonino blogger, Robin Good di Masternewmedia.org, Emanuele Menietti blogger e lo stesso Vittorio Pasteris.

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Quella guerra si poteva evitare

di Giuseppe Candido

Silvio Berlusconi – Wiki media

Una bella domanda per Blair, Berlusconi e Bush: “Come mai Blair decise di boicottare l’unica vera alternativa alla guerra al dittatore iracheno rappresentata dalla possibilità concreta che questi andasse in esilio?”

Blair - Flicker
Blair – Flicker

Una domanda che, però, è rimasta inevasa anche all’audizione di Tony Blair, lo scorso 29 gennaio alla commissione d’inchiesta sulla guerra in Iraq. Bugiardo e assassino urlano i familiari dei caduti britannici in Iraq e, secondo la Bbc, l’urlo scatta quando l’ex premier ha affermato di avere “responsabilità ma non rimorsi” per aver deciso di abbattere Saddam Hussein.

Ma la guerra in Iraq poteva essere evitata. Saddam Hussein era pronto ad andare in esilio, ma si preferì il conflitto. Prima dello scoppio della guerra, in una riunione tenutasi al ranch di Crawford del Presidente Bush, alla presenza di Aznar e con Blair e Berlusconi collegati telefonicamente, si discusse davvero della possibilità d’esilio (nel 2007 Zapatero tolse il segreto sugli appunti dell’allora Ambasciatore spagnolo negli USA e il documento fu pubblicato nel settembre dello stesso anno sia dal Pais che dal New York Times). A ricordarlo è Marco Pannella con un digiuno, iniziato lo scorso 20 gennaio e facente parte di un Satyagraha mondiale per la pace, e mediante una lettera pubblicata dal Guardian, noto quotidiano inglese, lo scorso 26 gennaio. “Da allora, però, nessuna inchiesta americana né europea ha affrontato la questione. 
La Lega araba era pronta a richiedere formalmente l’esilio a Saddam con una risoluzione da adottarsi al summit di Sharm-el-Shaik del 1 marzo 2003. Ma che l’irruzione di Gheddafi sulla scena con ingiurie contro la casa reale saudita impedì che la decisione venisse adottata. L’incidente, sebbene ampiamente documentato anche dalla stampa araba, non e’ mai stato approfondito dalle varie commissioni del Congresso USA né, lo scorso 29 gennaio, dalla commissione di Sir Chilcot”.
 Di questa vicenda, ad eccezione di un corsivo lo scorso 30 gennaio su il Manifesto, la stampa e la televisione italiana omettono completamente di occuparsene. Come se i caduti di Nassiria, i morti in Iraq, non ci riguardassero più, come se ai genitori dei militari italiani in missione in Iraq non possa interessare il conoscere che quella proposta radicale, di esiliare Saddam, poteva davvero essere adottata, anche col sostegno della lega araba, per evitare la guerra. La storia di questo secolo potrebbe essere diversa da quella che i media raccontano.

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Clandestini nella terra promessa

