Default Lazio: l’introduzione del nuovo libro di Massimiliano Iervolino

Dall’introduzione
Era la sera del 22 marzo, un venerdì diverso dagli altri, almeno per me. L’orologio segnava le ore 20,20 e correva l’anno 2013. Mi trovavo in via della Pisana 1.301, sede del Consiglio regionale del Lazio, nella mia stanza al secondo piano della palazzina E.

Vista l’ora tarda, gli uffici erano vuoti. I colleghi del gruppo Bonino-Pannella era­no andati via, la documentazione portata altrove e i computer resettati. Un’esperienza durata circa tre anni giungeva al termine. Una fase della mia vita s’era conclusa, ciclo cominciato al fianco di Emma Bonino candidata alla presidenza della Regione Lazio e trascorso al servizio dei due consiglieri Radicali eletti in Consiglio regionale. Scelsi di abban­donare per ultimo quei locali, l’epilogo sentivo il bisogno di viverlo in solitudine. Provavo una strana sensazione d’angoscia mista a rabbia e, come colonna sonora del momento, mi facevano compagnia i rumori naturali di quel luogo e l’odore nauseabondo proveniente dalla disca­rica di Malagrotta.

Una volta chiusa la stanza percorsi il piano terra per raggiungere l’u­scita. I corridoi lunghi e deserti mi provocarono momenti di scora­mento, inadeguatezza e riflessione. Ricordo bene d’aver superato nel silenzio assoluto l’aula consiliare e le sale dedicate alle commissioni. Mi ritornò in mente, come in un cortometraggio, tutto quello a cui avevo assistito in quasi tre anni di vita politica. Ripensai ai dibattiti, agli scontri, agli scandali e alle tante inchieste. In particolare, tornai a luglio del 2010, nell’aula della commissione Bilancio, dove si discuteva il primo atto importante della Giunta Polverini, ovvero l’assestamento. Era notte fonda e il testo ancora non era stato approvato. La sala gre­mita al punto che non v’erano posti a sedere. Gli emendamenti presen­tati erano migliaia e il via vai di persone che s’informavano sull’orario di ripresa della seduta era interminabile. Ricordo la noia di alcuni, il disappunto di altri e il disagio che cominciava a trasparire sui volti di quasi tutti i presenti. La mezzanotte s’avvicinava, gli addetti ai lavori c’erano ma mancavano i consiglieri. Non era inconsueto scorgere qual­cuno andar via per la disperazione, così come non c’era da meravigliarsi della tanta gente presente nonostante l’orario tardo. Il bilancio è atto importante di cui discutere, e per l’occasione molte persone erano ve­nute a far visita al proprio consigliere di riferimento. I soldi in ballo erano molti e gli avvoltoi sempre pronti, la preda era quasi in tavola ed era ghiotta. Rammento ancora oggi un funzionario guardare desolato l’orologio, erano le 00,25, ma proprio durante quell’ennesimo attimo di scoramento qualcuno finalmente uscì dalla sala per avvertire i colle­ghi che la seduta stava per riprendere. Un uomo dalla stazza possente riaprì i lavori: era Franco Fiorito, presidente della commissione Bilan­cio della Regione Lazio.

La manovra finanziaria costituisce senza dubbio l’atto più importan­te per una regione, perché influisce successivamente nella vita di ogni cittadino. Ma tra i presenti aleggiava la sensazione che tutto ciò fosse secondario e che quella sede istituzionale fosse del tutto marginale. Oggi non è difficile indovinare i reali motivi dei considerevoli ritardi con cui iniziava la commissione Bilancio e di certo l’estrema lentezza dei lavori non era ascrivibile a grandi dibattiti o a doverosi scontri sulla manovra finanziaria. Quello su cui si doveva decidere in pubblico era già stato concordato nelle riunioni segrete, tenutesi precedentemente e utili al raggiungimento di un mero accordo di convenienza tra i mem­bri della commissione e la Giunta. La materia del contendere divente­rà chiara solo a distanza di molti mesi, allorquando scoppieranno gli scandali relativi ai fondi dei gruppi consiliari.

Le mie rievocazioni sull’attività di quella commissione furono in­terrotte da una telefonata di un caro amico, dirigente del Partito democratico, con cui intrattenni una breve conversazione inerente l’analisi del voto. Gli chiesi del perché non si fosse candidato alle ele­zioni regionali e la sua risposta fu tanto sincera quanto inquietante. Mi confidò di non avere quel milione di euro necessario per nutrire una qualche speranza d’essere eletto. Non feci la minima fatica a col­legare quella sua affermazione con quanto visto durante la legislatura appena conclusa. Infatti, ripianare i debiti delle passate elezioni e mercanteggiare per le future tornate elettorali era stato il pensiero ossessivo-compulsivo di molti eletti della consiliatura guidata dal centro-destra. La legge elettorale prevista per le elezioni regionali di certo non aveva giovato e la ricerca quasi spasmodica delle preferenze era stata una delle cause della consolidazione di un sistema corrotto e corruttore. Siamo di fronte a un regime basato sull’illegalità che crea profitti illeciti e trova come terminale ultimo, specie negli enti locali, non tanto i partiti in quanto tali ma i singoli capi banda di zona. Proprio per questo, in virtù del maggior potere conferito alle regioni attraverso la riforma del titolo V della Costituzione, e tenendo conto del superamento della forma partito così come conosciuta nel secolo scorso, diventa più complesso spiegare questo tipo di fenomenologia attingendo alle teorie sulla partitocrazia esposte negli anni da perso­naggi del calibro di Ernesto Rossi, Panfilo Gentile, Giuseppe Ma­ranini e Marco Pannella. La telefonata terminò con questi pensieri, tristissime considerazioni, che rafforzavano ancor più la mia convin­zione di assistere a partite elettorali truccate.

