Terremoto del 1908

di Filippo Curtosi

Raffigurazione dei danni del terremoto del 1908 su Le Petit Parisien
Raffigurazione dei danni del terremoto del 1908 su                    “Le Petit Parisien”

Quando il terremoto cancellò dalla faccia della terra Messina e mezza Calabria. Messina, 28 dicembre 1908, ore 5,20 e 5,25 del mattino: l’Apocalisse.
Cent’anni fa il terremoto fece 150 mila morti in Sicilia e Calabria e scatenò uno tsumani con onde fino a quindici metri.” Vidi una fascia rossa in cielo,verso il mare e come un lampo sullo Stromboli.Ho visto una trave di fuoco che correva sul mare”.Una delle tante testimonianze. Di intensità pari al 10° grado della scala Mercalli( che ne ha 12). Il sisma uccise 150 mila persone sulle due coste dello stretto. Messina fu completamente rasa al suolo, cosi come decine e decine di paesi calabresi: case, chiese, ospedali, strade, ferrovie. Cent’anni dopo i giornali dell’epoca restituiscono oggi la voce dei testimoni; i più importanti avevano brevi servizi provenienti da Palermo, Napoli, Catanzaro. A Napoli, il Giorno di Matilde Serao titolò: “Lo spaventoso terremoto in Calabria e tutta la Sicilia”. Il Mattino di Edoardo Scarfoglio: “La catastrofe di Messina: la città distrutta, migliaia di vittime”. Gaetano Salvemini, docente all’Università di Messina, perse la moglie, i 5 figli e una sorella. Fu l’unico sopravvissuto della sua famiglia. Raccontò la sua esperienza all’Avanti!” Ero in letto allorquando senti che tutto barcollava intorno a me e un rumore di sinistro che giungeva dal di fuori. In camicia, come ero, balzai dal letto e con uno slancio fui alla finestra per vedere cosa accadeva: Feci appena in tempo a spalancarla che la casa precipitò come un vortice, si inabissò, e tutto disparve in un nebbione denso, traversata come da rumori di valanga e da urla di gente che precipitando moriva”. Il quotidiano “Il Mattino”, raccolse il racconto del signor Manforte, telegrafista: “i muri erano sbattuti come foglie; da tutte le case e le finestre una grandine di tegole, di vasi, di parapetti, di davanzali, di cornicioni si abbatteva sulle strade con un frastuono altissimo… mi ricordo che vidi cadere le campane della cattedrale della Madonna della Lettera.
Il direttore dell’epoca della” Gazzetta di Messina”, Riccardo Vadalà : “nelle acque del porto galleggiava di tutto: cadaveri, carretti, mobili, carcasse d’animali, travi, botti, bastimenti affondati… tale era l’intensità della scossa e la violenza con cui le pareti venivano smosse e il sottosuolo si agitava, che non solo le pareti si piegavano come fogli di carta, ma io stesso, che quel mattino mi trovavo in redazione, mi senti sbalzare due o tre volte all’altezza di un metro dal pavimento. Uscito da sotto le macerie, tenendomi lungo il muro tentai di camminare per le strade. Il rumore delle case crollanti mi assordava… non vi era che un lungo, lugubre, immenso strillo da tutti i punti della città: Aiuto, Aiuto!
Tra i testimoni oculari dei soccorsi c’era anche lo scrittore Maksim Gor‘kij, che da Capri dove si trovava per cambiamento d’aria, apprese dalla lettura del Mattino della catastrofe calabro-sicula. Imbarcatosi fortunosamente e fortuitamente sul Duca degli Abruzzi, giunse a Messina insieme alle navi Francesi, Russe, Americane, Inglesi dirottate in soccorso. “Alle 5,20 la terra sussultò è l’incipit di ” Im zestorten Messina” nella traduzione di Fabio Mollica (Tra le macerie di Messina) introduzione di Nicola Aricò, Edizioni GMB Messina,2005). “Il mio primo spasimo durò quasi dieci secondi: i cigolii degli infissi e delle pareti, il tintinnio dei vetri, il fracasso delle scale che stavano crollando, spezzarono il sonno: la gente sbalzò in piedi percependo con tutto il corpo le scosse sismiche delle quali subito si prendeva coscienza, l’intelletto annichilito da una paura selvaggia. Alcuni correvano per le stanze cercando di fare luce nell’oscurità e di riunire i figli e la moglie, ma intorno a loro oscillavano i muri, cadevano i ripiani, le stoviglie, i quadri, gli specchi; si curvava il pavimento, mobili e tavoli sobbalzavano, mentre gli armadi movendosi per la stanza, si ribaltavano, tutto era animato dal panico, tutto, ostile agli uomini, minacciava morte. Come carta si laceravano soffitti, cadevano le stuccature, dappertutto crepitii, rovinare di pietre, sgretolarsi di muri, pianto di bambini, urla di paura, gemiti di dolore. Nessuno trovava l’uscita da questa tempesta che d’improvviso aveva reso la casa simile a un barcone, con la terra che oscillava sotto i piedi come onde del mare…”
Dopo che la terra tremò dal mare si alzò un’onda anomala alta quasi quindici metri che travolse macerie e persone.” Il mare improvvisamente si gonfiò alzandosi in un’enorme montagna ruggente dallo stretto e si rovesciò con cupo rombo furioso… un istante dopo la superficie agitata del mare apparve coperta di botti, d’imbarcazioni, di rottami, di battelli, di casse di petrolio, di frutta, d’agrumi e un nembo fittissimo copri la povera città di cui si elevavano acute strazianti urla invocanti soccorso”.
Anche il romanziere Giovanni Verga si adoperò fattivamente nella sua missione umanitaria e filantropica a soccorso dei profughi.
Scrive lo scrittore siciliano: “Mi sembra ancora di vederla quella figura sconvolta, uomo o donna non so: Rammento solo due occhi pazzi ed una bocca spalancata, enorme, urlando forse nel gridio generale, era anch’essa di un pallore cadaverico. Dibattevasi per farsi largo nella ressa dei profughi giunti colle prime corse, che si accavallavano sul balcone del municipio all’arrivo di altre barelle e di altri carrozzoni che portavano altri profughi ed altri gemiti. Ad un tratto vide, riconobbe qualcuno nella sfilata tragica… E l’altro, di laggiù vide lei sola in quel formicolio umano, udi, indovinò il nome…
D’altra parte, il terremoto non ha resocontisti istantanei. Furono in molti, personaggi noti e persone comuni a partire alla volta della Calabria e Sicilia per prestare il loro aiuto. L’Illustrazione Italiana mette in risalto la visita del sovrano Vittorio Emanuele III e consorte. Partirono la mattina del 30 dicembre a bordo della nave Slava. La regina approntò un ospedale dove furono ricoverate centinaia di superstiti, aiutò i terremotati diventando la sovrana più amata degli italiani. Il ” Corriere della Sera” manda la firma più autorevole, Luigi Barzini che raccoglie testimonianze dei contadini calabresi, in particolare dei paesi di Pannaconi, Triparni, Piscopio, Sant’Onofrio, Zammarò.
Cosi come il Kaiser di Prussia, Guglielmo II. Non mancarono, come sempre in questi casi, le ” visite” degli sciacalli.

(ndr) Sul terremoto del 1908 la rivista trimestrale Calabria Sconosciuta dedica un numero  monografico al tema,  uscita 119 (luglio – settembre 2008). Gli articoli sono molto interessanti e analizzano il disastro da  diversi punti di vista. Ricca la rassegna delle testimonianze e diverse le foto dell’epoca che documentano la tragedia più significativa della storia calabrese e siciliana.

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“Tango greco”: l’amore e la donna nella tragedia ateniese del V secolo a.C.

di Giovanna Canigiula

Nella tragedia  greca del V  secolo a.C. le donne, prima di Euripide, non hanno grande cittadinanza, se è vero che si può sacrificare una figlia per propiziarsi gli dei. Di storie d’amore tranquillo, sia pure su uno sfondo politico od esistenziale drammatico, non se ne vedono granché. Neppure quando il mito prende la struttura di una fiaba. Se, come dice Paduano, la tragedia è fenomenologia del dolore, l’amore ne è indiscutibile testimone.

Il più vecchiotto dei tre grandi tragici, Eschilo, affronta il tema dell’amor sacro e, quindi, della sacralità del matrimonio, nelle Supplici: le cinquanta figlie di Danao, non volendo sposare i cinquanta cugini d’Egitto, chiedono ed ottengono asilo politico dal re di Argo, Pelasgo. O città, o terra, o limpide acque,/ e dei del cielo, e voi, numi sotterranei/ che occupate vindici tombe,/ e tu, o Zeus, salvatore terzo,/ che proteggi le case degli uomini pii,/ accogliete questo femmineo sciame di supplicanti/ al soffio reverente del suolo./ Ma lo sciame brulicante dei maschi,/ lo sciame prevaricante dei figli d’Egitto/ già prima che il piede imponga/ sulla paludosa distesa/ gettatelo a mare col suo vascello veloce […] e muoiano prima di montare sui talami/ che liceità rifiuta,/ prima di far proprie le creature/ che al fratello del loro padre appartengono. Dai frammenti degli Egizi e delle Danaidi, che narrano lo sviluppo della vicenda, si viene a sapere che, ucciso Pelasgo dagli Egizi che reclamano le promesse spose, Danao è costretto a cedere le figlie ma, prima, suggerisce loro di fingere di accondiscendere al matrimonio per poi uccidere i rispettivi mariti durante la prima notte di nozze. Solo Ipermestra, per amore, non partecipa alla strage: imprigionata dal padre, è salvata non a caso da Afrodite. L’amore impuro che non si ricambia è assassino, l’amore impuro felice trova credito. Ma non sempre è così.

Con Sofocle le cose cambiano di poco: l’amore che si racconta è anzitutto quello, fortissimo, di Antigone per il fratello morto, al quale decide di dare sepoltura contravvenendo alle disposizioni del re di Tebe, Creonte. La pietosa manciata di polvere che la ragazza getta sul corpo di Polinice le vale la condanna a morte e a nulla serve l’accorato intervento del figlio del re, suo promesso sposo. Io sono fatta per condividere l’amore, non l’odio è il grido di Antigone, ma Creonte è inflessibile: non prende ordini da una donna. Quando, su suggerimento dell’indovino Tiresia, il re si ricrede, la tragedia si è compiuta: Antigone è morta, il figlio Emone si è tolto la vita, si ucciderà anche la moglie. Amore e morte si intrecciano: una giovane donna sfida le crudeli regole imposte dagli uomini, un giovane uomo si uccide perché non riesce ad immaginare una vita senza di lei. Eros, in battaglie invincibile,/ Eros, tu che sulle bestie ti slanci/ e vigili sulle tenere guance/ della vergine,/ tu che valichi il mare/ e penetri tra i rustici tuguri:/ non dio immortale,/ non essere umano, creatura d’un giorno,/ fuggire ti può./ E delira chi ti possiede. L’amore travia anche le menti dei giusti, accende liti tra consanguinei, fa del desiderio il potere seduto fra le grandi leggi del mondo.