di Giuseppe Candido

Migranti italiani sbarcano in America

Quando si lascia la propria terra in cerca di un futuro migliore di quello che l’Africa o altre parti del mondo ti prospettano non lo si fa per diventare criminali o violenti rivoltosi. Si emigra, si lascia la propria patria spinti dalla miseria e, soprattutto noi calabresi dovremmo ricordacelo bene, visto che migranti lo siamo stati pure noi. La Calabria ha cominciato “bene” il nuovo anno: prima l’ordigno esplosivo alla procura di Reggio Calabria. Poi, dopo la befana, al posto del carbone i migranti di Rosarno in rivolta. Quei migranti che normalmente coltivano i nostri campi e fanno quei lavori che noi calabresi non vogliamo più fare, si sono scatenati dopo essere stati presi a colpi di carabina con fucili ad aria compressa. Feriti, auto distrutte, cassonetti spaccati e rovesciati sull’asfalto, alcune abitazioni danneggiate. Il bilancio di una sorta di guerriglia urbana accesa per la violenta protesta di alcune centinaia di extracomunitari, lavoratori dell’agricoltura, accampati in condizioni disumane in una ex fabbrica e in un’altra struttura fatiscente. Le immagini di Enzo Iacona lo avevano già raccontato e, risale al maggio dello scorso anno, la notizia dell’arresto di alcuni “imprenditori” di Rosarno con l’accusa di aver ridotto alcuni immigrati, sia regolari sia irregolari, in condizioni di schiavitù. In passato, nel dicembre del 2008, due giovani spararono da un’auto dei colpi di arma da fuoco contro due ragazzi africani di ritorno dai campi. Che sia scoppiata la protesta, la rivolta violenta, non ci devrebbe dunque meravigliare: è il destino dei subalterni sfruttati, lo è stato in passato con i briganti che nel decennio dell’occupazione francese, si rivoltarono contro lo sfruttamento della Calabria e dei calabresi, succede oggi con i “briganti” dell’Africa che, pagati pochi spiccioli per lavori duri e ridotti a vivere in favelas ammassati come sardine, ricevono colpi di carabina in vece del pane per il quale hanno lasciato la loro terra. Dicono che sono “clandestini”, “irregolari” perché privi del permesso di soggiorno. Ma irregolari lo saremmo anche noi se, lo Stato che ti dovrebbe concedere o negare il permesso di soggiorno in soli venti giorni non rispetta la sua stessa legge e te lo da dopo mesi, quando magari è già scaduto. Per il rinnovo annuale si aspetta sino a 8-15 mesi, nonostante il Testo unico sull’immigrazione preveda, all’articolo 5, che “il permesso di soggiorno è rilasciato, rinnovato o convertito entro venti giorni dalla domanda”. Termini ordinatori e non perentori. Infatti, sono oltre 500 mila, in Italia, le persone in attesa del permesso di soggiorno e quando arriva, è questo il vero paradosso, è già scaduto. Nonostante le nuove procedure elettroniche in alcune città come Roma l’arretrato è abnorme e le questure non riescono smaltirlo. E successo a Gaouossou Ouattarà, migrante regolare di origini Senegalesi residente da anni in Italia e militante dei Radicali italiani che, sotto la guida gandhiana del partito di Pannella e Bonino, dallo scorso 13 dicembre ha intrapreso, assieme ad altri 300 migranti, uno sciopero della fame, un’azione di lotta nonviolenta, per “dare corpo all’iniziativa” volta a chiedere legalità, per chiedere allo Stato il rispetto della sua stessa legge sull’immigrazione. E così scopriamo che è l’Italia, lo Stato italiano, l’irregolare di turno che non considera perentori i termini di legge e costringe gli immigrati che hanno un lavoro, che hanno già un permesso di soggiorno che deve solo essere rinnovato, a restare illegali, clandestini per forza nella terra promessa. Però questa “notizia”, la notizia di uno Stato irregolare nel rispettare la sua stessa legge, non fa affatto notizia. La notizia diventano le violenze di Rosarno. Ed è l’illegalità a farla da padrona: l’illegalità dello Stato che non rispetta le sue stesse leggi e l’illegalità della ‘ndrangheta che ha sfruttato e sfrutta i migranti, si mescolano, si confondono. Non sempre, però, l’esempio della lotta nonviolenta che, quando adottato, permette di raggiungere i fini senza però pregiudicarli coi mezzi che si usano, viene seguito. Così, armati di spranghe, bastoni e rabbia per essere stati presi con le carabine, i migranti africani di Rosarno hanno invaso le strade mettendo “a ferro e fuoco” il piccolo centro calabrese già tristemente noto per le infiltrazioni della ‘ndrangheta nelle istituzioni locali e per la presenza, sul territorio, delle cosche Pesce e Bellocchio. In risposta sassaiole, fucilate per scacciare i “’niguri”. Ma a Rosarno, si sappia, nulla si muove se le “famiglie prevalenti” non lo vogliano e per cui, oggi, la procura sta indagando sul ruolo svolto proprio dalla ‘ndrangheta che potrebbe aver voluto “cavalcare” la rivolta per fini ancora da chiarire. I calabresi sono, per natura antropologica, tendenti all’accoglienza ma la ‘ndrangheta della legge sull’accoglienza votata all’unanimità dal Consiglio regionale calabrese se ne infischia. Risultato: due migranti gambizzati, due colpiti con delle spranghe, feriti da entrambe le parti. Uno degli extracomunitari versa in condizioni critiche. Oltre 700 sono stati trasferiti da Rosarno nei CPT di Bari e di Crotone, a Sant’anna, per evitare che fossero ancora oggetto di aggressioni. Il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato Vaticano, ha fatto un accorato appello finché cessi subito la violenza denunciando esplicitamente le “gravi condizioni di lavoro” cui sono costretti gli immigrati. “La situazione in Calabria preoccupa e affligge tutti – ha detto l’alto prelato – soprattutto per le gravi condizioni di lavoro a cui sono sottoposti i migrati, che pure rendono un servizio prezioso all’agricoltura e all’attività locale”. Maroni dice che la condizione d’illegalità e di non rispetto della legge dell’immigrazione sia la vera causa del problema. Spesso si sente affermare che la mafia esiste come organizzazione anche in altri paesi e si tende ad associare qualsiasi comportamento violento, illegale, al concetto di mafia, di criminalità organizzata. Per cui “il clandestino” che si organizza in lotta violenta è un criminale organizzato, quasi al pari della ‘ndrangheta. Così facendo, però, si corre il rischio di sbiadirne, ancora una volta e in maniera sistematica, il problema per cui se tutto può essere mafia, se ogni comportamento violento, di sopraffazione, può considerarsi antropologicamente mafioso, allora nulla è mafia. Questo degrado invece, potrebbe proprio essere il frutto amaro dello strapotere della ‘ndrangheta presente sul territorio calabrese ed è, per dirla alla Mario Draghi, “pervasivo delle pubbliche amministrazioni”. Uno strapotere contro il quale, i governi che da cinquant’anni si sono succeduti, non hanno fatto mai abbastanza per estirparlo. Uno strapotere che viene, di fatto, accettato da noi calabresi. Gli africani, invece, si sono ribellati alla ‘ndrangheta e, probabilmente, è proprio questa la loro vera colpa: quella di aver collaborato con i carabinieri, portando all’arresto dei loro sfruttatori che li avevano ridotti in schiavitù, rompendo quel muro di omertà che noi calabresi troppo spesso accettiamo nel silenzio.

