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Storie di uomini e santi

di Maria Elisabetta Curtosi

Migliaia di “fedeli” tanto tempo fa accorrevano a Pannàconi, in Calabria, dove un uomo aveva scoperto una “fonte miracolosa” e affermava di parlare con la Vergine.

“ LA MADONNA MI HA DETTO: DAI, FAMMI UNA CHIESA”.

Racconta Domenico Bucci: “Ho costruito il tempio accanto a una sorgente di acqua benedetta, proprio dove voleva la Madonna quando mi apparve per la prima volta.  Sono un guaritore e un veggente”.  Per capire le malattie spiega che ha come suggeritori i Santi Cosma e Damiano: “Senza il loro aiuto non potrei fare nulla perché non conosco il corpo umano”. Mette  in contatto  i vivi con i defunti e ha anche scritto un “vangelo” perché, dice, ha “un filo diretto” col cielo.

Il “tempio dei miracoli”, sorge a un limitare di un sentiero che scende impervio,tra olivi secolari e cespugli di rovi. E’ un edificio di gusto grossolano, moderno, inadeguato ai colori sommessi di questa campagna dallo spirito persistentemente antico. Ma il suo instancabile costruttore ne parla con fierezza.” L’ho realizzato accanto a una sorgente d’acqua benedetta, proprio dove voleva la madonna” ci spiega in un dialetto difficile da comprendere.” E’ stata lei stessa, quando mi è apparsa per la prima volta, suggerire le indicazioni necessarie. Al resto ho pensato io. Lavorando da solo e tra mille ostacoli”. L’uomo a questo punto s’interrompe bruscamente per indicare i preliminari cui dobbiamo sottoporci prima di dialogare con lui. Si tratta di un semplice rituale, obbligatorio per chiunque si accosti a questo luogo “sacro”: una breve sosta di preghiera in chiesa, la bevuta purificatrice presso la fonte, infine l’incontro con lui. Domenico Antonio Bucci, inviato del Signore. Se sia un veggente, un guaritore o più semplicemente un impostore è difficile stabilirlo, perché si tratta di un “fenomeno” troppo recente. Ma è un fatto indiscutibile oramai,che la fama di quest’uomo sta dilagando nelle città e campagne della Calabria e sta già rimbalzando oltre i confini della regione. I suoi” fedeli” non si contano più. Vengono da ogni parte per sottoporgli quesiti di ordine medico e problemi di carattere personale, per cercare conferme e conforto.

E lui risponde a tutti, senza stancarsi di ripetere che ogni parola gli viene suggerita dall’alto, dalla Madonna e dai santi con cui entra di volta in volta in contatto. Anche la nostra visita gli era stata preannunciata, dice. Cosi, mentre ci apprestiamo a dialogare con lui,riusciamo a studiare da vicino questo personaggio carismatico. Una figura comune, nell’aspetto, a tante altre dell’universo contadino della Calabria. Un uomo piccolo, asciutto, vestito in modo dimesso e con il volto segnato dall’età e dalla sofferenza. Pure la storia della sua vita non sembra discostarsi dalle vicissitudini di tanti altri che da questa regione sono stati costretti a emigrare per sfuggire agli stenti. E lui stesso a raccontarla. “Ho sessantasette anni, sono di origine molisana ma ho trascorso la mia infanzia qui, a Pannàconi. La miseria mi ha spinto, quando già ero sposato e con un figlio, a tentare la fortuna in Brasile. Sono partito solo e senza soldi. Anche laggiù ho dovuto penare per essere assunto come operaio. Il lavoro era massacrante e cosi,quando la mia salute è andata peggiorando, sono stato licenziato. Nel frattempo, qualche mese dopo il mio arrivo, anche mia moglie si è ammalata gravemente. Ho passato dei mesi interminabili ad accudirla in ospedale e a piangere sulla nostra situazione. Un giorno poi ero particolarmente depresso e mi sono trovato a sfogliare la Bibbia e a cercare di leggerla, tra mille difficoltà. Improvvisamente una luce accecante ha inondato la stanza. L’episodio si è ripetuto per tre giorni consecutivi e qualcosa che non so definire mi ha portato a credere che si trattasse di una manifestazione dello Spirito Santo. Da quel momento ho cominciato a dedicarmi al prossimo”.