Amore e morte si consumano anche nelle Trachinie: protagonista inconsapevole è Deianira che, per gelosia, pensa di poter trattenere al suo fianco il marito, invaghitosi della giovane Iole, utilizzando quello che crede un potente talismano, la veste imbevuta del sangue del centauro Nesso, ucciso dall’eroe. Veste fatale, portatrice cioè dei disegni del fato, che provoca la morte fra atroci tormenti di Eracle e il suicidio di una pentita Deianira. Chi si erge contro Eros, come un pugile, per lottare con lui, aveva detto, è soltanto uno stolto. Persino sugli dei Eros domina a suo piacimento, e su di me, certo: e perché non su un’altra donna come lo sono io? Sarei proprio folle, dunque, se biasimassi il mio sposo, colpito da tale malattia, oppure questa donna, sua complice in una cosa che per me non è affatto una vergogna né un male. In Sofocle l’amore è anche incesto e colpa e, se pure si agisca in buona fede e si sia innocenti, la punizione arriva ed è terribile: è la triste vicenda dell’ Edipo re. Salvato piccolissimo da un destino di morte, perché un oracolo aveva predetto che avrebbe ucciso il padre, Edipo è affidato alle cure del re di Corinto. Un giorno uccide un passante con cui ha un litigio, ignorando che si tratti del padre. Sposa quindi Giocasta, vedova di Laio, re di Tebe, ignorando che si tratti della madre. Con lei mette al mondo dei figli, ma non c’è pace nell’universo torbido dei sentimenti. Quando sulla città infuria la peste e l’oracolo suggerisce di allontanare chi ha ucciso il re Laio, Edipo indaga alla ricerca della verità ed è un servo a chiarire l’antefatto. L’orrore è grande, l’incestuoso innocente si acceca e se ne va in esilio, la sposa- madre si toglie la vita, la maledizione ricade sui figli. O luce del sole, che io ti veda per l’ultima volta, perché oggi è venuta la rivelazione che sono nato da chi non mi doveva generare, mi sono congiunto con chi dovevo fuggire, ho ucciso chi non dovevo uccidere. L’amore è una tragedia.

In Euripide, curiosamente, il mondo è donna. Il tragediografo, figlio di una idea alta di democrazia che non tarda a rivelarsi imperfetta, cede al relativismo, mette in scena non eroi ma uomini lacerati dalla quotidianità, dà voce a chi vive ai margini, sia esso servo o contadino o nutrice o, più semplicemente, donna. E delle donne sa raccontare il dolore e la grandezza, anche nella miseria.

Ed ecco il sacrifico di Alcesti, la sposa che salva dall’Ade quel marito per il quale Apollo aveva intercesso a patto che un altro morisse al suo posto e per il quale nessuno, neppure i vecchi genitori, aveva voluto spendere la propria vita. Muoio per te, dice Alcesti, mentre avrei potuto non morire e prendermi per marito un altro Tessalo, chi volevo, e abitare una casa prosperosa e regale. Il sacrificio. La migliore delle donne piange sul letto nuziale che il marito dividerà con un’altra, com’è costume, poi ci ripensa: in cambio della vita, Admeto dovrà prometterle fedeltà oltre la morte, perché nessuna matrigna renda un inferno la vita dei figli. Amore doppio: per lo sposo e per i figli. Admeto giura, la supplica un po’ tardivamente di non lasciarlo o di condurlo con sé. Basto io. Admeto promette: quando arriverà la sua ora, sarà sepolto nella sua stessa tomba, immaginata come casa comune, nel frattempo nessun’altra dividerà il suo letto, piuttosto una statua che abbia le sembianze dell’amata sposa. Alcesti muore e lui rinnega il padre: maledetti questi vecchi che a chiacchiere lamentano una vita troppo lunga e si augurano di morire perché a conti fatti, quando la morte è vicina, a nessuno più la vecchiaia pesa. Io ti ho generato e allevato come il futuro padrone della mia casa, è la risposta di Fereto, ma non ho il dovere di morire per te: non ho ricevuto dai miei antenati questa legge, che i padri muoiano al posto dei figli: non è usanza greca. Di più. Tu hai piacere di vivere; pensi forse che tuo padre non ne abbia? Molto è il tempo che dobbiamo passare laggiù e breve quello della vita, ma dolce però. Tant’è vero che tu senza nessun pudore hai lottato per non morire, e vivi avendo superato i limiti della sorte segnata e ucciso tua moglie. Sarà Eracle a salvare capra e cavoli: ospitato secondo sacra norma greca in una casa su cui regna un lutto che non gli è stato  fatto pesare, otterrà dagli dei di riportare in vita Alcesti, sposa silenziosa e velata che Admeto dapprima respinge e poi accetta.

C’è posto, nell’immaginario euripideo, per la donna che, offesa, si vendica. E’ Medea: la maga, la straniera, l’infanticida. Ha aiutato Giasone quando è arrivato nella sua terra, ha tradito patria e famiglia per seguirlo, ha persino lasciato morire il fratello.  Ha avuto da lui dei figli e, d’improvviso, si vede ripudiata per un’altra, la figlia del re che, addirittura, decreta per lei l’esilio. Il confronto. Medea  aggredisce: Giasone è solo un malvagio calcolatore che ha voluto evitare, in vecchiaia, il disonore di un letto barbaro, nulla può accettare da lui perché il dono di un uomo infame non ha utilità. Urla tutta la sua rabbia di donna rinnegata. Di barbara in terra d’altri. Minaccia. Vattene! Goditi le tue nozze; ma forse –sia detto con il favore del dio- hai fatto un matrimonio tale da dovertene pentire. Il coro delle donne ha pietà della straniera: O patria, o casa, mai divenga io/ priva della mia città, vivendo una vita/ d’angustie, aspra da traversare,/ infelicissima di afflizioni. La folle Medea è astutissima e prende tempo, chiede un giorno ancora per la partenza, quindi finge la via della riconciliazione e manda in dono alla rivale una veste e un diadema che saranno fatali. Non basta. Il greco deve pagare il fio: sconvolgerò tutta la casa di Giasone e andrò via da questa terra, fuggendo la strage dei figli carissimi e dopo aver osato l’azione più empia. Essere derisa dai nemici non è cosa che si possa sopportare. Non c’è supplica che tenga, la decisione è presa. Rifletti sul colpo che stai per vibrare ai tuoi figli,/ rifletti quale strage ti addossi./ No, per le tue ginocchia/  tanto, tanto ti supplichiamo,/ non uccidere i tuoi figli./ Da dove il coraggio trarrai/ nell’animo e per la mano e nel tuo cuore/ sì da infligger l’audacia tremenda?/ E come volgendo sui figli lo sguardo/ potrai senza lacrime/ sostenere il loro destino di morte? Nessuna greca aveva mai concepito l’indicibile. Amori che giungano eccessivi/ né fama accordano agli uomini né virtù;/ ma se con misura Cipride giunge,/ altra dea non c’è così gradita.

Fedra. La vittima di Afrodite. La dea ce l’ha col figliastro, Ippolito, che le preferisce Artemide e, così, decide di lasciarla consumare d’amore per lui. Fedra confida alla nutrice i suoi strazi, non è in grado di contrastare questo veleno  che, non per suo volere, fa amare il male anche alle persone sagge e virtuose. Vuole morire. Mia cara bambina, abbandona i cattivi pensieri e smetti il tuo orgoglio; giacché non è altro che orgoglio il credersi più degli dei. Abbi il coraggio di amare: è un dio che l’ha voluto. Mai consiglio peggiore. Messo al corrente, Ippolito inorridisce. Un disastro. Non resta che la morte, non senza prima avere accusato il figliastro di violenza. E’ terribile la vendetta di una donna respinta. Amore, che stilli sugli occhi il desiderio, indicendo il dolce fascino nell’animo di quelli che assalti, non apparirmi assieme alla sventura, non venire in dissonanza. Niente da fare. Teseo le crede, mette al bando il figlio, lo maledice: un mostro marino farà imbizzarrire i cavalli del cocchio e il giovane, impigliato nelle briglie, viene trascinato e straziato. Ancora amore e morte. E’un tango. Tutto greco.

Altre donne, altri drammi. Andromaca ed Ecuba, vedove di uomini amati, prigioniere di guerra, concubine. Donne senza possibilità di scelta. Elettra, la figlia di Agamennone costretta a sposare un uomo povero perché non metta al mondo un figlio di stirpe regale, un uomo che la rispetta e che lei non guarda neppure, sognando solo la vendetta. Elena, la fedele. Un fantasma dotato di respiro, fatto con un pezzo di cielo, del tutto simile a lei, un vuoto miraggio scatena l’inutile guerra di Troia, porta morti, lutti e rovine, intanto che lei vive in Egitto e rifiuta le nozze col figlio del re. Io voglio essere fedele all’uomo che da tanti anni è mio marito. L’inatteso ricongiungimento. Una vecchiaia serena. Le forme del divino sono molteplici, e molte sono le azioni degli dei che vanno contro le nostre attese. Quel che si credeva possibile non si verifica, mentre un dio fa accadere l’impossibile. Così termina questa storia.

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Catanzaro mon amour

di Giovanna Canigiula

Catanzaro. Ospedale civile. Quindi pubblico. Per tutti, insomma. Arriviamo questa mattina decisamente prima delle otto per un controllo ambulatoriale di mia madre, circa venti giorni dopo le dimissioni e trentadue dopo un ricovero per una consistente emoriasi. In attesa del medico, si chiacchiera. Di politica dapprima. Domina il berlusconiano doc: accusano il grande capo di essere un imbroglione, che chiuda aziende e televisioni e lo facciano anche i figli, vediamo se Di Pietro e Veltroni trovano lavoro ai due milioni e mezzo di disoccupati che ci saranno in Italia. Vediamo vediamo. Nessuno raccoglie: siamo in ospedale e si parla soprattutto di medicina e di medici, questa specie di piccola e intoccabile casta del sud. C’è il povero cristo al quale, due anni fa, è stato sbagliato un intervento di prostata, sta passando le pene dell’inferno e nessuno che gli abbia chiesto almeno scusa, “passerà” gli dicono “passerà”, ma non passa niente e intanto non ha i soldi per mettere la dentiera,  figuriamoci per andare a “villeggiare” in strutture fuori regione. Mah. C’è ancora il berlusconiano che ricorda la via crucis della madre prima di approdare da Veronesi: un intervento andato male, camici da inseguire tra “mi scusi”, “non vorrei”, “se potesse” e mai nessuna risposta se non il manifesto fastidio di chi è stato importunato o l’accondiscendente farfugliare di chi ti fa pesare le due parole che di corsa ti regala. Che sorpresa Milano. Stessa sorpresa delle eccezioni nel sud. Del resto, ha vissuto cinque anni a Mantova: soldatini, dice, ma almeno con pari diritti e doveri. Aleggia tanta rabbia, è tutto come descrivono, partecipo muovendo il capino. Non ho molta voglia di parlare. Ascolto. Rifletto sulle sorprese: nel lessico meridionale è “davvero gentile” il medico che svolge, nella norma, il suo mestiere. Così va il nostro mondo.

Mai ammalarsi troppo, dalle nostre parti. C’è la signora col marito operato di fresco che lamenta il calvario d’esser nessuno in luoghi in cui esser qualcuno o amico di qualcuno fa la differenza: corsie privilegiate e attenzioni, un enorme sollievo se si deve avere a che fare con la sanità. Al di là dello sfogo rabbioso, però, vince la rassegnazione. Anche se, va ammesso, chi non ha santi in paradiso, da queste parti, si arrangia come può e giù cadeaux, di solito alimentari pesanti e tanti: come si fa, in questo modo, a cambiare sistema? Ma necessità fa virtù e la virtù, quando si tratta di salute, consiste nel farsi furbi, incassare gesti di noia e fastidio senza fiatare, fino a menare prima o poi vanto d’esserselo fatto amico un medico qualunque, purché ospedaliero.