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Salvemini, bastian contrario e sincero democratico. Solo Commemorazione?

Meglio arruolare e mobilitare: Emergenza democrazia in Italia? Il Processo farsa di Anna Politkovskaya.
di Filippo Curtosi

Gaetano Salvemini - Wiki

La figura di Gaetano Salvemini, nel cinquantenario della sua scomparsa viene restituita alla luce grazie ad un saggio di Gaetano Quagliarello (Gaetano Salvemini, il Mulino, Bologna 2007,pp 313) che ripercorre in modo organico l’intero arco della sua esistenza dal 1873 al 1975, soffermandosi su temi di scottante attualità come la morte della patria e sulla partitocrazia. Salvemini, dopo l’uscita dal Partito socialista,all’indomani della prima guerra mondiale ed in particolare di fronte al delitto Matteotti che inquieta Salvemini tanto che diventa uno dei principali propagandisti dell’antifascismo in campo internazionale e per questo fortemente osteggiato da Mussolini. Il fascismo nella lettura salveminiana non è visto come reazione al pericolo di una rivoluzione bolscevica che, come afferma lo stesso Salvemini non è mai esistito se non come” forma di agitazioni e disordini senza scopo provocati da una sinistra massimalista e inconcludente”. Il fascismo assume nella lettura dello storico pugliese i connotati di un fenomeno antiparlamentare. Antifascista de anticomunista tanto e vero che accostava fascismo italiano e comunismo sovietico e fu proprio Gaetano Salvemini a far da guastafeste nel “ Congresso internazionale antifascista degli scrittori per la difesa della cultura” che si svolge a Parigi nel 1935, presieduto da Gide e Malraux ed è li che denuncia il caso dell’arresto di Victor Serge per” trozkismo”. “Esiste una polizia segreta sovietica come la Gestapo e come l’Ovra che tiene prigioniero un intellettuale come Serge”. Scoppia il finimondo e tutta l’intellettualità è costretta a chiedere la liberazione di Serge. Togliatti nel 1945 lo ricorderà come “ un provocatore trozkista che deve la vita alla campagna di stampa borghese per la sua liberazione dalla Lubianka aizzata da Gaetano Salvemini”.

