Archivi categoria: Tradizioni

La sagra di Piscopio. “Sorrideva nell’azzurro la dolcezza maliosa”.

di Filippo Curtosi

Pubblicato su Calabria Letteraria (Anno LVII N°1-2-3 Genn./Febb./Mar. 2009)

Il giovane professore Ausonio Dobelli, mandato ad insegnare nel regio liceo di Monteleone di Calabria dove insegnava pure Luigi Bruzzano direttore della rivista di letteratura popolare “La Calabria”, scrisse una lettera ad un suo amico di Milano, per fargli sapere alcune usanze osservate nei paeselli calabresi e che Luigi Bruzzano, appassionato di tradizioni popolari della Calabria, pubblicò sulla sua Rivista di letteratura popolare. Con un linguaggio un po’ arcaico e forse per questo ancor più bella e trattandosi di una lettera che ci riguarda; che riguarda la vita popolare calabrese di un tempo, una lettera che come un affresco dipinge il paesaggio colorito della nostra terra, dell’abito locale, delle feste, crediamo anche noi sia quantomai opportuno pubblicarla sul nostro periodico a distanza di oltre centodieci anni.

Filippo Curtosi

Monteleone Calabro, 2-12-1899

Caro Edoardo,

…. E davvero, oltre alla radiosa lucidezza del cielo e del mare – azzurro sorridente nell’immenso sole – oltre alle vedute mirabili che l’altopiano ci affaccia ne’ pianori e ne’ poggi folti delle morbide selve degli ulivi, e ci apre nei lenti valloni rivestiti di orti e vigne e frutteti, di quanti altri spettacoli belli o nuovi l’osservatore più superficiale pasce la mia curiosità!

Nell’ultima mia, parlando degli usi comuni, m’impegnai pure di offrirti il disegno colorito dell’abito locale e degli abbigliamenti; in questa cercherò di radunare brevemente e disporre in quadretti (di quale efficacia poi?) le memorie di alcuni episodi, che mi occorsero nelle frequenti passeggiate.

M’è presente ancora, pallido, come traverso a un velo sottile, un incontro triste, di mattina.

La nebbia, tenuissima, vestiva del suo chiarore biancastro le nubi e le distese campagne alte ai fianchi dello stradale, che io, ravvolto accuratamente nel mantello umidiccio, ripercorrevo verso la città; da lungi si svelavano a amano a mano le due file dei tronchi neri e le informi oscurità delle fronde. Ad un tratto mi apparsero lontano delle bianchezze esigue, in moto vivace; poscia, in un ciaramellìo confuso che tremava nella fumana immota, vidi avvicinarsi, disposti in processione, due file di bimbi scalzi, ricoperti di un sottil camice bianco, chiacchieroni ed allegri; dietro loro, colla croce e l’aspersorio due sacerdoti precedevano un feretro breve poggiato sulle spalle di contadini, seguito da poche donne raccolte. Nulla, che non fosse comune, nel povero cofanetto nero distinto dalle linee gialle agli orli superiori degradanti in lunghezza sino al sommo, ove si drizzava un’argentea figurina alata dalle membra grassocce; ma ai lati della piccola bara quattro donne involte nell’ammasso dei loro cenci venivan portando sul capo le anfore funerarie: alla brace salivano le volute lente dell’incenso votivo.

Qualche altra volta già avevo udito le prefiche vocianti le loro nenie dietro al lungo velo della chioma, o bisticciarsi al ritorno dal campo santo, pei pochi soldi guadagnati di fresco, ma veramente solenne m’apparve allora l’ufficio silenzioso, cinto nel pallore ampio del cielo, al quale le bocche dall’urne esalavano la prece pallida dell’incenso.

Giunto a casa, non potei soffermarmi tra le pareti malinconiche, e , terminato appena il pranzo, con un buono amico discesi a un paesello vicino.

Vanite le nebbie, sorrideva nell’azzurro la dolcezza maliosa dell’auro pomeriggio autunnale, entrava a fiotti nelle viuzze la luce magnifica, disegnando nitidamente delle povere case e dei verdi alberelli diritti in ghirlanda nella piazzola. D’innanzi alla casa comunale s’agitava allegramente una frotta di ragazzi mal coperti da brandelli di giacche e di calzoni, in attesa dei confetti e degli sposi; noi, invitati gentilmente dal sindaco, salimmo in aula, ci affacciammo alla finestra. E alla svolta della via principale, ci apparve il breve corteo: un’iride.

Una decina di ragazze strette ai fianchi della sposa, seguite da poche donne e da tre o quattro contadini attornianti lo sposo s’avvicinavano lentamente: questo era il tutto, ma quale infinita varietà di tinte negli abiti adorni della festeggiata, e in quelli delle giovani amiche! I corsetti del color dell’indaco e della rosa, allacciati dinanzi da fettucce verdi, gialle, rosse, cilestrine, lasciavano trasparire agli orli superiori i ricami delle camicie candidissimi sui colli e sui polsi abbronzati; al basso confine delle strette maniche giravano due larghi e corti nastri, vermiglio l’uno e verde l’altro; lunghi orecchini d’oro pendevano ai lati delle larghe facce rotonde, e si aggiravano sui seni poderosi due o tre catenelle variamente intrecciate; le gonne, vergognose del solo azzurro (però di gradazioni infinite) o delle lunghe strisce grigie, si nascondevano sotto a grembiuli, ciascuno de’ quali era una festa, una miriade di tinte e sfumature: qua rosso, la turchino, più giù rosato, violaceo e che so io; lucevano a terra le scarpe, testimonio rarissimo di festa, gialle tutte e a bottoni, nuovissime alla sposa. Salirono, e dietro loro, in meraviglioso contrasto, le madri sotto la usuale tovaglia sporca, nel solito arruffio delle vesti stracciate, sui larghi piedi neri, ed i padri pure scalzi, colle camicie brune aperte sui petti bruni; più dietro e dovunque si strinse nella stanza la frotta seminuda e schifosetta dei ragazzi e delle bimbe, ammirando. Quindi, come la sposa ebbe ad occhi bassi buttato al sindaco il suo si , e questi lesse d’un fiato i precetti legali, lo sposo, tratta rapidamente di tasca la mano, gettò sull’ampio registro aperto sul tavolo un cartoccio di confetti gonfio, gualcito e sudicio; uno dei testimoni lo imitò, e la compagnia si sciolse in parte nella piazzetta, dove i fanciulli si rotolavano per terra vociando nella caccia di dolci, che piovevano dalle nostre mani aperte sul davanzale.

I Dimenticati
Foto estratta da "I Dimenticati" di Vittorio De Seta, su gentile concessione dell'autore

Pochi giorni dopo, mi fu dato di contemplare la sagra annuale dello stesso villaggio; nella processione confusa e sonora (alta saliva la laude a S. Nicola: lu grandissimu santu – che è celebratu pe tuttu lu mundu) avanzava il venerabile simulacro poggiato sopra un piedistallo di legno e su quattro spalle robuste. E vicino al santo era incastrata nel piedistallo stesso una pentola lignea, da cui parea stessero uscendo quattro rozze figure di bimbi ignudi: il miracolo maggiore del patrono, la salvazione stupenda degli innocenti immersi nel liquido bollente dalla ferina mano del padre. Avanzava l’immagine benigna nella via principale, e la lunga teoria de’ camici bianchi e de’ camici rossi cogli stendardi e le candele precedeva lentamente; dai volti rugosi, dai capelli secchi attorno alle vene sporgenti scendevano colle barbe grigie e biancastre i cordoni variopinti, terminanti in nodi, in fiocchi, in pennelli di mille colori; dietro al santo passavano mimetizzandosi le ragazze strette nell’abito festivo, sotto le tovaglie nuove bianche e ricamate agli orli, o di seta nera per alcun lutto recente, quali ben calzate, quali scalze, quali colle scarpe gialle luccicanti sulla pelle oscura del piede; quindi venivano le donne un po’ meno sucide del solito, e gli uomini nei brevi giubbetti e nei più brevi calzoni di velluto nero-azzurrino, colle mutande ancheggianti dal ginocchio sino a terra. Ma negli sbocchi numerosi dei vicoletti le compagne sostavano, solo l’effige benedetta varcava ogni mucchio di letame suino, ogni larga fossa di fango e d’immondizia, lustrato ogni angolo del paese, e da ogni angolo uscivano donne colle offerte esigue della povertà, sbucavano uomini scamiciati, curvi sotto sacchi di granturco, saltavan fuori ragazzi quasi nudi, quasi neri, con ceste di frutta sul capo: tutti attorniavano il santo, entravano confusamente nella processione.

E la sagra di Piscopio? Ah veramente qui m’ invase una meraviglia grande. Una devozione illimitata avvince questo paese all’altare dell’arcangelo trionfatore, ogni madre impone ad uno almeno dei propri nati il nome di Michele; tutti, alla ricorrenza festiva, gareggiano nelle offerte, e con tanto ardore, quale mi trasparì nelle parole di uno de’ più miseri fra loro: << La festa costò 7000 lire, ma fu eclatante, e , del resto, dovessimo torci di bocca il pane, a S. Michele bisogna rendere onore >>. E furono davvero due giorni di bagliori e di giocondo frastuono.

Disceso al villaggio, nel nitido pomeriggio della vigilia, attraversata la doppia fila degli assiti pronti per le girandole e per glia altri fuochi artificiali, m’ apparve tra le prime case il ballonzolo dei cammelli. Lo zampognaro sonava a perdifiato; ne seguiva il tempo con salti e dondoli un uomo invisibile dietro a una gualdrappa di stracci, sotto una macchina commessa d’assi e di travicelli, che nella coperta di cartone colorito somigliava poco al corpo di un cavallo; questo era il primo cammello, e vicino a lui saltellava sfrenatamente il secondo: un ragazzotto robusto, serio in volto e grave, chiuso dal petto all’ingiù in un ordigno di legno e cenci simile al primo. Doveva forse rappresentare per la piccolezza e per la rapidità dei movimenti il baldo nato dall’animale maggiore, si che talora, a qualche frase più lenta e rotonda della zampogna, si permetteva di girare attorno al genitore; il quale, dal canto suo, spinto dall’affetto paterno s’apprestava talvolta, dondolando sempre, al piccino, e , separate da un tratto di spago le mascelle, fingeva di lambirlo. Ma allora questi d’un balzo s’allontanava , e riprendeva per conto suo il trotto e il volteggio fra le risa di tutti e gli urli e le provocazioni inascoltate dei bimbi dal calzone spaccato, delle bimbe involte nella camiciuola sporca. Levando gli occhi, sfilavano ai due lati della via i pali dritti per l’illuminazione, già tutti rivestiti in varia forma de’ bicchierini variopinti, e le bacheche colme di paste, di figurine dolci colorite, di candele corte e sottili; ma dove la contrada allargandosi concedeva appena lo spazio necessario, una grossa impalcatura di legno rotondeggiava cinta di verzura e di rami ornati di fronde e di lumicini: di qui doveano il domani allargarsi pel paese tutto pei campi agli accordi e i disaccordi delle musiche e delle fanfare.