L’ospedaliero di turno arriva e son dolori: è di quelli indolenti che a domanda non rispondono, che si scocciano apertamente. Siamo tutti avviliti. E’ il nostro turno ed entriamo. “Accomodatevi” e pare un lamento, che ci facciamo oggi qua poveretto lui, “manca tutto” sospira, “magari l’esito dell’esame istologico ce l’abbiamo”  e c’è: ma perché farci sapere qualcosa se il resto manca? Andate in reparto, fatevelo dare, magari fatevelo leggere dal caposala se non volete tornare qua. Mi adiro, non toccherebbe a noi, ma mi riesce insopportabile la sua vista e, perciò, andiamo. Altro padiglione, quarto piano. Il caposala scuote la testa, prende ciò che manca, si rifiuta di leggere i risultati, il medico è di turno all’ambulatorio e deve fare il suo lavoro. Gli dispiace, ma è così. Giustissimo. Torniamo indietro. Il medico esamina senza espressione le radiografie. Quindi, con estenuante lentezza, pontifica: manca il referto, dovete andare in archivio. Noi? Perdo la pazienza, l’infermiere è a disagio, andiamo. Torniamo al reparto, dico al caposala che denuncio il medico per inadempienza e con lui l’ospedale: va in archivio, fa una copia del referto, potreste aspettare un medico qua, dice a denti stretti, ma certuni avrebbero l’obbligo di lavorare. Capisce? Capisco.

Mia madre è stanca, sarebbe stato facile prendere una scorciatoia, ma l’ospedale è di tutti e mi ostino a rispettare quest’idea. Tuttavia mi sento in colpa e pure in colpa di sentirmi in colpa, è un guazzabuglio di sentimenti, penso che  il lavativo ci aspetta, gli tocca lavorare e riprendiamo il viaggio. Solo che il lavativo se n’è andato e se n’è fregato di  altri pazienti in attesa come noi. Vado in escandescenze, l’infermiere è contrito, lui si prova a far tutto per bene mi spiega, la sua parte la onora. Mi guarda: posso anticiparle qualcosa, sì grazie, interpreta per me i referti. Mi guarda: occorre un medico, capisce? Capisco. Il lavativo ha lasciato detto che si recava al reparto. Ma al reparto, ovviamente, non c’è. Ci sono, con noi, la signora che lamentava l’esser nessuno in un luogo in cui occorre esser qualcuno, col marito operato di fresco e anche lui visibilmente  stanco. Al telefono lo scansafatiche non si rintraccia: forse è a far cistoscopie e forse no, forse è a far visite in corsia e forse no. Bugie.

Ed ecco lo spaccato della quotidianità: sotto gli occhi d noi poveri afflitti passa impudente e sfacciata la corsia preferenziale. Nessun imbarazzo attorno. Appunto, la normalità.  E’ troppo: blocco un medico del reparto, si rende lui stesso conto che c’è un limite a tutto, chiede un attimo di pazienza: non mi vorrà tirare le orecchie? La verità è che me ne voglio andare e portare via mia madre da lì. Nessuna tirata d’orecchie. Ci impiegherà un minuto, un minuto uno, a dirci come stanno le cose, il controllo ambulatoriale è tutto qui: una lettura di carte di un minuto uno. C’era bisogno che mia madre vagasse da un edificio all’altro, da un piano all’altro, per quattro ore quattro? Ce ne andiamo. Mi dispiace di averla fatta sentire una poveraccia, perché si sa come funzionano le cose a Catanzaro: buongiorno sono Tizio, anzi sono il fratello di Caio e sono anche il nipote di Tizio in seconda, non so se ha già telefonato Caio, mi manda Tizio gliel’ho già detto? Siamo qua e conviene, comunque, ritirare le altre analisi: non si trovano, “vada in laboratorio a vedere che fine hanno fatto”. Tremo: a Catanzaro è facile che le analisi si perdano. E che spuntino, magari dopo un mese e sempre se tutto va bene, da qualche altra parte. Aspetta qua, mamma, quest’ultima trafila te la risparmio. Mi dispiace. In laboratorio sono buoni, un po’ di sopracciglia aggrottate ma mi fanno il “favore”: eccole, son rimaste lì, stanno riposando nel computer, le svegliano e me le stampano. Prima di averle pago penitenza: mi fanno domande alle quali è più facile che sappiano rispondere loro. Una specie di quiz della salute. Ma è tardi, siamo tutti stanchi, mi congedano. Grazie eh, grazie. Grazie infinite. Grazie grazie. Grazissime. Grazissimissimissime. E’ mezzogiorno. Il caffè ci ristora. Povera mamma, penso, mai più. Ma non è per niente giusto.

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Io credo che Gesù sarebbe stato per l’eutanasia. Intervista a Vittorio De Seta

E sul caso Eluana Englaro cita Gesù : “Voglio misericordia e non sacrificio”. In Sardegna: “c’era la cabadora”

di Filippo Curtosi e Giuseppe Candido

22 novembre 2008 Intervista a Vittorio De Seta

.. Sono per l’autentica dottrina di Gesù. Però non credo che Gesù abbia mai espresso i concetti che son riassunti nel credo”. ..Gandhi è diventato Gandhi dopo aver letto “il Regno di dio è in noi” di Tolstoj. Con Pasolini ha in comune la formula “Sviluppo senza progresso”

di Filippo Curtosi e Giuseppe Candido

L’8 settembre 2008, in occasione del sessantesimo anniversario della dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo gira a Pentedattilo, in provincia di Reggio Calabria, il cortometraggio sull’articolo 23 della dichiarazione: “Articolo 23.Pentedàttilo” che sarà presentato il prossimo primo dicembre al Teatro Argentina in Roma.

Nato in Sicilia (Palermo, 1923) da nobile famiglia di origini calabresi, il maestro del film documentario italiano vive a Sellia Marina, in provincia di Catanzaro, dove cura le sue tenute. Dopo essersi iscritto alla facoltà di Architettura nel ”41 fu allievo ufficiale dell’Accademia Navale di Livorno. Dopo l’armistizio fu internato in Austria dai nazisti. Liberato nel ”45 ricomincia a studiare e inizia ad occuparsi di fotografia e di cinema. Nel ”53 collabora come aiuto regista ne “Le village magique” di Jean Paul Le Chanois e, sempre nello stesso anno, affianca Mario Chiari in un episodio di “Amori di mezzo secolo“. Il suo nome, nel dizionario del cinema dei registi mondiali dei tipi Enaudi, sta tra quelli di De Santis e De Sica. A partire dal ”54 sino al ”59 scrive e dirige una serie di documentari cortometraggi considerati oggi veri capolavori del cinema mondiale: Lu tempu di li pisci spata (1954 min 10′.04” ); Isole di fuoco (1954 min 09′.02” ); Surfarara (1955 min 09′.39”); Pasqua in Sicilia (1955 min 08′.12” ); Conrtadini del mare (1955 min 09′.24” ); Parabola d’oro (1955 min 09′.39” ); Pescherecci (1958 min 10′.02” ); Pastori di Orgosolo (1958 min 09′.54” ); Un giornoin Barbagia (1958 min 09′.27” ); I dimenticati (1959 min 16′.56” ). Straordinari documenti originariamente in Ferraniacolor e Cinemascope oggi digitalizzati e ripubblicati ne “Il mondo perduto” assieme a “La fatica delle Mani”,una raccolta di scritti su Vittorio De Seta a cura di Mario Capello che accompagna il dvd e in cui spiccano “La sabbia negli occhi” di Roberto Saviano, “su Banditi a Orgosolo” di Martin Scorsese, “una conversazione con Vittorio De Seta” di Goffredo Fofi, “Il metodo verghiano di De Seta” di Vincenzo Consolo, “De Seta: la Grande del documentario” di Alberto Farassino, “L’arcaico e la trasmissione della conoscenza” di Marco Maria Gazzano, “Un lungo viaggio verso il mondo perduto” di Gian Luca Farinelli. Nel ”61 De Seta esordisce col 35 mm nel lungometraggio con “Banditi a Orgosolo” ( Italia, 1961 – 98 min., 35 mm b/n). Seguono “Un uomo a metà” ( Italia, 1966 – 93 min., 35 mm, b/n) osteggiato dalla critica ma che ottenne riconoscimenti a Venezia e lodi da parte di Pierpaolo Pasolini e Moravia,  “L’invitata” ( Italia-Francia, 1969 – 90 min., 35 mm, col.); Diario di un maestro” ( Italia, 1973 – 270 min. 4 episodi , 16 mm, col.) evidenzia la problematica della scuola italiana e il vero scopo della scuola non finalizzata all’ottenimento di una promozione o di un diploma ma piuttosto come preparazione alla vita, la formazione del carattere e della personalità. Tutti temi ripresi in “Quando la scuola cambia” ( Italia, 1978 – 240 min. 4 episodi , 16 mm, col.) con cui De Seta, rispondendo a chi gli sottolineava  dopo l’uscita di Diario che quel maestro era finto e che non poteva attuarsi quel tipo di scuola, descrive quattro casi di scuola d’avanguardia, in Lombardia e in Puglia. Successivamente De Seta gira “La Sicilia rivisitata” ( Italia, 1980 – 207 min. 4 episodi , 16 mm, col.), “Hong Komg, la citta dei profughi” ( Italia, 1980 – 135 min. 3 episodi , 16 mm, col.), “Quando la scuola cambia” ( Italia, 1978 – 240 min. 4 episodi , 16 mm, col.), “Un carnevale per Venezia” ( Italia, 1983 – 56′ min., 16 mm, col.). Con “In Calabria” ( Italia, 1993 – 83′  min., 16 mm, col.) ritorna alle tradizioni, al racconto della realtà ancestrale in cui un paese, un villaggio erano una comunità. In “Lettera dal Sahara” ( Italia, 2004 – 123′ min., col.) De Seta racconta l’immigrazione nel mondo di oggi con la storia di Assan, un senegalese sbarcato a lampedusa e che, in meno di sei mesi, risale l’Italia passando per Napoli, Prato, Torino e cambiando ogni volta lavoro. E sul lavoro che nel settembre 2008, in occasione del sessantesimo anniversario della dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo, gira in provincia di Reggio Calabria un cortometraggio sull’articolo 23 della dichiarazione, il lavoro. “Articolo 23. Pentedàttilo” (Italia, 8 settembre 2008 – min. 05′ 49” , col) è un cortometraggio in cui immagini, musiche delle Calabrie ti accecano e raccontano. Pentedàttilo, a sud dell’Italia, è stato abbandonato dagli abitanti partiti in cerca del lavoro. Ma altri emigranti, ancora più poveri, arrivano a prenderne il posto.

Lo scorso 28 ottobre, Vittorio De Seta,  ha voluto farci l’onore di redigere la prefazione per “La Calabria”, una raccolta di canti sacri, leggende, canti popolari,tratti dall’omonima rivista di letteratura popolare edita in Monteleone, dal 1888 al 1902 e che gli scriventi stanno curando e stiamo per pubblicare.

Abbiamo pensato al maestro per la prefazione a questa  raccolta perché i documentari di De Seta, lodati dalla critica nazionale ed internazionale, non raccontano ma mostrano la realtà e ripercorrono, nel tempo che celebra il culto mediatico, il mondo perduto che fu non per esorcizzare o evadere la realtà ma per recuperare il senso delle cose dai segni, dai simboli ancora carichi di sacralità laica perché vere, umane.