Il professore di Molfetta ha consegnato ai promessi sposi del Partito democratico, dice Ugo Finetti una eredità culturale che però giorno dopo giorno è sempre più vuota nel desolante deserto ideale che fa da scenario alla costruzione del nuovo soggetto politico.Siamo cresciuti negli ardori rivoluzionari giovanili e riformisti poi ed abbiamo assistito al governo di una sinistra che ha scambiato i principi in cambio di qualcosa di indecifrabile. Dovrebbero, tutti i politici vibonesi, fare proprie le frasi di Bobbio quando dice che “molte delle promesse della democrazia sono ancora promesse da marinaio”.
Norberto Bobbio nel 1975 in un bellissimo saggio dal titolo” Salvemini e la democrazia” scriveva:” Per comprendere appieno il rapporto tra Salvemini e la democrazia, non è sufficiente riferirsi all’esempio di un impegno durato tutta una vita intera e culminato nella ventennale battaglia contro il fascismo: occorre rileggere con attenzione i suoi scritti, dove è possibile rintracciare una compiuta e perfetta teoria dello Stato democratico”.
Nel 1953 Bertrand Russel pubblicò una sorta di abbecedario politico intitolato” L’alfabeto del buon cittadino e Compendio di storia del mondo( a uso delle scuole elementari di Marte). A partire dalla prima definizione( Asino: quello che pensi tu”), il premio Nobel per la letteratura disprezzava l’arroganza, l’assoluto, il dogmatico. il fanatismo. La definizione di Virtù:” sottomissione al governo” e all’opposto quella di Assurdo” Sgradito alla polizia”. O quella di Libertà” Il diritto di obbedire alla polizia”. E che dire della definizione di Saggezza” le opinioni dei nostri avi”. Per non parlare della definizione di Sacro, la cui definizione russelliana è” sostenuto per secoli da schiere di pazzi”. O di Cristiano, definito” contrario ai Vangeli”. Per non parlare di Bolscevico” chiunque abbia opinioni che non condivido”. Per tornare a Salvemini che sicuramente apparteneva a un’altra categoria di intellettuali cosi rilevava a proposito dell’essere italiani:” Quando parlano gli Italiani colti, mi capita spesso di non capire. Salvemini non deve essere colto, perché quello che dice lo capisco e, quello che pensa lo penserei anch’io”.” Il linguaggio storico e politico, scrive infatti Salvemini, attraversando tempi e ambienti culturali diversi, si è caricato con termini polivalenti, i quali debbono essere definiti, se non si vuole perdere tempo discutendo di equivoci”. Liberalismo,democrazia, socialismo scrive Sergio Bucchi, sono i termini principali del lessico Salveminiano e prima ancora sono i termini fondamentali del linguaggio politico del secolo decimonono, “il più intelligente, il più umano, il più decoroso dei secoli”. Le tappe essenziali del più grande movimento di emancipazione mai realizzatosi nella storia che ebbe il suo punto d’avvio nella rivoluzione francese. Se il liberalismo si identifica in origine con la battaglia per i diritti personali e la conquista delle istituzioni parlamentari contro i privilegi feudali e i regimi dispotici, la democrazia ne è una estensione, in quanto “ ammissione di tutti i cittadini all’uso delle istituzioni liberali”, il riconoscimento per tutti, senza distinzioni di sorta di tutte le libertà personali e politiche. “Un regime libero può non essere un regime democratico, ma un regime democratico deve essere un regime libero”. In questo senso,continua Bucchi, il “metodo della libertà” costituisce la via imprescindibile di ogni rinnovamento politico o sociale. E metodo della libertà e regole della democrazia non possono non essere alla base anche di ogni tentativo di conquistare quel tanto che è possibile di giustizia sociale. La realizzazione della giustizia contro ogni forma di sfruttamento e di oppressione è parte integrante non meno delle libere istituzioni, dell’ideale democratico. Istituzioni democratiche e giustizia sociale stanno tra di loro in un rapporto inscindibile di mezzo a fine,al di fuori delle istituzioni non è possibile nessuna realizzazione.