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Ciao Vittorio (De Seta)

di Francesco Santopolo

Caro Vittorio, ho iniziato questa lettera il giorno stesso dei tuoi funerali, senza riuscire a concluderla.

Avevo bisogno di uscire dallo smarrimento in cui mi scaraventava un evento difficile da accettare, sebbene ne avessi colto i segni già qualche mese prima, quando venni a trovarti all’ospedale di Soverato.

Il fatto che tu- come facevi sempre- non avessi aperto il quotidiano che ti avevo portato e per due volte hai voluto che fossi io a rispondere al tuo cellulare mi avevano dato il senso di un distacco da te stesso.

Negli ultimi giorni non riuscivo a parlarti perché eri assopito in un silenzio terribile che cominciava a darmi la misura che ti stavamo perdendo e, con te, un mondo di valori con i quali siamo cresciuti.

L’emozione e il senso di privazione mi hanno bloccato e solo ora riprendo un progetto interrotto, per cercare di decifrare l’intensità del nostro rapporto, misurare la tua assenza e tentare, almeno questa volta, di dialogare con te senza dover vincere il pudore dei sentimenti e senza sentirmi fissato dai tuoi occhi che, sebbene stanchi, avevano conservato quella straordinaria capacità di vedere oltre le apparenze e indagare sulla ricchezza umana dei dimenticati e sulla terribile miseria della piccola e grande borghesia consumista.

In questo anno ho rivisto più volte i tuoi film e ho riletto quello che hai scritto o che altri hanno scritto su di te ma, per queste note, preferisco affidarmi molto alla memoria e spero di riuscire a ricordare tutti i tuoi insegnamenti e il significato di un rapporto che non era facile, per alcune sostanziali analogie biografiche e caratteriali.

L’essere entrambi riservati ha reso, qualche volta, difficile il nostro percorso comune.

Avevi preso l’abitudine di rimproverarmi, anche quando credevo di anticipare i tuoi bisogni, e questo mi portava ad impennate di orgoglio. Purtroppo, come tutte le donne e gli uomini feriti, sono permaloso e la ferita che mi provocava la tua disapprovazione mi portava ad isolarmi.

Poi Vera mi disse che questo era il tuo modo di dimostrare stima e affetto e allora ho capito che per te ero il “figlio” docile che si può educare e a cui si può fare acquisire lo sguardo giusto per osservare il mondo.

Conoscerti e frequentarti è stata un’esperienza esaltante e irripetibile che mi porterò dentro e cercherò di trasmettere agli altri quando avrò modo di parlare di te, cosa che mi succede spesso.

La frequentazione quotidiana mi ha consentito di svelare a me stesso il tuo segreto: sei stato un grande uomo di cinema perché sei stato un grande uomo, capace di vivere la propria vicenda umana e la propria esperienza intellettuale con testarda coerenza, consapevole che gli altri possono rispettarci solo se noi diamo prova di avere rispetto di noi stessi e delle nostre idee.

Pochi sono gli intellettuali che hanno vissuto con altrettanta caparbia coerenza.

Mi vengono in mente François Villon, Arthur Rimbaud, Dino Campana, Pier Paolo Pasolini.

Quattro grandi poeti vissuti in tempi diversi ma divorati dalla consapevolezza che il poeta ha, dentro di sé, la luce e deve irradiarla anche quando le tenebre sono più fitte e quando il mondo pensa che le loro rivelazioni costituiscono un pericolo.

François Villon e Pier Paolo Pasolini hanno pagato con una morte violenta, Arthur Rimbaud con l’isolamento, Dino Campana con l’internamento a Castel Pulci.

Tu hai scelto di rifugiarti in una disperata solitudine, fino a diventare un eroe solitario, espressione che Cesare Zavattini ha usato per marcare quella “eccezione” che ha fatto di te il più geniale e onesto uomo di cinema e per questo “separato” da un mondo che si alimenta di finzione, nell’illusione che apparire conti più che essere.