Siamo andati a trovarlo in una giornata tempestosa, con il vento che piega la pioggia come le canne, per ringraziarlo della sua disponibilità e cogliendo l’occasione per fargli qualche domanda …..Antico e aspramente contemporaneo, la forza delle immagini dei cortometraggi che riescono a far parlare alberi, animali, vento,  mare, a tradurre in racconto il rumore, ora lieve ora travolgente della vita.

Lo incontriamo nella sua casa di Sellia Marina (CZ), facendo fatica a non distrarci dal nostro dialogo per guardare le sue cose,volti e corpi che diventano compagni di cammino.

D: Nella fase in cui si trovano oggi l’Italia e il mondo nella crisi globale, cosa è diventato oggi il lavoro?

R: Io ho fatto il lavoro manuale, sono stato due anni prigioniero. Una volta il lavoro in un certo senso era creativo .. perché il lavoro manuale è creativo. Uno fa un lavoro. vengono qui gli operai, una siepe, è finita e la vedi. Ma l’alienazione consiste nel fatto che ci sono degli operai in certe fabbriche meccaniche, che fanno dei pezzi che non sanno neanche che cosa sono, dove vanno. Se sono pezzi d’automobile o pezzi di un qualsiasi altro meccanismo. Perché ormai è fatto tutto per appalti. La fiat non è che produce, appalta tutte le parti. la cosa non può funzionare. Non fosse altro che per il fatto che per quattro milioni di anni si sapeva che cosa si faceva. Capito? La vita media poteva essere, che ne so, quarantacinque anni, mortalità infantile, gravidanze, ….figuriamoci, malaria, tubercolosi. Ci siamo liberati da questo, però si è perso un qualche altra cosa che era fondamentale. E che si sarebbe potuto mantenere.

D: Cosa ti piace di oggi?

R: Di oggi? E’ bellissimo voglio dire. Un trattore è una cosa bellissima, e non è che non si può usare. Non c’era bisogno di buttare tutto il resto. E’ un’incredibile imprevidenza da parte delle classi dirigenti. degli intellettuali. Nessuno ha dato l’allarme di questo. Che io sappia. salvo un americano: Torou, che a un certo punto ha detto che bisognava distruggere le macchine.

D: Finalmente hanno capito chi è Vittorio De Seta. In Italia, …

R: Adesso forse…, Saviano?

D: Guardando i cortometraggi di De Seta si ha la netta sensazione di conoscere il tempo nelle sue varie scansioni, di conoscere il vento, di vederlo, di assaporarlo, di sentirlo. Oggi è una giornata De Setiana.Abbiamo visto le canne piegate dal vento. Nel cinema di De Seta è la stessa cosa. I tuoi documentari ripropongono esperienze di vita. De Seta scandaglia il fondo delle cose e dell’animo umano della cultura popolare?

R: Si, in sostanza, la cultura contadina che è la cultura popolare, che era proprio la storia dell’uomo come evoluzione lenta, è stata buttata a mare. Io faccio sempre il paragone, forse ne ho già parlato. Insomma, si va sempre indietro. Già si parla dell’Umo da 4 milioni di anni. Io dico: 4 milioni di anni sono 42.000 secoli; 42.000 secoli sono come i metri della maratona. Sono 42.195 metri. Il progresso prende gli ultimi due metri. Nessuno parla mai di questo. Il nostro cervello si era sviluppato lentamente fino al 1827 quando è entrata in campo la locomotiva, tanto per stabilire una cosa. E li c’è stato un movimento. Un’accelerazione esponenziale. Per cui io sento che noi non facciamo più fronte. La vita è proprio cambiata. I documentari ripropongono quell’esperienza di vita che poteva avere un uomo siciliano di cinquant’anni fa. E quindi quella di sempre. Mi segue? E quindi gli odori, i sapori, i suoni. Tutto. Noi siamo stati privati di questo patrimonio, in cambio del progresso. Però a questo punto io dico che il frigo e questo telefonino (prendendo in mano il suo cellulare) l’abbiamo pagati troppo caro. (minuti 4′:20”.11)

D: Maestro, hai conosciuto Pasolini?  Com’ era Pasolini?

R: l’ho visto 4 5 volte in tutto. Intanto molto generoso, molto anche impulsivo, diretto. Lui, ad esempio, quando ho fatto un uomo a metà che è stato letteralmente linciato da una parte della critica ma che è andata in corto circuito a Venezia, e poi adesso sempre meglio capisco perché, lui è intervenuto. Ha parlato di cinema di poesia. Anche Moravia aveva fatto una buona critica. Però non è servito perché l’hanno massacrato passando pure notizie false. Quello che più ho di più lui (Pasolini ndr) è la formula “sviluppo senza progresso” . Tutto il resto per esempio, leggendo quegli articoli del Corriere della Sera, ecco, dovrei rileggerli. Ma non c’è mai tempo. Mi sono ricomprato il volume di Gramsci, non si fa più in tempo a seguire, a capire. (minuti 1′:23”.17)

D: Maestro, con Moravia che rapporto avevi? Com’era Moravia

R: No, Moravia era bravo, lui faceva la critica sull’espresso.

D: E’ venuto in Sardegna?

R: No, lui dirigeva una rivista. “Nuovi argomenti” che, mi pare nel ’57 o ’58, ha pubblicato un’inchiesta di Franco Cragnetta che era un antropologo sociologo. F. Cragnetta aveva fatto “a Orgosolo” raccontando Orgosolo, raccontando la famosa disamistate a cavallo della guerra mondiale. Una faida interna al paese. E proponendo questo paese che era rimasto fuori dalla storia.

D: Lui era un’esistenzialista?

R: Moravia? I titoli, una noia. Io ripeto, non lo conosco bene. Non ho avuto il tempo. Io per esempio Purz non l’ho letto. Non ho fatto in tempo. Però qualche anno fa ho passato due anni a rileggere solo Tolstoj. Perché Tolstoj oltre ai romanzi ha scritto dei saggi morali bellissimi. Gandhi è diventato Gandhi dopo aver letto un libro di Tolstoj che si chiama “Il Regno di Dio è in noi“. Una frase che c’è nel vangelo.

D: Che rapporto ha con la fede De Seta?

R: Questo è molto complesso. Io non riesco a rinunciare alla ragione. Se la fede è rinuncia alla ragione allora non ho fede. Ho una grande devozione, come dire, un’ammirazione immensa per Gesù. Per l’autentica dottrina di Gesù. Però non credo che Gesù abbia mai espresso i concetti che son riassunti nel credo. Cioè questa revisione, questo abbandono totale. Questa deve essere roba…, Tolstoj l’ha approfondito in questo libro che ho ma ma è in inglese e non riesco a leggere. Si chiama Critica della teologia dogmatica. I discorsi diventano troppo lunghi. In sostanza, Tolstoj mi ha insegnato che al di la della versione chiesastica, diciamo, di Gesù, della dottrina di Gesù. Che si riassume nel credo, che è stata annunciata a Nicea nel 300 d.C.. Al di la di questo, la dottrina di Gesù è un’altra cosa, contrasta enormemente.

D: Tu innamorato di San Paolo?

R: Si, si. Ma soprattutto di Gesù perché è stato falsato. Forse non si poteva fare altro. San Paolo lo stesso. Cioè praticamente: Gesù è un profeta. Infatti Lui dice(va) sempre: “è stato detto occhio per occhio ma, Io vi dico …..”. Quindi Lui era venuto a cambiare. Quella frase che c’è nel vangelo: “Sono venuto soltanto a compiere”. Non è vero. Però … nel cristianesimo c’erano le sette giudeo cristiane che hanno mantenuto il vecchio testamento. Però fra il vecchi e il nuovo c’era un contrasto enorme.  (minuti 4′:18”.05)

D: Riesci ad esprimere questo nei tuoi lavori ? Che Gesù è stato falsato?

R: E no. Io volevo fare, ma non ce la farò. Insomma, non tutto il vangelo, un film su una parte del vangelo per cercare di spiegare. C’è un grosso equivoco di base. Cioè la dottrina di Gesù viene sempre espressa come un qualche cosa di meraviglioso ma astruso, inattuabile, metafisico. Mentre invece no. Tolstoj mi ha insegnato che è profondamente razionale. Quando Gesù dice quei paradossi, che sembrano paradossi, “ama il tuo nemico”. In realtà è giusto, è vero. E la gente lo sente tant’è vero che a questa dottrina la gente aderisce. Però poi è invalsa la consuetudine di dire: va bene, però questi sono sogni, la realtà è un altra. E quindi, per esempio, il Male. la chiesa riconosce il male, mentre invece Gesù non lo riconosceva. Oppure lo riconosceva come diminuzione di bene, ecco, non come entità autonoma.

D: San Paolo in un certo qual modo ha divinizzato….

R: San Paolo ha dovuto fondare una chiesa che è un istituto secolare. Che è uno Stato oggi, che ha una guardia svizzera, una guardia armata. Gesù diceva che – quando manda in giro i discepoli –  che non dovevano portarsi neanche i sandali di ricambio. Neanche la bisaccia, forse neanche il bastone. Insomma, è differente nei vari vangeli. Li (nella chiesa ndr) abbiamo il Vaticano con la cappella sistina …. (minuti 2′:00”.86)

D: Parlando di nuovo di chiesa, lei diceva, raffigurava nelle sue parole una contrapposizione tra religione e religiosità sentita dalle persone. Oggi questo tema la chiesa lo ripropone per il caso  Englaro, come fu per Piergiorgio Welby..

R: Nel Caso?

D: Eluana Englaro, quella ragazza …

R: Si, e quello non l’ho seguito per niente.

D: In buona sostanza la situazione è la stessa cosa di Piergiorgio Welby….

R: Cos’era la sacralità della vita?

D: La sacralità della vita difesa fino all’ultimo tant’è che adesso in pratica si propone una petizione al Parlamento europeo per cercare di annullare tre gradi di giudizio più una sentenza della Corte costituzionale che già si sono espresse a favore di Beppino e della famiglia Englaro nella richiesta di veder rispettata l’autodeterminazione.

R: Detto proprio in soldoni. La chiesa quando dice così tradisce. Perché Gesù, credo che nel vangelo è riportato tre o quattro volte, Lui dice: “voglio misericordia e non sacrificio”. E’ tutto li. Mantenerla in vita è un sacrificio. Per lei (Eluana ndr), per la famiglia, per tutto. Io credo che Gesù sarebbe stato per l’eutanasia. Perché è la cosa logica, è razionale. Non c’è niente di irrazionale, niente di astruso, niente di metafisico nella dottrina di ..(Gesù ndr). Se tutti facessimo così credo che vivremmo in pace meravigliosamente.

D: Nella cultura delle nostre tradizioni, come per il caso dell’aborto clandestino che c’era la figura delle mammane, esistevano delle figure simili per quanto riguarda l’aiutare a far soffrire meno nella morte?

R: In Sardegna c’era sicuro. C’era la cabadora, la cabadora  (deriva ndr) dallo spagnolo. Cioè, quando c’era qualcuno che era così, in difficoltà, e provvedeva lei. Quando la situazione era insostenibile. Quindi la saggezza popolare aveva trovato il rimedio. Perché è una questione di senso comune. Se uno accantona i pregiudizi, i principi. Umanamente una situazione così bisognerebbe intervenire, assumersi ….E’ facile dire la vita è sacra. Ma che cosa vuol dire? Abbiamo avuto i cappellani militari. La chiesa ha partecipato alle guerre.

D: Cos’è il senso di colpa per De Seta?

R: Il senso di colpa è che noi …noi veniamo dal male. Dal così detto male. Il mondo della natura si vede: c’è il male. Il mondo dei dinosauri era un mondo basato sulla violenza. Noi veniamo da la. Ce lo portiamo nell’inconscio. L’inconscio è ereditario.