Grosso, liscio, altissimo si drizzava l’albero della cuccagna.

Entrai nella chiesa, già pomposamente addobbata, in compagnia d’una giovenca grigia, che veniva a ringraziare in persona il santo per la guarigione: la trasse all’altare con una grossa corda il contadino, quindi, porta l’offerta votata, se ne andarono benedetti. Solo lucevano nell’ombra densa sette od otto candele assai lunghe e grosse nelle mani di alcune figure femminee, che, mi si disse, doveano per voto attardar digiune, inginocchiate nel banco, sino alla consumazione della cera. Occorrevano certo tutte le ore notturne; spaventato, sbirciai il gruppetto delle devote, ed ammirandole di tutto cuore, mi incamminai a lunghi passi verso il pranzetto che m’attendeva a Monteleone. E il domani ripercorsi la strada.

Le ore antimeridiane passarono lente e quasi chete, assorte nelle cerimonie in chiesa e nella aspettativa della processione; ma allorché questa simile ad una lunga iride, preceduta dalla musica, si stese e serpeggiò per le viuzze – di tra le fronde festive dense attorno ai pali la indorava il polverio luminoso dei raggi solari – la meraviglia, la commozione, l’ansia e la gioia dell’evento proruppero irresistibilmente nella gazzarra dei bimbi, nell’allegro vocio delle donne, nel gesticolare spensierato degli uomini, che si additavano a vicenda, con una certa ammirazione soddisfatta, la spada di S. Michele. E lampeggiando il sole nelle labbra d’argento, l’arcangelo adesso pareva sorridere lieto dei numerosi biglietti da una, da due, da cinque, da dieci e fin anche di venticinque lire, che dei fili quasi invisibili di rete, legavano all’arma vittoriosa ( a me sovveniva de’ pellegrinaggi, che pochi mesi fa ho visto giungere e allungarsi nelle vie della storica Empoli, alla venerazione di un crocifisso miracoloso, e rivedeva le croci vestite da carte-valuta o disegnate con monete d’argento, che si stagliavano alte fra i pellegrini ).

Dopo uscirono in piazza, ballando a suon di musica sino a sera, il gigante e la gigantessa: due macchine alte e grosse, mal ricoperte di vestiti in forma d’uomo e di donna, e comparve infine, fra le risate degli accorrenti, la tavola dei fantocci. La portava sul dorso, avanzando a suon di zampogna un villano nascosto dietro al sudicio panneggiamento che scendeva dall’orlo sino al suolo; le due marionette alte un cubito, vestite l’una da giovinotto, l’altra da sposa si rizzavano immote; ma, quando ad ogni bivio lo zampognaro e il piffero si piantavano fermi sulle gambe aperte, la tavola poggiava sui quattro piedi, il burattinaio sempre invisibile si sedeva per terra, e, tirando o allentando gli spaghi, faceva sgambettare la coppia innamorata. Il fantoccio virile muoveva le flaccide gambe, e danzando s’inginocchiava dinnanzi alla bella, quindi con gesti bruschi pareva volesse esprimerle l’intenso ardore del suo affetto; ella, pur ballando, dichiarava il volto ridente ed allargava le braccia, ma poi, ritrattale, col moto rigido della spinta in avanti lo respingeva. Egli nella danza rizzavasi e si volgean le spalle, ma poi ritornava all’assalto, e, fatto fatto più ardito da un’accoglienza migliore, alzata d’un tratto la mano, a scatti la muoveva carezzando su e giù per le forme femminili: e qui succedeva davvero la tragedia, giacché la bella, offesa nel pudore, rispondeva botta per carezza, calcitrando, ossia buttando innanzi una gamba ad intervalli regolari, fino a che il maschio, stanco di prenderne, rompeva ogni tempo, e si sfogava con una tempesta di schiaffi e di scappellotti all’addolorata sempre ridente. E dalle bocche di tutti intorno sgorgavan le risate sincere, irrefrenabili, sonore come una grande corrente di gioia, mentre agli orecchi ormai avvezzi batteva quasi inascoltato il monotono ronzare della zampogna instancata. Più innanzi verso la chiesa, si danzava qua e là: erano soltanto giovinotti, che a die a due guidati da un organetto, muovevano a scatti, a giri saltando o piroettando, le gambe cinte dal velluto azzurrino, e s’incurvavano, guardandosi curiosamente le flessioni del ginocchio e si giravano intorno; ad un tratto un terzo si frammetteva, e, levato il berretto, fissava uno dei primi, questi cessava immediatamente, e la coppia, rinnovata in parte proseguiva la gara. Le vecchie li ammiravano, le ragazze alla finestra fingevano di non guardarli, qualche nonno, toltosi di capo il berretto verdastro, lunghissimo, vi frugava sino al fondo, ne traeva il cartoccio del tabacco, caricava tranquillamente la pipa.

Alle cinque di sera la chiesa s’era quasi empita di gente per la cerimonia grande, ed io vi entrai in mezzo ad una compagnia d’ampli toraci e d’ottoni, che, per mio meglio, si fermarono in fondo. Meraviglioso spettacolo! L’umile chiesetta era scomparsa, travestita sfarzosamente da teatro. Dietro l’altare modesto scendeva dal soffitto un ampio e greve manto di color rosso cupo, tondeggiante nei molli seni, nelle spesse concavità, e s’aggirava ai lati del vano intero, appoggiandosi alle colonne, ove si raccoglieva in addobbi gonfi, a guisa di quinte. Innumerevoli candele disposte in tre file sull’altare e a’ suoi fianchi schiarivano i fiori e gli ornamenti nuovi, ma sul primo cornicione sporgente lungo tutte le pareti dell’aula all’altezza di quattro uomini correva una fitta linea di ceri, coi lucignoli congiunti da un filo impeciato di resina. Infiammato questo in vari punti, la luce percorse rapida il giro, e piovve copiosamente dall’alto sui corpi e sui volti accesi nel rosso cupo uniforme; non bastando, s’ apersero alcuni becchi di gas acetilene e il calore cominciò a farsi insopportabile. Chi può ritrarre l’orgoglio soddisfatto, che traspariva calmo, sicuro dalle faccie di quei poveri contadini ? E l’ammirazione ineffabile delle donne sporche e stracciate, a bocca larga, ad occhi fissi, mentre al gonfio seno scoperto succhiava l’ultimo bambolone ? Ed anche il bestiame minuto dei bimbi nudi e seminudi s’era chetato … ma ad un tratto scrosciano nell’ambiente sonoro le prime battute della marcia reale e sullo sfondo appaiono dei cartelloni quadrati, mossi in leggero dondolio da una corda maneggiata dietro l’addobbo. Sui quadrati si disegnano dei busti spaventosi: gli angeli ribelli, e degli ammassi oscuri: le nuvole; da entro le quinte si proietta su loro i riflesso infernale dei bengala vermigli, ed ecco nell’orrida scena apparire in cartone intagliato la figura dell’arcangelo irradiata da bengala azzurri, minacciosa, brandente la spada. Il cozzo antico si rinnova brevemente fra i suoni italiani, e i demoni si sbandano nella rotta confusa, colle nubi, mentre un secondo S. Michele, quieto, glorioso succede al primo, nello splendore aureo di Paradiso. E gli uomini e le donne e i ragazzi si agitano nell’ammirazione irrefrenata, la marcia reale invade ormai fiocamente la chiesa rumorosa, il frastuono e il calore mi spingono al di fuori: eccomi uscito, al buio, sotto la immensa pace del cielo tempestato di stelle. Proseguo.

La cuccagna è già vinta, le osterie riboccano di gente intenta alle salsicce, pochi uomini discorrono attorno ad una fanfara disposta sulla impalcatura della piazza maggiore. Ma allora corrono gli accenditori: in breve glia angoli più riposti s’aprono alla luce variopinta e la piazza fiammeggia; ecco apparire da lungi una carrozza, nella quale brillano i bottoni di un ufficiale dell’esercito, il messo comunale, acceso di zelo, rianima il patriottismo della fanfara, risuona la marcia reale, il paese si riversa nelle vie. Stordito prendo la via del ritorno, ma il transito è impossibile, troppo folta è la turba intesa ad ammirare i fuochi artificiali che drizzano al cielo due pirotecnici in gara.

E quando, spentosi l’ultimo razzo, spero di incamminarmi nella quiete, un’ondata di gente mi rapisce, mi trascina: è la fiaccolata in onore dell’angelo una lunga fila di giovani con torce fumigginose che corrono attossicando le vie sino alla chiesa; di là soltanto posso, se Dio vuole, dilungarmi nella campagna oscura, silenziosa … .

Ausonio Dobelli

Share

Carnovalaccio: tra il sacro e il profano

Il fantoccio di Carnevale e l’antica tradizione carnascialesca in Calabria

di Franco Vallone

Un’antica tradizione popolare carnascialesca si rappresenta, in quasi tutto il territorio calabrese, e prevede la costruzione di un fantoccio, dalle sembianze umane, di un personaggio chiamato “Carnalavari” o “Vicenzuni”. Perché Carnevale, nella tradizione popolare, si chiamava proprio Vincenzo. Ed ecco cosa si scriveva nel 1598 nell’Avviso a certi curati contra uno abuso del principio della Quaresima. “…intendiamo che tuttavia per coteste parti, non ostante altri nostri avisi, nel principio della Quaresima et anche nelle Domeniche di essa, si commettono varii inconvenienti ancora in luoghi sacri sotto nome di Carnovalaccio, con abbrucciare certe immagini, publicare matrimonii finti e commettere altri disordini e dissoluzioni e far mangiamenti publici et empire ogni luogo di gridi e fatti licenciosi: cosa che risulta in onta et ingiuria del santo tempo quadragesimale e de’ luoghi sacri et in poco rispetto del sacramento del matrimonio et anche in disgusto di molti (…)” e qualche anno dopo nel 1606 si parla di “allegrezze vane, piaceri disordinati, mere pazzie, miscugli d’uomini e donne disposti a’ piaceri sensuali, ornamenti eccessivi, riscaldamento di cibi, incitamento di suoni, conversazione oziosa, libertà di mascara, movimenti lascivi, saltazioni e danze licenziose, balli, conviti, giuochi, trattenimenti oziosi e vani..” Un fantoccio antropomorfo riempito di paglia, con pantaloni, giacca e coppola scura, mani ricavate da guanti da cucina riempite di segatura.