A proposito di democrazia, la casa editrice Bollati-Boringhieri ha ristampato una raccolta di memorie, lettere e saggi del grande storico Liberale e Socialista, Gaetano Salvemini. Proprio cinquant’anni anni fa moriva negli Usa lo storico pugliese. Era nato nel 1873 a Molfetta, Salvemini, precursore del liberal socialismo. Studioso della questione meridionale e maestro dei fratelli Rosselli è stato oppositore del regime fascista, aveva criticato aspramente Giolitti, accusò i rivoluzionari come Prezzolino e Godetti di disprezzare la democrazia: un sistema imperfetto ma da salvaguardare. Annotava nel 1923 sul suo diario: “E’ moda, oggi, in Italia, fra gli uomini che si immaginano di essere “rivoluzionari” disprezzare la democrazia quanto e non più che facciano fascisti, nazionalisti, sognatori di gerarchie e di aristocrazie rigide e chiuse. E questo disprezzo, che sindacalisti, repubblicani, socialisti, anarchici e anche uomini come Prezzolino, Godetti, eccetera, dimostrano per la democrazia è documento della in cultura politica (…) che è la malattia fondamentale dei “democratici italiani e non italiani”. Parole attualissime perché anche oggi ci sono plutocrazie, gerarchie, oligarchie che dicono a parole di combattere i regimi ma che poi nei fatti deridono le istituzioni democratiche. La democrazia, agita le masse, dirige i suoi partiti nella lotta politica; nasce, cresce, s’indebolisce, si ammala, corre il rischio di morire, o addirittura muore, come farebbe una persona in carne ed ossa. Queste parole, realistiche e lungimiranti esprimono la convinzione che dietro quella parola c’è un processo di trasformazione, segnato da conquiste e da crisi forti.
Sensibile al liberalismo di sinistra di Mill e alle tesi del laburismo inglese, Salvemini ripropone l’idea del equal liberty, coniugando le ragioni dell’autonomia dell’individuo con quella della giustizia sociale.
“La libertà economica non significa nulla per chi deve guadagnarsi da vivere, che sia un lavoratore manuale che un intellettuale. Se con sicurezza intendiamo un livello di vita minimo e l’uguaglianza di opportunità, dobbiamo ammettere che le istituzioni della democrazia politica del giorno d’oggi non la garantiscono a tutti. Eppure la sicurezza deve essere alla portata di tutti se si vuole salvare la democrazia politica dal naufragio”. Attualissimo nella nostra società caratterizzata dal rischio, dalla precarietà e dall’incertezza.
In uno dei suoi ultimi scritti del 1957 dava atto dell’operato della Democrazia Cristiana di De Gasperi: “Debbo riconoscere che i democratici cristiani mi lasciano protestare, mentre prevedo che i comunisti mi taglierebbero la lingua fin dal primo giorno…il giorno in cui fosse certo che Togliatti e Nenni hanno abbandonato sinceramente ogni intenzione totalitaria starei con Nenni e Togliatti. Non volendo cadere dalla padelle nella brace sono costretto a preferire la democrazia-democrazia-democrazia di De Gasperi, alla democrazia di Togliatti”.
Oggi in Europa ed in Italia e soprattutto dalle nostre parti occorre lottare per la giustizia sociale e la libertà da ogni tipo di miseria. Le modalità della morte prima e del processo poi di Anna Politkovskaya è un chiaro esempio che esiste ed è reale una emergenza democrazia. Anna lavorava dal 1999 alla “Nuova Gazzetta” “Novaja Gazeta” per la quale aveva realizzato diversi reportage sul conflitto in Cecenia. I radicali da quelle parti hanno avuto i loro morti,non scordiamocelo mai: l’inviato di Radio Radicale Antonio Russo, torturato a Tiblisi, in Geogia; prima era toccato ad Andrea Tamburi, responsabile dei Radicali a Mosca. Le violazioni dei diritti umani sono evidenti e la società civile si deve mobilitare. “Abolire la Miseria della Calabria” lo fa perché intende contribuire a destabilizzare il sistema per rendere impossibile al potere, alla nomenklatura di destra e di sinistra di continuare a reprimere la libertà di espressione. Il dato è solo politico. Per la Calabria ci vuole una rivoluzione copernicana che non può fare certo Loiero o chi verrà dopo. Per fare questo, in Calabria ed in Italia bisogna lavorare per recuperare le tesi che furono di Gaetano Salvemini che restano ancora valide oggi. Non ci si dimentica di una esperienza socialista, libertaria, liberale e radicale, legata ai temi dello stato di diritto, delle libertà individuali, delle soggettività a partire da quella dei lavoratori. Questa è la strada maestra e la strategia dei prossimi anni e la sola via è quella di costruire un Partito democratico anche con lo spirito radicale, liberale, libertario e socialista. Pannella ci ha provato 40 anni fa e non ci è riuscito, Craxi subito dopo ed ha pure fallito. Solo così il Partito democratico che verrà sarebbe davvero tale a avrebbe l’adesione post mortem anche di Gaetano Salvemini, e modestamente anche la nostra.

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