Archivi categoria: Tradizioni

Cenacolo di libertà

di Maria Elisabetta Curtosi

Nel 1847 Vincenzo Ammirà si affiancò ai liberali sotto la guida di Raffaele Buccarelli, tra i quali troviamo Francesco Fiorentino, Luigi Bruzzano, Ottavio Ortona, Francesco Protetti, Giuseppe Augurusa (….) che ebbero su di lui una certa influenza ed in compagnia di questi amici  spesso trascorreva le serate e le notti . Cenacolo di libertà. L’agiografia e la critica che sino ad oggi si è occupata di Ammirà di Donnu Pantu risulta piuttosto caricaturale, di maniera, conformista e quindi falsata. A noi interessano soltanto in quanto ci servono come veicolo per arrivare a capire il perché di una certa produzione, che d’altra parte è presente in Italia e fuori da essa, lungo tutto il percorso della storia letteraria, anche se celata con sufficienza da testi cosiddetti ufficiali.

Tre anni dopo, nel mese di…. lo troviamo al seguito di Giuseppe Garibaldi fino a Soveria Mannelli.

Le lagnanze della “ cultura ufficiale” battono sui soliti argomenti: l’immoralità mostruosa del comportamento del poeta che poteva avere sulle persone la più funesta influenza e,il fatto che il poeta dicesse pane al pane e vino al vino come in uno dei suoi più celebri scritti la “ Ceceide” che canta la vita di una bella e dignitosa buttana di Tropea, frequentata non dai poveri cristi popolani,ma da gente di cultura e di alto lignaggio come il filosofo Pasquale Galluppi e  la “Rivigghiede” che rappresenta una sorte di orationes funebre sempre di una grande buttana, questa volta montaleonese, assaporata,gustata e molto gradita  dai signori altolocati del tempo.  A Francesco Mantella-Profumi, appartenente al nobile casato pannaconese , disse: “Da certi scritti, che non credevo vivessero tanto,  sembro diverso da quel che realmente sono, eppure quando scrivo i miei versi sono sempre mesto”.  Dunque Ammirà, come Donnu Pantu vivevano  una vita castigata, l’uno tutto dedito alla famiglia, l’altro faceva il “mastru missaru”.

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A Vibo Marina, Pizzo e Francavilla Angitola concluse le manifestazioni per la Festa della Gente di Mare in onore di San Francesco di Paola

di Franco Vallone

Si sono svolte, nei giorni scorsi, le manifestazioni per la 18° Festa della gente di mare che per l’edizione 2011 hanno interessato le location di Vibo Marina, Pizzo e Francavilla Angitola. Uno dei momenti principali della festa è stata l’accoglienza ufficiale, presso il molo del porto di Vibo Marina, del pattugliatore d’altura “Luigi Dattilo”- CP 903, sotto il comando di Francesco Bove. Per l’occasione era presente alla cerimonia la signora Carlotta Dattilo, figlia di Luigi, Medaglia d’argento al Valor di Marina e madrina della nave al momento del varo. Hanno fatto gli onori di casa il capitano di fregata, Luigi Piccioli, comandante della Capitaneria di Porto di Vibo Marina, la sua vice Romanazzi, il comandante Domenico Malerba, della Guardia Costiera di Pizzo, il comandante Fausto De Caria, della Guardia Costiera di Amantea. Graditissimo ospite Giuseppe Galdoporpora, responsabile della confraternita di Benincasa di Vietri sul Mare, luogo dove è custodita la Sacra Reliquia della “Salvietta” di San Francesco da Paola. Presenti alla cerimonia il tenente colonnello della Guardia di Finanza, Giovanni Legato; una delegazione del Comune di Francavilla Angitola con il sindaco Carmelo Nobile, il vice sindaco, Antonella Bartucca e l’assessore Angelo Curcio e una folta delegazione dell’Associazione Marinai di Pizzo. Commovente il momento della consegna di un prezioso mosaico artistico raffigurante la “Nave Luigi Dattilo messa sotto la protezione di San Francesco di Paola” e realizzato dai giovani della cooperativa “La Voce del Silenzio” di Pizzo diretta da Adriana Maccarrone . Un gruppo di giovani della cooperativa, guidato da Francesco La Torre, direttore del centro di riabilitazione psichiatrica di Pizzo, ha proceduto alla consegna del mosaico nelle mani del comandante Bove, dopo la benedizione da parte del parroco di Vibo Marina, Saverio Di Bella. Il giorno successivo si è svolta la tanto attesa e tradizionale traversata, da Marina di Pizzo al Lido Colamaio 2, a bordo di barconi, gommoni e motovedette scortati dalla nave “Luigi Dattilo”. Filippo Di Francia , parroco di Pizzo Marina, ha benedetto la statua di San Francesco e la “Barchetta” a bordo dei barconi. Alla traversata hanno partecipato anche alcuni devoti calabro-australiani provenienti da Melbourne, luogo dove il santo paolano è molto venerato. Durante la traversata una doverosa sosta in ricordo del giovane subacqueo napitino, Giorgio Stingi, tragicamente scomparso proprio in quel tratto di mare. Allo sbarco è stata pronunciata la preghiera del marinaio con la benedizione e il lancio in mare di una corona d’alloro in onore di tutti i caduti. A Olivara di Francavilla Angitola, presso il viadotto di San Francesco di Paola, sono stati consegnati riconoscimenti a Lucrezia Galati da Sant’Onofrio e a Concetta Ciliberti Pungitore di Francavilla Angitola e al termine della cerimonia sono stati conferiti i Crest commemorativi realizzati dall’artista Giuseppe Farina. La “Festa della Gente di Mare ” organizzata , grazie all’impegno di Vincenzo Davoli, Gianfranco Schiavone e Giuseppe Pungitore, curatori del sito internet www.francavillaangitola.com, di Giovanni Bianco, e Emanuele Stillitani, della Proloco di Pizzo, di Franco Di Leo del Centro Italiano Protezione Civile di Pizzo, di Francesco La Torre , responsabile del reparto di Riabilitazione Psichiatrica di Pizzo, di Adriana Maccarrone, presidente della Cooperativa Sociale “La Voce del Silenzio” Onlus di Pizzo, con il sostegno del Vescovo di Mileto, dei Padri Minimi e del clero diocesano, di varie associazioni di volontariato e protezione civile e con la collaborazione della Guardia Costiera, enti e autorità civili e religiose, risulta essere, secondo gli organizzatori, la più importante festa della gente di mare organizzata in Italia.