Tu hai voluto essere, fino in fondo, nell’accezione con cui Erich Fromm connotava la sostantivazione di un verbo.

Ci siamo conosciuti tardi ma abbiamo scoperto che i nostri percorsi erano stati guidati da valori comuni e le tue parole mi hanno insegnato a guardare il mondo con occhi diversi.

Ma la nostra storia, come ebbi modo di dirti più volte, partiva da lontano.

Nel 1964 nasceva a Catanzaro la prima esperienza di Cinema d’Essai, riprendendo un’esperienza a fruizione limitata iniziata qualche anno prima da Gianni Amelio, Mimmo Rafele e Rino Zumpano, nell’oratorio di quello straordinario personaggio che fu Don Giorgio Bonapace.

I “Martedì del Supercinema” presero l’avvio con due autori italiani emergenti: Ermanno Olmi e Vittorio De Seta.

Col senno di poi, devo dire che solo una grande sensibilità e una indiscutibile competenza potevano determinare una scelta importante anche per gli altri ragazzi del circolo “Gobetti” che avevano con il cinema un rapporto diverso, rispetto a quel ragazzino che sarebbe, poi, diventato Gianni Amelio.

Gianni Amelio aveva realizzato l’obiettivo di avvicinare i più intonsi compagni di cordata alla narrazione filmica, semplicemente usando il messaggio di due grandi autori.

“Banditi a Orgosolo” ebbe su alcuni di noi un impatto decisivo nel farci scoprire che non c’era solo il cinema di evasione ma che un autore, tra l’altro di origine aristocratica, aveva deciso di fornirci gli strumenti per guardare il mondo dei vinti.

Da allora, con pochi altri, sei diventato uno dei miei punti di riferimento.

“Banditi a Orgosolo”, film bellissimo e terribile, ci ricordava, oltre l’enfasi di un fittizio boom economico, che esistevano gli esclusi e i “dimenticati”.

Pasolini aveva già raccontato l’impatto del “miracolo economico” nelle borgate romane, quel mondo di esclusi che farà da sfondo a quel capolavoro assoluto che è “Diario di un Maestro”.

Franz Fanon aveva svelato il vero volto del colonialismo e tu hai ripreso quel tema con “Lettere dal Sahara” e “Hong Kong”, ogni volta fornendoli di una sguardo diverso, più ricco, più penetrante.

E non perché il tuo mezzo espressivo fosse il cinema (non ne hai mai fatto un uso strumentale) ma perché nel tuo modo di guardare il mondo si fondevano l’antropologo, lo storico, il poeta.

Il cinema era il tuo mezzo espressivo, non meno eversivo e devastante di quello che Pasolini andava facendo con le sue rubriche su rotocalchi a grande diffusione.

Avete, ognuno a suo modo, demolito un mondo vecchio e decrepito ma avete anche evidenziato gli orrori antropologici del sistema di valori che lo andava sostituendo.

“Diario di un maestro” non è stato solo un film staordinario ma anche la denuncia dell’esistenza di una scuola che esclude, seleziona, cancella identità.

Don Milani e la Scuola di Barbiana non erano lontani e Bruno Cirino è riuscito a calarsi nella parte ed essere fedele interprete del tuo pensiero.

Il maestro D’Angelo non era “finto”, come qualche insegnante ipocrita ebbe modo di dire, era, piuttosto, un profeta disarmato ma convinto che la scuola per occuparsi di tutti, deve impegnarsi su quelli che, per condizione sociale, ne sarebbero esclusi.

Anche alle critiche al “Diario” hai risposto come solo Vittorio De Seta avrebbe potuto fare e sono nati i quattro episodi di “Quando la scuola cambia”.

È stato una forma di cinema verità in cui ti sei limitato a riprendere e raccontare didattiche diverse: “La piccola troupe cinematografica- entrata nella scuola senza una programmazione precisa- ha colto ciò che si stava facendo in quel momento” (De Seta, 2009).