Nel riprendere il cammino verso l’uscita dell’edificio, la mia atten­zione s’indirizzò verso l’unica sala aperta dell’intero emiciclo, il luogo dove di solito si riuniva la commissione Sanità. Dalla porta socchiusa usciva un tenue fascio di luce. Cercai di sbirciare per vedere se ci fosse qualcuno ma la sala era deserta. Una degna rappresentazione finale d’u­na commissione simbolo per la sua improduttività. Una materia tanto dibattuta in campagna elettorale da divenire paradossalmente un vero e proprio spettro durante i tre anni di legislatura. Ebbene sì, a via della Pisana 1.301 aleggiava un fantasma chiamato sanità. Eppure stiamo parlando d’una Regione che, con la Campania, concorre a comporre il 63 per cento del debito complessivo della sanità italiana. Motivo per cui qualche sprovveduto elettore avrà pensato che, vista la situazione disastrosa, in Consiglio regionale non si facesse altro che parlare della salute dei cittadini. Verrebbe da dire: povero illuso!

La verità era un’altra: c’era stata una sola donna al comando e tutto il resto contava poco o nulla. Tutti coloro che nel 2010 vennero elet­ti non potevano proferire parola sul tema. Ragioniamo, si badi bene, di una materia che copre circa il 70 per cento del bilancio regionale. Settanta consiglieri “costretti” ad assistere inermi al sovraffollamento dei pronto soccorso, alle nomine dei direttori generali delle Asl, alla chiusura degli ospedali e alle varie urgenze conseguenti di un sistema al collasso.

Le notizie si apprendevano solitamente dai giornali. Nulla di più era dato sapere, si correva il rischio dell’orribile reato di lesa maestà! Il sindacato ispettivo era una funzione totalmente elusa: tutti potevano chiedere informazioni, tanto nessuno avrebbe risposto. La sanità era un affaire esclusivo di Renata Polverini. Non bisognava disturbare il ma­novratore altrimenti, specie per gli eletti nella maggioranza, si poteva rischiare l’accusa di tradimento.

Il fantasma sanità raramente si manifestava ai comuni mortali. Per vederlo prendere forma bisognava attendere luglio e dicembre d’ogni anno. Medesimo periodo in cui l’assessore al Bilancio, Stefano Cetica, appariva in commissione. Ma nessuno si faceva illusioni: costui si sa­rebbe limitato a illustrare una rapida relazione per lo più ragionieristi­ca. Nel cuore del problema non era permesso entrare, neanche dopo aver ascoltato l’assessore affermare che i cittadini del Lazio sarebbero stati costretti a pagare attraverso le proprie tasse circa tre milioni di euro al giorno per spese inerenti gli interessi sul debito.

Per amore della verità, va ricordato che la stragrande maggioranza dei consiglieri regionali, presi com’erano a occuparsi del “controllo” del territorio, non nutrivano il minimo interesse nel rivendicare la potestà legislativa; ci si accontentava di qualche apparizione silente. Ad alcu­ni signori poco importava di quanto era stato promesso in campagna elettorale. Erano ben consapevoli che, in mancanza di un reale stato di diritto, durante le elezioni contava, e molto, solo chi aveva lavorato meglio per la compravendita del consenso. Il fantasma sanità, anche per questo, continuava ad aggirarsi nei corridoi della sede regionale. A volte qualcuno provvedeva a informare dal sito della Regione La­zio che, ogni settimana, si materializzava all’interno della commissione predisposta. Le sedute erano quasi esclusivamente dedicate all’ascolto delle associazioni e dei sindacati di categoria. Uno sfogatoio senza sboc­chi legislativi e senza risposte concrete. La verità era tanto semplice quanto pericolosa. Neanche una proposta di legge consiliare arrivò in aula, le interrogazioni non trovarono mai nessuna risposta e l’accesso agli atti fu sistematicamente raggirato. In parole povere, la delega più importante era divenuta uno spettro. Con questa triste convinzione varcai per l’ultima volta l’uscita del Consiglio regionale: il mio lavoro lì dentro era finito. Quel luogo era stato per tanti mesi l’epicentro di scandali, polemiche e indagini del­la magistratura che s’erano estese poi anche ad altre regioni italiane. I finanziamenti occulti ai gruppi consiliari, misti all’ingordigia stra­fottente e bulimica di alcuni e conditi da una buona dose di gossip nostrano sulle grandi e inutili spese della casta, avevano scatenato l’in­dignazione popolare. Motivo per cui televisioni, giornali e radio si occuparono del caso Lazio.

Mi resi conto che sulla regione nella quale vivo c’era tanto altro da raccontare, visto che la bancarotta non si limitava alla sola sfera morale ma debordava negli ambiti economici e democratici. Tant’è vero che la Corte dei Conti, in una delle sue ultime relazioni, puntò il dito contro coloro che avevano governato negli ultimi anni, stilan­do accuse pesantissime quali: violazione dei princìpi di chiarezza e comprensibilità del bilancio; mancanza del carattere di certezza del livello d’indebitamento; erronea modalità di calcolo delle spese per il personale e mancato monitoraggio della spesa per consulenze esterne. Ma v’era di più: nel territorio esisteva ed esiste ancora oggi un mondo sommerso costituito da società partecipate, agenzie regionali ed enti pubblici di cui difficilmente si conoscono dati e valutazioni sui risul­tati economici e finanziari. …
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