 

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Svelatura con brivido all’Affruntata di Sant’Onofrio

un uomo scivola sul selciato travolto durante l'indietreggiare della Madonna

di Franco Vallone

In ogni rituale dell’Affruntata la fase più critica e delicata è la cosiddetta svelatura o svelazione della Madonna. È il momento più veloce e più complesso di tutta la sacra rappresentazione, per le componenti ritualizzate del tramandare, per il passo da coordinare tra i portantini, per l’andatura da sincronizzare in rapporto con le altre due statue presenti sulla scena. L’incontro è il momento più simbolico, un antico rito di passaggio, di superamento di una vera e propria soglia che ridisegna, sulle nostre strade di casa, l’incontro tra il Cristo Risorto e la Madonna Addolorata ammantata di nero. Nella svelazione c’è la vittoria della vita sulla morte e da centinaia di anni, proprio in questo particolare frammento di tempo sacro, vengono assorbiti dalla comunità numerosi segni, simboli interpretati e da interpretare, prelevati dall’accadimento delle cose come elementi di previsione per la vita di tutto l’anno e come documenti da ricordare, testimoni di protezione simbolica e apotropaica per tutto il paese e per tutta la stessa comunità. Il 24 aprile di quest’anno, giorno di Pasqua, anche a Sant’Onofrio un brivido dietro la schiena corre nei tanti che si sono accorti di quanto stava succedendo. Un attimo dopo ed il brivido collettivo si tramuta in urlo che diventa l’urlo di tutti, forza della voce della comunità di Sant’Onofrio che cerca di arrestare il momento critico in atto. Un uomo, componente dell’organizzazione, viene improvvisamente travolto dall’indietreggiare della statua della Madonna e dei suoi portantini, un’azione ritualizzata e consolidata e da sempre prevista dal rito. L’uomo, con la divisa blu e gialla della Protezione Civile, scivola e cade a terra, finisce quasi sotto i portantini e la stessa Madonna, poi, grazie ai riflessi veloci di alcuni suoi colleghi, viene recuperato senza per fortuna gravi conseguenze. Ancora un attimo e subentra la consapevolezza di un incidente superato che poteva provocare la caduta della statua della Madonna e dei portantini. Passato il brutto momento tutto rientra e si risolve con urla di gioia ed applausi, si ripercorre la festosità del rito che si realizza nel pieno della sua secolare bellezza estetica, con la musica della banda, i fuochi d’artificio e migliaia di auguri scambiati, tra vicinanze di paesani e lontananze di parenti emigrati tornati solo per la festa, in una comunità con addosso i simboli e le ritualità che scendono sin nel profondo della storia cristiana.
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Giuda, pentimento e perdono, cose su cui riflettere

di Giuseppe Candido

Pubblicato su il Domani della Calabria del 24 aprile 2011

Nella storia della letteratura e delle tradizione la figura di Giuda è stata riproposta con infinite variazioni. L’orientamento è stato quello di cercare una giustificazione trascendente al suo atto. A sostenere questa tesi, nel 2007 in un’intervista rilasciata a Repubblica, fu il Cardinale Gianfranco Ravasi, già prefetto della biblioteca ambrosiana di Milano, “chiamato” a scrivere, con Benedetto XVI, i testi delle meditazioni lette durante le solenne Via Crucis del Venerdì Santo.

“E’molto probabile” – sostiene Ravasi – “che Giuda abbia tradito per una delusione politica. Lui aveva sognato forse di vedere in Gesù un messia di tipo nazionalistico. Poi vede che quest’uomo scardina le strutture più all’interno che all’esterno. Quello che vuole mutare sono le coscienze degli uomini”. Così Giuda tradisce, poi si dispera e, infine, si toglie la vita. Qualunque atto immaginario ci induce quindi a collocare Giuda, il suicida, nel girone dantesco dei traditori. Ma, suggerisce ancora Gianfranco Ravasi, “Questo non possiamo dirlo come non potremmo mai dichiararlo di nessuno. Nell’assoluto momento di solitudine che è l’istante supremo della morte, quando si è tra il tempo e l’infinito, resta ancora una possibilità di scegliere”. Ravasi scorge, nelle ultime ore della tragedia interiore di Giuda e nello scagliare i trenta denari e che anche Mel Gibson ha rappresentato nella sua Passione, “il fiorire del pentimento”. Un pentimento che, ricorda il giornalista, è sempre “presente nella tradizione cristiana”. Anche Caterina Fieschi Adorno, considerata grande mistica e meglio conosciuta come Santa Caterina da Geneva, racconta della visione in cui le appare Cristo e in cui essa esprime la sua curiosità chiedendo a Gesù: “Che ne è stato di Giuda”. Allora Cristo le risponde sorridendo: “Se tu sapessi che cosa io ho fatto di Giuda …”, dimostrando che Giuda era stato “riassorbito nell’amore redentore di Cristo”. È il filone del pensiero teologico secondo cui, “nel momento ultimo non possiamo mai giudicare quale sia la scelta di una persona”.

La linea che va nella direzione della riabilitazione di Giuda fiorisce nel romanzo Un modesto, modestissimo libro, scritto idealmente dal figlio di Giuda di Jerey Archer. Giuda Iscariota è “strumento di Dio finché si possa compiere il percorso terreno di Gesù, fino alla sua crocifissione. Ma Giuda non è neanche una marionetta “usata da Dio”, in modo “crudele”. Jaques Bosset, vescovo e grande predicatore del ‘600, sosteneva che “Dio scrive dritto nelle righe storte degli uomini” potendo trasformare “un atto negativo in un disegno superiore”. D’altronde è proprio Gesù Cristo che, contro ogni regola di allora e di oggi, introduce la scelta del perdono: il suo ultimo gesto sulla croce è infatti il perdono del ladrone che, convertitosi, dice a Gesù: “Ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. Dopo Giuda, un’altro malfattore da riabilitare a cui Gesù risponde: “Oggi sarai con me nel regno di Dio”. Potremmo ricordarcelo anche noi, in questi giorni di Pasqua che spesso viviamo tra un’agnello e una colomba, che è il perdono, non la rivendicazione e la vendetta, la vera strada per cambiare il mondo.
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Venerdì Santo: La donna con le Stigmate a Briatico