Dalla bocca, e da sotto la giacca di Carnalavari, escono fuori salcicce, polpette e lardo, mentre in una mano Vicenzuni stringe un fiasco di vino rosso. Il fantoccio viene portato in processione su una specie di barella. Dietro il corteo seguono maschere di tutti i tipi ed in particolare uomini, donne e bambini vestiti da prete e chierichetti, da infermiere, da medico e da notaio ma anche da baroni, conti e gli altri antichi nobili del paese. In prima fila, dietro il finto feretro, la sorella – moglie – vedova di Carnevale, denominata Corajisima (Quaresima). Altre maschere, che seguono la mesta-allegra processione – funerale, vestono abiti militari, di soldato o Carabiniere, ma anche da marinaio o da aviere. Ad un certo punto della rappresentazione il Carnalavari si sente male! ha mangiato troppe polpette, salcicce e lardo, ha bevuto troppo vino rosso, ha fatto una grande indigestione. Il medico lo visita scrupolosamente e a questo punto decide di operare subito con una grande sega da falegname. Dalle viscere del povero carnevale morente vengono tirate fuori varie reste di salcicce e centinaia di polpette e salumi vari. Con un bottiglione di vino rosso e un tubo di gomma viene costruita una gigantesca flebo utilizzata per cercare di salvare l’ammalato che si aggrava a vista d’occhio, sempre di più. A sera la farsa si conclude con il testamento e la morte di Carnevale che viene, ancora una volta, portato in processione, seguito da Coraisima che, affranta dal dolore, piange e si dispera, e da un’allegra banda di suonatori di pipita e zampogna, tamburelli e pifferi che rendono il clima permeato di follia. Alcune volte a seguire il corteo è la banda del paese che suona le marce funebri, utilizzate di solito il Venerdì Santo, alternandole con pezzi jazz e motivi decisamente molto più allegri. Il rumoroso corteo prosegue, tra le urla dei presenti, fino ad uno spiazzo isolato, alla fine del paese. Qui il carnalavari viene adagiato a terra, cosparso di benzina, alcol o petrolio, e incendiato in un falò purificatore tra i pianti delle prefiche ciangiuline e tra scompisciate risate dei presenti. Molti degli accompagnatori, in questa occasione, ballano tarantelle, tipica espressione popolare dove, con gesti di imitazione ben ritualizzati che rientrano nella sfera magica, si recupera il tempo e lo spazio speciale del chiudersi nel cerchio sacrale che è, a sua volta, elemento tipico degli scongiuri e dell’evocazione magica. Tarantelle dalle gestualità antiche del contendere lo spazio magico conquistato, un conflitto non risolto all’interno dello spazio conteso.

È carnevale, è il tempo straordinario dove tutto è possibile, dove tutto viene ribaltato e capovolto di significato e significante. I poveri diventano ricchi, i maschi diventano femmine e, almeno per un giorno, la trasgressione prende il sopravvento sulla normalità del quotidiano.

Share

La Rossa di Tropea sul calendario Agip Gas 2010

di Franco Vallone

calendario agip gas 2010
calendario agip gas 2010

E’ il nuovo Calendario AgipGas 2010, patinato, colorato e stampato in tiratura altissima, in distribuzione in questi giorni gratuitamente in tutta Italia. Il calendario, denominato “Terra Mater” e sottotitolato “Dalla nostra terra, i sapori dell’Italia”, presenta, nelle sue dodici facciate, il meglio della produzione tipica nazionale. C’è il Prosciutto di Norcia per gennaio, il radicchio di Treviso per febbraio, il pane di Altamura per marzo, il carciofo Romanesco ad aprile, a giugno la carota del fucino, il fico d’India dell’Etna a luglio e il peperone di Senise ad agosto, il fungo di Borgotaro a settembre, mentre, rispettivamente, i mesi di ottobre, novembre e dicembre sono dedicati alla mela della Val di Non, alla Castagna di Montella e al famoso pecorino sardo. Una intera pagina del calendario, quella relativa al mese di maggio è dedicata alla Cipolla Rossa di Tropea, “famosa nel mondo, si legge testualmente, per il suo profumo e per la sua leggerezza, si distingue dalle altre varietà per la sua dolcezza. Definita per le sue qualità “Oro Rosso di Calabria”, la cipolla rossa di Tropea viene coltivata lungo la costa medio alta tirrenica calabrese, su appezzamenti assolati prospicienti il mare, che si affacciano sullo Stromboli, il leggendario vulcano delle Eolie. I suoli dove si coltiva sono di natura vulcanica, freschi, profondi e ricchi di potassio, responsabile della particolare fertilità. la raccolta viene praticata da metà aprile a fine maggio. è un prodotto IGP dal 2008″. Il colorato calendario 2010 di AgipGas dedica a tutta l’intera pagina lo stesso tipico inconfondibile colore della cipolla tropeana e completa il tutto con tre gustose ricette gastronomiche: la zuppa di cipolle rosse di Tropea, le Cipolle rosse di Tropea gratinate e i medaglioni di cipolle rosse di Tropea panate.

Share

Aspettando il Natale… a tavola

di Franco Vallone

Immagine sacra dedicata agli emigrati per il natale, 1952 - Raccolta emigrazione de “Le Stanze della Luna”, Vibo Valentia
Immagine sacra dedicata agli emigrati per il natale, 1952 – Raccolta emigrazione de “Le Stanze della Luna”, Vibo Valentia

Nel Meridione, ed in particolare in Calabria, la festa del Natale veniva celebrata con profondo senso religioso e con sentita partecipazione da parte di tutto il popolo. Dall’analisi degli atteggiamenti ritualizzati legati al periodo natalizio emergono elementi che sono da inserire in quello che viene comunemente chiamato folklore, ma che, in effetti, era ed è comportamento e costume delle culture popolari. Il tempo e lo spazio assumono, con l’avvicinarsi del Natale, una diversità, diventano luoghi e tempi speciali. La quotidianità veniva abbandonata, si costruivano spazi sacri, diversi, dove tutto si trasformava e si circondava di un alone di mistero e d’irripetibilità. Il paese stesso cambiava aspetto, o meglio, diventava un altro paese, si rinnovava nell’attesa della Santa Notte. Tutto veniva organizzato in funzione della notte straordinaria della Nascita Santa e del giorno di Natale, e i giorni che seguivano erano di attesa del Capodanno, del capo di misi e d’annu novu, ma anche di ritorno graduale, attraverso il Capodanno prima e l’Epifania dopo, alla normalità, alla fine della sacralità dello spazio e del tempo speciale. Una soglia immaginaria apriva le feste con la novena, un punto di entrata che si percepiva al suono delle zampogne, delle pipitule e delle nenie dei suonatori della novena presenti sulle strade di tutti i paesi e che annunciavano ogni sera l’approssimarsi del Natale. Nelle case, nelle chiese e per le strade venivano allestiti presepi con occhi di canne, muschi e casette di cartone, pastori di taju e creta e fondali di cieli stellati. Presepi che si rinnovavano nella tradizione di ogni anno. La sera, davanti a questi paesaggi pieni di luci di lumini, di frutta e di pastori, ma incompleti per l’assenza di Gesù Bambino nella grotta, venivano intonati canti e lodi.

presepe 4
Particolare di Presepe pannaconese

Le famiglie riunite cercavano di rinsaldare vecchie amicizie, eliminando rancori, odio e inimicizie, sforzandosi di costruire pace, aprendosi al perdono e alla fratellanza. Tutti si riunivano per trascorrere insieme le feste. Gli anziani vivevano giorni felici in compagnia dei propri cari, degli emigrati che tornavano da lontano per le feste, se potevano tornare. I poveri venivano anche da altri paesi nella speranza di ricevere qualcosa, dei fichi secchi, delle zeppole, delle castagne, o per essere ospitati per un piatto di minestra calda ed un bicchiere di vino. Ma a proposito del pranzo natalizio c’è da dire che l’abbondanza alimentare, sognata tutto l’anno diveniva il punto da realizzare a tutti i costi. Il cenone di Natale era un rito vero e proprio, durante il quale si dovevano portare a tavola e mangiare, o quantomeno assaggiare, tredici pietanze diverse. In alcune zone della Calabria tredici dovevano essere i tipi di frutta da presentare sulla tavola. Una curiosità: molti presepi venivano allestiti con pittejare (pale di fichidindia) con i frutti più grossi attaccati, rami di arancio con arance sanguigne o dolci, fasci di mirtilli e corbezzoli, melograni, mandarini e qualche frutto fuori stagione, fuori tempo. Questi frutti servivano per colorare i paesaggi, le scenografie del presepe, ma anche per avere a Natale frutta a volontà. Le donne della famiglia, riunite, iniziavano a cucinare sin dalle prime ore dell’alba. Al mattino presto si sentivano già odori di broccoli e cavolfiori affogati, zucca fritta con la menta, stoccafisso con olive e patate, baccalà arrostito e fritto, frittelle e tante altre ricette tradizionali e poi i tredici tipi di frutta. In questa lunga lista dovevano essere presenti fichi secchi ripieni preparati a croce, limoncelli, sorbe, corbezzoli, melograni, arance, mandarini, castagne infornate, arance dolci, melone d’inverno, noccioline americane, castagne pasticcate, fichi d’india, nocciole, mandorle e noci.Era un vero e proprio contare e mangiare, assaggiare e cassarijari, passare in rassegna più pasti possibili, più pietanze, più dolci e più frutta; riferimenti legati certamente alle tradizioni più antiche e pagane, alle cene di Licinio Lucullo, ai Saturnali. Tutto questo produceva due tipi di comportamento temporale e spaziale: stare a tavola continuamente a giocare, mangiare e bere e l’andare in chiesa a pregare ed attendere, a mezzanotte, la nascita di Gesù tra le luci, gli addobbi e l’odore forte dell’incenso, del mirto e della cera di candela.

