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Obama, il Darfur e il genocidio nel deserto

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “il Domani della Calabria” del 18.07.2009

Dopo il G8 dell’Aquila, il passaggio in Africa di Barack Obama è stato salutato come un momento storico. Un discorso, quello tenuto ad Accra nella capitale dello stato del Ghana, di cui gli africani sentivano il bisogno anche se non sono stati affrontati temi cruciali come il genocidio che si sta perpetuando in Darfur o come l’esodo dei profughi somali che in questi giorni allarma l’alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite. Come faceva notare Drew Hunshaw su tocqueville.it, il suo unico passaggio alle violenze in Darfur è stato quello di affermare che “quando c’è un genocidio, questo non è semplicemente un problema americano”. Un passaggio troppo scarno che non chiarisce la posizione americana sull’emergenza in Darfur e sull’esistenza o meno di un genocidio in corso. Ci si poteva aspettare di più da un presidente americano le cui origini risalgono proprio dal continente nero. Era lecito sperare in qualche parola in più soprattutto se si considerano gli scarni aiuti economici stanziati dagli otto grandi durante il vertice dell’Aquila che, come faceva notare Gian Antonio Stella, sono veramente una miseria: “cinque euro e 18 centesimi all’anno per ciascun africano; 43 centesimi al mese” che, se annunciati con la cifra di 20 miliardi in tre anni, sembrano invece una grande cosa. Poco per il clima, pochi gli aiuti economici e poche anche le parole sui genocidi e sui massacri africani in corso. Qualche mese fa, il Darfur è tornato al centro dell’attenzione dei media internazionali quando la Corte Penale Internazionale ha emesso il mandato di arresto nei confronti del suo presidente Omar al Bashir. Ma l’emergenza umanitaria non si è risolta e non si risolverà senza andare alle radici del conflitto: la desertificazione e la perdita di terre fertili che spinge etnie diverse alla prevaricazione continua. La regione occidentale del Sudan ha già visto seppellire dalle 200 mila alle 400 mila vittime, 39 villaggi cancellati, distrutti. E’ il genocidio nel deserto del nuovo millennio. Stefano Cera, rappresentante dell’associazione “Italians for Darfur” ha spiegato, in una recente intervista rilasciata al Cecilia Tosi per la rivista Left, che il problema è che “si parla di emergenza umanitaria ma non del conflitto e dei modi per risolverlo.” Ma dei modi per risolvere il conflitto in Darfur non vi è indicazione nel discorso “storico” di Obama. “Questa è una guerra – ha spiegato ancora Cera – che non si può liquidare come scontro di civiltà. (…) Non ci sono, infatti, differenze religiose né di colore della pelle tra i gruppi che si combattono. C’è invece la lotta per la conquista di terre fertili, esacerbata dalle strumentalizzazioni politico ideologiche e da un problema globale come il surriscaldamento del clima, che ha portato desertificazione e siccità”. La crisi in Darfur è iniziata negli anni Ottanta, quando divenne il luogo di transito dei ribelli del Chad che lottavano contro il loro governo con il sostegno della Libia. La loro presenza – spiega ancora la Tosi su Left – congiuntamente alla progressiva diminuzione delle terre fertili coltivabili ha portato nei pastori nomadi di etnia araba “il senso di appartenenza ad una comunità più ampia, distinta da quella degli africani di etnia fur, tradizionalmente coltivatori stanziali. (…) Negli anni successivi l’arabismo si è diffuso e le ondate di siccità hanno inaridito acri di terra fertile. Così, le armi lasciate dai ribelli chadiani sono finite nelle mani di altri ribelli noti come Janjaweed, le milizie del deserto”. Da allora è iniziato uno sterminio dell’etnia fur che ancora continua: un genocidio che ha per causa primaria la desertificazione. Un genocidio per le terre fertili e per il quale non sono certo sufficienti i 5 euro e 18 centesimi all’anno stanziati dai grandi del G8 per ogni africano. “Guerriglieri e massacratori – ha dichiarato Stefano Cera – che combattono una guerra per procura del governo sudanese, anche se Bashir ha sempre negato di aver orchestrato le loro azioni”. E così, un’intera popolazione è costretta da anni a fuggire dalle proprie case e a costruire una “nazione parallela fatta di campi profughi disseminati su tutto il territorio del Darfur e al di là del confine occidentale, in Chad e nella Repubblica Centroafricana”. “Due milioni di persone – ha dichiarato Sulliman Ahmed, rappresentante dei rifugiati del Darfur in Italia – che sopravvive lungo il confine”. E dopo la decisione della Corte Penale Internazionale di spiccare il mandato di arresto nei suoi confronti, il Presidente Bashir se l’è presa con le Organizzazioni Non Governative cacciandone 13 che rappresentavano, da sole, il 40% degli aiuti umanitari presenti in Darfur e la situazione non è certo migliorata. Ecco perché dal presidente americano ci si aspettava qualche parola in più sui dittatori africani e sui massacri in corso in quel continente. Perché quella del Darfur non è l’unica emergenza umanitaria del continente nero: in Somalia, ha dichiarato in una nota dello scorso 26 giugno l’Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite, 26.000 civili in fuga da Mogadiscio in soli 24 giorni. Una “forte preoccupazione” quella espressa dall’UNHCR, “per la spirale di violenza e per l’aggravarsi della crisi in Somalia che sta mettendo in fuga la popolazione. Gli scontri in corso tra le forze governative e i gruppi di opposizione (…) stanno mietendo una lunga scia di vittime, distruzione e nuovi esodi”. Lo scorso 19 aprile i rifugiati del Darfur in Italia si sono ritrovati, in una manifestazione sotto al Colosseo, per chiedere pace e giustizia per la loro terra. Pace e giustizia senza le quali non è possibile arrestare il genocidio in corso e che avrebbero dovuto trovare un posto di maggiore rilievo nello storico discorso di Barck agli africani e ai suoi dittatori.

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Per non dimenticare Srebrenica

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “il Domani della Calabria” del 11.07.2009

11 luglio 1995. I soldati serbo bosniaci comandati da Ratko Mladic uccidono più di 7000 mussulmani, traditi dalle Nazioni Unite e dall’Europa. Nel luglio di 40’anni fa l’uomo metteva piede sulla luna. Una ricorrenza che tutti si affrettano a ricordare. Ma l’11 luglio dovrebbe poter essere occasione anche per non dimenticare quel genocidio che, 14 anni fa nel 1995, fu compiuto a Srebrenica nella Repubblica Serba della ex Jugoslavia. La città in teoria era stata dichiarata area protetta dall’ONU ma diventò il teatro dell’unico caso legalmente provato di genocidio verificatosi sul suolo europeo dopo la seconda guerra mondiale. Nel 1993, un rapporto dei volontari dell’UNHCR, l’alto commissariato per i rifuggiati delle Nazioni Unite, descrisse l’inferno di Srebrenica: “i profughi erano accampati nelle strade bloccate dalla neve. Intere famiglie soffrivano la fame e sopravvivevano masticando radici e mangiando foglie. La scabbia e i pidocchi imperversavano”. Per proteggere la popolazione civile, Srebrenica era stata designata come area protetta dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che aveva anche chiesto la proclamazione del cessate il fuoco e il disarmo delle unità bosniaco-mussulmane. Un promessa di protezione e un piano che che convinse molti civili, che avrebbero potuto lasciare Srebrenica, a rimanere. Le forze di pace dell’Onu avevano un mandato limitato, ma i bosniaci affamati guardavano a quelle truppe, coi loro giubbotti antiproiettili, i caschi blu e i blindati, come ad un protettore. Ma come avrebbero scoperto, vivere in un’area protetta non comportava alcuna garanzia di protezione.

Srebrenica
Srebrenica - foto www.sfgate.com

I bosniaci mussulmani, in termini di razza, sono identici ai serbi e ai croati con i quali condividono il loro paese. Sono tutti slavi del sud di pelle bianca. Parlano la stessa lingua. L’unica differenza è la religione. Eppure, l’11 luglio del 1995 fu realizzato il genocidio di più di settemila uomini e ragazzi mussulmani. Al momento del massacro la protezione doveva essere garantita da un battaglione olandese assegnato alla missione ONU. Ma il battaglione era dotato di armamenti inadeguati e privo di un supporto sufficiente, non fu in grado di agire mentre i serbi conquistavano Srebrenica. Quattordici anni fa l’area protetta di Srebrenica cadde nelle mani dei militari serbo-bosniaci dopo che le Nazioni Unite avevano “deciso” che non era più possibile proteggere l’area.

La stampa internazionale raccontò il fallimento dell’ONU: “quella mattina, migliaia di uomini, donne, bambini ed anziani mussulmani implorarono l’aiuto dei caschi blu di stanza nella vecchia fabbrica di batterie di Potocari, a pochi chilometri da Srebrenica. Il soccorso venne negato: quei caschi blu olandesi furono taciti complici di quel massacro”. “La notte e i cinque giorni successivi l’aria intorno a Srebrenica risuonò delle urla degli uomini e dei ragazzi che venivano mutilati, massacrati, sepolti vivi, oppure uccisi e gettati nelle fosse comuni”.

Si dice che chi è sopravvissuto alla strage di Srebrenica porta negli occhi il dolore immenso e la paura vissuta in quei giorni. In occasione dei dieci anni dal massacro Lorna Martin, su “the observer” noto quotidiano britannico, ha raccontato la storia di Fatima e Damir e di una foto che sconvolse il mondo. La foto di Ferida Osmanovic è stata pubblicata sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo: una donna con una abito bianco e un cardigan rosso, impiccata ad un albero con un cappio ricavato dalla cintura e dallo scialle. Fatima e Damir Osmanovic hanno solo quella foto della loro madre, ma non hanno la forza di guardarla. Una foto che ancora oggi resta l’icona di quel genocidio perpetuato su suolo europeo e che sollevò numerosi interrogativi nel senato statunitense di allora: qual era il nome di quella donna? Da dove veniva? Quali torture e umiliazioni aveva subito?