di Franco Vallone

Briatico, paese della provincia di Vibo Valentia, ore 15.00 di ieri, venerdì santo 2011. Il rione è il più antico del paese, proprio alle spalle del calvario a tre croci ancora allestito con palme e rami d’ulivo benedetto. Lei, la signora dalla pelle rosea con le stigmate rosse e scure è a letto, incosciente di tutto ciò che le succede attorno, dentro una delle piccole case basse del rione. La sua casa è aperta, la porta spalancata al mondo che una volta l’anno l’invade completamente e la fa diventare il luogo speciale da visitare. La gente arrivata a Briatico per essere vicina alla donna con le stigmate quest’anno è davvero tanta e la piccola casa non riesce a contenerla tutta. Sono arrivati in tanti, puntuali come al solito, ed anche da lontano. Amici paesani, parenti e conoscenti, poi ci sono i fedeli credenti ed anche numerosi altri arrivati solo per curiosità, ci sono fotografi, qualche operatore video che immortala il tutto e poi ricercatori, psicologi, alcuni medici ed anche don Salvatore, il giovane prete del paese. Tutti assieme, stretti stretti dentro la piccola casa, per osservare, in silenzio e con tanto rispetto, e per cercare di comprendere il perché di questo grande mistero e di tutti quei segni sulla pelle. Poi lei, la donna di Briatico dalla pelle rosea, si risveglia con la puntualità di un orologio biologico, stanchissima e provata racconta a tutti i presenti, con voce flebile, del suo lungo viaggio, delle sue visioni, dei suoi incontri onirici, dei luoghi e dei tempi del sacro visitati e dei messaggi ricevuti dall’alto. Poi, ancora più lentamente, riacquista le forze, recupera vitalità e a sera riprende la vita quotidiana di sempre, con i suoi rituali nelle processioni della Settimana Santa, i suoi canti nelle processioni dietro il Cristo e la Madonna ammantata di nero, i santi, le messe e la sua intima cristianità. Quello che anche quest’anno possiamo mostrarvi sono le foto della sua mano, del suo braccio con le stigmate e quello che possiamo raccontarvi è che anche in questo pomeriggio lei ha accolto con un sorriso e un saluto tutti coloro che hanno, in qualche modo, saputo lo stesso. Le porte della sua casa aperte ai tanti che hanno voluto essere testimoni della sua sofferenza intima ma visibile, collettiva, tangibile anche attraverso i segni che le si manifestano ritualmente sulle sue mani e su altre parti del corpo. Lei, la donna di Briatico, ha oggi sessantadue anni, è una nonna, una madre e una sposa normale, ed è straordinario detentore umano, una volta l’anno, di stigmate e ulcerazioni dalle simbologie cristiane dove forme di grani di rosario, di una croce e altri disegni sacri si materializzano lentamente nelle sette settimane di Quaresima per uscire fuori, sanguigni e scuri sulla sua pelle rosea, il venerdì prima di Pasqua. Anche per quest’anno non possiamo mostrarvi il suo volto, sempre sereno, carico di misticismo e di straordinaria accettazione per quello che annualmente le accade e per adesso non possiamo nemmeno dirvi il suo nome e cognome, per rispetto alla sua volontà di sempre, quella di essere discreta e silenziosa testimone della sofferenza cristiana.

 

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Trischene, una città immaginata

Il cronista si imbarca in un volo etimologico facendo derivare il toponimo Uria dal presunto greco attico Ur, col significato di “adorazione”

di Francesco Santopolo

Tra medioevo e rinascimento, era consuetudine affidare ad autori di cronache il compito di “costruire” storie per dare lustro ad un casato o ad una città.
Questo ha costretto la storiografia successiva ad un difficile lavoro di ricerca per dimostrare l’attendibilità delle “invenzioni” di alcuni fantasiosi cronisti.
Da una di queste è nata la storia di Trischene città che, secondo le cronache, sarebbe stata edificata tra il Simeri, l’Alli e l’Uria e avrebbe subito l’attacco di corsari saraceni tra l’865 e l’875 (U. Ferrari, 1971), dando luogo ad un trasferimento in massa della popolazione scampata al massacro, il cui nucleo più consistente avrebbe fondato la nuova città di Taverna.
Le cronache, infatti, non erano interessate alle vicende di Trischene, quanto alla glorificazione di Taverna che si pretendeva esserne stata l’erede naturale.
Anche in ricostruzioni storiche recenti (U. Ferrari, 1971; M. Barberio, 1975), le vicende di Trischene, sono solo un passaggio per ricostruire la storia di Taverna.
Tuttavia, proprio perché le cronache più antiche hanno contribuito a creare un circuito cumulativo di inesattezze che hanno messo in secondo piano una ricostruzione storica del territorio, pensiamo che la vicenda meriti un approfondimento e una riflessione che, a partire dalle caratteristiche dell’area in cui la fantasia cronachistica avrebbe immaginato Trischene, ci permetta di capire se ci fossero le precondizioni perché sorgesse una colonia autonoma o una “dipendenza”, durante la grande colonizzazione greca o subito dopo. La storia inizia con la comparsa di un manoscritto del ‘200 che ha interessato, a vario titolo, diversi scrittori in epoca successiva (G. B. Nola- Molise, 1649; F. Ughelli, 1743-1762; G. Franconeri, 1891; G. Minasi, 1896; F. Lenormant, 1976, vol. II).
Nella cronaca, il cui titolo completo è “Chronica Trium Tabernarum, et quomodo Catacensis civitas fuerit edificata, quando Goffredus illustrissimus Catacensis Comes pro restauracione et edificacione Trium Tabernarum Episcopatus Greca undique et vetera coadunavit scripta et privilegia” (in Lenormant, l. c., corsivo nel testo), si narra di una città denominata Trischene, e “Si pretende che ne sia stato autore un certo Ruggiero (Ruggero Carbonello, in M. Giovene, Simeri e i suoi casali, 2000, n.d.r.), diacono e canonico di Catanzaro, il quale avrebbe dedicato il lavoro a Guglielmo II, duca di Puglia” (F. Lenormant, l. c.).
Secondo il cronista, Trischene “era ripartita in tre distinte membra di sito, l’un là ove abbiamo l’Uria, l’altro sotto a Simmari e ‘l terzo sotto Catanzaro”(in M. Barberio, 1975).
E qui il cronista si imbarca in un volo etimologico facendo derivare il toponimo Uria dal presunto greco attico Ur, col significato di “adorazione” (in M. Barberio, l. c.). In realtà, Uria è termine di origine preistorica (G. Rolhfs, 1975), probabilmente legato alla presenza dell’omonimo uccello di cui sopravvivono solo alcune specie come Uria lomvia, Uria grylle o colombo di mare, o dal greco Ũria con cui si designava una specie di anitra o, ancora, dalla radice araba al-hūr che significa “fanciulla dagli occhi neri”.

 

Taverana (Cz)

