Storie di padri e massari.

di Maria Elisabetta Curtosi

Le regioni che hanno contribuito in maniera più rilevante, tra il 1876 e il 1900 sono state il Veneto che ha fornito il più elevato contingente di emigrati, seguito dalla Campania, Sicilia e Calabria.  La vita umiliata di quegli anni aveva però un pathos che scendeva nelle cose, una sorta di tardo   crepuscolarismo in cui anche gli oggetti sembravano simboli esistenziali. Madri povere, bambini che lavoravano,che giocavano senza scarpe, padri che “ fatigavanu” dalla mattina alla sera, “ mbivenu” e “jestimavanu”. Vita difficile quella dei massari:  “Pecchi, pecchi sta vita, afflitta, amara, aiu zappu pemmu u moru o aiu u zappu pemmu u campu si chiedeva con i versi Pasquale Creazzo. La mattina di domenica e nelle feste ricordate però  sempre in chiesa: schegge, frammenti, documenti in bianco e nero. Si, gli zingari eravamo noi e gli emigranti italiani in America è in un certo senso la storia capovolta. Il Museo dell’Emigrazione di Franco Vallone, giornalista e scrittore calabrese o quello della Fondazione Cresci di Lucca, entrambi hanno avuto importanti riconoscimenti negli Stati Uniti, descrivono il percorso migratorio,non solo con le foto e le lettere ingiallite che ci parlano e ci fanno rivivere  una  sorta di  ricostruzione mentale di quelle scene: dal passaporto per l’estero,con tanto  di “ Avvertenze agli emigranti” stampate sul retro come certifica il biglietto da viaggio (terza classe, rilasciato dalla Navigazione generale italiana al “ passeggiere numero 074321) all’imbarco nella stazione marittima, il molo, le lacrime che non si asciugano con i “ maccaturi”  che profumano di sole, sudore  e sale  e poi il piroscafo, il dormitorio, i bagni,  il refettorio e la cella per i riottosi.

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