persepe 2
Particolare di Presepe pannaconese

A casa i giochi di carte e di tombola avvenivano vicino al fuoco del braciere o attorno al focolare dove ardeva il cosiddetto zuccu di Natali, un grosso pezzo di legno scelto appositamente e benedetto con preghiere e riti comportamentali dal capofamiglia. Fuori, sulle strade, i bambini giocavano giorno e notte con le nocciole e la fosseja. Il Natale era anche momento di indossare i vestiti fatti cucire per l’occasione e le scarpe nuove della festa. Altro simbolo festivo erano i dolci fatti in casa in modo semplice, torrone di zucchero, mandorle e cannella, pignolata con il miele, pitte filate, zeppole, ciceriate, bucconotti, susumelle, crispeddi…La notte di Natale finalmente arriva, dopo la lunga attesa l’evento divino, straordinario, ed è subito festa. La messa di mezzanotte e non si sente più il freddo, il buio, il gelo. La notte di Natale è anche la notte dei segreti. Le anziane tramandavano rituali magici alle giovani. Procedure antiche contro le magarie, il malocchio e le affascinazioni. Le affascinazioni, le magarie, le parole, le formule rituali, le cose di magia di un mondo sotterraneo che solo in quella notte di bene poteva essere rivelato.

canti-del-natale
Scarica gratuitamente i canti del Natale di Giuseppe Brinati ed estratti dalla rivista di letteratura popolare "La Calabria" (Anno VI n°3 - 15 Dicembre 1893)

Share

IL FOLK COME SCIENZA: “Credere in ciò che fu significa credere in ciò che si è”

di Filippo Curtosi e Giuseppe Candido

Luigi bruzzano
Luigi bruzzano

Luigi Bruzzano, Giuseppe Pitrè e Giuseppe Cocchiara: nasce l’Etnografia


Sotto la strana e diversa veste della fiaba si troverà adombrata la storia e la religione dei popoli e delle nazioni

La nascita dell’etnologia come scienza, la critica degli illuministi sull’idea di superstizione, il malinconico trasporto per la natura primitiva, la poesia degli umili ed in genere la problematica delle tradizioni popolari largamente intese è insieme la scienza e la coscienza dell’anima collettiva. Una sorta di enciclopedia piena di amore per il documento culturale e filologico questo rappresenta, secondo noi, “La Calabria”, Rivista di Letteratura Popolare” diretta da Luigi Bruzzano, uno dei maggiori demopsicologi italiani dell’Ottocento e stampata a Monteleone di Calabria (oggi Vibo Valentia) dal 1888 al 1902. La rivista del prof. Bruzzano contribuisce a creare l’odierno concetto di folklore che, per usare le parole di Antonio Gramsci, presuppone che non venga studiato come “elemento pittoresco” ma in veste di “una concezione del mondo e della vita, implicita in grande misura, di determinati strati (determinati nel tempo e nello spazio) della società, in contrapposizione (anch’essa per lo più implicita, meccanica, oggettiva) con le concezioni del mondo ufficiali (o, nel senso più largo, delle parti colte della società storicamente determinate) che si sono successe nello sviluppo storico”.

Lo storico, che volesse indagare l’origine e lo sviluppo del folklore italiano, indagarlo nel suo aspetto concreto e puro, dovrebbe usare un metodo semplice e considerarlo, per usare le parole del maggiore folclorista del secolo scorso, Giuseppe Cocchiara, “una somma di esperienze e di interpretazioni personali”. Nel suo libro “Storia del folclore in Europa”, Cocchiara, di scuola del Pitrè, sottolinea che: “se le tradizioni popolari vanno considerate come formazioni storiche, il problema fondamentale che, data la loro natura, esse pongono, è un problema di carattere storico. E il compito dello studioso delle tradizioni popolari è quello di vedere come esse si sono formate, perché si conservano, quali sono stati e quali sono i bisogni che ne determinano non solo la conservazione, ma quella continua e direi naturale rielaborazione, dov’è il segreto stesso della loro esistenza, che è un continuo morire per un eterno rivivere”.

Quindi lo studio etnografico del folklore non per compiere esercizi di paragoni tra varie culture egemoni e subalterne come dice Nadel o proporre l’esaltazione acritica della tradizione in se ma, piuttosto, per una necessità conoscitiva che serve, è necessaria, a riappropriarsi delle radici della nostra Storia.

In una lettera del novembre 1929 Raffaele Pettazzoni, già famoso ed affermato storico delle religioni, scriveva una lettera a Giuseppe Cocchiara che a lui si rivolgeva con l’appellativo di “Illustre maestro” chiedendo di “Parlargli come un padre può parlare ad un figlio…per rendermi degno di Lei, della sua stima e della sua fiducia. Ella deve acquistare quella cultura e quel metodo etnologico che in Italia dovrebbe farsi faticosamente da sé e che per lo studio del folklore è essenziale. Ella vedrà che per gli inglesi il folklore è essenzialmente etnologia: in Italia il folklore è sempre stato altra cosa e lo stesso Pitrè non ha realizzato completamente il concetto moderno di folklore in questo senso. Ella, dunque, sarà mi auguro, il pioniere di un nuovo indirizzo di studi folklorici in Italia, l’indirizzo “antropologico” cioè etnologico”. Giuseppe Cocchiara fu allievo del Pitrè e fu lui a riordinare, a partire dal 1935, le collezioni del museo etnografico siciliano intestato allo studioso, ispirandosi sempre al principio che “credere in ciò che fù significa credere in ciò che si è”. Per Cocchiara fu fondamentale il contatto con Pettazzoni che gli consigliò di recarsi in Inghilterra per un perfezionamento dove, lo stesso, andò a prendere lezioni da Robert Marett, esponente di una scuola antropologica sociale molto avanzata e sviluppata vista la necessità di acquisire conoscenze di antropologia applicata per la gestione delle colonie. Cocchiara in un primo momento ha poca simpatia per Pettazzoni e se ne capisce la ragione. Storico, letterato non meno che filologo, uomo di sapere sterminato in cui la quantità non va mai a detrimento della qualità e del gusto, Raffaele Pettezzoni, rappresenta per Cocchiara la negazione di tutto ciò che in qualche modo si rifà all’ipotesi del collettivo. La sua teoria sulla formazione delle “chansons de geste” che sarebbero state in origine leggende, “leggende locali, leggende di chiesa” e si sarebbero trasmesse oralmente dai monaci ai giullari che percorrevano i grandi itinerari sacri, le vie dei pellegrinaggi, dando così vita ad una tradizione colta e popolare insieme, ad una collaborazione tra strati inferiori e superiori della società, questa sua teoria è perfettamente antitetica allo studioso siculo. Ma dal carteggio che i due studiosi si scambiarono tra il 1928 ed il 1959 si rileva come l’allievo siciliano considerasse una “guida spirituale” Pettazzoni. “Dalle lettere, dice Eliana Calandra, direttore del museo Pitrè, emergono due persone diverse da quelle che apparivano in pubblico. Assai più affine e congeniale al Cocchiara fu il Pitrè e l’elemento tipico di questa rassomiglianza e la fiducia che entrambi nutrivano nella “naturale grandezza e poeticità del popolo”. “Fede nel popolo” è infatti intitolato il primo dei capitoli che sono dedicati al Pitrè nella “Storia del Folklore in Europa” e nel terzo sono riferite le seguenti parole dell’illustre studioso siciliano scritte nel suo “Studio critico sui canti popolari siciliani: La storia del popolo si è confusa con quella dei dominatori….della sua storia è voluta farsene una cosa stessa con la storia dei suoi governi, senza tenere presente che egli ha memorie ben diverse di quelle che così spesso gli si attribuiscono si dal lato delle sue istituzioni e si da quelli degli sforzi prepotenti da lui durati a sostegno dei suoi diritti. Il tempo di ricercare quelle memorie, di studiarle con pazienza, di fecondarle con amore è venuto anche per noi. Il filosofo, il legislatore, lo storico, che cercano di conoscere intero questo popolo, sentono oggi mai il bisogno di consultarlo nei suoi canti, nei suoi proverbi, nelle sue fiabe, non meno che nelle frasi, nei motto, nelle parole. Accanto alla parola sta sempre il suo significato, dietro il senso letterale viene il senso misto e l’allegorico: sotto la strana e diversa veste della fiaba si troverà adombrata la storia e la religione dei popoli e delle nazioni”. Il Pitrè il 16 ottobre 1888 scrive: “La Calabria” di Luigi Bruzzano è utile per conoscere i popoli dell’Italia meridionale, il bravo e dotto prof. Bruzzano ha fatto opera buona, voglia il cielo che i suoi sforzi vengono coronati dal buon successo che meritano perché fanno opera doppiamente utile alla filologia e alla etnografia”. Luigi Bruzzano allo studio del mondo classico trasmesso dal suocero Ferdinando Santacatarina, fine letterato, latinista di fama nazionale, aggiunge un nuovo ed umano “Umanesimo”: lo studio della civiltà del popolo calabrese, civiltà che viene da lontano, dalla natura primitiva, barbara e selvaggia del popolo calabro. I professorini da caffè, così chiamava il Bruzzano le persone di cultura ufficiale, abbagliati da una pseudo cultura umanista, “ebbero davanti ai loro occhi una splendida visione spiegando davanti al loro sguardo un campo di lavoro inesplorato”. Esploratore audace e intelligente Bruzzano fu pioniere indiscusso dello studio dell’etnografia. Crediamo che, l’aver riproposto un’ampia antologia di testi folklorici pubblicati dalla rivista di Letteratura Popolare “La Calabria” debba essere considerato piuttosto come sforzo conoscitivo volto al riappropriarsi della nostra Storia, della nostra lingua. Un patrimonio al quale, le giovani generazioni soprattutto ma non solo, dovrebbero avere accesso facilmente.

Share

Io credo che Gesù sarebbe stato per l’eutanasia. Intervista a Vittorio De Seta

E sul caso Eluana Englaro cita Gesù : “Voglio misericordia e non sacrificio”. In Sardegna: “c’era la cabadora”

di Filippo Curtosi e Giuseppe Candido

22 novembre 2008 Intervista a Vittorio De Seta

.. Sono per l’autentica dottrina di Gesù. Però non credo che Gesù abbia mai espresso i concetti che son riassunti nel credo”. ..Gandhi è diventato Gandhi dopo aver letto “il Regno di dio è in noi” di Tolstoj. Con Pasolini ha in comune la formula “Sviluppo senza progresso”

di Filippo Curtosi e Giuseppe Candido

L’8 settembre 2008, in occasione del sessantesimo anniversario della dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo gira a Pentedattilo, in provincia di Reggio Calabria, il cortometraggio sull’articolo 23 della dichiarazione: “Articolo 23.Pentedàttilo” che sarà presentato il prossimo primo dicembre al Teatro Argentina in Roma.