In occasione del decimo anniversario del massacro, Fatima e Damir sono tornati per la prima volta in quella che un tempo era la loro casa a Srebrenica ed hanno raccontato la storia di quella foto: “Quando sono qui provo una grande rabbia” ha esclamato Fatima alla giornalista che l’accompagnava. “Non posso davvero credere che tutto questo sia successo a noi e alle altre famiglie”.

Nei giorni successivi circa 40.000 persone furono deportate, le donne vennero sistematicamente violentate e più di 7.000 uomini e ragazzi furono trucidati. Mentre Ratko Mladic – ancora ricercato dal tribunale penale internazionale per il suo ruolo nel massacro – entrava a Srebrenica, migliaia di persone fuggirono verso Potocari, dove c’era il quartiere generale olandese il cui comandante aveva assicurato che l’Onu avrebbe autorizzato attacchi aerei per proteggerli. Ma di aerei non se ne videro. Mentre il massacro era già in corso i serbi dissero agli olandesi che avrebbero evacuato Potocari, passando al vaglio gli uomini per individuare i “criminali di guerra”. Invece portarono via uomini e ragazzi e li uccisero in massa nei boschi circostanti il villaggio. Noi oggi dobbiamo ricordare per non dimenticare cosa è avvenuto, di così atroce, a due passi da casa nostra e non permettere più, in futuro, che simili avvenimenti abbiano a ripetersi.

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Quando eravamo tutti migranti

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “il Domani della Calabria” del 14.05.2009

Migranti italiani
Migranti italiani

Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri nel paese d’Egitto (Esodo 23, 9). E’ il tema della memoria che s’intreccia con quello dell’alterità e che nella Bibbia si ritrova sovente. L’invito a ricordare, ad avere memoria, in particolare, quando si parla dell’atteggiamento da avere verso gli stranieri, verso coloro che non fanno parte della comunità “identitaria” dovrebbe essere raccolto da chi si occupa di politiche, ancor di più se chiamato a governare. Se non serve ricordare, come ha fatto con l’ orda di Gian Antonio Stella, che migranti lo siamo stati anche noi italiani; se non è sufficiente, per noi calabresi, rileggere le pagine dell’Avvenire Vibonese che pubblicava, alla fine dell’ottocento, le notizie sui migranti che dalla Calabria partivano verso le Americhe e i relativi provvedimenti dell’allora Commissario dell’emigrazione, forse è il caso di rileggere la Bibbia che ci rammenta che il primo straniero è stato proprio il Cristiano. E’ strano davvero: impieghiamo un sacco di tempo ad imparare qualcosa, ci costa tanta fatica e poi, in breve lasso di tempo, dimentichiamo. Eppure anche noi abbiamo conosciuto la puzza delle stive, l’amaro in bocca del lasciare – forse per sempre – la propria terra, i propri cari, per la ricerca di una vita meno misera. Ci guardiamo allo specchio ma non riusciamo più a scorgere quel figlio, quel nipote, di migranti quali siamo. Se la terra da cui ci sfamiamo si inaridisce dovremmo morire sul posto? Abbiamo piedi o radici? Noi siamo rimasti sul posto quando a “seccare” di miseria era la nostra terra? La nostra Calabria? Non amiamo essere costretti a ricordare e dimentichiamo. Thomas Eliot forse aveva ragione nell’affermare che “il genere umano non può sopportare molta realtà”. E noi italiani vogliamo dimenticare, vogliamo fingere di essere diversi da quello che siamo o da quello che siamo stati. Un bel Paese ma dalla gente immemore che l’Europa e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifuggiati (UNHCR) devono “richiamare”. Proprio mentre cultura e letteratura italiane sono in fiera a Torino sotto il titolo “Io, gli altri” e parlano all’attualità con titoli come “La morte del prossimo” di Luigi Zoja, “Mai senza l’altro” di Michel de Certau, o ancora più espliciti, come “Ricordati che eri straniero” di Barbara Spinelli, proprio mentre fiumi di parole si spendono sul tema delle nuove e vecchie migrazioni, in Italia la politica del Governo è chiara: rispedire a casa lo straniero, senza preoccuparsi neanche se queste persone abbiano, o no, diritto ad asilo perché perseguitati nel loro paese d’origine. Duecento trenta migranti soccorsi dalla Guardia Costiera e dalla Guardia di Finanza italiane nelle acque internazionali di competenza maltese, sono stati “ricondotti” in Libia (paese, tra l’altro, non aderente ai trattati internazionali sui rifugiati) e senza neanche un’adeguata valutazione della loro possibile necessità di protezione internazionale. Anche se non sono disponibili informazioni sulle nazionalità dei 230 migranti – ha specificato con una nota l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite – nell’anno 2008 circa il 75% delle persone che sono giunte in Italia via mare ha fatto richiesta di asilo e, al 50% di costoro, è stata riconosciuta una forma di protezione internazionale perché ne avevano il diritto. Solo sulla base di questi dati è leggittimo ipotizzare percentuali simili tra quelle 230 persone riaccompagnate in Libia con la “nuova linea” del Governo Italiano e del suo Ministro degli Interni Maroni. Non solo gente in fuga dalla miseria e in cerca, legittima, di una vita migliore, ma anche perseguitati politici in fuga dal loro paese. Persone che possono essere individuati e uccisi. Non basta nascere per esistere, è necessario avere una cittadinanza. Non ci sono diritti dell’uomo in quanto tale? Abbiamo o non abbiamo diritti, non perché siamo esseri umani, persone, ma perché cittadini, perché abbiamo passaporti di una certa nazione dove abbiamo avuto fortuna di nascere. E se dovesse tornare ad inaridirsi di nuovo anche la nostra di terra?

L’appello dello scorso 7 maggio rivolto alle autorità italiane e maltesi da Antònio Guterres, Alto Commissario per i rifugiati, era chiaro: “assicurare alle persone salvate in mare e bisognose di protezione internazionale, il pieno accesso al territorio e alla procedura d’asilo nell’Unione europea”. Invece no, l’appello è rimasto inascoltato e ha vinto l’Europa dei dei Governi Nazionali: le 230 persone sono state “riaccompagnate” in Libia dalle nostre motovedette “guidate” da Maroni. Perché loro, ha dichiarato il Presidente del Consiglio, “non sono come la sinistra, non sono per un’Italia multietnica”. Un radicale mutamento delle politiche migratorie del Governo italiano che ha fatto indignare non soltanto l’Alto Commissario per i Rifugiati ma anche la chiesa Cattolica e tutti coloro memori che emigranti lo eravamo pure noi.

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L’idealista della violencia

di Giuseppe Candido

Argentina1923. Un abruzzese e un calabrese contro il fascismo, ma il governo Radicale prese le distanze

Io voglio: Un tetto per ogni famiglia, del pane per ogni bocca, educazione per ogni cuore, luce per ogni intelligenza. Bartolomeo Vanzetti

Osvaldo Bayer – Wiki esp

Corsi e ricorsi storici non finiscono di stupirci. A parlarci di Francesco Barbieri, Severino Di Giovanni e d’immigrazione dei calabresi in argentina è, come al solito, Filippo Curtosi direttore responsabile del nostro mensile indipendente “Abolire la miseria della Calabria”. Tra i libri e fotocopie che ci consegna trovo uno tra i saggi più importanti di Osvaldo Bayer , un anarchico pacifista ad oltranza come egli stesso si definiva, sicuramente importante per i documenti ivi raccolti è quello riguardante l’anarchico abruzzese “Severino Di Giovanni, l’idealista della violenza”. Osvaldo Bayer, Ed. Galerna, Buenos Aires, (1970).  Bayer, da pacifista ad oltranza ha studiato i movimenti anarchici antifascisti che in argentina si svilupparono negli anni ”20. Purtroppo è tutto in spagnolo. Come associazione di volontariato culturale “Non Mollare!” stiamo curandone la traduzione – grazie alla lodevole collaborazione del Prof. Sergio Iiriti – per gli intrecci che il Di Giovanni ebbe con l’anarchico di Briatico, Francesco Barbieri oggetto di nostro interesse in quanto libertario anarchico calabrese.

Il 1921  per l’Italia fu un anno particolare: la forte crisi economica, le dure repressioni poliziesche del governo Crispi contro le masse popolari che protestavano per le insopportabili condizioni di vita in cui si trovavano. In quell’anno Barbieri, calabrese di Briatico, emigra in argentina.

Nel 1923 con Francesco Barbieri e i fratelli Scarfò, Severino Di Giovanni  è tra i fondatori degli “Anarchismi Espropriatori”. Narriamo qui un particolare emerso dalla traduzione.

Durante gli anni del fascismo numerosi giovani italiani stanchi del totalitarismo, la censura, le ristrettezze della guerra decidono di trovare fortuna all’estero e tra questi un tale di nome Severino Di Giovanni. Il giovane abruzzese, emigrato in argentina dove, nel maggio del ’23 incontra l’anarchico calabrese Francesco Barbieri, mal sopporta l’orientamento del console italiano e i festeggiamenti che questi organizza per la magnificazione della monarchia sabauda e l’avvento del governo fascista. La cerimonia del Teatro Colòn fu però movimentata da un gruppo di facinorosi al grido di “viva Matteotti…………” .