D: Non c’è niente da fare insomma.

R: E si, l’uomo esprime questa contraddizione: si è instaurata, non so quando non so come, la coscienza morale però è rimasto questo ricordo ereditario del male dal quale usciamo. Mi segue?

(minuti 0′:58”.15)

D: Come liberarsi dal senso di colpa?

R: Capendo. Capendo il meccanismo. Per cui Gesù dice delle cose fondamentali. Una volta gli dicono: Tu che sei buono… E Lui (Gesù ndr) dice: “Io non sono buono, Dio è buono“. Lui si dichiarava Uomo. E poi perdona tutti: perdona l’adultera, perdona il partigiano, il brigante crocefisso vicino a Lui, perdona tutti. Lo accoglievano i pubblicani, che erano gli esattori delle imposte, quindi doppiamente spregevoli per il popolo. Perché percepivano le imposte per i Romani, che poi l’impero romano era un impero militare fiscale. Non c’era questa grandezza di Roma che si dice. S, perché facevano le strade ma in realtà spremevano sangue da tutti.

D: De Seta, come dice Scorsese, antropologo poeta?

R: A.. questo l’ha detto Scorsese? Va be questo riguarda i documentari. Si, ma perché io neanche me ne rendevo conto quando li ho fatti. Adesso, ha ragione (Scorsese ndr), c’è – come dire . un’interpretazione religiosa della vita. si sente nei documentari. Li avete visti adesso quelli restaurati? Perché una volta era così. C’era…., c’era la soggezione per il mistero. Cioè si riconosceva che c’era un qualcosa che non si può capire. La saggezza popolare questo lo aveva intuito. Mentre invece, oggi … E’ come la parabola dei vignaioli omicidi che c’è sempre nel vangelo. Quella è illuminante. Il padrone, cioè Dio, costruisce una vigna, la circonda di un muro, insomma, e poi la consegna a questi vignaioli. Poi quando manda a prendere l’affitto, manda i profeti, questi li maltrattano, qualche volta li uccidono. Allora Lui dice: manderò mio figlio almeno avranno rispetto di lui. Di questi temi, di queste cose non se ne parla mai. Il materialismo è questo. Si parla solo della pensione, l’ambiente. Cose sacro sante, per carità. Però questo e basta. S’è perso quel senso… quando si dice gli antichi, che poi noi giudichiamo spregevoli, ignoranti, arretrati, il popolo rozzo, violento. Ma quando mai! Avete visto i dimenticati?

Quello era e ancora in parte è. Quindi è tutto un inganno. E’ tutto un’impostura. Questo è il fatto.

D: Pensa di essere stato, in un certo senso, scomunicato per aver detto verità scomode?

R: Si, ma queste cose poi non le ho mai scritte. Però basterebbe riprendere Tolstoj. Non è che uno vuole fare chissà che. Non c’è questo assunto di originalità. …… Tolstoj a un certo punto ha finito di scrivere. Ha smesso di scrivere narrativa, romanzi. Perché la chiesa ortodossa l’ha scomunicato. E poi ancora oggi è all’indice. Nessuno ne parla. E’ una personalità, uno dei più grandi uomini del secondo millennio.

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Un silenzio pieno di rumore

di Giovanna Canigiula

Manuel Eliantonio è morto il 25 luglio di quest’anno nel carcere Marassi di Genova. La morte è stata etichettata sotto la voce “suicidio”. Le foto scattate all’obitorio del San Martino evidenziano ferite ed ecchimosi che il ragazzo difficilmente avrebbe potuto procurarsi da solo.

Sulla vicenda:

– 20 ottobre 2008: il parlamentare Pdl Cassinelli, che si occupa di carceri, annuncia un’interrogazione parlamentare al ministro Alfano perché si faccia chiarezza su quanto accaduto a Marassi;

– 27 ottobre 2008: il consiglio regionale della Liguria approva all’unanimità (primo firmatario V. Nesci di Rifondazione comunista) un ordine del giorno che impegna Presidente e Giunta ad intervenire presso le autorità di governo affinché sia avviata una commissione d’inchiesta parlamentare per fare chiarezza “sulle cause della morte di Manuel e sulle eventuali responsabilità delle strutture circondariali della direzione dei dipartimenti di grazia e giustizia e sulle conoscenze dei fatti da parte del ministro e del governo”;

– 31 ottobre 2008: il Provveditorato regionale per la Liguria del Dipartimento della Giustizia respinge ogni illazione “in ordine a comportamenti meno che professionali da parte del personale penitenziario” in relazione al decesso di Manuel, precisa di avere da subito avviato una propria inchiesta amministrativa e di voler collaborare con l’autorità giudiziaria;

– 17 novembre 2008: la parlamentare radicale R. Bernardini avvia un’interrogazione parlamentare sulla morte di Manuel e di un marocchino di venti anni, Hamid Driss, morto l’11 novembre nel carcere Le Vallette di Torino.

Di Manuel ha parlato la madre il 21 settembre in una trasmissione Rai e diversi blogger hanno denunciato il caso. Il suo nome è fra quelli che compaiono nel dossier “Morire di carcere 2000- 2008” da cui  risulta che, dal 1° gennaio al 12 settembre 2008, nelle carceri italiane sono morti  85 detenuti,  33 dei quali per suicidio, con un incremento, rispetto al 2007, dell’11%. Nel dossier si precisa che diversi sono i casi sospetti e che quelli riportati non sono rappresentativi della totalità ma sono quelli di cui si sono ricostruite le vicende sulla base di notizie tratte da giornali, agenzie stampa, internet, lettere di detenuti e parenti. Di seguito l’elenco dei casi raccolti nel 2008, in ordine cronologico, di cui si riportano nome e cognome, età, data della morte, causa della morte, istituto nella quale è avvenuta:
Fabrizio P.
26 anni
04 gennaio 2008
Suicidio
Opg Aversa (CE)

Andrea Mongelli
32 anni
13 gennaio 2008
Suicidio
Trani (BA)

Claudio Tomaino
31 anni
18 gennaio 2008
Suicidio
Viterbo

Walid M. El Manawhlx
39 anni
20 gennaio 2008
Da accertare
Padova (permesso)

Dimitri Feraresso
37 anni
20 gennaio 2008
Da accertare
Padova (permesso)

Vincenzo Romano
35 anni
29 gennaio 2008
Suicidio
Opg Aversa (CE)

Mija D., serbo
40 anni
29 gennaio 2008
Malattia
Regina Coeli (Roma)

Daniele Foti
42 anni
02 febbraio 2008
Da accertare
Siracusa

Gianfranco Buschini
50 anni
03 febbraio 2008
Da accertare
Venezia

Andrea Brigida
29 anni
04 febbraio 2008
Da accertare
Imperia

Giovanni Rondinelli
71 anni
04 febbraio 2008
Da accertare
Catanzaro (domicil.)

Sandro Di Nisio
35 anni
05 febbraio 2008
Da accertare
Vasto

Giovanni Cataldo
36 anni
10 febbraio 2008
Suicidio
Palermo

Michele Greco
84 anni
13 febbraio 2008
Malattia
Rebibbia (RM)

Vincenzo Parlato
54 anni
24 febbraio 2008
Malattia
Salerno

Detenuto cinese
35 anni
2 marzo 2008
Malattia
Venezia

Giuseppe Romano
48 anni
20 marzo 2008
Suicidio
Siracusa

Davide Folli
27 anni
25 marzo 2008
Suicidio
Opera (MI)

Said Mouaaouia
36 anni
28 marzo 2008
Suicidio
Opg Aversa (CE)

Valentino Atzori
32 anni
09 aprile 2008
Da accertare
Torino

N.D.B., italiano
25 anni
11 aprile 2008
Suicidio
Larino (CB)

Orazio Cannata
60 anni
13 aprile 2008
Suicidio
Catania (domiciliari)

Antonio Marchesani
57 anni
20 aprile 2008
Suicidio
Torino (domiciliari)

Stefano M.
40 anni
23 aprile 2008
Da accertare
Roma Regina Coeli

Detenuto italiano
60 anni
25 aprile 2008
Suicidio
Verona

Giuseppe Clemente
44 anni
27 aprile 2008
Suicidio
Torino

Orazio Joanna
35 anni
30 aprile 2008
Da accertare
Frosinone

Mihai, rumeno
20 anni
30 aprile 2008
Suicidio
Viterbo

Marco Pes
42 anni
1 maggio 2008
Malattia
Oristano

Flor Castillo
33 anni
4 maggio 2008
Malattia
Giudecca (VE)

Vincenzo
66 anni
17 maggio 2008
Da accertare
Milano San Vittore

Detenuto marocchino
28 anni
21 maggio 2008
Suicidio
Prato

Rose Ayough
33 anni
22 maggio 2008
Da accertare
Cagliari

Hassan Nejl
38 anni
24 maggio 2008
Malattia
Cpt Torino

Antonello Desogus
43 anni
25 maggio 2008
Da accertare
Cagliari

Massimo, italiano
23 anni
30 maggio 2008
Suicidio
Roma Rebibbia

Fabrizia Germanese
44 anni
31 maggio 2008
Suicidio
Cosenza

Rolando Pagliarulo
55 anni
04 giugno 2008
Da accertare
Siracusa

Ignazio Romano
34 anni
06 giugno 2008
Malattia
Avellino

Francesco Russo
30 anni
11 giugno 2008
Da accertare
Catania (domicil.)

Sangare Samba
28 anni
11 giugno 2008
Da accertare
Caserta

Niki Aprile Gatti
26 anni
24 giugno 2008
Suicidio
Firenze

Tamara Selli
34 anni
24 giugno 2008
Suicidio
Salerno

Detenuto ghanese
33 anni
29 giugno 2008
Malattia
Cpt Caltanissetta

Elvisa Bescagic
32 anni
04 luglio 2008
Suicidio
Roma Rebibbia

Giuseppe Pistorino
47 anni
16 luglio 2008
Suicidio
San Gimignano (SI)

Giuseppe Mercuri
59 anni
19 luglio 2008
Suicidio
Lecce (domicil.)

Sophie Chaffurin
43 anni
19 luglio 2008
Suicidio
Lecce (domicil.)

Detenuto italiano
50 anni
21 luglio 2008
Malattia
Spoleto

Mustafà, francese
41 anni
22 luglio 2008
Malattia
Verona

Manuel Eliantonio
22 anni
25 luglio 2008
Suicidio
Genova

Dule G., albanese
41 anni
08 agosto 2008
Malattia
Regina Coeli (Roma)

Antonio Serra
45 anni
11 agosto 2008
Suicidio
Nuoro

Ali Jubury
40 anni
15 agosto 2008
Sciopero fame
L’Aquila

Nicola G., italiano
47 anni
21 agosto 2008
Malattia
Rebibbia (Roma)

Okyere Nana Mensah
35 anni
23 agosto 2008
Malattia
San Vittore (Milano)

Rachid Basiz
29 anni
25 agosto 2008
Malattia
Trento

Franco Paglioni
44 anni
25 agosto 2008
Malattia
Forlì

Detenuto tunisino
28 anni
09 agosto 2008
Da accertare
Nuoro

Jonny Montenegrini
32 anni
11 settembre 2008
Suicidio
Opera (Milano)

Il Dossier riporta, inoltre, la serie storica delle “morti da carcere” dal 2000 al 2008, sempre sottolineando la parzialità dei dati. Sono presi in considerazione l’anno, il numero dei suicidi e il totale dei morti. Per il 2008 i dati sono fermi al 12 settembre:

2000     2001     2002    2003     2004    2005   2006    2007     2008
56         69         52        57         52        57       50        45         33
160       177       160      157       156      172     134      123       85

Il totale dei morti è 1.298. I suicidi sono 468. Troppi per continuare a ignorarli.