Sei entrato nella scuola di Mario Lodi e di Caterina Foschi Pini, per filmare forme didattiche alternative ma il messaggio più forte è venuto da due scuole del sud: l’esclusione nell’esclusione.

In un paese albanese, San Marzano di S. Giuseppe, hai raccontato il lavoro del maestro Carmine De Padova intento a “recuperare” la lingua e la cultura “arbresh” in via di estinzione; a Cutrofiano il percorso difficile e accidentato dei diversamente abili e delle persone, genitori e insegnanti, che se ne occupano.

Pochi di noi conoscevano la tua cinematografia di esordio, precedente a “Banditi a Orgosolo”.

Mi riferisco a quelli che qualcuno ha definito documentari (Farinelli, 2009), e che, in realtà, sono pagine di storia dell’uomo che nessun antropologo e nessuno storico avrebbe saputo rendere con altrettanta efficacia.

I documentari occupano uno spazio temporale che va dal 1955 al 1959 e faranno dire a Martin Scorsese (2009): “Avevo sentito parlare dei documentari come accade per i luoghi leggendari[…] De Seta stesso era una figura leggendaria e misteriosa” .

Leggendario l’autore, leggendari i risultati.

Martin Scorsese, che ha visto i tuoi documentari quarant’anni dopo aver visto “Banditi a Orgosolo”, non poteva non essere sopraffatto dall’inquietudine che coglie chi si rende conto “che quella era l’ultima volta che la vitalità di una cultura incontaminata veniva filmata” (Scorsese, l. c.).

La tecnica di estrazione dello zolfo fu modificata radicalmente e i bambini cessarono di entrare nelle viscere della terra e finì il tempo della “Surfarara”, ma si chiuse anche un capitolo della storia dell’uomo durato millenni e con esso tutto un reticolo di relazioni con la natura e con la fatica.

Il primo documentario è stato “Pasqua in Sicilia”, una pagina importante, con riprese fatte in luoghi diversi: la processione a S. Fratello, la Passione a Delia, la Resurrezione ad Aidone.

Hai ripreso lo stesso tema un anno dopo, arricchendolo di contenuti e immagini straordinari.

Del ’54 sono anche “Lu tempu di li pisci spata” e “Isole di fuoco”.

Verranno ancora “Contadini del mare”, “Parabola d’oro”, “Pescherecci”, “Pastori a Orgosolo”, “Un giorno in Barbagia”, per chiudere questa tua prima esperienza con un capolavoro assoluto che è “I dimenticati”.

In un mondo e in una cultura che cominciavano ad alimentarsi di consumismo- primo retaggio del boom conomico- Alessandria del Carretto ci sembra un paradiso perduto, girato nella “nostra terra”, in un posto lontano dal rampante consumismo che andava esprimendo la propria capacità di contaminazione.

Poi è venuto “Un uomo a metà”, film straordinario che solo Pasolini, Moravia e Mino Argentieri hanno capito e apprezzato fino in fondo.

Avevi ragione a lamentare la latitanza della critica su un film che “regge” bene il tempo, a differenza di altri osannati dalla critica ma che oggi non si lasciano guardare più.

Più volte abbiamo avuto modo di parlarne e ogni volta coglievo la tua dolorosa sorpresa per l’indifferenza/malevolenza dei critici.

Ho rivisto il film in questi giorni è ho pensato che solo il tuo coraggio e la tua determinazione potevano indurti a raccontarti in un film, senza omettere la tua solitudine e le tue angosce.

Solo che lo hai fatto troppo presto.

Negli anni ’60 anche gli artisti più raffinati si presentavano vincenti.

Come potevano capire la “confessione” di un uomo che si dichiara perdente e affida alla psicoanalisi un processo introspettivo devastante?

Pasolini (1999) riassume in due punti le critiche mosse al tuo film.

Alcuni avevano scritto che il film “si distingue per un contenuto povero e poco interessante malgrado le immagini molto belle o «Malgrado il calligrafismo delle immagini»” e altri avevano aggiunto che il “il film di De Seta tratta di un problema vecchio, noioso e ripetuto, cioè un caso di nevrosi” (Pasolini, l. c.).