Lo scontro con le camice nere, a presidio della manifestazione, è inevitabile, come inevitabile l’arrivo della polizia e il conseguente fermo dei disturbatori, i quali si dichiaravano estranei l’un l’altro e di non aderire a nessuna particolare ideologia. Nel verbale della polizia risalta la figura di un giovane che si batte con particolare veemenza e lo stesso non ha problemi a dichiararsi anarchico. Il giovane risponde al nome di Severino Di Giovanni, dice di lavorare in una tipografia, come operaio. In quest’epoca, durante la fine degli anni venti, c’è molto fermento politico e il movimento anarchico in argentina è particolarmente attivo, ma spaccato al suo interno da una fazione più morbida, filo governativa, e l’altra che voleva passare dai fatti all’azione.

La borghesia argentina ricca, corrotta, bigotta, marcia viene messa alla luce e quindi fatta esplodere dall’azione libertaria e radicale. La lotta armata per abbattere gli stati borghesi e capitalisti realizzando cosi una vera rivoluzione. Il movimento anarchico però si divide e il dibattito è molto acceso e verte sulla opportunità dell’impiego o meno delle armi nell’azione politica. Francesco Barbieri diventerà uno dei maggiori esponenti  dell’ala militarista  che fa la scelta radicale assieme a Renzo Novatore, Buenaventura Durruti, Julies Bonnot, Severino Di Giovanni, Sante Pollastri, Miguel Arcangel Rossigna e Paco Ascaso.

Lo stesso Di Giovanni era direttore di una testata chiamata “Culmine” alla quale lavorava nei ritagli di tempo, senza sosta. Il punto di svolta nella vita di Di Giovanni si ha in seguito ad un comizio in piazza, che culmina con un attentato dinamitardo all’ambasciata degli Stati Uniti. Il governo di radicale di ….., che finora era stato molto tollerante, non solo nei confronti della libera circolazione e diffusione di idee anarchiche, ma anche di fronte ad agitazioni di piazza e a movimenti di protesta; a questo punto, prende le distanze dall’atteggiamento violento degli insurrezionalisti e comincia perseguirli severamente.

Qual’è il ricorso storico? A parte il periodo di crisi di democrazia che in questo Paese oggi si torna a vivere. Probabilmente quello di più che ci ha colpiti durante la ricerca che stiamo conducendo è che, a lottare contro il fascismo furono – tra gli altri – un calabrese e un abruzzese che seguirono l’ala militarista. Ma il governo argentino di allora, governo radicale ne prese le distanze. Un altro esempio di resistenza nonviolenta pure questo.

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il difficile cammino dei senza terra

di Giovanna Canigiula

Ieri pomeriggio, con Giuseppe Candido, siamo andati a Cropani a visitare ilresidence Ale.mia, ora contestatissimo centro di prima accoglienza. Ci ha accolti, all’ingresso, un addetto alla sicurezza al quale abbiamo lasciato i nostri documenti e che ci ha consegnato un pass. Le prime cose che ci hanno colpito sono state la bellezza e la pulizia del luogo: abituati alla vista del Sant’Anna -che tra container e filo spinato dà l’idea del carcere per disperati- i sentieri immersi nel verde, la piscina attorno alla quale sedevano chiacchierando alcuni ospiti, i piccoli appartamenti con terrazze da cui altri si affacciavano, ci sono piaciuti. Ci ha ricevuto il responsabile, Domenico, col quale abbiamo avuto modo di scambiare due chiacchiere e che ci ha invitato a ritornare quando avessimo voluto. Gli abbiamo fatto, com’è ovvio viste le polemiche, qualche domanda. Il centro, che ha una capienza massima di 250 persone, ospita attualmente circa 210 richiedenti asilo, tutti africani di aree calde come il Congo, la Costa d’Avorio, la Nigeria, il Gana, la Liberia. La convenzione è stata regolarmente stipulata col Ministero degli Interni, secondo norme previste dalla legge e sulla base, desumiamo, di un calcolo che certamente consente a un residence, inattivo durante la stagione invernale, di garantirsi delle entrate, ma che, a conti fatti, va in direzione del rispetto della persona. “Siamo abituati” dice Domenico “a catalogare secondo criteri di povertà e del minimo di sussistenza e non secondo criteri di dignità. Noi proviamo a fornire un servizio che abbia dei contenuti e speriamo, pian piano, di avviare forme di collaborazione con le autorità pubbliche”. La gestione è affidata alla Cooperativa 29 giugno. Attorno al centro, che offre opportunità di lavoro alla gente del posto, ruota il mondo del volontariato. A formare il personale scendono periodicamente, da Roma, gruppi che hanno esperienza nel settore. All’interno dell’area sono stati individuati due settori, uno per l’alloggio dei maschi e l’altro per quello delle donne. Le coppie sposate sono state separate. Per ogni ospite la convenzione prevede 35 euro, cifra interamente destinata al vitto, all’alloggio, al vestiario di primo soccorso e al presidio sanitario, che garantisce un monitoraggio costante e che smentisce, di fatto, l’allarmismo della popolazione riguardo a presunte malattie che i richiedenti asilo potrebbero avere portato con loro dai luoghi di fuga. Il volontario che ci accompagnerà a fare un giro, Ghigo, confermerà quanto detto dal responsabile: tutto ciò che è acquistato, dal calzino al maglione al pantalone, è nuovo. Chi si reca al supermercato, inoltre, spende danaro proprio, inviatogli da qualche familiare o amico e ha l’obbligo di non acquistare alcolici (compresa la birra), pena sanzioni: anche l’illazione della paghetta giornaliera di venti euro, dunque, è smentita. Ghigo ci racconta storie drammatiche di giovani costretti a lasciare il proprio paese, il lavoro, lo studio, la casa, le abitudini, i parenti, gli amici, in fuga da guerre, rappresaglie, torture, uccisioni, mutilazioni, irruzioni di miliziani nelle abitazioni. Uno dei ragazzi  porta il segno di un profondo taglio sul braccio, inferto con un machete. E non è il solo.  Fra le cose che hanno sorpreso il volontario, è il grande senso della pulizia degli ospiti: appena arrivati, nonostante gli appartamenti fossero stati puliti, hanno chiesto prodotti e stracci e si sono rimessi al lavoro. Sono loro stessi a occuparsi  dei percorsi e delle zone verdi senza che nessuno glielo chieda, tanto che io e Giuseppe, d’improvviso, ci vergogniamo dei mozziconi che stiamo lasciando in giro. Mentre chiacchieriamo incontriamo Gianluca, un amico che è al suo primo giorno di lavoro nel centro, forte dell’esperienza maturata a Catanzaro con laPromidea, cooperativa che da anni si occupa di rifugiati. Gli chiedo cosa pensa dell’allarmismo fra la popolazione che io, francamente, continuo a trovare ingiustificato:  secondo lui va capito il disorientamento della comunità, che si ritrova a fronteggiare una simile novità e, comunque, bisogna  adoperarsi  per favorire l’integrazione.

Comincia a imbrunire, arrivano i carabinieri, è la sera in cui ha inizio  il presidio delle forze di pubblica sicurezza.  Ghigo ha ancora da montare dei letti a castello, due ragazze litigano, noi decidiamo di andare via.  Superata la diffidenza iniziale, gli ospiti ci salutano cordialmente. Sono di passaggio, il futuro è incerto, i loro volti si perderanno e le loro tracce pure, mi piace che la sosta sia dignitosa. Ce ne andiamo sapendo di poter tornare, ancora una volta senza preavviso e senza che nessuno ci allontani. La sensazione, certo, è che il centro, pur se aperto, resti un luogo chiuso. Tuttavia una piccola, spartana, linda oasi per chi non ha più una casa in cui fare rientro. Il posto giusto per riprendere fiato prima di ricominciare il cammino. Mentre saliamo in macchina, mi sforzo di capire chi teme contagi, imbrogli, crolli nel settore turistico. E, però, non ci  riesco. Sono adulti, con tanto di figlioletti magari della stessa età di chi né guardano né accettano. Fra ciechi e visibilissimi invisibili, pertanto, continuo a scegliere i secondi.

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Emigrazione

di Filippo Curtosi

“La fuga è, dunque, oggi il tema della vita calabrese (…) Ho sentito dire da molti stranieri che è una delle più belle d’Italia. Io non lo so perché l’amo. Ma so che si fugge e si rimpiange la sua pena, si torna e si vuole fuggire, come la casa paterna dove il pane non basta. E una tale fuga il calabrese se la compie anche se sta seduto a un posto, in un ufficio o dietro uno sportello. E’ raro vedere qualcuno che si trovi realmente dove sta. Fisicamente o fantasticamente, la Calabria è oggi in fuga da se stessa. L’Italia meridionale le combatté tutte (le guerre) considerandole un’evasione e una breccia per l’emigrazione …(Continua)Cosi citando Corrado Alvaro da Un treno nel Sud. Il tema: l’emigrazione.
” Eccezionalmente si impiega ancora oggi il lamento funebre in occasione di un equivalente critico della morte, come la partenza per il servizio militare o per la guerra, o per l’America. E anche qui vi sono segni che in un passato relativamente recente l’uso doveva essere molto più diffuso”. Così Ernesto De Martino nel 1958. Luigi M. Lombardi Satriani, sostiene che “anche l’emigrazione, oltre che la guerra ed agli altri eventi è una minaccia perché anch’essa costringe ad un radicale distacco dal proprio paese e recide la continuità emotiva tra gli appartenenti al nucleo familiare e alla parentela, sconvolgendo i quadri di riferimento culturale”. “L’emigrazione -continua l’antropologo calabrese di San Costantino di Briatico- è risposta contro la morte, ma è essa stessa morte, in quanto viaggio, separazione dal noto, rischio della perdita della presenza da controllare anche se essa muta come fenomeno storico nelle sue varie fasi, mete, ritmo, modalità e tempi”.