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Vite sospese: sant’Anna di Isola di Capo Rizzuto

di Giovanna Canigiula

Nel pomeriggio del 15 novembre, mentre la popolazione di Cropani si preparava a manifestare contro il nuovo Cpa, i radicali calabresi hanno promosso un sit in a sostegno dei richiedenti asilo e invitato le parlamentari Rita Bernardini ed Elisabetta Zamparutti a visitare la struttura. Il diluvio ha impedito lo svolgimento della manifestazione, la visita invece si è svolta. Il giorno successivo, da infiltrata ben accolta, sono andata con la Bernardini e con Giuseppe Candido, del Direttivo nazionale, nel Cda- Cara di Sant’Anna di Isola di Capo Rizzuto, il più grande d’Europa, a vedere da vicino come stanno le cose. Già informati, ci hanno accolto la direttrice e il suo vice con i quali la parlamentare si è a lungo intrattenuta.

Il centro, che potrebbe ospitare poco più di mille persone, da metà giugno soffre di sovraffollamento e non scende mai al di sotto delle 1800 unità. Le provenienze degli ospiti sono disparate ma, attualmente, la maggioranza è costituita da nigeriani, eritrei, afghani e somali. Molti, anche, coloro che provengono dal Ghana e dalla Costa d’Avorio. Trentasette, in tutto, le nazionalità contate, il che comporta convivenze forzate tra gruppi provenienti da aree in reciproco conflitto. Appena 198 le donne e 33 i bambini.

La Prefettura di Crotone ha stipulato varie convenzioni per la gestione del centro: al comune di Isola è affidata la manutenzione –subito data in subappalto- mentre l’Asl 5 si occupa del servizio sanitario e una confederazione di Misericordie, con la Caritas diocesana di Crotone- Santa Severina,  dei pasti, dell’orientamento e dell’assistenza, compresa quella legale. Per ogni ospite è prevista un’indennità giornaliera di 30 euro. L’emergenza, fronteggiata per come si può, è sotto gli occhi. Solo da maggio è aperta una sezione con piccoli appartamenti in muratura destinati ai nuclei familiari, per un totale di 256 posti: ogni appartamento ha due stanze (una con un tavolo e quattro sedie e una con reti e materassi) più il bagno. Gli altri richiedenti asilo sono ospitati in circa 30 tende inviate dal Ministero degli Interni, in cui si dorme su materassini di gommapiuma senza lenzuola,  e in circa 160 container distribuiti nelle sezioni A, B, C e D del campo, con 10- 12 persone per container. Pochissimi i bagni, insufficienti le docce, spesso intasate le vecchie tubature con conseguente fuoriuscita dai tombini di liquame puzzolente, assente per giorni o a partire dall’una di tutti i giorni l’acqua.

La normativa prevede che il tempo di permanenza non sia superiore ai trenta giorni, dal momento della formalizzazione della richiesta d’asilo. In realtà, le cose non stanno proprio così e i tempi si allungano fino a sei mesi. Incerta, ad esempio, è la situazione dei nigeriani, poiché provengono da una regione in cui non v’è conflitto manifesto, per cui la loro domanda è automaticamente respinta. Senza contare che, chi è transitato in altri stati dell’UE, si vede bloccato l’iter della domanda d’asilo dal Regolamento Dublino II e rischia di essere spedito in Grecia, dove il riconoscimento dello status di rifugiato è bassissimo. La Commissione territoriale di Crotone, che ha sede all’interno del campo unitamente all’Ufficio immigrazione della polizia, non riesce ad accorciare i tempi della burocrazia. A complicare le cose si è aggiunta, inoltre,  la legge 25 del 2008, che ha spostato le competenze  in materia al Tribunale di Catanzaro dove, a dispetto di quanto avviene nel resto d’Italia, si rifiuta il gratuito patrocinio. I legali che fanno capo al centro, 10 o 11 in tutto, quindi chiaramente insufficienti e  con il compito delicato di mediare tra l’attività di informazione e l’assistenza, hanno scelto la via dei ricorsi per arrivare ai gradi più alti. Il rischio reale è che gli ospiti finiscano nelle mani di avvocati esterni senza scrupoli che, per pochi soldi, promettono di seguire i singoli casi. Procurarsi i soldi significa, per chi non è in regola, lavorare al nero, indebitarsi o prostituirsi: sulla statale che da Sant’Anna porta  a Crotone non è infrequente vedere giovani donne in attesa di clienti o ragazzi che, suscitando l’ira dei contadini del posto, vendono le lumache raccolte nei campi limitrofi. L’arte di arrangiarsi, del resto, è resa obbligatoria dalla lunga permanenza: il kit di primo intervento, infatti, è bastevole per un solo mese, quello previsto dalla legge e negato dall’elefantiaca burocrazia. Di questo gravissimo problema ha comunque  promesso di farsi carico la Bernardini, che ha preannunciato un’interrogazione parlamentare allo scopo di verificare se è legale rifiutare il patrocinio.

Come si vive nel centro? La maggior parte dei richiedenti asilo -tutti giovani perché sui giovani si investe nei paesi da cui si fugge, talvolta col dramma di scegliere quale figlio portare con sé e quale abbandonare- è sbarcata a Lampedusa, dove è stato effettuato un primo riconoscimento. Arrivati al Sant’Anna, sono accolti nell’Ufficio immigrazione in cui si prendono di nuovo le generalità –il più delle volte fasulle- quindi si riceve il kit di primo intervento e si è accompagnati dagli operatori nel luogo destinato alla residenza. Il giorno dopo è fornito un tesserino di identificazione, col quale si conquista il permesso di uscire dalle 8.00 alle 22.00. Ogni giorno vengono fornite sigarette e ogni dieci giorni una scheda telefonica. I pasti sono gratuiti e preparati, a detta dei gestori, sulla base di una dieta calorica: gli ospiti generalmente preferiscono il pollo, lasciano le verdure, amano la frutta. Abituati al riso, che non viene fornito, mangiano molto pane. Poiché la sala in cui dovrebbero consumare i pasti riesce a garantire solo 50 posti a sedere, si preferisce consegnare il cibo imbustato e lasciarlo mangiare fuori. Il centro ha cercato di attivare forme di studio e di intrattenimento, anche per evitare eventuali tensioni tra gli ospiti. E’ domenica e ci viene fatta visitare una scuola in cui si insegna a parlare l’italiano, aperta di certo per l’occasione, allo scopo di far vedere come vanno normalmente le cose. In un’aula si guarda la televisione. Esistono laboratori musicali e teatrali, una ludoteca, una sala TV, corsi per parrucchiere, una cappella e una moschea. E’ garantita la quotidiana distribuzione di tre giornali, in francese, inglese e arabo. L’ambulatorio conta sul turnover di 12- 13 medici, non più in grado di garantire un efficace servizio. Il medico di turno  spiega che, fra le patologie più frequenti, ci sono le ferite di guerra e lamenta una scarsa collaborazione degli ospiti, che si aspettano interventi miracolistici e richiedono continuamente medicinali per i problemi più disparati, dal mal di pancia ai dolori articolari alle escoriazioni che si procurano giocando a pallone, salvo poi sospendere la terapia antibiotica dopo tre giorni. E’ difficile, dice, fare educazione sanitaria a gente che mal sopporta il dolore. Non si registrano, comunque, malattie infettive tranne un caso, al mattino, di sospetta varicella. Si paventano, inoltre, giorni duri in vista di un’influenza che si prospetta terribile per la presenza di due o tre virus particolarmente violenti: chi reggerà all’aggressività degli afghani? Influenza che, del resto, sarà inevitabile, considerando il gelo della vita in tenda e nei container.  Durante il percorso, però, incontriamo un eritreo, che denuncia la mancanza di assistenza: si cala i pantaloni e ci fa vedere un’infezione alle gambe che si trascina da tre mesi e per la quale nessuno, sostiene, è intervenuto, nel campo come a Crotone. Non sono nuove le denunce esterne degli ospiti riguardo alla mancata assistenza sanitaria o ai maltrattamenti subiti o alle scarse delucidazioni ottenute circa l’iter legale da seguire per il riconoscimento dei propri diritti: non siamo in grado, tuttavia, di darne conto, giacché per tutto il tempo della visita siamo in esclusiva compagnia degli organizzatori. Andrea, un altro eritreo, fa in tempo a lamentarsi per il sovraffollamento nei container, le carenze igieniche  e la mancanza d’acqua che, giustamente, trova insopportabile.

Molte le donne che chiedono test di gravidanza o incinte e con l’idea di abortire. Tra le emergenze, spiega la direttrice, c’è quella di garantire un rapporto col consultorio e la presenza di una ginecologa, un’ostetrica e un pediatra per evitare di intasare la struttura ospedaliera di Crotone. Uno dei più gravi problemi è quello della tratta e l’attività di informazione è, evidentemente, insufficiente: sottoposte a violenza o costrette alla prostituzione già durante il viaggio che le porta in Italia, le ragazze non trovano altra scelta per sopravvivere una volta giunte qua. Convincerle a denunciare è impresa non da poco e, del resto, una volta sporta la denuncia non c’è garanzia di una seconda e sicura assistenza in altri luoghi.

Pochi, si sa, sono quelli che ottengono il riconoscimento di rifugiati o una protezione umanitaria, anche perché lo Sprar (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) è appena in grado di garantire la seconda accoglienza ai casi più delicati. Tutti gli altri finiscono con l’essere lasciati a se stessi, sfruttati in agricoltura dai caporali e nell’edilizia dagli imprenditori, costretti a vivere di espedienti, disperati al punto da chiedere di poter restare nel centro. Quale l’idea che ci si è fatti? Non abbiamo parlato con gli ospiti, ma solo con gli operatori che hanno ringraziato la Bernardini per essere giunta in visita senza preconcetti ed avere pazientemente ascoltato il racconto delle loro fatiche. Che ci sia un problema di sovraffollamento difficile da gestire è innegabile. Che le condizioni di vita siano assai poco dignitose lo è altrettanto. Ma c’è anche un senso come di impotenza, che rende normale la prostituzione immediatamente fuori dai cancelli o il vivere di espedienti: troveranno del lavoro in nero là fuori, dicono, se hanno in tasca un cellulare e riescono in qualche modo a provvedere ai beni di prima necessità. Cosa facciano di preciso, sembrano volerlo ignorare. Le porte sono aperte, chiunque è libero di disporre della propria vita. Sono previste anche sette corse al giorno fino a Crotone, dove gli ospiti trascorrono come meglio credono le loro mattinate, molti per abitudine camminano e questo disturba, ma a questo non si può porre rimedio. Punto. Ritorniamo alla domanda di prima: quale idea ci si è fatti? La mia idea è che, affrontato un costosissimo viaggio di andata dall’inferno, giunti incolumi in terra straniera, schedati ma di fatto senza vero nome e pochi con possibilità di riconoscimento, questi uomini continuino a viaggiare in un cerchio che, dall’inferno, li rimanda all’inferno. Tutto qui.