Nato in Sicilia (Palermo, 1923) da nobile famiglia di origini calabresi, il maestro del film documentario italiano vive a Sellia Marina, in provincia di Catanzaro, dove cura le sue tenute. Dopo essersi iscritto alla facoltà di Architettura nel ”41 fu allievo ufficiale dell’Accademia Navale di Livorno. Dopo l’armistizio fu internato in Austria dai nazisti. Liberato nel ”45 ricomincia a studiare e inizia ad occuparsi di fotografia e di cinema. Nel ”53 collabora come aiuto regista ne “Le village magique” di Jean Paul Le Chanois e, sempre nello stesso anno, affianca Mario Chiari in un episodio di “Amori di mezzo secolo“. Il suo nome, nel dizionario del cinema dei registi mondiali dei tipi Enaudi, sta tra quelli di De Santis e De Sica. A partire dal ”54 sino al ”59 scrive e dirige una serie di documentari cortometraggi considerati oggi veri capolavori del cinema mondiale: Lu tempu di li pisci spata (1954 min 10′.04” ); Isole di fuoco (1954 min 09′.02” ); Surfarara (1955 min 09′.39”); Pasqua in Sicilia (1955 min 08′.12” ); Conrtadini del mare (1955 min 09′.24” ); Parabola d’oro (1955 min 09′.39” ); Pescherecci (1958 min 10′.02” ); Pastori di Orgosolo (1958 min 09′.54” ); Un giornoin Barbagia (1958 min 09′.27” ); I dimenticati (1959 min 16′.56” ). Straordinari documenti originariamente in Ferraniacolor e Cinemascope oggi digitalizzati e ripubblicati ne “Il mondo perduto” assieme a “La fatica delle Mani”,una raccolta di scritti su Vittorio De Seta a cura di Mario Capello che accompagna il dvd e in cui spiccano “La sabbia negli occhi” di Roberto Saviano, “su Banditi a Orgosolo” di Martin Scorsese, “una conversazione con Vittorio De Seta” di Goffredo Fofi, “Il metodo verghiano di De Seta” di Vincenzo Consolo, “De Seta: la Grande del documentario” di Alberto Farassino, “L’arcaico e la trasmissione della conoscenza” di Marco Maria Gazzano, “Un lungo viaggio verso il mondo perduto” di Gian Luca Farinelli. Nel ”61 De Seta esordisce col 35 mm nel lungometraggio con “Banditi a Orgosolo” ( Italia, 1961 – 98 min., 35 mm b/n). Seguono “Un uomo a metà” ( Italia, 1966 – 93 min., 35 mm, b/n) osteggiato dalla critica ma che ottenne riconoscimenti a Venezia e lodi da parte di Pierpaolo Pasolini e Moravia,  “L’invitata” ( Italia-Francia, 1969 – 90 min., 35 mm, col.); Diario di un maestro” ( Italia, 1973 – 270 min. 4 episodi , 16 mm, col.) evidenzia la problematica della scuola italiana e il vero scopo della scuola non finalizzata all’ottenimento di una promozione o di un diploma ma piuttosto come preparazione alla vita, la formazione del carattere e della personalità. Tutti temi ripresi in “Quando la scuola cambia” ( Italia, 1978 – 240 min. 4 episodi , 16 mm, col.) con cui De Seta, rispondendo a chi gli sottolineava  dopo l’uscita di Diario che quel maestro era finto e che non poteva attuarsi quel tipo di scuola, descrive quattro casi di scuola d’avanguardia, in Lombardia e in Puglia. Successivamente De Seta gira “La Sicilia rivisitata” ( Italia, 1980 – 207 min. 4 episodi , 16 mm, col.), “Hong Komg, la citta dei profughi” ( Italia, 1980 – 135 min. 3 episodi , 16 mm, col.), “Quando la scuola cambia” ( Italia, 1978 – 240 min. 4 episodi , 16 mm, col.), “Un carnevale per Venezia” ( Italia, 1983 – 56′ min., 16 mm, col.). Con “In Calabria” ( Italia, 1993 – 83′  min., 16 mm, col.) ritorna alle tradizioni, al racconto della realtà ancestrale in cui un paese, un villaggio erano una comunità. In “Lettera dal Sahara” ( Italia, 2004 – 123′ min., col.) De Seta racconta l’immigrazione nel mondo di oggi con la storia di Assan, un senegalese sbarcato a lampedusa e che, in meno di sei mesi, risale l’Italia passando per Napoli, Prato, Torino e cambiando ogni volta lavoro. E sul lavoro che nel settembre 2008, in occasione del sessantesimo anniversario della dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo, gira in provincia di Reggio Calabria un cortometraggio sull’articolo 23 della dichiarazione, il lavoro. “Articolo 23. Pentedàttilo” (Italia, 8 settembre 2008 – min. 05′ 49” , col) è un cortometraggio in cui immagini, musiche delle Calabrie ti accecano e raccontano. Pentedàttilo, a sud dell’Italia, è stato abbandonato dagli abitanti partiti in cerca del lavoro. Ma altri emigranti, ancora più poveri, arrivano a prenderne il posto.

Lo scorso 28 ottobre, Vittorio De Seta,  ha voluto farci l’onore di redigere la prefazione per “La Calabria”, una raccolta di canti sacri, leggende, canti popolari,tratti dall’omonima rivista di letteratura popolare edita in Monteleone, dal 1888 al 1902 e che gli scriventi stanno curando e stiamo per pubblicare.

Abbiamo pensato al maestro per la prefazione a questa  raccolta perché i documentari di De Seta, lodati dalla critica nazionale ed internazionale, non raccontano ma mostrano la realtà e ripercorrono, nel tempo che celebra il culto mediatico, il mondo perduto che fu non per esorcizzare o evadere la realtà ma per recuperare il senso delle cose dai segni, dai simboli ancora carichi di sacralità laica perché vere, umane.

Siamo andati a trovarlo in una giornata tempestosa, con il vento che piega la pioggia come le canne, per ringraziarlo della sua disponibilità e cogliendo l’occasione per fargli qualche domanda …..Antico e aspramente contemporaneo, la forza delle immagini dei cortometraggi che riescono a far parlare alberi, animali, vento,  mare, a tradurre in racconto il rumore, ora lieve ora travolgente della vita.

Lo incontriamo nella sua casa di Sellia Marina (CZ), facendo fatica a non distrarci dal nostro dialogo per guardare le sue cose,volti e corpi che diventano compagni di cammino.

D: Nella fase in cui si trovano oggi l’Italia e il mondo nella crisi globale, cosa è diventato oggi il lavoro?

R: Io ho fatto il lavoro manuale, sono stato due anni prigioniero. Una volta il lavoro in un certo senso era creativo .. perché il lavoro manuale è creativo. Uno fa un lavoro. vengono qui gli operai, una siepe, è finita e la vedi. Ma l’alienazione consiste nel fatto che ci sono degli operai in certe fabbriche meccaniche, che fanno dei pezzi che non sanno neanche che cosa sono, dove vanno. Se sono pezzi d’automobile o pezzi di un qualsiasi altro meccanismo. Perché ormai è fatto tutto per appalti. La fiat non è che produce, appalta tutte le parti. la cosa non può funzionare. Non fosse altro che per il fatto che per quattro milioni di anni si sapeva che cosa si faceva. Capito? La vita media poteva essere, che ne so, quarantacinque anni, mortalità infantile, gravidanze, ….figuriamoci, malaria, tubercolosi. Ci siamo liberati da questo, però si è perso un qualche altra cosa che era fondamentale. E che si sarebbe potuto mantenere.

D: Cosa ti piace di oggi?

R: Di oggi? E’ bellissimo voglio dire. Un trattore è una cosa bellissima, e non è che non si può usare. Non c’era bisogno di buttare tutto il resto. E’ un’incredibile imprevidenza da parte delle classi dirigenti. degli intellettuali. Nessuno ha dato l’allarme di questo. Che io sappia. salvo un americano: Torou, che a un certo punto ha detto che bisognava distruggere le macchine.

D: Finalmente hanno capito chi è Vittorio De Seta. In Italia, …

R: Adesso forse…, Saviano?

D: Guardando i cortometraggi di De Seta si ha la netta sensazione di conoscere il tempo nelle sue varie scansioni, di conoscere il vento, di vederlo, di assaporarlo, di sentirlo. Oggi è una giornata De Setiana.Abbiamo visto le canne piegate dal vento. Nel cinema di De Seta è la stessa cosa. I tuoi documentari ripropongono esperienze di vita. De Seta scandaglia il fondo delle cose e dell’animo umano della cultura popolare?

R: Si, in sostanza, la cultura contadina che è la cultura popolare, che era proprio la storia dell’uomo come evoluzione lenta, è stata buttata a mare. Io faccio sempre il paragone, forse ne ho già parlato. Insomma, si va sempre indietro. Già si parla dell’Umo da 4 milioni di anni. Io dico: 4 milioni di anni sono 42.000 secoli; 42.000 secoli sono come i metri della maratona. Sono 42.195 metri. Il progresso prende gli ultimi due metri. Nessuno parla mai di questo. Il nostro cervello si era sviluppato lentamente fino al 1827 quando è entrata in campo la locomotiva, tanto per stabilire una cosa. E li c’è stato un movimento. Un’accelerazione esponenziale. Per cui io sento che noi non facciamo più fronte. La vita è proprio cambiata. I documentari ripropongono quell’esperienza di vita che poteva avere un uomo siciliano di cinquant’anni fa. E quindi quella di sempre. Mi segue? E quindi gli odori, i sapori, i suoni. Tutto. Noi siamo stati privati di questo patrimonio, in cambio del progresso. Però a questo punto io dico che il frigo e questo telefonino (prendendo in mano il suo cellulare) l’abbiamo pagati troppo caro. (minuti 4′:20”.11)

D: Maestro, hai conosciuto Pasolini?  Com’ era Pasolini?

R: l’ho visto 4 5 volte in tutto. Intanto molto generoso, molto anche impulsivo, diretto. Lui, ad esempio, quando ho fatto un uomo a metà che è stato letteralmente linciato da una parte della critica ma che è andata in corto circuito a Venezia, e poi adesso sempre meglio capisco perché, lui è intervenuto. Ha parlato di cinema di poesia. Anche Moravia aveva fatto una buona critica. Però non è servito perché l’hanno massacrato passando pure notizie false. Quello che più ho di più lui (Pasolini ndr) è la formula “sviluppo senza progresso” . Tutto il resto per esempio, leggendo quegli articoli del Corriere della Sera, ecco, dovrei rileggerli. Ma non c’è mai tempo. Mi sono ricomprato il volume di Gramsci, non si fa più in tempo a seguire, a capire. (minuti 1′:23”.17)

D: Maestro, con Moravia che rapporto avevi? Com’era Moravia

R: No, Moravia era bravo, lui faceva la critica sull’espresso.