L’emigrazione è stata uno dei capitoli più importanti della nostra storia, infatti il primo ventennio del secolo scorso vide milioni di italiani attraversare l’Oceano in cerca di fortuna negli Stati Uniti, Argentina e altri paesi del Sudamerica. Quale sia stato il contributo alla vita di questi paesi, nel bene e nel male, del fiume di italiani che sono sbarcati oltre oceano, più numerosi di qualsiasi invasione barbarica in Italia all’inizio del Medioevo è quasi impossibile da determinare. Gli emigrati dall’Italia erano, nella loro grande maggioranza, analfabeti o quasi analfabeti, zappaterra o operai non qualificati, spinti dal bisogno, assoldati da mercanti di mano d’opera. Naturalmente quando si parla di emigrati italiani ci si riferisce anche ai calabresi e cioè a quelle persone nati nella penisola, di razza italiana che parlavano una derivazione linguistica italiana, che avevano un passaporto italiano ma che provenivano da villaggi sperduti della Sila, delle Serre o dall’Aspromonte dove il loro ” modus vivendi” non era stato modificato per secoli e che non avevano mai avuto contatto con altri popoli o regioni e comunque sia non avevano assolutamente risentito gli effetti dell’unità d’Italia. Erano rimasti ancora sotto il dominio di qualcuno. Perché emigrarono? Molteplici le ragioni: le condizioni sociali, politiche ed economiche quelle che forniscono le migliori spiegazioni del fatto che degli uomini lascino la terra natia per andare a cercarsi una nuova patria. Fra l’800 ed il 900 le condizioni in cui versava l’Italia favorirono quello che per certi versi si può definire un esodo: le carestie periodiche, una pressione fiscale senza precedenti, la diffusione della disoccupazione erano fonte di perenne scontento. La miseria del Sud, persistente, netta, indiscutibile, immutabile e descritta da Carlo Levi in “Cristo si è fermato ad Eboli”: ” Le case dei contadini sono tutte uguali ,fatte di una sola stanza che serve da cucina, da camera da letto e quasi sempre anche da stalla per le bestie piccole, quando non c’è per quest’uso, vicino alla casa, un casotto che si chiama in dialetto, con parola greca, il “catoico”. Da una parte c’è il camino, su cui si fa da mangiare con pochi stecchi portati ogni giorno dai campi: i muri e il soffitto sono scuri per il fumo. La luce viene dalla porta. La stanza è quasi interamente riempita dall’enorme letto, assai più grande di un comune letto matrimoniale: nel letto deve dormire tutta la famiglia, il padre, la madre e tutti i figliuoli… sotto il letto stanno gli animali, …per terra le bestie, sul letto gli uomini e nell’aria i lattanti. Io mi curvavo sul letto quando dovevo ascoltare un malato; col capo toccavo le culle appese, e tra le gambe mi passavano improvvisi maiali o le galline spaventate”. Per restare in Calabria il contadino non aveva fatto altro che combattere con un terreno duro, avaro, scarnificato, montano. In certe zone l’acqua mancava del tutto in altre piogge torrenziali, inondazioni e terremoti erano all’ordine del giorno. La malaria ed il colera facevano il resto. I soldi che gli italiani all’estero mandavano alle proprie famiglie rimaste in Italia furono una voce importante dell’economia. Oltre alle rimesse in denaro, gli italiani mandavano in patria un interminabile flusso di pacchi contenenti generi alimentari, oggetti vari, attrezzi, vestiario. Le donne al paese vestivano di nero per ridurre le spese di bucato mentre “gli americani” infilavano scarpe di vernice ai piedi che erano cresciuti nudi e callosi. Nel secondo dopoguerra l’emigrazione è diretta principalmente verso i paesi del nord Europa, come Germania, Francia e Belgio. Risalire alla storia dell’emigrazione nazionale nel momento in cui l’Italia è diventato uno dei paesi europei più attraversati dalla manodopera straniera può aiutare a capire meglio un fenomeno imponente e difficile. I movimenti migratori costituiscono un elemento presente in tutte le società preindustriali: tra il 1860 e 1973 sono emigrati dall’Italia circa 24 milioni di persone e ciò fu dovuto anche alla espansione delle grandi opere di viabilità stradale e ferroviaria. Benché le mete transoceaniche fossero raggiunte già all’inizio dell’Ottocento dagli esuli politici, dagli itineranti, dagli artigiani, fu nella seconda metà dell’Ottocento che si moltiplicarono le partenze anche verso altri paesi del nuovo mondo. Per i contadini, i massari, i ceti popolari meridionali, calabresi, “a merica”diventò la meta più ambita, favoleggiata dai racconti di compaesani e parenti arricchitisi al di là dell’Oceano, diventata il mitico luogo simbolo del successo. La grande emigrazione doveva essere di tipo temporaneo con una forte propensione al rientro e fu caratterizzata da un alto tasso di mascolinità. Le regioni che hanno contribuito in maniera più rilevante, tra il 1876 e il 1900 sono state il Veneto che ha fornito il più elevato contingente di emigrati, seguito dalla Campania, Sicilia e Calabria. La vita umiliata di quegli anni aveva però un pathos che scendeva nelle cose, una sorta di tardo crepuscolarismo in cui anche gli oggetti sembravano simboli esistenziali. Madri povere, bambini che lavoravano, che giocavano senza scarpe, padri che ” fatigavanu” dalla mattina alla sera, ” mbivenu” e “jestimavanu”.Vita difficile quella dei massari: ” Pecchi, pecchi sta vita, afflitta, amara, aiu zappu pemmu u moru o aiu u zappu pemmu u campu si chiedeva con i versi Pasquale Creazzo. La mattina di domenica e nelle feste ricordate però sempre in chiesa: schegge, frammenti, documenti in bianco e nero. Ma sotto a questi movimenti in superficie ben altri mutamenti avvenivano nel vibonese che dovevano cambiare faccia alla comunità: la civiltà da contadina stava diventando un’altra cosa: nasceva il “Nuovo Pignone” il “Cementificio Segni”, la “Cimea” e l’indotto, con trasferimento di manodopera non solo da Sud a Nord ma dalle campagne nei paesi: si perché prima non solo si lavorava nelle campagne ma si dormiva pure. Quindi sconvolgimenti sociali profondi con esodi migratori verso Roma, ma soprattutto verso Milano e Torino. Emigrazioni non più verso le Americhe o verso il Nord Europa: si recitavano a memoria alcuni versi di Enotrio Pugliese, genuino ed immenso artista di San Costantino di Mileto, anch’esso figlio di emigranti:

quando nascivi patrima era a Merica.
Fici u sordatu e patrima era a Merica.
Vinneru i figghji e patrima era a Merica.
Mama moriu e patrima era a Merica.
Aguannu tornau patrima d’a Merica pe nommu mori a Merica.

La civiltà contadina cominciava ad essere scardinata e la motorizzazione dei paesi come obiettivo dello sviluppo: le prime 500, le 600 e poi a seguire le 850 con agli specchietti retrovisori le immagini di San Carlo, San Filippo, San Basilio, la Madonna della Lettera, San Michele: sabato, armati di panni e spugna era dedicato “a lavare la macchina” per farsi vedere poi la domenica dalle ragazze “quando nascia a chiesia”. I giovani cominciavano ad essere una presenza che aveva valore sociale ed anche economico. Fu in quel tempo che le famiglie cominciarono a dividersi, gli spostamenti si moltiplicarono, le nuove occasioni imposero un minimo di istruzione, i vecchi ancora non rimanevano soli. Il mare, le grotte, il pallone, l’ozio nelle strade polverose d’estate, le botte , ufriddu, u ventu, lu signu da cruci prima u mi curcu e pemmu u mi addurmentu subbra i vrazza e i dinocchi e vicinu o vrasceri. Eramu sicchi da fami.
Gli anni sono passati in fretta e la memoria delle cose passate, di cari volti, di belle presenze che hanno attraversato la nostra esistenza. Le lettere che non arrivavano e noi che sapevamo che i nostri parenti erano giunti a Malanu. Percorsi divisi, qualcuno ha fatto carriera, emigrato vittorioso, qualcun altro è andato e “jeu, come dice Ammirà, né mi lamentu, né raccumandu e aspettu quando sona lu gran spaventu, quando cadi lu suli e cadi a luna e li stiji caduno. L’aceji ciangiunu e l’acqua sbajiuna e li munti juntanu e ‘nsemi si pistanu e li cerzi stimpanu: cu ‘nd’ eppi, ‘ndeppi, …” Noi viviamo oggi in una civiltà proiettata in Internet, col computer e con i cellulari ed affidiamo il ricordo forse ad un minuto, restando appiattiti ed isolati e gli altri sono sempre e solo altri che non colloquiano con i loro simili e che non hanno come scriveva Proust nella Recherche “la forza di tenere ancora a lungo il passato che discendeva già cosi lontano”. Carlo Levi ci dice quali fossero i sentimenti degli emigrati: “Il Regno di Napoli è finito, il regno di queste genti senza speranza non è di questa terra. L’altro mondo è l’America, terra dove si va a lavorare, si suda e si fatica, dove qualche volta si muore e nessuno più ci ricorda, ma nello stesso tempo è il paradiso, la terra promessa del Regno”.

