Soffia il vento, infuria la bufera

di Giovanna Canigiula

Rifondazione comunista è cenere al vento, la Sinistra arcobaleno è morta sul nascere, il futuro sa solo di resa dei conti e io non so come perdonarli. Alle ultime elezioni non volevo proprio votare. L’accumulo di retorica, i comunismi, gli anticapitalismi, gli operaismi, i compagnismi, mi avevano sfinito. Tutto troppo lontano. Non giudico l’esperienza di governo. Comprendo l’affanno di sentirsi imbottigliati tra la responsabilità di una precedente caduta e l’incapacità di mantenere, da alleati fedeli ed evidentemente subordinati, programma e identità certi. Comprendo la pena di conservare un elettorato sbiadito tra incoerenti voti di fiducia e rocambolesche chiamate in piazze sempre più deserte. Comprendo anche la malriuscita alchimia di una spaventata e improbabile Sinistra arcobaleno. Ma turarsi il naso e votare contro –Berlusconi, le destre e bla e bla e bla – è stato l’unico invito pressante in oltre dieci anni. Nauseante, in una terra come la Calabria. Finto, sprezzante, inutile. Di questo passo, è stato facile arrivare alla domanda che non consente troppi ritorni: ma da quale extramondo arrivano indicazioni di voto in favore di gente non degna di rispetto? Ma come si permettono? Lontani, lontanissimi i dirigenti del Prc se hanno pensato che sigle ormai prive di significato potessero alla lunga reggere: quale centrosinistra contro quale centrodestra nel profondo sud?
Il caso De Magistris è stato lacerante. Il silenzio della sinistra assordante. L’incapacità di scendere in campo fuori dagli orpelli della parola indicativo di come stessero effettivamente le cose. Ma un gesto uno, per noi, pidocchiosi extracomunitari in terra di mafie elette a sistema e difese dal sistema? Ognuno ha quello che conquista e quello che merita, è vero, e noi meritiamo il peggio che votiamo: dietro ricatto, dietro invito, dietro logiche devastanti. Ma se a chiederci continuamente di votare per il meno peggio, che sappiamo invece essere peggio nella norma, è chi non dovrebbe, che pensare alla lunga? Ya basta. Il re resta nudo. Con la sua lotta di classe da operetta ottocentesca. Con il suo operaio – della – fabbrica – dei – padroni da burla carnascialesca. Fin troppo ovvia la risposta a lungo evitata: non gliene è mai importato un fico secco ai dirigenti del Prc di chi sale in Calabria, di cos’è la Calabria, di com’è vivere in Calabria. Bastano le sigle. Non gliene importa niente di chi li vota. Bastano le parole. E io, ormai, volevo un rispettoso silenzio. Alla fine, però, un ritorno me lo sono concesso. E pieno di rabbia. Mi guardavo intorno e vedevo persone che, senza darsi la briga di leggere e confrontare programmi, si lasciavano tentare dalla solita manfrina: il voto utile. Utile a chi? A noi? No davvero. Ne abbiamo fatti di passi indietro se continuiamo a valere così poco, la richiesta appena di un voto contro, un voto utile, un voto a chicchessia. Un voto condizionato da poteri altri rispetto alla politica seria. Un voto ambiguo: al Pd che corre “coraggiosamente” da solo, passando però per l’Italia dei Valori e i furbissimi radicali che, purtroppo non nuovi a scelte di mero opportunismo, saltano sul carrozzone del più forte per sopravvivere, facendo ogni volta passare in secondo piano anni di splendide battaglie. Così, ho scelto, stanchissima, il voto inutile e mi son detta: in fondo, al Senato stavolta è candidato Forgione, persona perbene; in fondo, prenderanno comunque una batosta, quella che meritano. Non immaginavo, però, la portata della batosta. E confesso che un po’ di disorientamento c’è stato. L’ira è scemata e ho con affanno pensato: bisogna fare quadrato. Farglielo sapere che sono anni che sbagliano tutto, che non hanno capito niente, che non sanno parlare agli uomini e alle donne che citano, che non sanno davvero rappresentare gli uomini e le donne che citano, che non sanno per chi chiedono di votare quando concludono faticose alleanze, che neppure sanno chi li vota. Ma bisogna fare quadrato. Coprirgli amorevolmente le spalle con una coperta di lana ora che sono nel freddo buio della tempesta. Abbracciarli. Dirglielo che, seppure malconci per loro colpa, ci siamo. Ci ritroveranno. Chiediamo solo che si lascino amare. Chiediamo una casa e che sia aperta, moderna, democratica. Una casa di sinistra, colorata, ospitale, plurale, sincera. Che sappia rispettare e coniugare le diversità oltre che battersi a parole per l’indistinto diverso. Che sia generosa ma capace di mettere al bando non chi non si allinea alla voce unica ma chi trama e fa il proprio comodo. Chiediamo di poterli domani votare con gioia.
Un piccolo popolo senza patria da troppo tempo, insomma, perdona, si fa figlio e padre, è pronto a rimettersi in marcia e loro? Si scannano. Invocano la falce e il martello. Si accusano. Si arroccano. Riaprono i giri di valzer ma solo per tentare personali e pericolose scalate. Riesumano linguaggi e metodi ammuffiti pensando che da lì l’araba fenice possa risorgere. Si contano e lasciano, del tutto incuranti, feriti e morti sul campo. Mozione uno, due, tre, quattro, cinque. Gettano la coperta che, timidi, offriamo, ciechi e sordi fra i rumori della tempesta. Scelgono la tempesta. Noi, tramortiti, li subiamo. Ma è davvero l’ultima volta che aspetto l’alba con loro.

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