Ma potrebbe anche collegarsi alla presenza di grosse mandrie di Bos primigenius, Uro per l’appunto, progenitore della razza bovina Podolica, ancora diffusa nel territorio.
Nella versione tramandata dalle cronache, si accrediterebbe l’ipotesi che, tra l’865 e l’875 (U. Ferrari, 971) la città di Trischene, fino ad allora sotto il dominio di Costantinopoli, avesse subito l’assalto di corsari saraceni che avrebbero distrutto i tre siti in cui era ripartita e ucciso gli abitanti che non riuscirono a trovare scampo nella fuga. La maggior parte dei superstiti si spostò in quella che sarebbe diventata Taberna montana o Tabernarum, altri si rifugiarono a Simeri, Catanzaro e Sellia (in M. Barberio, l. c.). Ad avvalorare l’importanza di Trischene nella geografia politica di Costantinopoli, il cronista immagina che, dopo la morte del Duca longobardo, il generale Niceforo Foca inviasse in Calabria il Magister militiae Gorgolano che trovò Tabernarum ricostruita e popolosa (in M. Barberio M. l. c.), la riconobbe unica erede di Trischene e le restituì la sede episcopale (U. Ferrari, l. c.; F. Lenormant, l. c.). La ricostruzione storica successiva non si occupa più del sito di Uria che sarà abbandonato per la posizione facilmente espugnabile.
Nel 1450 Ferrante Galas, nella “Cronaca di Taverna composta per messer F. G. di S. Pietro nel 1450”, compie un ulteriore sforzo di fantasia per risalire alle origine di Trischene, immaginando che “Antenore, fuggendo da Troia distrutta, conducesse con sé tre sorelle di Priamo: Astiochena, Medicastena ed Attila. Giunte in vista di un ampio golfo decisero di sbarcare presso la foce di un grande fiume per un breve riposo” (in Giovene, l. c.). Ma poiché non vi era luogo “migliore di sito né di temperie più soavi, né di campi più ameno, né di biade più fruttifero, né di boschi al di sopra più comodo, né di monti vicini ed aggiogati più sicuro, né di acque più abbondanti” (G. Franconeri, 1891) decidono di fermarsi, mentre Antenore proseguirà il suo viaggio, secondo la Chronica per fondare Mantova ma in realtà fonderà Padova (J. Berard, 1963; R. Graves, 1983).
Il luogo in cui fecero scalo era tra il Crocchio e il Simeri. Nel sito di Uria, Astiochena fondò una città e la chiamò Palepoli, in onore della dea Pale, nume tutelare della pastorizia, dea nella mitologia romana, dio in quella etrusca.
Medicastena, in onore di Hera, fondò Erapoli, alla foce del fiume Crocchio o su quella del Crotalo (Alli), luogo in cui, secondo quanto riferisce Stefano di Bisanzio, Ecateo di Mileto avrebbe immaginato la mitica città di Crotalla. Attila fondò una città alla foce del Simeri e, in onore di Atena, la chiamo Atenapoli, per saldare un debito verso la dea che invano aveva cercato di proteggere Troia.
Per la sua posizione. in prossimità della foce del Simeri, Atenapoli divenne il centro dell’attività commerciale. Nei mesi di aprile e maggio di ogni anno si svolgeva una fiera che richiamava mercanti anche dall’Africa e dal vicino Oriente e costituì la premessa per il formarsi di una forte comunità ebraica.
Presumibilmente si trattava della Floralia o Sacrum Florale che si teneva dal 28 aprile al 3 maggio in onore dell’antica divinità italica Flora, cui si attribuiva la fecondità delle donne e la protezione delle piante da frutto al momento della fioritura. Marziale, Varrone e Seneca parlano di Flora, Ovidio la identifica con una ninfa di origine greca (in L. Biondetti,1997) e Catone scrisse il De Re Flora, opera andata perduta ma ricordata da Gellio.
“Nel 238 a. C., in occasione della fondazione del tempio di Flora sul Quirinale” (A. Ferrari, 2008) la Floralia fu istituita anche a Roma (cfr. anche Plinio il Vecchio, 1972, vol. I).
Sia le date che i personaggi citati nelle “Cronache” vanno riesaminati. La pretesa del cronista che, per liberare Trischene, fosse venuto uno dei tre imperatori bizantini (Niceforo Logoteta, Niceforo Foca o Niceforo Botoniate), è, per l’appunto, solo una pretesa.
Più probabile che questo incarico fosse affidato al generale Niceforo Foca, del quale è certa la venuta in Calabria nell’885 (Ferrari U., l. c.).
Niceforo Foca trovò i nuclei scampati ai Saraceni dispersi nell’interno, lontano dalle zone costiere. La presenza del generale contribuì al rafforzarsi di questi nuclei in villaggi e città.
Fu così che nacquero o si rafforzarono Catanzaro, Settingiano, Simeri, Belcastro, Taverna e altre città (U. Ferrari, l. c.), almeno fino al ritorno degli Arabi che assediarono e conquistarono Squillace, costituendo un emirato indipendente durato fino al 922 (U. Ferrari, l. c.) e da qui mossero per espugnare Tiriolo, Simeri, Taverna, Belcastro e Catanzaro.
Secondo la cronaca, alcuni fuggiaschi, guidati da Giulio Catimeri, raggiunsero Catanzaro, si sistemarono sul monte Zaracontes, il cui nome deriverebbe dal torrente Zarepotamo che corrisponde all’attuale Fiumarella (G. Rolfs, 1974) e il nuovo sito, assegnato loro dal generale Niceforo Foca, si chiamò “Rocca di Niceforo” (l’attuale Bellavista). Trischene prese il nome di Taberna e poi Taverna, chi dice per attirare le popolazioni latine, chi sostiene che non esistendo più le tre chiese non c’era motivo di mantenere la vecchia denominazione (U. Ferrari, l. c.).
Taberna montana o Tabernarum o, più semplicemente, Taverna, accolse il maggior numero di fuggiaschi ed ebbe uno sviluppo iniziale maggiore, rispetto a Catanzaro.
Giovanni Filanzio, nella numerazione dell’Apogrifario dell’anno 1000, riporta 1.232 case e 5.288 abitanti, tra cui 53 sacerdoti, 6 monaci e 28 monache basiliane (M. Barberio, l. c.).
Ancora nel 1601, la distanza tra le due città era minima: Taverna contava 2.064 fuochi, Catanzaro 2.296 (M. Barberio, l. c.).
Circa l’attendibilità storica della Chronica, “Nessun dubbio che colui che la scrisse creò di sana pianta i fatti che racconta, frammischiandoli con mostruosi anacronismi e con documenti impudentemente falsificati”(F. Lenormant, l. c.) e, probabilmente, la ricostruzione di una città denominata Trischene o Trischine è “solo una miserabile supposizione, inspirata da pretese senza valore di vanità locale” (F. Lenormant, l. c.), poiché “nessun antico autore ricorda una città di Trischene o Trium Tabernarum nel Bruzio; nessun cronista autentico, né latino né greco né arabo, attesta la distruzione dell’uno o dell’altro nome ad opera dei Saraceni” (F. Lenormant, l. c.).
La tendenza a “costruire” falsi, anche clamorosi, tendenti a magnificare un sito o un personaggio e la scarsità di fonti, contribuiscono a creare delle nebulose tra le quali è difficile districarsi.
“Questa cronaca- aggiunge un altro cronista- è un vero guazzabuglio d’impostura, di notizie false e contraddittorie, un disordinato racconto di favole, come disordinato e confuso dovea essere il vivere del popolo delle Tre Taverne” (G. Minasi, 1896).
Poiché l’intento del cronachista era anche quello di dimostrare la presunta antichità delle chiese di Catanzaro, il Minasi aggiunge che il “cronista confondendo Giovanni vescovo di Squillace coll’omonimo di Velletri, a cui S. Gregorio Magno affidava nel 502 il governo della chiesa delle Tre Taverne (antica città del Lazio sulla via Appia, ove oggi incontrasi un paesetto chiamato Cisterna) senza badare ad altro, tosto spaccia, che la supposta diocesi delle Tre Taverne in Calabria fu unita nel 502 da S. Gregorio alla chiesa di Squillace” (G. Minasi, l. c.). Altri storici hanno messo in dubbio questa ricostruzione della Chronica (F. Ughelli, l. c.) e anche il Lenormant colloca le Tre Taverne nel Lazio.
Quanto, poi, alla pretesa dello sbarco di Antenore con le tre sorelle di Priamo sulle rive del Crocchio o del Simeri, ci sembra una altra colossale invenzione.
Bisogna ricordare che “Sebbene troiano, Antenore era amico dei Greci […] prendeva sempre le difese dei Greci nei dibattiti e possiamo immaginare che avesse interessi economici, parentele e legami matrimoniali che lo legavano ai Greci” (Strauss, l. c.). Così ce lo presenta Omero: “Primo il saggio Antenòr sì prese a dire: Dardanidi, Troiani, e voi venuti in sussidio di Troia, i sensi udite che il cor mi porge. Rendasi agli Atridi con tutto il suo tesor l’argiva Elèna. Vïolammo noi soli il giuramento, e quindi inique le nostr’armi sono. Se non si rende, non avrem che danno. Così detto, s’assise. (Iliadie, VII)