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Cuore nero

di Giovanna Canigiula

Ultimo compito in classe in una quarta ginnasiale, quasi ultima fatica dell’anno. La traccia richiedeva un’opinione sul monito dell’Europa all’Italia per l’ondata di razzismo e xenofobia che dilagano nel nostro paese. Sorpresa! Altro che villaggio globale, intercultura, accoglienza: nella terra dei migranti emarginati, i benestanti nipotini coltivano l’odio. Percepiscono l’indistinto universo degli “stranieri” (marocchini, rumeni, rom) come nemico da scacciare. Gli extracomunitari (ma non gliel’abbiamo detto che i rumeni sono comunitari? Mi sorge il dubbio) sono ladri, stupratori, rapitori di bambini, usurpatori di lavori e diritti. Inducono, addirittura, a lasciare la patria, non foss’altro che per la salvaguardia della prole a venire. O loro o noi. E chi ha la forza, ora, di spiegare agli impermeabili mostri in erba che sarebbero stranieri altrove, comunitari o non, dunque da scacciare perché piccoli neri e mafiosi italiani, italiani del sud, calabresi? Il bello è che premettono: non sono razzista. Ma… Mi arrabbio. Mi si gonfiano le vene. Sono furibonda. Sei razzista e come. Non lo sai ma sei un piccolo mostro viziato e bastardo, che non misura pensieri e parole. Che non ha pietà. Crudele crudelissimo. E non c’è lettura, approfondimento, dibattito, conversazione, convegno, spettacolo, concerto che possano: gli stranieri di serie B vanno cacciati e subito. Sono brutti sporchi e cattivi. Insozzano le città (dev’essere per questo che Napoli è sepolta da cumuli di spazzatura!).  Ci fanno vivere nel terrore e stare rintanati nelle case (in teoria, perché nella pratica tra palestre, passeggiate, cinema e ritrovi bisogna uscire per forza. Magari li facessero stare a casa sui libri!). Hanno rovinato l’immagine dell’Italia con crimini, furti, abusi (sicuramente in tempi non sospetti avranno esportato la ‘ndrangheta dai loro terribili paesi. L’avranno portata con le navi. Maledetti!). Quante cose scopro. E mi arrendo. La lettura dei quotidiani in classe? Inutile. Li leggeremo male. Far meditare con Bilal? Inutile. Costrizione noiosa. E’ scuola. Un preside che promuove in ogni modo l’incontro con l’altro da noi perché diventi parte di noi? Inutile. Perché è scuola.  Tutto ciò che si è fatto, detto, letto, discusso in un anno: fatica inutile. E di che mi stupisco? Proprio qualche giorno fa, un quindicenne mio vicino di casa, figlio non di noto professionista ma di migrante, prima in Germania e poi nel milanese, mi spiegava che “questi clandestini non devono entrare, li devono lasciare sui barconi e se annegano dispiace ma pazienza: perché devono venire da noi, rubarci il lavoro e mandare i soldi guadagnati in Italia alle famiglie  che poi mandano anche i figli all’Università coi nostri soldi? E perché sono trattati meglio degli italiani poveri e se un rumeno ubriaco e senza patente ammazza tre persone con la macchina lo mandano in un albergo a cinque stelle anziché in carcere e poi lo liberano?” Questa dell’albergo a cinque stelle non la sapevo, ma so che l’ho scalfito appena, il tempo di un’ impercettibile apnea, quando gli ho ricordato –e con una stretta al cuore- di chi era figlio, perché si è ripreso subito: sì, ma mio padre era italiano. Viva l’Italia dunque, con il suo cuore nero, chiunque si decida di votare, paese di gran lusso come gli alberghi in cui mandiamo a soggiornare gli “stranieri” che delinquono. Abbasso i clandestini e chi cerca di capirli e la scuola che, hanno ragione, è fatta di mediocri, tanta l’incapacità di dialogare, educare, comunicare, trasmettere. Hanno detto in televisione che…Viva la televisione. Più forte e più brava. E povera sinistra, consentitemelo. Lo vedo difficile il cammino.

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Salvemini, bastiancontrario e sincero democratico. Commemorae e arruolare?

di Filippo Curtosi

Gaetano Salvemini - Foto: Wiki
Gaetano Salvemini – Foto: Wiki

La figura di Gaetano Salvemini, nel cinquantenario della sua scomparsa viene restituita alla luce grazie ad un saggio di Gaetano Quagliarello (Gaetano Salvemini, il Mulino, Bologna 2007, pp. 313) che ripercorre in modo organico l’intero arco della sua esistenza dal 1873 al 1975, soffermandosi su temi di scottante attualità come la morte della patria e sulla partitocrazia. Salvemini, dopo l’uscita dal Partito socialista, all’indomani della prima guerra mondiale ed in particolare di fronte al delitto Matteotti che inquieta Salvemini tanto che diventa uno dei principali propagandisti dell’antifascismo in campo internazionale e per questo fortemente osteggiato da Mussolini. Il fascismo nella lettura salveminiana non è visto come reazione al pericolo di una rivoluzione bolscevica che, come afferma lo stesso Salvemini non è mai esistito se non come “forma di agitazioni e disordini senza scopo provocati da una sinistra massimalista e inconcludente”. Il fascismo assume nella lettura dello storico pugliese i connotati di un fenomeno antiparlamentare. Antifascista e anticomunista, tanto e vero che accostava fascismo italiano e comunismo sovietico, fu proprio Gaetano Salvemini a far da guastafeste nel “Congresso internazionale antifascista degli scrittori per la difesa della cultura” che si svolge a Parigi nel 1935, presieduto da Gide e Malraux ed è lì che denuncia il caso dell’arresto di Victor Serge per “trozkismo”. ” Esiste una polizia segreta sovietica come la Gestapo e come l’Ovra che tiene prigioniero un intellettuale come Serge”. Scoppia il finimondo e tutta l’intellettualità è costretta a chiedere la liberazione di Serge. Togliatti nel 1945 lo ricorderà come ” un provocatore trozkista che deve la vita alla campagna di stampa borghese per la sua liberazione dalla Lubianka aizzata da Gaetano Salvemini”.

Il professore di Molfetta ha consegnato ai promessi sposi del Partito democratico, dice Ugo Finetti una eredità culturale che però giorno dopo giorno è sempre più vuota nel desolante deserto ideale che fa da scenario alla costruzione del nuovo soggetto politico. Siamo cresciuti negli ardori rivoluzionari giovanili e riformisti poi, ed abbiamo assistito al governo di una sinistra che ha scambiato i principi in cambio di qualcosa di indecifrabile. Dovrebbero, tutti i politici vibonesi, fare proprie le frasi di Bobbio quando dice che “molte delle promesse della democrazia sono ancora promesse da marinaio”.
Norberto Bobbio nel 1975 in un bellissimo saggio dal titolo “Salvemini e la democrazia” scriveva: “Per comprendere appieno il rapporto tra Salvemini e la democrazia, non è sufficiente riferirsi all’esempio di un impegno durato tutta una vita intera e culminato nella ventennale battaglia contro il fascismo: occorre rileggere con attenzione i suoi scritti, dove è possibile rintracciare una compiuta e perfetta teoria dello Stato democratico”.
Nel 1953 Bertrand Russel pubblicò una sorta di abbecedario politico intitolato “L’alfabeto del buon cittadino e Compendio di storia del mondo (a uso delle scuole elementari di Marte). A partire dalla prima definizione (Asino: quello che pensi tu)”, il premio Nobel per la letteratura disprezzava l’arroganza, l’assoluto, il dogmatico, il fanatismo. La definizione di Virtù: “sottomissione al governo” e all’opposto quella di Assurdo “Sgradito alla polizia”. O quella di Libertà “Il diritto di obbedire alla polizia”. E che dire della definizione di Saggezza “le opinioni dei nostri avi”. Per non parlare della definizione di Sacro, la cui definizione russelliana è “sostenuto per secoli da schiere di pazzi”. O di Cristiano, definito “contrario ai Vangeli.” Per non parlare di Bolscevico “chiunque abbia opinioni che non condivido”. Per tornare a Salvemini che sicuramente apparteneva a un’altra categoria di intellettuali cosi rilevava a proposito dell’essere italiani: “Quando parlano gli Italiani colti, mi capita spesso di non capire. Salvemini non deve essere colto, perché quello che dice lo capisco e, quello che pensa lo penserei anch’io. Il linguaggio storico e politico – scrive infatti Salvemini – attraversando tempi e ambienti culturali diversi, si è caricato con termini polivalenti, i quali debbono essere definiti, se non si vuole perdere tempo discutendo di equivoci”.
Liberalismo, democrazia, socialismo scrive Sergio Bucchi, sono i termini principali del lessico Salveminiano e prima ancora sono i termini fondamentali del linguaggio politico del secolo decimonono, ” Il più intelligente, il più umano, il più decoroso dei secoli”. Le tappe essenziali del più grande movimento di emancipazione mai realizzatosi nella storia che ebbe il suo punto d’avvio nella rivoluzione francese. Se il liberalismo si identifica in origine con la battaglia per i diritti personali e la conquista delle istituzioni parlamentari contro i privilegi feudali e i regimi dispotici, la democrazia ne è una estensione, in quanto “ammissione di tutti i cittadini all’uso delle istituzioni liberali”, il riconoscimento per tutti, senza distinzioni di sorta di tutte le libertà personali e politiche.” Un regime libero può non essere un regime democratico, ma un regime democratico deve essere un regime libero”. In questo senso,continua Bucchi, il “metodo della libertà” costituisce la via imprescindibile di ogni rinnovamento politico o sociale. E metodo della libertà e regole della democrazia non possono non essere alla base anche di ogni tentativo di conquistare quel tanto che è possibile di giustizia sociale. La realizzazione della giustizia contro ogni forma di sfruttamento e di oppressione è parte integrante non meno delle libere istituzioni, dell’ideale democratico. Istituzioni democratiche e giustizia sociale stanno tra di loro in un rapporto inscindibile di mezzo a fine, al di fuori delle istituzioni non è possibile nessuna realizzazione.
A proposito di democrazia, la casa editrice Bollati – Boringhieri ha ristampato una raccolta di memorie, lettere e saggi del grande storico Liberale e Socialista, Gaetano Salvemini. Proprio cinquant’anni fa moriva negli Usa lo storico pugliese. Era nato nel 1873 a Molfetta, Salvemini , precursore del liberal socialismo. Studioso della questione meridionale e maestro dei fratelli Rosselli è stato oppositore del regime fascista, aveva criticato aspramente Giolitti, accusò i rivoluzionari come Prezzolino e godetti di disprezzare la democrazia: un sistema imperfetto ma da salvaguardare. Annotava nel 1923 sul suo diario: “E’ moda, oggi , in Italia, fra gli uomini che si immaginano di essere “rivoluzionari” disprezzare la democrazia quanto e non più che facciano fascisti, nazionalisti, sognatori di gerarchie e di aristocrazie rigide e chiuse. E questo disprezzo, che sindacalisti, repubblicani, socialisti, anarchici e anche uomini come Prezzolino, Godetti, eccetera, dimostrano per la democrazia è documento della in cultura politica’ che è la malattia fondamentale dei “democratici” italiani e non italiani.” Parole attualissime perché anche oggi ci sono plutocrazie, gerarchie, oligarchie che dicono a parole di combattere i regimi ma che poi nei fatti deridono le istituzioni democratiche. “La democrazia, agita le masse, dirige i suoi partiti nella lotta politica; nasce, cresce, s’indebolisce, si ammala, corre il rischio di morire, o addirittura muore, come farebbe una persona in carne ed ossa. Queste parole, realistiche e lungimiranti esprimono la convinzione che dietro quella parola c’è un processo di trasformazione, segnato da conquiste e da crisi forti.
Sensibile al liberalismo di sinistra di Mill e alle tesi del laburismo inglese, Salvemini ripropone l’idea del equal liberty, coniugando le ragioni dell’autonomia dell’individuo con quella della giustizia sociale.
“La libertà economica non significa nulla per chi deve guadagnarsi da vivere, che sia un lavoratore manuale che un intellettuale. Se con sicurezza intendiamo un livello di vita minimo e l’uguaglianza di opportunità, dobbiamo ammettere che le istituzioni della democrazia politica del giorno d’oggi non la garantiscono a tutti. Eppure la sicurezza deve essere alla portata di tutti se si vuole salvare la democrazia politica dal naufragio.” Attualissimo nella nostra società caratterizzata dal rischio, dalla precarietà e dall’incertezza.
In uno dei suoi ultimi scritti del 1957 dava atto dell’operato della Democrazia Cristiana di De Gasperi: “Debbo riconoscere che i democratici cristiani mi lasciano protestare, mentre prevedo che i comunisti mi taglierebbero la lingua fin dal primo giorno… il giorno in cui fosse certo che Togliatti e Nenni hanno abbandonato sinceramente ogni intenzione totalitaria starei con Nenni e Togliatti. Non volendo cadere dalla padelle nella brace sono costretto a preferire la democrazia – democrazia – democrazia di De Gasperi, alla democrazia di Togliatti.”