Letture superficiali ma anche sbagliate perché il tuo cinema non è mai stato calligrafico, a dispetto delle immagini che da sole possono reggere una storia.

“Un uomo a metà” è, prima di tutto, un film “didattico” e la lettura filmica della lezione junghiana, rivisitata atttraverso Bernhardt, è un segno di maturità che dimostra- se mai ce ne fosse bisogno- la tua straordinaria capacità di trasformare le tue “letture” (Salvemini, Dorso, Giustino Fortunato, Gramsci, Tolstoj, i Vangeli) e arricchirle, come solo a te riusciva di fare.

Pasolini aveva scritto che “il personaggio centrale (Michele, n. d. r.) è una tra le figure più belle che si siano viste in questi ultimi tempi sugli schermi” (Pasolini, l. c.).

Perché Pasolini si è espresso in questo modo?

Perché in un cinema che, pur presentando molti “caratteri” umani, ostenta un protagonista “sempre purissimo, [che] non concede mai nulla alla volgarizzazione di sé stesso” (Pasolini, l. c.) tu hai avuto la capacità di raccontarti con un personaggio vero ed è questa l’eresia che non ti è stata perdonata.

C’è un’altra osservazione di Pasolini che mi sento di sottoscrivere integralmente.

“Un uomo a metà” è un fim di poesia nel senso tanto dei “tempi” quanto della bellezza delle immagini.

Nel 1969 ti affidarono la regia e la sceneggiatura de “L’invitata”, tratto da un soggetto di Tonino Guerra e Lucile Laks.

Non era un “tuo” film ma solo un tentativo dell’industria delle immagini di “normalizzare” un eretico.

La tua straordinaria capacità di narrazione filmica non era sfuggita e mettendoti accanto quel mostro di Michel Piccoli e Tonino Guerra, grande poeta e sceneggiatore di Fellini, pensavano di recuperarti all’industria del business.

Hai dribblato con eleganza e sei riuscito a restare te stesso anche lavorando su un soggetto non tuo e, probabilmente, l’industria del cinema capì definitivamente che non si può rendere normale un poeta.

Sei tornato ai tuoi temi, con l’èpos di in “Un carnevale a Venezia”, la festa in cui “la gente scrolla di dosso il peso, l’angoscia della vita quotidiana, cambiando identità, proiettando all’esterno, col travestimento…la parte più misteriosa e inquietante di sé” (De Seta, 2009).

Una grande antropologa, morta tragicamente, aveva scritto che “Il carnevale ha, ancora oggi, con le sue feste e i suoi riti…una funzione oppositoria e liberatoria sia a livello collettivo che individuale” (Rossi, 1977) e ne rintracciava i segni nell’aspetto festivo, inteso come “un periodo rituale, circoscritto nel tempo, durante il quale si forma una comunità metastorica a carattere provvisorio” (Rossi, l. c.) ma anche in un “Aspetto di ribellione alla condizione sociale del gruppo” e in quello “rituale, arcaico, legato nel passato a rituali agricoli di propiziazione del raccolto e di eliminazione del male” (Rossi, l. c.).

Chissà se avevi letto le ricerche antropologiche di Annabella Rossi.

Forse no, ma conoscevi tanto bene Ernesto De Martino e avevi la sensibilità giusta per trovare da solo la strada e raccontare la storia dei poveri che, per un giorno, diventano protagonisti, semplicemente travestendosi da protagonisti.

Verranno ancora un omaggio alla tua terra e il ritorno ai temi dell’emigrazione che avevi già “visitato” nel 1980 con “Hong Kong, città di profughi”.

“In Calabria” segna il tuo commosso omaggio alla terra che avevi adottato, “Lettere dal Sahara” una delle denunce più forti al problema dell’immigrazione che il nostro paese non è ancora attrezzato a gestire.