Per Omero, la figura di Antenore è quella di un eminente troiano che più volte si schiera con le ragioni dei greci, riconoscendone la fondatezza.
Infatti, per diritto consuetudinario, il rapimento di una regina equivaleva ad una dichiarazione di guerra, per cui l’unica via per la pace sarebbe stata quella di riparare al torto di Paride restituendo Elena a Menelao.
Inoltre, in quanto padre di 15 figli maschi, Antenore temeva per la loro vita (durante la guerra ne periranno 10 per mano di Agamennone, Achille, Neottolemo, Aiace Telamonio. Filottete e Megeo).
Ma Antenore era anche uomo del suo tempo e quando va a trattare la pace con Agamennone, cerca di trarre vantaggio da una guerra che considera perduta. In cambio del suo aiuto dall’interno, chiede il regno e la metà del tesoro di Priamo (Ditti Cretese, IV 22 e V 8, in Graves, l. c.), aggiungendo che si poteva contare anche sull’aiuto di Enea (Graves, l. c.).
Ma se, secondo Ellanico, Ditti Cretese e Triflodoro, Antenore tradì i Troiani e, qualche secolo dopo, Dante Alighieri chiamerà Antenora la zona dell’Inferno in cui colloca i traditori della patria: («Or tu chi se’ che vai per l’Antenora,/percotendo» (Inferno, XXXII), Enea non seguì la stessa sorte e sarà immortalato come un eroe nell’omonimo poema di Virgilio. Secondo Tito Livio, invece, Antenore ottenne la libertà grazie al ruolo moderato svolto durante la guerra, e arrivato nel Veneto, fondò Padova che fu chiamata Antenorea (cfr. anche Berard, l. c.).
A parte il diverso itinerario di fuga da Troia distrutta e documentato da storici attendibili, ci sembra assolutamente fantasiaso che Antenore possa essersi preoccupato di salvare le tre sorelle di Priamo, visto il ruolo che gli si attribuisce nelle vicende di Troia.
Resta aperto il problema della possibilità che nell’area in questione possa esserci stata una colonia greca o italiota, o una dipendenza da altra colonia (Crotone, per esempio).
Partiamo dalle cause della colonizzazione greca la cui interpretazione “è rimasta a lungo impantanata nella falsa alternativa tra l’interpretazione delle fondazioni come colonie commerciali e quella che ne fa colonie agrarie e di popolamento” (D. Musti, 1989), tanto da aver dato origine a due scuole di pensiero.
La prima privilegiava la pressione demografica nella terra natale che spingeva verso la conquista di nuovi spazi e la fondazione di colonie. La seconda privilegiava l’aspetto mercantile dell’economia greca, incentrata sulla produzione di beni e sugli scambi. Sul finire degli anni ’60 del secolo scorso, fu quasi del tutto eliminato il termine “pre- colonizzazione” con cui si designavano i contatti precedenti alla fondazione delle colonie (B. D.Agostino, 1985). In sostanza, i contatti tra il mondo greco e gli indigeni in epoca anteriore, sono da ascriversi ad iniziative individuali di mercanti, sul modello dell’emporia comune anche ai Fenici (B. D.Agostino, l- c.), mentre la fondazione di colonie corrisponde ad un disegno politico, di cui sono testimonianza concreta il loro assetto giuridico ed economico, come risulta evidente per la fondazione della colonia di Turi, dopo la distruzione di Sibari, riportata con dovizie di particolari da Diodoro Siculo nella Storia Universale.
L’adozione di uno schema geometrico che tende a segregare i campi coltivati da quelli incolti o destinati a pascolo (E. Sereni, 1987), è affidata a magistrati che operano in base ad un piano, come è stato possibile rilevare dalla Tavole di Eraclea, attraverso le quali Kaibel ha ricostruito la pianta delle terre di proprietà del tempio di Atena Polliade (E. Sereni, l. c.).
In realtà, sull’interpretazione delle cause della migrazione dei greci per fondare colonie fuori dalla madre patria, ha pesato molto un modello di emigrazione noto in epoca moderna e contemporanea, con il quale il modello greco non ha niente in comune, come hanno osservato Finley (1976) e Lepore (1978). Secondo Platone i coloni scaturiscono da una popolazione “divenuta eccedente in rapporto alla possibilità di alimentazione tratta dalla terra” (Leggi, 1967) oppure quando “accade anche che un intero partito di un solo stato sia costretto altrove in esilio per la dura necessità della lotta civile” (Platone, l. c.). Aristotele (Politica, 1973) aggiunge “la limitazione del numero dei cittadini, sul controllo delle nascite, sul mantenimento dei lotti familiari tramite l’adozione e sulla proibizione di alienare la proprietà terriera, in particolare i lotti attribuiti originariamente alla famiglia” (L. Cordano, 1985). In sostanza, “non si tratta di un numero eccessivo di abitanti, ma di un numero troppo grande di aventi diritto, rispetto alla disponibilità fondiaria” (L. Cordano, l. c.).
Quanto all’idoneità del territorio perché potesse sorgere una colonia greca o italiota, vale ricordare che Simeri e l’area attorno a Simeri, percorsa da due fiumi navigabili (Plinio il Vecchio, l. c.), era stata un luogo di traffici, se già nel 14°-13° sec. a.C. vi si lavorava il ferro e alla stessa epoca risalgono ritrovamenti di reperti ellenistici.
Questi contatti erano già iniziati nel XIII secolo a. C., quando le coste calabresi cominciavano a diventare meta di viaggiatori, Fenici e Greci.
Dei Fenici, prima delle guerre puniche, si hanno notizie certe in alcuni toponimi.
Il più noto è sicuramente “Botri”, che significa “fosso” o “burrone”, di cui Plinio riporta un solo toponimo ai piedi del Libano (Plinio il Vecchio, l. c.).
Botro è un toponimo in prossimità del Crocchio, Botricello il centro abitato che vi sorge attorno. Molto più ricca la toponomastica greca per la quale rinviamo alle opere di Gerald Rohlfs.
Il nome dei due torrenti, Scilotraco di Sellia, vicino al Simeri e Scilotraco di Rocca, vicino al Crocchio, ricordano l’antica abitudine di trasportare il legname proveniente dalla Sila.
Scilotraco significa, appunto, “portatore di legna” (G. Rohlfs, l. c.) e il termine deve avere una sua collocazione antica se dobbiamo credere a Strabone quando scrive che il legname “non presenta difficoltà di trasporto, né si trova lontano dai luoghi dove abbisogna, ma è facilmente trasportabile e lavorabile, grazie ai numerosi fiumi” (sta in C. Ampolo et al., 1989).
I motivi per cui si può ragionevolmente ritenere che l’area potesse avere interesse per i coloni greci o italioti sono tanti.
L’area risultava largamente trafficata da almeno 2 secoli prima della grande colonizzazione greca e i territori indicati nelle cronache, per essere territori costieri con un vasto entroterra pianeggiante e collocati lungo il corso di due fiumi navigabili (Semirus e Crotalus), non potevano sfuggire all’interesse dei coloni greci o dei coloni italioti;
Si chiamasse Trischene o in un altro modo, c’era spazio per una colonia ubicata in posizione felice tra Crotone e Palepoli Scolacium, a sua volta ubicata in prossimità di un altro fiume navigabile, il Carcinus (Corace).
Infine, è impensabile un vuoto antropico tra Skylletion-Scolacum e Crotone considerando che oltre che dal Semerus e dal Crotalo, il territorio è attraversato dal Thagines (Tacina), altro fiume navigabile.
Ma le conferme più importanti ci vengono dai ritrovamenti archologici.