Oggi in Italia e soprattutto dalle nostre parti occorre lottare per la giustizia sociale e la libertà da ogni tipo di miseria. Per il vibonese ci vuole una rivoluzione copernicana. Per fare questo bisogna lavorare per recuperare le tesi che furono di Gaetano Salvemini che restano ancora valide oggi. Non ci si dimentica di una esperienza socialista, libertaria, liberale e radicale, legata ai temi dello stato di diritto, delle libertà individuali, delle soggettività a partire da quella dei lavoratori. Questa è la strada maestra e la strategia dei prossimi anni e la sola via è quella di costruire un Partito democratico anche con lo spirito radicale e liberale e socialista. Solo cosi il Partito democratico sarebbe davvero tale a avrebbe l’adesione post mortem anche di Gaetano Salvemini.

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La Patria Europea o l’Europa delle Patrie? Intervista a Marco Pannella a Brussel

di Filippo Curtosi e Giuseppe Candido

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Incontriamo Marco Pannella con Giuseppe Candido nel suo ufficio al nono piano del Parlamento Europeo in una di quelle giornate dove si sogna il mare calabrese e noi là all’ombra di un costume rosa. Non ci sono energumeni all’ingresso, solo signori beneducati e senza eroici gesta e sprezzo del pericolo ci facciamo avanti …(Continua)Pannella materializzato in una sorte di immagine sacra che ha funzione evangelizzatrice, materia che rimanda quasi al trascendente e invita all’adorazione perché come diceva in mattinata il leader dei socialisti europei, Glean? anche la creatività e l’originalità di Marco esprimono anelito al divino laico; scrutando il suo sguardo scorgiamo il caos e l’ordine, la saggezza e la santità, ma anche il rimprovero severo.
In mattinata si è parlato nell’aula “Spinelli” del Manifesto europeista firmato da Spinelli, Colorni ed Ernesto Rossi. Marco Pannella non è un gran narciso, non, come dice Marcenaro uno insopportabile, prepotente, individualista, logorroico, eccessivo, provocatore. Non è un Urano che divora i suoi figli, un mangiafuoco, un cannibale, un politico dell’antipolitica, un antipolitico della politica, uno che calcola, uno che innalza la Bonino e poi la stronca, che la riinnalza e la ristronca. Non è l’ultimo leninista o l’ultimo stalinista. Non è uno che si è fatto un partito su misura, che lo comanda a bacchetta, che finge di lasciarti le briglia sul collo e al primo strattone ti lacera la bocca da qua a là.
Il nostro obiettivo è approfondire il tema della mattina: la Patria Europea o l’Europa delle Patrie.
Fin dalle prime battute abbiamo la conferma sulla vera figura di Marco Pannella non stereotipata, che stupendamente campeggia nelle sue linee essenziali dove si intravedono i tratti delle sue ardite e originali intuizioni che sanno di spirituale elevazione e di mistico lirismo, espresse in una prosa che è poesia, a volte contemplazione, nutrita di memoria storica, politicamente e socialmente vissuta e testimoniata, oggi come ieri.
A noi non ci sorprende la sua umiltà e la sua eccelsa figura di apostolo della laicità, del socialismo liberale, follemente innamorato di verità, di giustizia e di libertà. Alcune risposte sono estremamente illuminanti e significative, spiritualmente e politicamente conquidenti nell’oggi della nostra vita politica, sociale e civile. Dietro a sé sta trascinando il mondo con la moratoria contro la pena di morte.
Pannella dei paradossi, fariseo settario e cosmopolita aperto, persecutore e apostolo, debole e gagliardo, cieco e veggente che vede tutto quello che mai ad uomo è stato concesso vedere. Povero che arricchisce molti, sconosciuto e notissimo, umile e si vanta, incatenato e libera tutti.
Parliamo di Europa e di Altiero Spinelli ad un secolo dalla nascita, comunista negli anni giovanili. Gli anni del confino sono stati gli anni fondamentali della svolta politica di Spinelli, a Ventotene dov’era stato tradotto in carcere per un’arbitraria condanna a cinque anni di confino fa gli incontri fondamentali della sua vita: Ernesto Rossi, Eugenio Colorni e Ursula Hirchmann (sorella del futuro Premio Nobel per l’economia Otto Albert Hirchhmann e futura moglie di Spinelli).
Nel corso della permanenza sull’isola ha modo di discutere approfonditamente e ” liberamente” con diversi intellettuali e uomini politici delle più disparate matrici culturali ed ha l’intuizione che porterà alla redazione del Manifesto di Ventotene;
il Manifesto è il documento fondamentale del federalismo europeo, redatto nella primavera del 1941 da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi. Il Manifesto ha il grande merito di trasformare le idee di alcuni grandi pensatori a cominciare da Kant, Robbins e Lord Lothian (delle cui opere Spinelli aveva potuto fare conoscenza durante il confino grazie alla trasmissione clandestina di libri che aveva luogo tra Luigi Einaudi ed Ernesto Rossi). Il Manifesto presenta alcuni concezioni politiche nuove, ovvero che la battaglia per la federazione europea è una battaglia da fare subito per creare un Movimento Federalista Europeo su scala sopranazionale.
La pace europea, scriveva Spinelli, è la chiave di volta della pace del mondo. Difatti, nello spazio di una sola generazione l’Europa è stata l’epicentro di due conflitti mondiali che hanno avuto origine dall’esistenza su questo Continente di trenta Stati sovrani. E’ necessario rimediare a questa anarchia con la creazione di un’Unione federale tra i popoli europei. L’Unione federale dovrà avere essenzialmente: un governo responsabile non verso i governi dei diversi Stati membri, ma verso i loro popoli. Un esercito messo agli ordini di questo governo. Un tribunale supremo.
E’ la nostra battaglia, dice Pannella , Spinelli è stato lucido. Era successo che nell’ultimo anno e mezzo, pubblicamente venendo al nostro Congresso, devo dire col suo carattere. Se c’era una persona dura ma anche delicatissima, limpida, era lui, arrossiva; mi prendeva sotto braccio ogni volta che mi vedeva e mi diceva: adesso è il tuo turno. Io al letto di morte con dei testimoni autorevoli che poi sono divenuti eredi di mestiere che non erano granché gli dissi: guarda, arrangiati per fare il miracolo di vivere. Io ero a capo del letto, c’erano 40 persone da una parte, dall’altra parte i familiari, guardandolo perché sapevo che era un dolore vero, ma il dolore è un valore quando è una cosa viva è anche un dovere di non evitare di darlo perché rende vivi il dolore. Sono il dovere, le amarezze, le cose che non vanno. Gli dissi, guarda fai il miracolo, ti rimetti invece di morire. Io la gestione in attesa del miracolo la faccio, ma se è un problema di eredità guarda chi hai attorno, erano anche miei amici.
Chi erano?
Erano tanti, diversi, Dastoli, Bombelli, guarda qui, no, io eredità no. Devo anche dire… lo capisco. Infatti adesso viene fuori di nuovo il rilancio del progetto Spinelliano, concretamente lo facciamo. A quel livello. L’ultima volta che lui prese la parola sull’Atto Unico che era il tradimento di tutte le cose nostre, Spinelliane ecc. proposto da Delors e subito accettato da questo parlamentaccio ch’era divenuto perché il progetto comunista dalla quale faceva parte gli dava la possibilità di intervenire perché io rinunciai al mio intervento perché Altiero potesse parlare.
Nel 1946 Spinelli e Rossi escono dal Movimento Federalista Europeo, ritenendo assai improbabile la realizzazione del loro progetto di Europa Libera e Federata per sviluppare una lotta con altri mezzi e l’azione di Spinelli si rivela decisiva per fare della costituente europea la questione centrale per la creazione della Comunità Europea di Difesa e grazie a questa azione l’Assemblea, allargata alla CECA, viene incaricata di elaborare lo Statuto della Comunità Politica Europea per controllare l’esercito europeo, ma la sua opera venne vanificata dalla Francia. Fu una sconfitta per la lotta federalista ma Spinelli e il MFE rilanciano la lotta federalista per mobilitare l’europeismo in una protesta popolare diretta contro la legittimità stessa degli stati nazionali.