D: E’ venuto in Sardegna?

R: No, lui dirigeva una rivista. “Nuovi argomenti” che, mi pare nel ’57 o ’58, ha pubblicato un’inchiesta di Franco Cragnetta che era un antropologo sociologo. F. Cragnetta aveva fatto “a Orgosolo” raccontando Orgosolo, raccontando la famosa disamistate a cavallo della guerra mondiale. Una faida interna al paese. E proponendo questo paese che era rimasto fuori dalla storia.

D: Lui era un’esistenzialista?

R: Moravia? I titoli, una noia. Io ripeto, non lo conosco bene. Non ho avuto il tempo. Io per esempio Purz non l’ho letto. Non ho fatto in tempo. Però qualche anno fa ho passato due anni a rileggere solo Tolstoj. Perché Tolstoj oltre ai romanzi ha scritto dei saggi morali bellissimi. Gandhi è diventato Gandhi dopo aver letto un libro di Tolstoj che si chiama “Il Regno di Dio è in noi“. Una frase che c’è nel vangelo.

D: Che rapporto ha con la fede De Seta?

R: Questo è molto complesso. Io non riesco a rinunciare alla ragione. Se la fede è rinuncia alla ragione allora non ho fede. Ho una grande devozione, come dire, un’ammirazione immensa per Gesù. Per l’autentica dottrina di Gesù. Però non credo che Gesù abbia mai espresso i concetti che son riassunti nel credo. Cioè questa revisione, questo abbandono totale. Questa deve essere roba…, Tolstoj l’ha approfondito in questo libro che ho ma ma è in inglese e non riesco a leggere. Si chiama Critica della teologia dogmatica. I discorsi diventano troppo lunghi. In sostanza, Tolstoj mi ha insegnato che al di la della versione chiesastica, diciamo, di Gesù, della dottrina di Gesù. Che si riassume nel credo, che è stata annunciata a Nicea nel 300 d.C.. Al di la di questo, la dottrina di Gesù è un’altra cosa, contrasta enormemente.

D: Tu innamorato di San Paolo?

R: Si, si. Ma soprattutto di Gesù perché è stato falsato. Forse non si poteva fare altro. San Paolo lo stesso. Cioè praticamente: Gesù è un profeta. Infatti Lui dice(va) sempre: “è stato detto occhio per occhio ma, Io vi dico …..”. Quindi Lui era venuto a cambiare. Quella frase che c’è nel vangelo: “Sono venuto soltanto a compiere”. Non è vero. Però … nel cristianesimo c’erano le sette giudeo cristiane che hanno mantenuto il vecchio testamento. Però fra il vecchi e il nuovo c’era un contrasto enorme.  (minuti 4′:18”.05)

D: Riesci ad esprimere questo nei tuoi lavori ? Che Gesù è stato falsato?

R: E no. Io volevo fare, ma non ce la farò. Insomma, non tutto il vangelo, un film su una parte del vangelo per cercare di spiegare. C’è un grosso equivoco di base. Cioè la dottrina di Gesù viene sempre espressa come un qualche cosa di meraviglioso ma astruso, inattuabile, metafisico. Mentre invece no. Tolstoj mi ha insegnato che è profondamente razionale. Quando Gesù dice quei paradossi, che sembrano paradossi, “ama il tuo nemico”. In realtà è giusto, è vero. E la gente lo sente tant’è vero che a questa dottrina la gente aderisce. Però poi è invalsa la consuetudine di dire: va bene, però questi sono sogni, la realtà è un altra. E quindi, per esempio, il Male. la chiesa riconosce il male, mentre invece Gesù non lo riconosceva. Oppure lo riconosceva come diminuzione di bene, ecco, non come entità autonoma.

D: San Paolo in un certo qual modo ha divinizzato….

R: San Paolo ha dovuto fondare una chiesa che è un istituto secolare. Che è uno Stato oggi, che ha una guardia svizzera, una guardia armata. Gesù diceva che – quando manda in giro i discepoli –  che non dovevano portarsi neanche i sandali di ricambio. Neanche la bisaccia, forse neanche il bastone. Insomma, è differente nei vari vangeli. Li (nella chiesa ndr) abbiamo il Vaticano con la cappella sistina …. (minuti 2′:00”.86)

D: Parlando di nuovo di chiesa, lei diceva, raffigurava nelle sue parole una contrapposizione tra religione e religiosità sentita dalle persone. Oggi questo tema la chiesa lo ripropone per il caso  Englaro, come fu per Piergiorgio Welby..

R: Nel Caso?

D: Eluana Englaro, quella ragazza …

R: Si, e quello non l’ho seguito per niente.

D: In buona sostanza la situazione è la stessa cosa di Piergiorgio Welby….

R: Cos’era la sacralità della vita?

D: La sacralità della vita difesa fino all’ultimo tant’è che adesso in pratica si propone una petizione al Parlamento europeo per cercare di annullare tre gradi di giudizio più una sentenza della Corte costituzionale che già si sono espresse a favore di Beppino e della famiglia Englaro nella richiesta di veder rispettata l’autodeterminazione.

R: Detto proprio in soldoni. La chiesa quando dice così tradisce. Perché Gesù, credo che nel vangelo è riportato tre o quattro volte, Lui dice: “voglio misericordia e non sacrificio”. E’ tutto li. Mantenerla in vita è un sacrificio. Per lei (Eluana ndr), per la famiglia, per tutto. Io credo che Gesù sarebbe stato per l’eutanasia. Perché è la cosa logica, è razionale. Non c’è niente di irrazionale, niente di astruso, niente di metafisico nella dottrina di ..(Gesù ndr). Se tutti facessimo così credo che vivremmo in pace meravigliosamente.

D: Nella cultura delle nostre tradizioni, come per il caso dell’aborto clandestino che c’era la figura delle mammane, esistevano delle figure simili per quanto riguarda l’aiutare a far soffrire meno nella morte?

R: In Sardegna c’era sicuro. C’era la cabadora, la cabadora  (deriva ndr) dallo spagnolo. Cioè, quando c’era qualcuno che era così, in difficoltà, e provvedeva lei. Quando la situazione era insostenibile. Quindi la saggezza popolare aveva trovato il rimedio. Perché è una questione di senso comune. Se uno accantona i pregiudizi, i principi. Umanamente una situazione così bisognerebbe intervenire, assumersi ….E’ facile dire la vita è sacra. Ma che cosa vuol dire? Abbiamo avuto i cappellani militari. La chiesa ha partecipato alle guerre.

D: Cos’è il senso di colpa per De Seta?

R: Il senso di colpa è che noi …noi veniamo dal male. Dal così detto male. Il mondo della natura si vede: c’è il male. Il mondo dei dinosauri era un mondo basato sulla violenza. Noi veniamo da la. Ce lo portiamo nell’inconscio. L’inconscio è ereditario.

D: Non c’è niente da fare insomma.

R: E si, l’uomo esprime questa contraddizione: si è instaurata, non so quando non so come, la coscienza morale però è rimasto questo ricordo ereditario del male dal quale usciamo. Mi segue?

(minuti 0′:58”.15)

D: Come liberarsi dal senso di colpa?

R: Capendo. Capendo il meccanismo. Per cui Gesù dice delle cose fondamentali. Una volta gli dicono: Tu che sei buono… E Lui (Gesù ndr) dice: “Io non sono buono, Dio è buono“. Lui si dichiarava Uomo. E poi perdona tutti: perdona l’adultera, perdona il partigiano, il brigante crocefisso vicino a Lui, perdona tutti. Lo accoglievano i pubblicani, che erano gli esattori delle imposte, quindi doppiamente spregevoli per il popolo. Perché percepivano le imposte per i Romani, che poi l’impero romano era un impero militare fiscale. Non c’era questa grandezza di Roma che si dice. S, perché facevano le strade ma in realtà spremevano sangue da tutti.

D: De Seta, come dice Scorsese, antropologo poeta?

R: A.. questo l’ha detto Scorsese? Va be questo riguarda i documentari. Si, ma perché io neanche me ne rendevo conto quando li ho fatti. Adesso, ha ragione (Scorsese ndr), c’è – come dire . un’interpretazione religiosa della vita. si sente nei documentari. Li avete visti adesso quelli restaurati? Perché una volta era così. C’era…., c’era la soggezione per il mistero. Cioè si riconosceva che c’era un qualcosa che non si può capire. La saggezza popolare questo lo aveva intuito. Mentre invece, oggi … E’ come la parabola dei vignaioli omicidi che c’è sempre nel vangelo. Quella è illuminante. Il padrone, cioè Dio, costruisce una vigna, la circonda di un muro, insomma, e poi la consegna a questi vignaioli. Poi quando manda a prendere l’affitto, manda i profeti, questi li maltrattano, qualche volta li uccidono. Allora Lui dice: manderò mio figlio almeno avranno rispetto di lui. Di questi temi, di queste cose non se ne parla mai. Il materialismo è questo. Si parla solo della pensione, l’ambiente. Cose sacro sante, per carità. Però questo e basta. S’è perso quel senso… quando si dice gli antichi, che poi noi giudichiamo spregevoli, ignoranti, arretrati, il popolo rozzo, violento. Ma quando mai! Avete visto i dimenticati?

Quello era e ancora in parte è. Quindi è tutto un inganno. E’ tutto un’impostura. Questo è il fatto.

D: Pensa di essere stato, in un certo senso, scomunicato per aver detto verità scomode?

R: Si, ma queste cose poi non le ho mai scritte. Però basterebbe riprendere Tolstoj. Non è che uno vuole fare chissà che. Non c’è questo assunto di originalità. …… Tolstoj a un certo punto ha finito di scrivere. Ha smesso di scrivere narrativa, romanzi. Perché la chiesa ortodossa l’ha scomunicato. E poi ancora oggi è all’indice. Nessuno ne parla. E’ una personalità, uno dei più grandi uomini del secondo millennio.

Share

Credo che Gesù sarebbe stato per l’eutanasia. Intervista a Vittorio De Seta

E sul caso Eluana Englaro cita Gesù : “Voglio misericordia e non sacrificio”. In Sardegna: “c’era la cabadora”

di Filippo Curtosi e Giuseppe Candido

22 novembre 2008 Intervista a Vittorio De Seta

.. Sono per l’autentica dottrina di Gesù. Però non credo che Gesù abbia mai espresso i concetti che son riassunti nel credo”. ..Gandhi è diventato Gandhi dopo aver letto “il Regno di dio è in noi” di Tolstoj. Con Pasolini ha in comune la formula “Sviluppo senza progresso”

di Filippo Curtosi e Giuseppe Candido

L’8 settembre 2008, in occasione del sessantesimo anniversario della dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo gira a Pentedattilo, in provincia di Reggio Calabria, il cortometraggio sull’articolo 23 della dichiarazione: “Articolo 23.Pentedàttilo” che sarà presentato il prossimo primo dicembre al Teatro Argentina in Roma.