Nel 1880, nel corso di scavi per la costruzione di una strada, in località “Donnumarcu” venne allo scoperto una tomba contenente “fibule di filo di ferro cilindrico girato a spirale, dei braccialetti, un anellino, delle catenelle, una cuspide di lancia e dei resti di ossa combuste” (M. Giovene, l. c.), mentre a Timpa delle Gallinelle fu rinvenuta una scure di bronzo e, probabilmente, altri oggetti andati perduti.
Sempre in “località Donnumarco, tra il 1881 e il 1884, furono scoperte altre tre tombe che, oltre al solito corredo, contenevano alcuni scarabei” (M. Giovene, l. c.).
Due degli scarabei ritrovati sono probabilmente di origine egizia e potrebbero essere stati oggetti di scambio nel corso di una Floralia o nelle attività di emporia.
Per concludere, se la pista di una città immaginata- a meno di ritrovamenti storico- letterari meritevoli di approfondimento- non può più essere ragionevolmente riproposta, resta la convinzione che i territori attorno al Simeri siano stati abitati da coloni greci a partire dalla grande colonizzazione o anche prima.
Per provarlo in via definitiva, al di là dei deboli indizi di cui disponiamo, sarebbe necessario ripartire con un lavoro di ricerca e di scavi che invece di dare corpo alle invenzioni, si muova sul terreno scientifico della ricerca storica e archeologica.

Bibliografia Alighieri, D. (2011), Inferno, Milano, Mondadori. Ristampa.
Aristotele (1973), Politica.Trattato sull’economia, Bari, Laterza.
Barberio, M. (1985), Da Uria a Mattia Preti, in Calabria Letteraria, n.10/11/12.
Berard, J, (1961), La Magna Grecia. Torino, Einaudi.
Biondetti, L. (1997), Dizionario di mitologia classica, Milano, Baldini & Castoldi.
Cordano, L. (1985), La fondazione delle colonie greche, in Magna Grecia, vol. I, Milano, Electa.
D’Agostino, B.(1985), I paesi greci di origine dei coloni e le loro relazioni con il Mediterraneo occidentale, sta in Magna Grecia, vol. I, Milano, Electa.
Diodoro Siculo (1991), Storia universale, Torriana, Orsa Maggiore.
Ferrari, A. (2008). Dizionario di mitologia, Milano, De Agostini.
Ferrari, U. (1971), Taverna in epoca bizantina, Archivio Storico per la Calabria e la Lucania.
Finley, M. I, (1974), Gli antichi greci, Torino, Einaudi.
Fiore, G. (1743), La Calabria illustrata.
Franconeri,G. (1891), Memorie storiche di Taverna, Catanzaro.
Galas, F. (1450), Cronica di Taverna composta per messer F. G. di S. Pietro nell’anno 1450, (manoscritto).
Giovene, M. (2000), Simeri e i suoi casali, Catanzaro, Vincenzo Ursini Editore.
Graves, R. (1983), I miti greci, Milano, Longanesi.
Lenormant, F. (1976), La Magna Grecia, 2° Vol., Chiaravalle C., Frama sud.
Lepore, E. (1978), La fioritura dell’aristocrazia e la nascita della polis, in Storia e civiltà dei Greci, vol.I, Milano, Bompiani.
Livio, Tito (1965), Storia di Roma, Bologna, Zanichelli.
Marafioti, F. (1601), Croniche e antichità di Calabria.
Minasi, G. (1896) Le Chiese di Calabria, Napoli, Lanciano e Pinto. Edizione anastatica, 1987, Oppido Mamertina, Barbaro.
Musti, D. (1989), Storia greca, Bari, Laterza.
Nola- Molise, G. B. (1649), Cronica dell’antichissima e nobilissima città di Crotone e della Magna Grecia, Napoli.
Omero (2010), Iliade, Milano, Mondadori. Ristampa.
Platone (1967), Opere, Bari, Laterza.
Plinio il Vecchio (1972), Storia Naturale, Libro III, pag. 96, Torino, Einaudi.
Rolhfs, G. (1974), Scavi linguistici nella Magna Grecia, Galatina, Congedo Editore.
Strauss, B. (2009), La guerra di Troia, Bari, Laterza.
Ughelli, F. (1743-1762), Italia sacra sive de Episcopis Italiae, Venezia.

 

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Gigantando … il primo raduno dei Giganti