Ecco, la Patria Europea nell’ambito dello Stato Internazionale, quindi di Spinelli resta qualcosa che è attualissimo ed è la risposta per la Cina, il Medioriente e anche per l’Europa nella concezione e nel linguaggio di Ventotene. La battaglia vera è questa. Adesso nel giro di un mese cominciamo ad organizzare, iscriversi per riconoscersi, tra di noi, tra di loro per la Patria contro l’Europa delle Patrie.
Cosa comporta essere, come tu sei filoisraeliano quando Israele fa una politica dove la sovranità nazionale…
Guarda, io mi faccio carico da anni delle inadeguatezze storiche di Israele che fa come dici tu una politica di sovranità nazionale come tutti gli stati nazionali e sono ormai 30 anni che io lotto perché come l’Italia, la Germania, Israele rinunci alla sovranità nazionale di Stato nazionale e faccia parte strutturalmente dell’Europa. La Patria Europea nell’ambito dello Stato Internazionale. La lotta e le battaglie di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi.
Senti, però Spinelli in qualche modo ha fallito come dire quello che era il progetto di Trattato Europeo perché frenato e insabbiato dai governi nazionali che nel 1985 varano il meno ambizioso Atto Unico Europeo.
Come ti ho detto prima adesso è venuto il tempo per il rilancio del progetto di Altiero Spinelli perché è attualissimo ed è la vera risposta per una Patria Europea e non per l’Europa delle Patrie.
Parliamo d’altro, esiste la compassione senza la pietà?
C’è Pasolini che ha insistito diverse volte che la Fede senza la Speranza o senza la Carità, la Carità senza la Fede o la speranza produce cose mostruose. E’ una riflessione che riconduce a questo. Per cui l’assistenza che è alla base della compassione che poi alla fine è alla base dell’8 per mille. E’ una industria quella della Com-passione, io mi tengo la Compassione della Cosa Radicale.
Con Pasolini intellettuale marxista?
Ma, quello che risulta dai suoi scritti che sono poi quelli fatti fuori, lui non capiva e non era d’accordo che noi non ci presentassimo alle elezioni, donde quando lui ha mandato il testamento ai radicali lui dice:io sono un intellettuale marxista, lo era a modo giusto suo che vota DC. Oramai da anni avrebbe voluto che i radicali si candidassero. Nel ‘63 io feci una pubblicazione ” Il Voto Radicale”, noi ci presentammo alle elezioni è il primo a scrivere, accettare di dire io voterò PCI e a qualificare il suo voto come voto radicale fu Pier Paolo Pasolini . In quel momento il voto radicale voleva dire proprio Torre Argentina, insomma allora era il 24 Maggio, non è che è come adesso che uno si vergogna di dire Comunista o Verde o altri cazzi, dice Sinistra Radicale.
La Rosa Nel Pugno ha un futuro?
Sai, quando una cosa ha un passato, quasi clandestino… chi si ricorda che Sciascia era eletto con la Rosa nel Pugno, Tortora, Emma. Noi l’abbiamo tutelata e quando l’abbiamo rimesso a disposizione è stato scritto ovunque che era l’unico evento politico nuovo. Io dico che resta l’unico evento politico nuovo perché queste altre cose, Costituente Socialista… io sono Socialista e devo andà a fare la costituente socialista. Magari quelli artri faranno la costituente Liberale, laica, radicale. Mi pare che chi ha un passato ha un avvenire. Chi ha le novità di questa Europa di Guano del 23 giugno di quest’anno.
Faccio tanti auguri, mi auguro di sbagliare però continuo con le mie compagne ed i miei compagni Radicali e quindi doppie tessere e continuo a portare avanti la RnP che è anche storia dell’organizzazione Liberale, Antipartitica e Laica. Sono cose che possono poi divenire sinonimi come Liberale, Socialista, Laico e Radicale.
La nascita della Rosa nel Pugno significa decidere, fare. L’alternanza per l’Alternativa. Un milione di voti presi non può essere considerato un disastro sapendo che l’alternanza venne stabilita solo per 24 mila voti. Abbiamo concorso tutti? Può darsi. Mezzo milione di voti sono nostri o no?Allora noi rivendichiamo la scelta di valutazione politica. Negli anni ‘60 ancora prima di quello che dice Claudio Martelli sul Partito Democratico, con Bettino ne parlammo anche, eravamo per il sistema Americano, Bipartitico, Anglosassone e dicemmo oltre 40 anni fa che dovevamo fare il Partito Democratico. Mo pare che vogliono fare non si sa cosa. Onore alla scelta di Enrico Borselli e agli altri per questa scelta della Costituente Socialista fatta nel momento più difficile.
Oggi la Rosa nel Pugno da una parte e galassia Radicale dall’altra mi pare che sono la prospettiva. Dobbiamo creare una nuova forza. Guido Calogero, Capitini, i Rosselli, Ernesto Rossi, Gaetano Salvemini, storie gloriose e costitutive della civiltà nella modernità. Sono sinonimi: storie socialiste, liberali, radicali, sapendo che la prospettiva deve essere una unica tessera.
Un’ultima domanda: Ignazio Silone diceva che la libertà, la democrazia è libertà di sbagliare, Capezzone ha sbagliato?
Dipende da che punto di vista. Dal punto di vista dei cazzi suoi, no. La Cosa di Silone era proprio la tolleranza ma presupponeva che non c’è una verità e un errare, se no che libertà è? Io gli auguro… gli ho fatto gli auguri, partecipo se vuole visto che i 13 punti sono tutti e tredici manifestamente prodotti dai lombi radicali e questa formula è una formula quella che magari… saremmo stati lieti se nei 5 anni che è stato segretario dei radicali Italiani l’avesse fatta anche lì. Mo pare che gli si sia aguzzato l’ingegno, vediamo se riuscirà a farla. Per quel che mi riguarda l’unica cosa che credo lui oggi a… una bulimia di potere, di potere di esposizione… non gli farà bene purtroppo. Ha dimostrato, una volta eletto Presidente di una Commissione Parlamentare importante come si fa l’opposizione. Se ogni giorno fa il Di Pietro, i Mastella… meglio buoni a niente che essere capaci di tutto. I grandi problemi sono di classe: Welfare to Work, scalone va ragionevolizzato, ma mantenuto.

Abolire la Miseria che vuol dire?

Abolizione vuol dire radicalità.

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QUEI RIVOLTOSI DI “NON MOLLARE”


di Filippo Curtosi e Giuseppe Candido

L’acqua distillata è il laicismo, il credo socialista liberale. Il cantiere è la continuità Salveminiana”

“Non ci è concessa la libertà di stampa? Ce la prendiamo”. Da ottant’anni, questo giornale e questo monito sono leggenda.

Marco Pannella ha dato un giudizio assolutamente positivo del congresso dello Sdi . Si vuole fare l’Unità socialista che non è riuscita prima. “Sembra che le cose vanno benissimo dice Pannella rispetto ad un offensiva vetero clericale”.

imageLa Rosa nel Pugno vive nello spirito. Pannella ha una storia socialista .

Il segretario dei giovani socialisti, quarta componente della Rosa dice: “Il progetto laico, liberale, radicale e socialista non muore. Vogliamo un cantiere più grosso. Volevamo farlo prima e non ci siamo riusciti, adesso dicono si può fare”. Noi vi applaudiamo continua Pannella. Questa sera è una sera di festa perché c’è un canto nel congresso dello Sdi della laicità come alternativa ad un sistema politico italiano che possiamo definire come una cosa traditrice e bastarda. Ringraziamo Enrico conclude Pannella, perché l’Unità socialista è un percorso non craxiano ma che si richiama a Zapatero, Blair e Loris Fortuna. L’acqua distillata è il laicismo, il credo socialista liberale. Il cantiere è la continuità Salveminiana” . Cosa significa ciò? Per comprendere questo passaggio bisogna andare indietro nel tempo.

Anno 1925: La pattuglia dei “salveminiani” che comprende Ernesto Rossi, i fratelli Rosselli, Carlo e Nello, Traquandi, da vita ad un giornale: “Non Mollare”.

Il titolo del giornale lo trova Nello Rosselli che, racconterà Salvemini, ha la meglio su chi propone “Il Crepuscolo”.

Ernesto Rossi di cui quest’anno si celebrano i 110 anni dalla nascita, studioso di economia e insegnante nelle scuole statali, mutilato dalla grande guerra, si professa subito “liberista”; i fratelli Rosselli, ebrei,di famiglia ricca; Tramandi di professione faceva il ferroviere. Si trattava di distinti borghesi dalle radici culturali “risorgimentali” che avevano partecipato al conflitto della grande guerra del 15-18.