Salutiamo la gentilissima Rita Bernardini, che prosegue con altri la sua visita nelle carceri calabresi. Saliamo in macchina ed eccoli: chi cammina in fila indiana, chi sta seduto ai bordi della strada, chi agita buste con lumache rubacchiate da vendere. Giuseppe Candido si ferma: dieci euro una busta. Quindi si ferma di nuovo: cinque euro ma niente lumache. Non gli piacciono tanto. I fortunati gli sorridono grati e scompaiono. Camminano in tondo e  sanno di farlo, eppure continua lo sforzo tutto umano di trovare una via d’uscita.

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Sigari in Paradiso: il mio nome era Manuel Eliantonio

di Giovanna Canigiula

E’ qualche giorno che, per ragioni familiari, non frequento Fai notizia né credo di poterlo fare nei prossimi. Mi sono collegata da qualche minuto, giusto il tempo di rilassarmi prima di uscire, e ho trovato un commento a una segnalazione da me fatta poche settimane fa sulla oscura morte, nel carcere genovese di Marassi, di un ragazzo di 22 anni, Manuel Eliantonio. Il visitatore è la mamma di Manuel, che ringrazia tutti coloro che si sono interessati al caso del figlio e chiede che sia tenuta desta l’attenzione prima che cali definitivamente il silenzio. Giro, quindi, a voi tutti la straziante richiesta di una mamma  che ha consapevolezza del fatto che chiunque, in qualunque momento, può vedersi rubata o stravolta la vita senza che giustizia sia fatta. Le immagini di Manuel raccontano la violenza subita: il corpo, infatti, è pieno di lividi. Di carcere, lo sappiamo,  si può morire e si muore.  Per parte mia farò quel che posso. Credo e spero che altri raccolgano la richiesta. Intanto un abbraccio e un bacio fortissimi e sinceri a una mamma che, per l’amore perduto, trova il coraggio di lottare contro chi, assai più forte, stritola esistenze e dolori e li riduce al silenzio.

Proprio qualche giorno fa avevo segnalato a un’amica di Fai notizia “Diario di un dolore” di Lewis, in cui l’autore si misura con la perdita della moglie e con il suo nuovo rapporto col mondo e con  Dio. Nessuna consolazione gli viene dalla fede, non c’è traccia alcuna nelle Scritture di futuri ricongiungimenti sull'”altra riva”, la realtà non si ripete e ciò che abbiamo perduto non tornerà in altra forma.  “Sigari in Paradiso” è l’espressione bellissima che usa per indicare il passato felice che vorremmo disperatamente riavere indietro. Sigari in Paradiso sono quelli che ciascuno di noi può accendere per non dimenticare, per aiutare a non dimenticare, per fare in modo che nessuno si arroghi il diritto di compiere, restando impunito, certi orrori. Nessuno: tantomeno lo Stato.

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L’idealista della violencia

di Giuseppe Candido

Argentina1923. Un abruzzese e un calabrese contro il fascismo, ma il governo Radicale prese le distanze

Io voglio: Un tetto per ogni famiglia, del pane per ogni bocca, educazione per ogni cuore, luce per ogni intelligenza. Bartolomeo Vanzetti

Osvaldo Bayer – Wiki esp

Corsi e ricorsi storici non finiscono di stupirci. A parlarci di Francesco Barbieri, Severino Di Giovanni e d’immigrazione dei calabresi in argentina è, come al solito, Filippo Curtosi direttore responsabile del nostro mensile indipendente “Abolire la miseria della Calabria”. Tra i libri e fotocopie che ci consegna trovo uno tra i saggi più importanti di Osvaldo Bayer , un anarchico pacifista ad oltranza come egli stesso si definiva, sicuramente importante per i documenti ivi raccolti è quello riguardante l’anarchico abruzzese “Severino Di Giovanni, l’idealista della violenza”. Osvaldo Bayer, Ed. Galerna, Buenos Aires, (1970).  Bayer, da pacifista ad oltranza ha studiato i movimenti anarchici antifascisti che in argentina si svilupparono negli anni ”20. Purtroppo è tutto in spagnolo. Come associazione di volontariato culturale “Non Mollare!” stiamo curandone la traduzione – grazie alla lodevole collaborazione del Prof. Sergio Iiriti – per gli intrecci che il Di Giovanni ebbe con l’anarchico di Briatico, Francesco Barbieri oggetto di nostro interesse in quanto libertario anarchico calabrese.

Il 1921  per l’Italia fu un anno particolare: la forte crisi economica, le dure repressioni poliziesche del governo Crispi contro le masse popolari che protestavano per le insopportabili condizioni di vita in cui si trovavano. In quell’anno Barbieri, calabrese di Briatico, emigra in argentina.

Nel 1923 con Francesco Barbieri e i fratelli Scarfò, Severino Di Giovanni  è tra i fondatori degli “Anarchismi Espropriatori”. Narriamo qui un particolare emerso dalla traduzione.

Durante gli anni del fascismo numerosi giovani italiani stanchi del totalitarismo, la censura, le ristrettezze della guerra decidono di trovare fortuna all’estero e tra questi un tale di nome Severino Di Giovanni. Il giovane abruzzese, emigrato in argentina dove, nel maggio del ’23 incontra l’anarchico calabrese Francesco Barbieri, mal sopporta l’orientamento del console italiano e i festeggiamenti che questi organizza per la magnificazione della monarchia sabauda e l’avvento del governo fascista. La cerimonia del Teatro Colòn fu però movimentata da un gruppo di facinorosi al grido di “viva Matteotti…………” .

Lo scontro con le camice nere, a presidio della manifestazione, è inevitabile, come inevitabile l’arrivo della polizia e il conseguente fermo dei disturbatori, i quali si dichiaravano estranei l’un l’altro e di non aderire a nessuna particolare ideologia. Nel verbale della polizia risalta la figura di un giovane che si batte con particolare veemenza e lo stesso non ha problemi a dichiararsi anarchico. Il giovane risponde al nome di Severino Di Giovanni, dice di lavorare in una tipografia, come operaio. In quest’epoca, durante la fine degli anni venti, c’è molto fermento politico e il movimento anarchico in argentina è particolarmente attivo, ma spaccato al suo interno da una fazione più morbida, filo governativa, e l’altra che voleva passare dai fatti all’azione.

La borghesia argentina ricca, corrotta, bigotta, marcia viene messa alla luce e quindi fatta esplodere dall’azione libertaria e radicale. La lotta armata per abbattere gli stati borghesi e capitalisti realizzando cosi una vera rivoluzione. Il movimento anarchico però si divide e il dibattito è molto acceso e verte sulla opportunità dell’impiego o meno delle armi nell’azione politica. Francesco Barbieri diventerà uno dei maggiori esponenti  dell’ala militarista  che fa la scelta radicale assieme a Renzo Novatore, Buenaventura Durruti, Julies Bonnot, Severino Di Giovanni, Sante Pollastri, Miguel Arcangel Rossigna e Paco Ascaso.

Lo stesso Di Giovanni era direttore di una testata chiamata “Culmine” alla quale lavorava nei ritagli di tempo, senza sosta. Il punto di svolta nella vita di Di Giovanni si ha in seguito ad un comizio in piazza, che culmina con un attentato dinamitardo all’ambasciata degli Stati Uniti. Il governo di radicale di ….., che finora era stato molto tollerante, non solo nei confronti della libera circolazione e diffusione di idee anarchiche, ma anche di fronte ad agitazioni di piazza e a movimenti di protesta; a questo punto, prende le distanze dall’atteggiamento violento degli insurrezionalisti e comincia perseguirli severamente.

Qual’è il ricorso storico? A parte il periodo di crisi di democrazia che in questo Paese oggi si torna a vivere. Probabilmente quello di più che ci ha colpiti durante la ricerca che stiamo conducendo è che, a lottare contro il fascismo furono – tra gli altri – un calabrese e un abruzzese che seguirono l’ala militarista. Ma il governo argentino di allora, governo radicale ne prese le distanze. Un altro esempio di resistenza nonviolenta pure questo.

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il difficile cammino dei senza terra

di Giovanna Canigiula

Ieri pomeriggio, con Giuseppe Candido, siamo andati a Cropani a visitare ilresidence Ale.mia, ora contestatissimo centro di prima accoglienza. Ci ha accolti, all’ingresso, un addetto alla sicurezza al quale abbiamo lasciato i nostri documenti e che ci ha consegnato un pass. Le prime cose che ci hanno colpito sono state la bellezza e la pulizia del luogo: abituati alla vista del Sant’Anna -che tra container e filo spinato dà l’idea del carcere per disperati- i sentieri immersi nel verde, la piscina attorno alla quale sedevano chiacchierando alcuni ospiti, i piccoli appartamenti con terrazze da cui altri si affacciavano, ci sono piaciuti. Ci ha ricevuto il responsabile, Domenico, col quale abbiamo avuto modo di scambiare due chiacchiere e che ci ha invitato a ritornare quando avessimo voluto. Gli abbiamo fatto, com’è ovvio viste le polemiche, qualche domanda. Il centro, che ha una capienza massima di 250 persone, ospita attualmente circa 210 richiedenti asilo, tutti africani di aree calde come il Congo, la Costa d’Avorio, la Nigeria, il Gana, la Liberia. La convenzione è stata regolarmente stipulata col Ministero degli Interni, secondo norme previste dalla legge e sulla base, desumiamo, di un calcolo che certamente consente a un residence, inattivo durante la stagione invernale, di garantirsi delle entrate, ma che, a conti fatti, va in direzione del rispetto della persona. “Siamo abituati” dice Domenico “a catalogare secondo criteri di povertà e del minimo di sussistenza e non secondo criteri di dignità. Noi proviamo a fornire un servizio che abbia dei contenuti e speriamo, pian piano, di avviare forme di collaborazione con le autorità pubbliche”. La gestione è affidata alla Cooperativa 29 giugno. Attorno al centro, che offre opportunità di lavoro alla gente del posto, ruota il mondo del volontariato. A formare il personale scendono periodicamente, da Roma, gruppi che hanno esperienza nel settore. All’interno dell’area sono stati individuati due settori, uno per l’alloggio dei maschi e l’altro per quello delle donne. Le coppie sposate sono state separate. Per ogni ospite la convenzione prevede 35 euro, cifra interamente destinata al vitto, all’alloggio, al vestiario di primo soccorso e al presidio sanitario, che garantisce un monitoraggio costante e che smentisce, di fatto, l’allarmismo della popolazione riguardo a presunte malattie che i richiedenti asilo potrebbero avere portato con loro dai luoghi di fuga. Il volontario che ci accompagnerà a fare un giro, Ghigo, confermerà quanto detto dal responsabile: tutto ciò che è acquistato, dal calzino al maglione al pantalone, è nuovo. Chi si reca al supermercato, inoltre, spende danaro proprio, inviatogli da qualche familiare o amico e ha l’obbligo di non acquistare alcolici (compresa la birra), pena sanzioni: anche l’illazione della paghetta giornaliera di venti euro, dunque, è smentita. Ghigo ci racconta storie drammatiche di giovani costretti a lasciare il proprio paese, il lavoro, lo studio, la casa, le abitudini, i parenti, gli amici, in fuga da guerre, rappresaglie, torture, uccisioni, mutilazioni, irruzioni di miliziani nelle abitazioni. Uno dei ragazzi  porta il segno di un profondo taglio sul braccio, inferto con un machete. E non è il solo.  Fra le cose che hanno sorpreso il volontario, è il grande senso della pulizia degli ospiti: appena arrivati, nonostante gli appartamenti fossero stati puliti, hanno chiesto prodotti e stracci e si sono rimessi al lavoro. Sono loro stessi a occuparsi  dei percorsi e delle zone verdi senza che nessuno glielo chieda, tanto che io e Giuseppe, d’improvviso, ci vergogniamo dei mozziconi che stiamo lasciando in giro. Mentre chiacchieriamo incontriamo Gianluca, un amico che è al suo primo giorno di lavoro nel centro, forte dell’esperienza maturata a Catanzaro con laPromidea, cooperativa che da anni si occupa di rifugiati. Gli chiedo cosa pensa dell’allarmismo fra la popolazione che io, francamente, continuo a trovare ingiustificato:  secondo lui va capito il disorientamento della comunità, che si ritrova a fronteggiare una simile novità e, comunque, bisogna  adoperarsi  per favorire l’integrazione.