Il 13 marzo a San Gregorio d’Ippona, giorno 11 previsto un convegno sui mitici fantocci processionali

di Franco Vallone

Primo raduno dei Giganti

É, in assoluto, il primo appuntamento invernale con i raduni dei giganti nella provincia di Vibo Valentia. La Pro Loco San Gregorio, nell’ambito delle manifestazioni previste per il 2011, ha programmato per il prossimo 13 marzo l’iniziativa denominata “Gigantando – Primo Raduno dei Giganti”. Nelle intenzioni dell’associazione turistica quelle di voler rivalutare le antiche radici della nostra provincia ponendo attenzione ai mitici fantocci di cartapesta utilizzati nei rituali durante le feste di paese, presenti numerosi nella nostra regione e, soprattutto, in provincia di Vibo Valentia. I giganti da corteo, come si ricorderà, sono elementi rituali molto popolari che si possono ritrovare nelle feste e nelle celebrazioni comunitarie di molti paesi d’Europa. I primi giganti sono citati in alcuni documenti del 1621, oggi i giganti sono fantocci con la struttura portante in legno, alti anche oltre tre metri con le teste in cartapesta o in resina sintetica, che vengono fatti ballare al ritmo di tamburi, rullanti e grancassa. I giganti sono oggi molto radicati in provincia di Vibo Valentia territorio che ha ereditato più profondamente questa tradizione mantenendola salda nel tempo e rinvigorendola in questi anni. Al grande raduno di San Gregorio d’Ippona hanno aderito numerosi gigantari, tra gli altri si potranno ammirare i giganti “Du professori” dei fratelli Carnovale di San Gregorio; i giganti di Mesiano dei Monteleone; il principe dei Giganti dei Lo Preiato di Vena; i Giganti di Pannaconi; i Giganti e i tamburi di Coccorino; i Giganti di Francesco Maesano di Vibo Marina; “I Giganti del Sud” di Mancuso di Rombiolo; “I Giganti di San Costantino Calabro”; i Giganti di Mezzocasale; i Giganti di Monteleone di Vibo Marina; i “Giganti da Minera” di Carnovale di Sciconi; i Giganti di Cilurzo di Vena Media; i Giganti di Ionadi di Staropoli; di Nicola Martino di Presinaci e tanti altri ancora. Il grande raduno di San Gregorio avrà inizio alle ore 14.30 con partenza dalla centralissima piazza Duomo. San Gregorio e le sue strade accoglieranno trenta giganti e circa centoventi tamburinari che partiranno dalla piazza e sfileranno per le vie del centro storico, per fare successivamente rientro in piazza Duomo dove saranno effettuate le personalizzate esibizioni delle coppie. Seguirà la consegna degli attestati e un gran finale con la “Gran tamburriata” dove suoneranno i 120 tamburini contemporaneamente. L’associazione Pro Loco di San Gregorio d’Ippona ha voluto organizzare, a margine dell’evento, anche un convegno, previsto per l’11 marzo alle ore 11.00, per discutere sugli aspetti culturali di questi allegri fantocci da corteo. Il convegno, che si terrà presso la sala del centro Anello Mancante di San Gregorio, avrà come tema: I Giganti: Tradizione Arte e Religione. Ai lavori, introdotti dal presidente della Pro Loco Gregorio Carnovale, interverranno per i saluti il sindaco di San Gregorio, Michele Pannia, e l’assessore provinciale al Turismo, Gianluca Callipo. Relazioneranno sul tema il consigliere Nazionale UNPLI, Francesco Todaro; Don Vincenzo Varone, Vicario episcopale per le attività pastorali della diocesi di Mileto; il presidente dell’Accademia di Belle Arti Fidia di Stefanaconi, Michele Licata e il dirigente scolastico del Liceo Artistico di Vibo Valentia, Pietro Gentile. A moderare i lavori il dirigente scolastico Alberto Capria.

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U processu a Carnalavari

L’8 Marzo San Costantino di Briatico celebra il Carnevale tradizionale tra i fumi piccanti di peperoncino

di Franco Vallone

Carnevale brucia - Foto: Franco Vallone

È la tradizionale festa del re Carnevale che si svolge annualmente a San Costantino di Briatico, una festa “grassa” che anticamente veniva intensamente vissuta come momento di aggregazione e rappresentava la vera festa popolare. Era la festa senza alcun limite di espressione, era libertà assoluta, il luogo e il tempo del ridere, della follia e dello scherzo, ma anche del capovolgimento delle cose, dell’esternazione della materialità e dell’abbondanza alimentare. A Carnevale ogni gerarchia viene sovvertita, tutto diviene lecito, cadono i tabù ed i rapporti divengono disinibiti, superando i freni inibitori imposti dalle convenzioni sociali e le barriere culturali create da differenze di classe e di sesso. Il singolo diventa comunità, si spoglia della sua individualità per fondersi e confondersi nel vortice della festa che attraverso il mascheramento, la grassa carne di maiale, il vino rosso, la danza, la musica, il lamento rituale e i fumi piccanti del peperoncino, permettono di liberarsi, di annullarsi per ritrovarsi tutti assieme a condividere una emozione comune che esula dalla sfera del quotidiano. Anche a San Costantino di Briatico, a Carnevale, tutto il popolo era in piazza per costituire un allegro corteo funebre che accompagnava le spoglie di Re Vincenzo, rappresentato da un pupazzo di stoffa, cenci e paglia. Oggi, ancora una volta, si rivive l’atmosfera dell’antico Carnevale per come è stato tramandato e recuperato. Come spiega il presidente dell’Associazione Culturale Eleutherìa, Stefania Aprile, “si risvegliano dopo un lungo letargo durato più di sessanta anni i vari personaggi della storia di Carnevale. Riprendono vita i becchini che trasportano “‘u catalettu” su cui è adagiato Carnevale seguito da tutta la folla che simula pianti grotteschi (cuvali); il prete che recita in latino maccheronico e incensa con fumo di polvere di peperoncino ed incenso; la moglie di Carnevale, Corajisima, vedova inconsolabile e la figlia rientrata per l’occasione dal convento. Circondano la bara i membri della confraternita vestiti di bianco. Personaggio non di secondo piano è il medico”. Il rito quest’anno si arricchisce della messa in scena della farsa “U processu a Carnalavari”, liberamente tratta dal poemetto in vernacolo del 1930 dal titolo “Discurzu a carnalavari”. Con il recupero della tradizione del Carnevale si vuole anche rendere omaggio alla memoria di Grazioso Garrì, autore del poemetto curato dal figlio Giuseppe Garrì. “Oggi – scrive il Garrì – a distanza di poco più di mezzo secolo, poco o nulla rimane di quel mondo arcaico che improntò la vita quotidiana delle generazioni passate. Non senza rimpianto dobbiamo prendere atto che è definitivamente tramontata un’epoca. Un’epoca fatta per molti versi di privazioni e di stenti, ma anche di appartenenza e di aggregazione che aveva lo straordinario potere di animare la vita di un villaggio e di dare un senso alla grama quotidianità. L’evoluzione dei tempi ci ha fatto conoscere un relativo benessere materiale, ma nello stesso tempo ha cancellato tradizioni e costumi che avevano un’intrinseca valenza umana e culturale di cui tutti avvertiamo oggi la mancanza, ma che forse non riusciremo più a far rivivere”. Il programma 2011 della manifestazione, organizzata dall’Associazione Culturale Eleutherìa e dalla Comunità di San Costantino, con il patrocinio del Comune di Briatico, prevede per martedì 8 marzo, alle ore 19.00 il “Processu a Carnalavari”, alle 20.00 il corteo funebre goliardico, alle ore 21.00 l’incendio del fantoccio carnascialesco e successivamente, a chiusura del rituale, il cosiddetto “ricunzulo”, con salsicce, vino e tarantelle per tutti.