Erano rivoltosi perché si mettevano contro il fascismo che aveva soppresso la libertà di stampa. “Volete che sparisca la stampa clandestina”? era la parola d’ordine che questo giornale fiorentino diffondeva. “Rispettate la libertà di stampa”. “Non ci è concessa la libertà di stampa? Ce la prendiamo”.

Da ottant’anni, questo giornale e questo monito sono leggenda. Qualunque semplificazione sta stretta, anche se, come ogni storia complessa come quella di cui “Non Mollare” si fece strada per 22 numeri clandestinamente (usciva quando poteva).

Ernesto Rossi aveva il compito di far recapitare il foglio clandestino a gente che si chiamava Camillo Berneri, Umberto Zanotti Bianco attraverso il ferroviere Traquandi.

Il bersaglio preferito era Vittorio Emanuele III, colluso con Mussolini.

La tiratura era di trentamila copie. Un giornale irriverente, di forte denuncia che veniva definito “Bollettino d’informazione durante il regimee fascista”. Simbolo autentico di resistenza al fascismo. Ernesto Rossi divenne cosi nemico giurato di Mussolini e dovette riparare in Francia in seguito al tradimento di un tipografo, Gaetano Salvemini venne arrestato a Roma prima di andare in esilio per oltre venti anni. I fascisti volevano ammazzare i fratelli Rosselli ma non li trovarono. Li avrebbero trovati dodici anni dopo.

Il “ Socialismo liberale” di Rosselli.

Scriveva Aldo Garosci nel 1967:

“L’anno 1937 si apriva sullo scenario europeo di una guerra civile che, a cinque mesi dal suo inizio, di giorno in giorno appariva come il dissidio tra due civiltà: la guerra di Spagna. In molti tra gli esuli antifascisti italiani, avevano fatto la loro scelta di campo, e tutto nell’animo e nella volontà di Carlo Rosselli lo disponeva all’intervento in questa guerra”.

Settant’anni fa venivano uccisi in Francia i due fratelli antifascisti, socialisti e liberali da tempo sotto stretta sorveglianza.

“Il maggior pericolo viene da Rosselli e, a mio modo di vedere, è assolutamente necessario sopprimerlo” cosi si esprimeva nel 1934 il capo della polizia politica che viene riportato nel volume di Mimmoo Franzinelli: “Il delitto Rosselli. 9 giugno 1937. Anatomia di un omicidi politico”.

Attraverso di esso, scrive lo storico Lucio Villari, l’autore ricostruisce la preparazione in Italia e l’esecuzione per mano francese dell’assassinio dei fratelli Rosselli. Nella prima metà del volume si seguono le trame italiane e le complicità francesi della rete dentro la quale cadrà Carlo Rosselli. “Tenga presente – scriveva Michelangelo Di Stefano numero due del capo della polizia Arturo Bocchini – che il movimento più importante, più pericoloso, più attivo è, per ora Giustizia e Libertà. Ho dovuto persuadermi che il Rosselli è, senza dubbio, l’uomo più pericoloso di tutto il fuorisciutismo (nel lingiaggio fascista si preferiva qualificare con un termine dispregiativo “fuorusciti” gli esuli antifascisti).

Egli è un “piccolo Lenin, figlio di papà” ma crede sul serio al suo ruolo rivoluzionario ed è totalmente sprovvisto di quel minimum di misticismo che spinge il rivoluzionario idealista a non imbruttire mai la propria opera. Per Rosselli tutti i mezzi sono buoni”.

I servizi segreti, scrive ancora Villari,” sapevano anche che la posizione di Rosselli era critica nei confronti dell’antifascismo all’estero e delle sue varie componenti: socialiste, comuniste, liberali, repubblicane, anarchiche, cattoliche.

Gli informatori sapevano che la lotta al fascismo condotta da Rosselli, voleva essere, rispetto a queste componenti, più profonda, più incisiva, più strategica. In una lettera, intercettata, di Rosselli al repubblicano Fernando Schiavetti era detto: “Non occorre che spieghi a te che la nostra concezione non ha nulla a che fare con il vecchio massimalismo. Siamo pronti alla lotta concreta e a tutte le concessioni tattiche, purchè resti energicamente perseguito il fine”. La guerra di Spagna, conclude lo storico” metteva alla prova queste idee. Per il regime fascista occorreva dunque agire al più presto.

Chi sapeva, se non le spie e gli intercettatori italiani del fatto che Carlo Rosselli, tornato dalla Spagna con una grave flebite alla gamba doveva curarsi ai primi di Giugno presso le terme di Bagnoles-del’Orme in Normandia?

Chi altri l’avrebbe potuto chiedere ai “cagoulards” di portare a termine l’eliminazione di Rosselli se non i massimi vertici del fascismo internazionale?

Dopo la morte di Rosselli, un altro grande antifascista italiano assunse compiti impegnativi di carattere politico e organizzativo nell’ambito di “ Giustizia e Libertà”: Bruno Trentin, padre dell’ex segretario generale della Cgil. Scrive Hans Werner Tobler:” Dall’esame del contributo teorico- sociale del Trentin negli anni trenta, visto come una delle componenti del quadro politico di “ Giustizia e Libertà”, proprio in confronto alle concezioni politiche di Carlo Rosselli, emerge la vasta gamma di opinioni che caratterizzava questo movimento.

Per quanto, nel loro tentativo di definire una propria posizione politica, sia Trentin sia Rosselli partano dalla polemica con il marxismo e col socialismo e tendono ad una nuova concezione della società, determinata anche in forma decisiva dall’esperienza del fascismo, e per quanto riconoscano entrambi la realizzazione sociale dei postulati liberali di autonomia come un’esigenza centrale, differiscono poi nel loro orientamento politico.

Le idee di Rosselli che, data la sua leaderschip nell’ambito di “Giustizia e Libertà”, vanno intese anche come espressione fondamentale dell’orientamento di questo movimento, vennero elaborate soprattutto in “ Socialismo liberale” apparso nel 1930. Per Rosselli che aveva fatto parte del partito socialista di Matteotti, Socialismo liberale aveva il significato di un distacco dal socialismo italiano tradizionale e soprattutto dal rifiuto della sua base marxista. Nella prassi politica, Socialismo liberale significava una svolta in direzione della pratica politica della socialdemocrazia europea occidentale e soprattutto inglese.

Socialismo liberale va inteso come critica fondamentale del marxismo.

“Oggi sono in causa” scrive Rosselli nella prefazione, “Le basi fondamentali della dottrina e non più soltanto della sua applicazione pratica. E’ la filosofia, è la morale, è la stessa concezione della politica marxista che non basta più a soddisfarci e ci spinge verso altre sponde, verso orizzonti più vasti”.

Influenzato dall’interpretazione di don Benedetto Croce del marxismo, Rosselli respinge soprattutto la base materialista e l’interpretazione deterministica del processo di sviluppo storico del marxismo. Rosselli critica con Croce “L’assurdo relativismo morale professato dai socialisti”, sente nel marxismo la mancanza delle “integrazioni etiche e sentimentali”, lo trova privo di “giudizi morali, entusiasmo e fede”.

Rosselli interpreta il marxismo in quanto determinismo dogmaticamente cristallizzato, non come una teoria che riesca a ispirare l’attività politica pratica, ma che, al contrario, in determinate circostanze storiche( come al tempo della presa del potere del fascismo) addirittura la paralizza. Marxismo e socialismo non gli appaiono pertanto identici, ma anzi il marxismo può rivelarsi un impedimento per il socialismo. Bisogna dunque- secondo Rosselli – liberare il socialismo dalla sua incrostazione dogmatica- marxista.

La critica del marxismo di Rosselli non è tanto una critica del marxismo genuino quale risulta dalle opere di Marx ed Engels, quanto piuttosto una polemica con la concezione del socialismo e della sua realizzazione adottata dai marxisti italiani. Socialismo non significa più per Rosselli essenzialmente una struttura socialista di produzione. Il socialismo si rivela nel concetto di Rosselli piuttosto un ideale:” Il socialismo non è né la socializzazione, né il proletariato al potere, e neppure l’uguaglianza materiale(…) Il socialismo, più che uno stato esteriore da raggiungere, è per l’individuo, la realizzazione di un programma di vita…Rosselli arriva alla sintesi di socialismo e liberalismo nel suo Socialismo liberale interpretando il nuovo socialismo come l’autentico proseguimento del liberalismo idealista ch’egli contrappone al liberalismo borghese del suo tempo, ridotto a liberalismo economico. Per “Socialismo liberale” intende quindi “una teoria politica che, partendo dal postulato della libertà dello spirito umano, afferma la libertà suo fine supremo, suo mezzo supremo, regola suprema della convivenza umana”.

In definitiva la concezione di Rosselli di un socialismo liberale corrisponde ad una politica di integrazione dell’individuo nello stato di tipo democratico occidentale, basata sui principi del liberalismo politico.

La libertà personale dell’individuo deve essere integrata da una politica di giustizia sociale fino alla compenetrazione dei postulati di socialismo e liberalismo, “giustizia e libertà”.

Quello di cui oggi l’Italia ha bisogno. Per ritornare al congresso dello Sdi possiamo dire che è rinato il Psi ed è nelle cose che Marco Pannella avrà una delle prime tessere, quella che Bettino Craxi gli ha sempre rifiutato. Il 12 maggio a Piazza Navona c’è una festa: “Rosa nel Pugno Pride”. Roma è aperta ai nuovi Garibaldi, ai nuovi laici, liberali, socialisti e radicali.

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