Comincia a imbrunire, arrivano i carabinieri, è la sera in cui ha inizio  il presidio delle forze di pubblica sicurezza.  Ghigo ha ancora da montare dei letti a castello, due ragazze litigano, noi decidiamo di andare via.  Superata la diffidenza iniziale, gli ospiti ci salutano cordialmente. Sono di passaggio, il futuro è incerto, i loro volti si perderanno e le loro tracce pure, mi piace che la sosta sia dignitosa. Ce ne andiamo sapendo di poter tornare, ancora una volta senza preavviso e senza che nessuno ci allontani. La sensazione, certo, è che il centro, pur se aperto, resti un luogo chiuso. Tuttavia una piccola, spartana, linda oasi per chi non ha più una casa in cui fare rientro. Il posto giusto per riprendere fiato prima di ricominciare il cammino. Mentre saliamo in macchina, mi sforzo di capire chi teme contagi, imbrogli, crolli nel settore turistico. E, però, non ci  riesco. Sono adulti, con tanto di figlioletti magari della stessa età di chi né guardano né accettano. Fra ciechi e visibilissimi invisibili, pertanto, continuo a scegliere i secondi.

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L’amore al tempo dei latini: piccolo contributo al tema

di Giovanna Canigiula

In un mondo in cui l’uomo è anzitutto un civis, l’amore fa capolino tardi nella letteratura latina. E’ la fine della Repubblica, c’è un intero sistema di valori che traballa e si avvia al tramonto, un Cicerone ormai fuori tempo si affanna a cercar soluzioni per salvare il salvabile, ma la crisi è alle porte tanto che, proprio lui, compie lo sforzo di importare la filosofia dalla Grecia, cercando parole che il pratico vocabolario latino non ha. L’uomo si interroga non solo sul tipo ideale di stato e sul suo ruolo nella società ma anche sul senso della vita. Domina, dunque, l’incerto sulla consueta gravitas romana ed è in questo contesto che si inquadra la poesia di Catullo, il poeta delle nugae, delle bagattelle, delle inezie. Il primo poeta che fa girare il suo mondo attorno a una donna, alla quale dedica un intero canzoniere.

Le epigrafi funerarie ci raccontano di donne virtuose, caste, pudiche. L’unica traccia dell’amore è nella commedia ed è amore per una meretrice, sposata in virtù del fatto che un colpo di scena finale ne rivela le origini di donna libera ed aristocratica. Catullo ha due modelli alle spalle, legati alla poesia erotica ellenistica: Callimaco, che canta l’amor leggero e Meleagro, che per amore soffre. Sceglie il secondo e, con lui, una donna con non pochi problemi: Lesbia appartiene all’alta società, è sposata, è vedova in un periodo in cui la vedovanza obbliga ad essere univira, donna sola che vive nel ricordo del marito perso. E’ un amore fuori dalle regole, dunque, in cui a dirigere il gioco è lei, ladomina, mentre l’uomo è travolto dalla passione, è vittima e si tormenta. Il compendio è in un distico, quei due versi del carme 85 che rivelano la doppia natura dell’amore e denunciano l’incapacità di comprenderne la ragione. E’ così, dice Catullo, e non posso farci niente, salvo tormentarmi: Odi et amoQuare id faciam, fortasse requiris./ Nescio, sed fieri sentio et excrucior.

L’amore è forza che sfida le convenzioni, le chiacchiere, le invidie (c. 5): “Viviamo, mia Lesbia, e amiamo,/ e le chiacchiere dei vecchi troppo seri/ stimiamole tutte un solo asse!/ Il sole può cadere e ritornare,/ ma noi, una volta che la nostra breve luce sarà caduta,/ dovremo dormire una notte eterna./ Dammi mille baci ed altri cento,/ ed altri mille e, dopo, ancora cento./ Quando saranno migliaia/ confonderemo il conto, per non sapere/ o per evitare il malocchio di un invisioso/ quando saprà che sono tanti i baci”.

L’amore è con-divisione: all’amata  muore il passerotto, compagno di giochi, e il poeta invita tutti a piangere, Veneri e Amori e uomini delicati. Così nel c. 3: Lugete, o Veneres Cupidinesque,/ et quantum est hominum venustiorum:/ passer mortuus est meae puellae,/ passer, deliciae meae puellae,/ quem plus illa oculis suis amabat. Lei l’amava più dei suoi stessi occhi e ora lui se ne va per una strada oscura (iter tenebricosum) dalla quale dicono che non si torna indietro. Unde negant redire quemquam. “Maledette, malvagie/ tenebre dell’Ade che divorate tutte/ le bellezze, ed un passero bellissimo me l’avete tolto”.

L’amore è gioia ma, come tutte le gioie, fa tremare (c. 70): “La mia donna dice che non vuol stare con nessun altro,/ neanche se la chiedesse Giove in persona./ Così dice, ma quello che dice una donna a un amante appassionato, / va scritto sul vento e sull’acqua che fugge”. Premonizione? Stereotipo? Paura? In fondo, l’univira ha rotto per lui il patto d’amore con le ceneri del marito. Potrebbe romperlo ancora.

Ma, quando si ama, si spera (c. 109): “Mi prometti, mia vita, che questo/ amore sarà felice e sarà per sempre./ Grandi dei, fate che possa promettere il vero,/ che lo dica sinceramente e di tutto cuore:/ così potremo per tutta quanta la nostra/ vita serbare questo sacro patto di affetti”.

L’amore è gelosia e la greca Saffo presta le parole. Simile a un dio pare il rivale che, seduto di fronte all’amata, la guarda e l’ascolta mentre dolcemente sorride intanto che al poeta la lingua si intorpidisce, un sottile fuoco gli scorre nelle membra, le orecchie ronzano, gli occhi si coprono di una duplice notte. E’ l’inferno del c. 51: Ille mi par esse deo videtur, / ille, si fas est, superare divos,/ qui sedens adevrsus identitem te/ spectat et audit/ dulce ridentem […] lingua sed torpet, tenuis sub artus/  flamma demanat, sonitu suopte […]

Come tutti i maschietti dalla notte dei tempi, Catullo è il classico stupidotto che, più avverte la minaccia del tradimento, più scopre incostante e infedele la donna che ama, più si lega a lei. Altro che le castae puellae! Nel c. 72 rinfaccia e si prova a far distinzioni: “Tu dicevi un tempo di conoscere solo Catullo,/ e che non mi avresti cambiato neppure con Giove./ Ti ho amata allora non come si ama un’amante,/ ma come un padre ama i figli e i generi”. Nunc te cognovi. “Ora ti ho conosciuta, e anche se ardo più forte,/ tuttavia per me vali molto meno”. Ahi, ahi, ahi. Qui potis est, inquis? Come è possibile, chiedi? Quod amantem iniuria talis/ cogit amare magis,/ sed bene velle minus. “Perché una tale offesa costringe chi ama ad amare di più,/ ma a voler bene di meno”.

E’ affranto Catullo (c. 58 a): “Celio, la mia Lesbia,/ quella Lesbia che Catullo ha amato/ più di se stesso e di tutti i suoi,/ adesso nei trivi e negli angiporti/ scappella i nipoti del magnanimo Remo”.

Inveisce (c. 60): “Forse una leonessa sui monti dell’Africa,/ o Scilla che abbaia dal fondo dell’inguine,/ ti ha generato con un cuore così duro e inumano,/ al punto che nel tuo cuore feroce disprezzi/ la voce di chi ti chiama nel momento supremo?”

Cede e siamo sempre là (c. 75): “A tal punto è arrivato il mio cuore, Lesbia, per colpa tua,/ e si è perduto nella devozione, che non mi è possibile più volerti bene,/ diventassi tu anche la migliore fra tutte le donne,/ né smetterei di amarti, anche se tu facessi di tutto”.

E’ fedele, l’amore è un patto tra due, lui non lo ha infranto. Ma è magra consolazione (c. 87): Nulla potest mulier tantum se dicere amatam/ vere, quantum a me Lesbia amata mea est./ Nulla fide sullo fuit unquam foedere tanta,/ quanta in amore tuo ex parte reperta mea est. “Nessuna donna può dire di essere stata amata tanto/ e sinceramente quanto la mia Lesbia è stata amata da me./ Nessun patto è stato osservato con tanta costanza/ quanta ce n’è stata nel nostro amore da parte mia”.

L’amore è malattia, Lucrezio mette in guardia, Catullo si dispera. Non ha mai mancato alla propria parola, sa di essere pio, non  ha ingannato nessun uomo (c. 76): “[…]Tutto/, affidato a un cuore ingrato, è andato perso. Ma tu,/ perché continui a torturarti? Perché non rafforzi/ il tuo animo e non ti stacchi e non cessi di essere/ infelice contro il volere divino? E’ difficile, /tutto d’un tratto, deporre un lungo amore;/ è difficile sì, ma devi farlo lo stesso[…]”. Se questa è la via della salvezza, gli dei lo debbono aiutare e glielo debbono perché ha vissuto una vita pura. L’amore è peste, è rovina, è un cancro che divora il corpo. Ha scacciato ogni gioia dal cuore. Il poeta non chiede più che Lesbia ricambi il suo amore o gli sia fedele, è impossibile dice, vuole solo guarire.

Quando si soffre, si chiede aiuto (c. 38): Malest, Cornifici, tuo Catullo. “Il tuo Catullo, Cornificio,  sta male;/ sta male e soffre/ ogni giorno e ogni ora di più./ E tu per consolarlo (la cosa più piccola e facile),/ quale parola hai trovato? Sono furioso/ con te: così tratti il mio amore?/ Dimmi una parola, quella che vuoi,/ più triste del pianto di Simonide”.

E arriva il divortium. Amarissimo (c. 8): Miser Catulle, desinas ineptire,/ et quod vides perisse perditum ducas./ Fulsere quondam candidi tibi soles,/ cum ventitabas quo puella ducebat/ amata nobis quantum amabitur nulla[…].

“Infelice Catullo, smetti di impazzire,/ e quello che vedi perduto, convinciti che è perduto./ Un tempo rifulsero per te splendidi soli/ quando andavi dove lei ti portava, la donna/  amata da me quanto nessuna mai sarà amata./ Là si facevano tutti quei giochi, che tu volevi/ e lei non diceva no. Veramente/ un tempo rifulsero per te splendidi soli./ Ora lei dice di no, e tu devi fare altrettanto, non devi/ anche se sei disperato, non devi inseguirla se fugge,/ vivere infelice, ma sopportare con fermezza e tener duro./ Addio, ragazza. Ormai Catullo è capace/ di tener duro, non ti cercherà, non ti pregherà se non vuoi./  ma a te dispiacerà che lui non ti cerchi./ Sciagurata, che vita ti aspetta?/ Chi ti frequenterà? A chi sembrerai bella?/ Chi amerai e di chi diranno che sei?/ Chi bacerai? A chi morderai le labbra?/ Ma tu Catullo, sii fermo, e tieni duro”.

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