E quando ho visto Madawass Kebe in chiesa, il giorno del tuo funerale, tutti gli altri sono spariti e sei rimasto solo tu e quel mondo staordinario che hai saputo raccontarci.

Rivedo i tuoi film e mi viene in mente uno dei tanti miti fioriti attorno alla cometa di Halley che passa a una tale distanza dall’orbita della Terra da impedire a nuovi meteoroidi di raggiungerne l’atmosfera.

Le meteore che vediamo non sono altro che le polveri che si sono staccate dalla cometa di Halley negli ultimi 2 millenni.

Il mito cui mi riferisco dice che ad ogni passaggio della cometa, le polveri che si diffondono fanno nascere sulla terra uomini straordinari o poeti, che è, poi, la stessa cosa.

Nel 12 a. C., quella che sarà ricordata come Stella di Betlemme, annuncia la nascita di Cristo.

La cometa passerà ancora nel 1222 e nascerà Dante Alighieri (1265), nel 1301 e nascerà Francesco Petrarca (1304).

Nel 1431 sarà François Villon ad annunciare il passaggio della cometa che passerà ancora nel 1768 e nascerà Ugo Fosolo (1778), nel 1835 e nasceranno Arthur Rimbaud (1854), Gabriele D’Annunzio (1863), Dino Campana (1885), Boris Pasternàk (1890),Vladimir Majakocskj (1893), Sergèj Esenin (1895), Salvatore Quasimodo (1901).

È passata nel 1910 e ci ha regalato Pier Paolo Pasolini (1922) e Vittorio De Seta (1923).

Col prossimo passaggio, atteso per il 2061, la cometa potrebbe decidere che il Terzo Millennio non merita più un poeta, visto che gli uomini non sono più atrezzati a riconoscerlo.

Forse sei stato l’ultimo poeta che ci è stato regalato ma voglio pensare che la tua generosità abbia lasciato le tracce per una contaminazione di cui abbiamo bisogno.

Bibliografia

De Seta, V. (2009), Un carnevale per Venezia, in La fatica delle mani a cura di Mario Capello, Milano, Feltrinelli.

De Seta, V. (2009) Quando la scuola canbia, in La fatica delle mani a cura di

Mario Capello, Milano, Feltrinelli.

Farinelli, G. L., (2009), Un lungo viaggio verso il mondo perduto, in La fatica delle mani a cura di

Mario Capello, Milano, Feltrinelli.

Fofi, G.-Volpi, G. (1999), Vittorio De Seta. Il mondo perduto, Torino, Lindau.

Fromm, E. (1978), Avere o Essere, Milano, Mondadori.

Pasolini, P., P. (1999), Un uomo a metà, sta in Goffredo Fofi e Gianni Volpi (a cura di), Vittorio De seta, il mondo perduto.

Rossi, A.- De Simone, R. (1977), Carnevale si chiamava Vincenzo, Roma, De Luca Editore

Scorsese, M. (2009), Martin Scorsese su Banditi a Orgosolo, in La fatica delle mani a cura di Mario Capello, Milano, Feltrinelli.

Zavattini, C. (2002), Diario cinematografico, Milano. Bompiani.

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Il terzo settore merita rispetto

Riceviamo e pubblichiamo la seguente “Nota stampa del Forum Terzo Settore Calabria”

Cosenza – La crisi economica sta mettendo a dura prova il nostro sistema di welfare e rischia di riportare la situazione indietro di decenni, cancellando di fatto le conquiste di civiltà che l’Italia ha così faticosamente raggiunto. Le ultime stime ci parlano di una situazione che va via via aggravandosi: alla contrazione delle risorse destinate alle politiche sociali e di assistenza a livello centrale corrisponde un pesante ridimensionamento dell’offerta di servizi a livello locale e comunale, proprio ora che le richieste di aiuto e di sostegno da parte delle famiglie conoscono un aumento consistente. Si tratta di un corto circuito evidente che pesa nella vita concreta di migliaia di persone, rendendo la quotidianità ancora più pesante e difficile.