Nato in Sicilia (Palermo, 1923) da nobile famiglia di origini calabresi, il maestro del film documentario italiano vive a Sellia Marina, in provincia di Catanzaro, dove cura le sue tenute. Dopo essersi iscritto alla facoltà di Architettura nel ”41 fu allievo ufficiale dell’Accademia Navale di Livorno. Dopo l’armistizio fu internato in Austria dai nazisti. Liberato nel ”45 ricomincia a studiare e inizia ad occuparsi di fotografia e di cinema. Nel ”53 collabora come aiuto regista ne “Le village magique” di Jean Paul Le Chanois e, sempre nello stesso anno, affianca Mario Chiari in un episodio di “Amori di mezzo secolo“. Il suo nome, nel dizionario del cinema dei registi mondiali dei tipi Enaudi, sta tra quelli di De Santis e De Sica. A partire dal ”54 sino al ”59 scrive e dirige una serie di documentari cortometraggi considerati oggi veri capolavori del cinema mondiale: Lu tempu di li pisci spata (1954 min 10′.04” ); Isole di fuoco (1954 min 09′.02” ); Surfarara (1955 min 09′.39”); Pasqua in Sicilia (1955 min 08′.12” ); Conrtadini del mare (1955 min 09′.24” ); Parabola d’oro (1955 min 09′.39” ); Pescherecci (1958 min 10′.02” ); Pastori di Orgosolo (1958 min 09′.54” ); Un giornoin Barbagia (1958 min 09′.27” ); I dimenticati (1959 min 16′.56” ). Straordinari documenti originariamente in Ferraniacolor e Cinemascope oggi digitalizzati e ripubblicati ne “Il mondo perduto” assieme a “La fatica delle Mani”,una raccolta di scritti su Vittorio De Seta a cura di Mario Capello che accompagna il dvd e in cui spiccano “La sabbia negli occhi” di Roberto Saviano, “su Banditi a Orgosolo” di Martin Scorsese, “una conversazione con Vittorio De Seta” di Goffredo Fofi, “Il metodo verghiano di De Seta” di Vincenzo Consolo, “De Seta: la Grande del documentario” di Alberto Farassino, “L’arcaico e la trasmissione della conoscenza” di Marco Maria Gazzano, “Un lungo viaggio verso il mondo perduto” di Gian Luca Farinelli. Nel ”61 De Seta esordisce col 35 mm nel lungometraggio con “Banditi a Orgosolo” ( Italia, 1961 – 98 min., 35 mm b/n). Seguono “Un uomo a metà” ( Italia, 1966 – 93 min., 35 mm, b/n) osteggiato dalla critica ma che ottenne riconoscimenti a Venezia e lodi da parte di Pierpaolo Pasolini e Moravia,  “L’invitata” ( Italia-Francia, 1969 – 90 min., 35 mm, col.); Diario di un maestro” ( Italia, 1973 – 270 min. 4 episodi , 16 mm, col.) evidenzia la problematica della scuola italiana e il vero scopo della scuola non finalizzata all’ottenimento di una promozione o di un diploma ma piuttosto come preparazione alla vita, la formazione del carattere e della personalità. Tutti temi ripresi in “Quando la scuola cambia” ( Italia, 1978 – 240 min. 4 episodi , 16 mm, col.) con cui De Seta, rispondendo a chi gli sottolineava  dopo l’uscita di Diario che quel maestro era finto e che non poteva attuarsi quel tipo di scuola, descrive quattro casi di scuola d’avanguardia, in Lombardia e in Puglia. Successivamente De Seta gira “La Sicilia rivisitata” ( Italia, 1980 – 207 min. 4 episodi , 16 mm, col.), “Hong Komg, la citta dei profughi” ( Italia, 1980 – 135 min. 3 episodi , 16 mm, col.), “Quando la scuola cambia” ( Italia, 1978 – 240 min. 4 episodi , 16 mm, col.), “Un carnevale per Venezia” ( Italia, 1983 – 56′ min., 16 mm, col.). Con “In Calabria” ( Italia, 1993 – 83′  min., 16 mm, col.) ritorna alle tradizioni, al racconto della realtà ancestrale in cui un paese, un villaggio erano una comunità. In “Lettera dal Sahara” ( Italia, 2004 – 123′ min., col.) De Seta racconta l’immigrazione nel mondo di oggi con la storia di Assan, un senegalese sbarcato a lampedusa e che, in meno di sei mesi, risale l’Italia passando per Napoli, Prato, Torino e cambiando ogni volta lavoro. E sul lavoro che nel settembre 2008, in occasione del sessantesimo anniversario della dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo, gira in provincia di Reggio Calabria un cortometraggio sull’articolo 23 della dichiarazione, il lavoro. “Articolo 23. Pentedàttilo” (Italia, 8 settembre 2008 – min. 05′ 49” , col) è un cortometraggio in cui immagini, musiche delle Calabrie ti accecano e raccontano. Pentedàttilo, a sud dell’Italia, è stato abbandonato dagli abitanti partiti in cerca del lavoro. Ma altri emigranti, ancora più poveri, arrivano a prenderne il posto.

Lo scorso 28 ottobre, Vittorio De Seta,  ha voluto farci l’onore di redigere la prefazione per “La Calabria”, una raccolta di canti sacri, leggende, canti popolari,tratti dall’omonima rivista di letteratura popolare edita in Monteleone, dal 1888 al 1902 e che gli scriventi stanno curando e stiamo per pubblicare.

Abbiamo pensato al maestro per la prefazione a questa  raccolta perché i documentari di De Seta, lodati dalla critica nazionale ed internazionale, non raccontano ma mostrano la realtà e ripercorrono, nel tempo che celebra il culto mediatico, il mondo perduto che fu non per esorcizzare o evadere la realtà ma per recuperare il senso delle cose dai segni, dai simboli ancora carichi di sacralità laica perché vere, umane.

Siamo andati a trovarlo in una giornata tempestosa, con il vento che piega la pioggia come le canne, per ringraziarlo della sua disponibilità e cogliendo l’occasione per fargli qualche domanda …..Antico e aspramente contemporaneo, la forza delle immagini dei cortometraggi che riescono a far parlare alberi, animali, vento,  mare, a tradurre in racconto il rumore, ora lieve ora travolgente della vita.

Lo incontriamo nella sua casa di Sellia Marina (CZ), facendo fatica a non distrarci dal nostro dialogo per guardare le sue cose,volti e corpi che diventano compagni di cammino.

D: Nella fase in cui si trovano oggi l’Italia e il mondo nella crisi globale, cosa è diventato oggi il lavoro?

R: Io ho fatto il lavoro manuale, sono stato due anni prigioniero. Una volta il lavoro in un certo senso era creativo .. perché il lavoro manuale è creativo. Uno fa un lavoro. vengono qui gli operai, una siepe, è finita e la vedi. Ma l’alienazione consiste nel fatto che ci sono degli operai in certe fabbriche meccaniche, che fanno dei pezzi che non sanno neanche che cosa sono, dove vanno. Se sono pezzi d’automobile o pezzi di un qualsiasi altro meccanismo. Perché ormai è fatto tutto per appalti. La fiat non è che produce, appalta tutte le parti. la cosa non può funzionare. Non fosse altro che per il fatto che per quattro milioni di anni si sapeva che cosa si faceva. Capito? La vita media poteva essere, che ne so, quarantacinque anni, mortalità infantile, gravidanze, ….figuriamoci, malaria, tubercolosi. Ci siamo liberati da questo, però si è perso un qualche altra cosa che era fondamentale. E che si sarebbe potuto mantenere.

D: Cosa ti piace di oggi?

R: Di oggi? E’ bellissimo voglio dire. Un trattore è una cosa bellissima, e non è che non si può usare. Non c’era bisogno di buttare tutto il resto. E’ un’incredibile imprevidenza da parte delle classi dirigenti. degli intellettuali. Nessuno ha dato l’allarme di questo. Che io sappia. salvo un americano: Torou, che a un certo punto ha detto che bisognava distruggere le macchine.

D: Finalmente hanno capito chi è Vittorio De Seta. In Italia, …

R: Adesso forse…, Saviano?

D: Guardando i cortometraggi di De Seta si ha la netta sensazione di conoscere il tempo nelle sue varie scansioni, di conoscere il vento, di vederlo, di assaporarlo, di sentirlo. Oggi è una giornata De Setiana.Abbiamo visto le canne piegate dal vento. Nel cinema di De Seta è la stessa cosa. I tuoi documentari ripropongono esperienze di vita. De Seta scandaglia il fondo delle cose e dell’animo umano della cultura popolare?

R: Si, in sostanza, la cultura contadina che è la cultura popolare, che era proprio la storia dell’uomo come evoluzione lenta, è stata buttata a mare. Io faccio sempre il paragone, forse ne ho già parlato. Insomma, si va sempre indietro. Già si parla dell’Umo da 4 milioni di anni. Io dico: 4 milioni di anni sono 42.000 secoli; 42.000 secoli sono come i metri della maratona. Sono 42.195 metri. Il progresso prende gli ultimi due metri. Nessuno parla mai di questo. Il nostro cervello si era sviluppato lentamente fino al 1827 quando è entrata in campo la locomotiva, tanto per stabilire una cosa. E li c’è stato un movimento. Un’accelerazione esponenziale. Per cui io sento che noi non facciamo più fronte. La vita è proprio cambiata. I documentari ripropongono quell’esperienza di vita che poteva avere un uomo siciliano di cinquant’anni fa. E quindi quella di sempre. Mi segue? E quindi gli odori, i sapori, i suoni. Tutto. Noi siamo stati privati di questo patrimonio, in cambio del progresso. Però a questo punto io dico che il frigo e questo telefonino (prendendo in mano il suo cellulare) l’abbiamo pagati troppo caro. (minuti 4′:20”.11)

D: Maestro, hai conosciuto Pasolini?  Com’ era Pasolini?