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‘Ndrangheta e Politica alle ultime elezioni regionali. Arrestato Zappalà (Pdl) ed altri candidati che sostenevano Scopelliti

di Giuseppe Candido

“La mia missione è di essere sempre e solo al servizio del cittadino”. È quanto si legge entrando nel blog dell’ex sindaco di Bagnara Calabra nonché Consigliere regionale eletto nelle fila del Pdl calabrese ed oggi arrestato per documentate collusioni con la cosca dei Pelle. Candidato a sostegno del Presidente Scopelliti, come Zappalà stesso scrive nel suo blog: “affinché la mia amata Calabria possa divenire la regione della libertà, della solidarietà, del progresso e… della POLITICA DEL FARE”.

E pensare che, nel mese di giugno, il sindaco Zappalà si era recato perfino in Prefettura per consegnare simbolicamente la fascia tricolore al prefetto di Reggio Calabria D’Onofrio. Come si legge nel suo blog: “Un gesto clamoroso e al tempo stesso altamente simbolico, che il primo cittadino ha voluto compiere per segnalare una situazione che a Bagnara si è fatta davvero drammatica: quella della mancanza di un controllo efficace del territorio da parte delle forze dell’ordine”.

Oggi la notizia è che Zappalà viene arrestato assieme ad altre 11 persone, tra cui altri quattro candidati alle ultime regionali, nell’ambito di un’indagine sui rapporti politica e ‘ndrangheta in Calabria. Intercettazioni ambientali e telefoniche che inchiodano.

Di seguito le agenzie della notizia (copia e incolla) che mostrano come lo strapotere delle cosche gravi sulle scelte e sulle decisioni del Consiglio Regionale calabrese.

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ROMA, 21 DICEMBRE:

(ANSA) – Un consigliere regionale, del Pdl, ed altre 11 persone sono state arrestate dai carabinieri in Calabria; l’ipotesi di accusa e’ il condizionamento da parte della ‘ndrangheta sulle elezioni regionali del 29 e 30 marzo scorsi. Con il consigliere Santi Zappalà sono stati arrestati altri quattro candidati in liste del centro destra: Antonio Manti, Pietro Nucera, Liliana Aiello e Francesco Iaria. Sono tutti sospettati di avere ottenuto il sostegno della cosca Pelle in cambio della promessa di favori.

(APCOM) – Il consigliere regionale Pdl Santi Zappalà, arrestato dai carabinieri nel corso dell’operazione “Reale 3”, è stato incastrato dalle intercettazioni ambientali a casa del boss Giuseppe Pelle, capo indiscusso dell’omonima famiglia egemone nel territorio di San Luca in provincia di Reggio Calabria. Zappalà, sulla base di quanto si evince dalle intercettazioni, andò a trovare il boss il 27 febbraio scorso e si sarebbe messo a disposizione per eventuali favori da far ottenere ai detenuti rinchiusi nei vari penitenziari italiani. Zappalà è tra le 12 persone arrestate in Calabria nell’inchiesta che ha scoperto un giro d’affari tra politica e cosche legate alla ‘ndrangheta. Al centro dell’indagine gli incontri tra il boss Pelle e alcuni candidati che in cambio di voti assicurati alla ‘ndrangheta avrebbero dovuto garantire alle imprese di riferimento della cosca l’aggiudicazione di alcuni importanti appalti pubblici e altri favori. Santi Zappalà è attuale sindaco di Bagnara Calabra. Oltre a lui i carabinieri hanno notificato anche altre quattro ordinanze di custodia cautelare nei confronti di altrettanti esponenti politici calabresi, tutti del centrodestra, candidati al consiglio regionale nell’ultima tornata dello scorso marzo. Si tratta di: Antonio Manti, Pietro Nucera, Liliana Aiello e Francesco Iaria. L’accusa per tutti e di avere ottenuto il sostegno elettorale della cosca Pelle. L’appoggio, secondo gli accordi presi, avrebbe dovuto essere ricambiato facendo ottenere alla cosca favori di vario genere tra cui appalti, finanziamenti e trasferimenti di detenuti. L’indagine ha accertato il condizionamento esercitato dalla cosca Pelle di San Luca in occasione delle elezioni del 29 e 30 marzo scorsi per il rinnovo del Consiglio regionale.

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Chi vince in Calabria lo fa col sostegno delle ‘ndrine. Forse è questa la semplice chiave di lettura che si deve dare per commento dell’operazione “Reale”. Si, “Reale”! Perché reale è che, in Calabria, i Consigli regionali che si susseguono debbano essere sistematicamente “infiltrati” dalle cosche che, grazie anche al sistema elettorale vigente, riescono quasi sempre a far prevalere, all’interno delle liste, i “loro” candidati.

Quando l’On.le Angela Napoli, dalla commissione parlamentare antimafia, denunciava in solitudine che in queste ultime elezioni regionale le liste erano piene di candidati “sconvenienti” che non rispettavano neanche lontanamente il “codice etico” che la politica si era data e quando pure l’ex ministro degli interni Pisanu certifica le infiltrazioni con le sue dichiarazioni relative ad un personale politico “non degno di rappresentare nessuno”, c’è da domandarsi se forse non avessero ragione. Non serve neanche – come abbiamo fatto – che lo denuncino i Radicali a gran voce durante tutta la campagna regionale. E non bisogna credere che siano mosche bianche.

Col sistema elettorale attuale è così semplice far convergere i voti che le ‘ndrine hanno i loro eletti in maggioranza e nell’opposizione. È certo però che, nella scelta, le “famiglie” calabresi più attente sanno ben scegliere e contribuiscono a determinare chi governerà nel lustro successivo la Calabria.

Come difendersi? Il Presidente Scopelliti, se davvero volesse combattere queste infiltrazioni, avrebbe da fare immediatamente due provvedimenti: il primo relativo alla trasparenza e che preveda la tempestiva pubblicazione anche su internet di tutto ciò che già da anni doveva essere pubblico (gli interessi finanziari dei Consiglieri, degli Assessori e dei presidenti dei vari enti regionali la cui nomina è di competenza del Consiglio Regionale); una vera anagrafe pubblica degli eletti e dei nominati. Il secondo provvedimento dovrebbe essere quello di cambiare l’attuale sistema di elezione del Consiglio Regionale e procedere all’elezione di ciascun consigliere in altrettanti piccoli collegi elettorali uguali in numero a quelli dai consiglieri eletti. Tale modifica avrebbe due vantaggi: avvicinare l’eletto all’elettore ed evitare che le preferenze delle ‘ndrine si coalizzino in un intera provincia così da garantire al “prescelto” l’elezione sicura.

Ovviamente a tutto ciò andrebbero affiancati, da un lato, l’obbligo di primarie nei 60 collegi e, dall’altro, una più attenta selezione della classe dirigente.

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Canti del Natale

Care amiche e cari amici di Abolire,

il Natale è arrivato anche quest’anno e nel porgervi gli auguri vi facciamo omaggio, per chi vorrà scaricarlo, della strenna che pubblicammo lo scorso anno sui canti del Natale
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Canti del Natale nella tradizione calabrese

scarica i Canti del Natale di Giuseppe Brinati


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