R: l’ho visto 4 5 volte in tutto. Intanto molto generoso, molto anche impulsivo, diretto. Lui, ad esempio, quando ho fatto un uomo a metà che è stato letteralmente linciato da una parte della critica ma che è andata in corto circuito a Venezia, e poi adesso sempre meglio capisco perché, lui è intervenuto. Ha parlato di cinema di poesia. Anche Moravia aveva fatto una buona critica. Però non è servito perché l’hanno massacrato passando pure notizie false. Quello che più ho di più lui (Pasolini ndr) è la formula “sviluppo senza progresso” . Tutto il resto per esempio, leggendo quegli articoli del Corriere della Sera, ecco, dovrei rileggerli. Ma non c’è mai tempo. Mi sono ricomprato il volume di Gramsci, non si fa più in tempo a seguire, a capire. (minuti 1′:23”.17)

D: Maestro, con Moravia che rapporto avevi? Com’era Moravia

R: No, Moravia era bravo, lui faceva la critica sull’espresso.

D: E’ venuto in Sardegna?

R: No, lui dirigeva una rivista. “Nuovi argomenti” che, mi pare nel ’57 o ’58, ha pubblicato un’inchiesta di Franco Cragnetta che era un antropologo sociologo. F. Cragnetta aveva fatto “a Orgosolo” raccontando Orgosolo, raccontando la famosa disamistate a cavallo della guerra mondiale. Una faida interna al paese. E proponendo questo paese che era rimasto fuori dalla storia.

D: Lui era un’esistenzialista?

R: Moravia? I titoli, una noia. Io ripeto, non lo conosco bene. Non ho avuto il tempo. Io per esempio Purz non l’ho letto. Non ho fatto in tempo. Però qualche anno fa ho passato due anni a rileggere solo Tolstoj. Perché Tolstoj oltre ai romanzi ha scritto dei saggi morali bellissimi. Gandhi è diventato Gandhi dopo aver letto un libro di Tolstoj che si chiama “Il Regno di Dio è in noi“. Una frase che c’è nel vangelo.

D: Che rapporto ha con la fede De Seta?

R: Questo è molto complesso. Io non riesco a rinunciare alla ragione. Se la fede è rinuncia alla ragione allora non ho fede. Ho una grande devozione, come dire, un’ammirazione immensa per Gesù. Per l’autentica dottrina di Gesù. Però non credo che Gesù abbia mai espresso i concetti che son riassunti nel credo. Cioè questa revisione, questo abbandono totale. Questa deve essere roba…, Tolstoj l’ha approfondito in questo libro che ho ma ma è in inglese e non riesco a leggere. Si chiama Critica della teologia dogmatica. I discorsi diventano troppo lunghi. In sostanza, Tolstoj mi ha insegnato che al di la della versione chiesastica, diciamo, di Gesù, della dottrina di Gesù. Che si riassume nel credo, che è stata annunciata a Nicea nel 300 d.C.. Al di la di questo, la dottrina di Gesù è un’altra cosa, contrasta enormemente.

D: Tu innamorato di San Paolo?

R: Si, si. Ma soprattutto di Gesù perché è stato falsato. Forse non si poteva fare altro. San Paolo lo stesso. Cioè praticamente: Gesù è un profeta. Infatti Lui dice(va) sempre: “è stato detto occhio per occhio ma, Io vi dico …..”. Quindi Lui era venuto a cambiare. Quella frase che c’è nel vangelo: “Sono venuto soltanto a compiere”. Non è vero. Però … nel cristianesimo c’erano le sette giudeo cristiane che hanno mantenuto il vecchio testamento. Però fra il vecchi e il nuovo c’era un contrasto enorme.  (minuti 4′:18”.05)

D: Riesci ad esprimere questo nei tuoi lavori ? Che Gesù è stato falsato?

R: E no. Io volevo fare, ma non ce la farò. Insomma, non tutto il vangelo, un film su una parte del vangelo per cercare di spiegare. C’è un grosso equivoco di base. Cioè la dottrina di Gesù viene sempre espressa come un qualche cosa di meraviglioso ma astruso, inattuabile, metafisico. Mentre invece no. Tolstoj mi ha insegnato che è profondamente razionale. Quando Gesù dice quei paradossi, che sembrano paradossi, “ama il tuo nemico”. In realtà è giusto, è vero. E la gente lo sente tant’è vero che a questa dottrina la gente aderisce. Però poi è invalsa la consuetudine di dire: va bene, però questi sono sogni, la realtà è un altra. E quindi, per esempio, il Male. la chiesa riconosce il male, mentre invece Gesù non lo riconosceva. Oppure lo riconosceva come diminuzione di bene, ecco, non come entità autonoma.

D: San Paolo in un certo qual modo ha divinizzato….

R: San Paolo ha dovuto fondare una chiesa che è un istituto secolare. Che è uno Stato oggi, che ha una guardia svizzera, una guardia armata. Gesù diceva che – quando manda in giro i discepoli –  che non dovevano portarsi neanche i sandali di ricambio. Neanche la bisaccia, forse neanche il bastone. Insomma, è differente nei vari vangeli. Li (nella chiesa ndr) abbiamo il Vaticano con la cappella sistina …. (minuti 2′:00”.86)

D: Parlando di nuovo di chiesa, lei diceva, raffigurava nelle sue parole una contrapposizione tra religione e religiosità sentita dalle persone. Oggi questo tema la chiesa lo ripropone per il caso  Englaro, come fu per Piergiorgio Welby..

R: Nel Caso?

D: Eluana Englaro, quella ragazza …

R: Si, e quello non l’ho seguito per niente.

D: In buona sostanza la situazione è la stessa cosa di Piergiorgio Welby….

R: Cos’era la sacralità della vita?

D: La sacralità della vita difesa fino all’ultimo tant’è che adesso in pratica si propone una petizione al Parlamento europeo per cercare di annullare tre gradi di giudizio più una sentenza della Corte costituzionale che già si sono espresse a favore di Beppino e della famiglia Englaro nella richiesta di veder rispettata l’autodeterminazione.

R: Detto proprio in soldoni. La chiesa quando dice così tradisce. Perché Gesù, credo che nel vangelo è riportato tre o quattro volte, Lui dice: “voglio misericordia e non sacrificio”. E’ tutto li. Mantenerla in vita è un sacrificio. Per lei (Eluana ndr), per la famiglia, per tutto. Io credo che Gesù sarebbe stato per l’eutanasia. Perché è la cosa logica, è razionale. Non c’è niente di irrazionale, niente di astruso, niente di metafisico nella dottrina di ..(Gesù ndr). Se tutti facessimo così credo che vivremmo in pace meravigliosamente.

D: Nella cultura delle nostre tradizioni, come per il caso dell’aborto clandestino che c’era la figura delle mammane, esistevano delle figure simili per quanto riguarda l’aiutare a far soffrire meno nella morte?

R: In Sardegna c’era sicuro. C’era la cabadora, la cabadora  (deriva ndr) dallo spagnolo. Cioè, quando c’era qualcuno che era così, in difficoltà, e provvedeva lei. Quando la situazione era insostenibile. Quindi la saggezza popolare aveva trovato il rimedio. Perché è una questione di senso comune. Se uno accantona i pregiudizi, i principi. Umanamente una situazione così bisognerebbe intervenire, assumersi ….E’ facile dire la vita è sacra. Ma che cosa vuol dire? Abbiamo avuto i cappellani militari. La chiesa ha partecipato alle guerre.

D: Cos’è il senso di colpa per De Seta?

R: Il senso di colpa è che noi …noi veniamo dal male. Dal così detto male. Il mondo della natura si vede: c’è il male. Il mondo dei dinosauri era un mondo basato sulla violenza. Noi veniamo da la. Ce lo portiamo nell’inconscio. L’inconscio è ereditario.

D: Non c’è niente da fare insomma.

R: E si, l’uomo esprime questa contraddizione: si è instaurata, non so quando non so come, la coscienza morale però è rimasto questo ricordo ereditario del male dal quale usciamo. Mi segue?

(minuti 0′:58”.15)

D: Come liberarsi dal senso di colpa?

R: Capendo. Capendo il meccanismo. Per cui Gesù dice delle cose fondamentali. Una volta gli dicono: Tu che sei buono… E Lui (Gesù ndr) dice: “Io non sono buono, Dio è buono“. Lui si dichiarava Uomo. E poi perdona tutti: perdona l’adultera, perdona il partigiano, il brigante crocefisso vicino a Lui, perdona tutti. Lo accoglievano i pubblicani, che erano gli esattori delle imposte, quindi doppiamente spregevoli per il popolo. Perché percepivano le imposte per i Romani, che poi l’impero romano era un impero militare fiscale. Non c’era questa grandezza di Roma che si dice. S, perché facevano le strade ma in realtà spremevano sangue da tutti.

D: De Seta, come dice Scorsese, antropologo poeta?

R: A.. questo l’ha detto Scorsese? Va be questo riguarda i documentari. Si, ma perché io neanche me ne rendevo conto quando li ho fatti. Adesso, ha ragione (Scorsese ndr), c’è – come dire . un’interpretazione religiosa della vita. si sente nei documentari. Li avete visti adesso quelli restaurati? Perché una volta era così. C’era…., c’era la soggezione per il mistero. Cioè si riconosceva che c’era un qualcosa che non si può capire. La saggezza popolare questo lo aveva intuito. Mentre invece, oggi … E’ come la parabola dei vignaioli omicidi che c’è sempre nel vangelo. Quella è illuminante. Il padrone, cioè Dio, costruisce una vigna, la circonda di un muro, insomma, e poi la consegna a questi vignaioli. Poi quando manda a prendere l’affitto, manda i profeti, questi li maltrattano, qualche volta li uccidono. Allora Lui dice: manderò mio figlio almeno avranno rispetto di lui. Di questi temi, di queste cose non se ne parla mai. Il materialismo è questo. Si parla solo della pensione, l’ambiente. Cose sacro sante, per carità. Però questo e basta. S’è perso quel senso… quando si dice gli antichi, che poi noi giudichiamo spregevoli, ignoranti, arretrati, il popolo rozzo, violento. Ma quando mai! Avete visto i dimenticati?

Quello era e ancora in parte è. Quindi è tutto un inganno. E’ tutto un’impostura. Questo è il fatto.

D: Pensa di essere stato, in un certo senso, scomunicato per aver detto verità scomode?

R: Si, ma queste cose poi non le ho mai scritte. Però basterebbe riprendere Tolstoj. Non è che uno vuole fare chissà che. Non c’è questo assunto di originalità. …… Tolstoj a un certo punto ha finito di scrivere. Ha smesso di scrivere narrativa, romanzi. Perché la chiesa ortodossa l’ha scomunicato. E poi ancora oggi è all’indice. Nessuno ne parla. E’ una personalità, uno dei più grandi uomini del secondo millennio.

Share