In Calabria la situazione è più preoccupante che altrove. Oltre alle ricadute dei tagli imposti a livello centrale, che incidono sui livelli di povertà e sulle dotazioni di servizi alle persone, in Calabria si sommano le carenze di un welfare mai strutturato rispetto alla vecchia e nuova legislazione in materia.

Il capitolo di bilancio delle politiche sociali quest’anno prevede una cifra inferiore ai 15 milioni, cioè meno del bilancio previsionale dello scorso anno e ben al di sotto del fabbisogno che ammonterebbe a circa 25 milioni di euro. Ancora più grave è la questione quota sociale per i servizi socio sanitari, ferma a 15 milioni contro un fabbisogno pari a 35 mil. Sono stati recuperati per gli anni 2011-2012 5 mil per il socio sanitario che non coprono neanche un 1/5 del debito. Per le non autosufficienze il capitolo è a zero (come l’anno passato). Sono stati previsti 450.000 euro per la nuova legge sul volontariato che, se non si prevederanno criteri seri, costituirà l’ennesimo spreco di risorse.

 

L’impegno del Terzo Settore alla vigilia della programmazione dei fondi regionali per gli interventi del prossimo anno è quello di denunciare con forza la situazione di grande difficoltà nella quale l’intero comparto ormai si trova. Proprio per questo nella giornata di oggi il Forum ha inviato alla Commissione bilancio e programmazione della Regione Calabria un documento critico di riflessione e proposta. Per illustrare le ragioni del Terzo Settore il Forum calabrese indirà a breve una conferenza stampa da tenersi a Lamezia Terme.

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Dal paiolo al labirinto: storia e storie

di Francesco Santopolo

Premessa

La scelta di presentare contemporaneamnte quattro libri apparentemente diversi, nasce dall’esigenza di spiegare le ragioni della scrittura e trovare il filo rosso che tiene insieme un raccolta di versi, due “diari” a percorso differente e una vicenda in cui la biografia di una protagonista, diventata un’icona delle lotte democratiche del dopoguerra, è assunta a simbolo della storia dei subalterni in Calabria.

C’è, altrettanto importante, una seconda motivazione che giustifica questa scelta: questi libri meritano di essere letti ma riteniamo che non abbiano avuto e potrebbero non avere sufficiente diffusione.

Poetica e anti- poetica

Se partiamo dall’idea- cara a formalisti e strutturalisti- che «oggetto della poetica non è il testo letterario in se stesso, bensì […] la sua “letterarietà”» (Chatman, 2010), significa che prima della “qualità” di un’opera è necessario definire e collocare l’opera stessa.

Quando Jakobson scrive del Macbeth che il problema non è quello di stabilire se è un capolavoro ma piuttosto quali sono gli elementi che ci portano a definirlo una tragedia (in Chatman, l. c.), apre un problema non da poco per l’analisi poetica.

Ed è il problema che ci troviamo davanti con il libro di versi di Rosanna Talarico (Labirinti ed io dispersa), per tentare, prima di ogni giudizio critico, di cogliere gli elementi che ci consentono di definirlo un libro di poesia. L’autrice è nata a Cerva, nell’alta montagna interna della Presila catanzarese e da qui si è mossa verso spazi ambiziosi e, in qualche modo, laceranti.

Dopo essersi laureata alla “Bocconi” è andata a vivere a Parigi.

Due mondi lontani dalle sue radici e in cui la “matematica certezza” del dubbio si trasforma nella solitudine di un “lacerante immenso”.

L’autrice vive una condizione in qualche modo estraniante e, sebbene eviti di parlare in modo esplicito dei boschi e delle montagne, che pure ha nel cuore, risolve la propria esistenza in “Parentesi/graffe/dubbi” e solo la sera può abbandonarsi alla “vista sul mondo illuminato/dalla cima della montagna”.

Oppure può osservare che “i fiori crescono/inerpicandosi/sulle pareti del mondo”, quel mondo cui più non appartiene, ormai calata “nel rumore/di soffocante caos” fatto di “Volti, cemento, frenesia” che le fanno pensare con nostalgia a “strade/tra verdi montagne” e a “gente di poche ambizioni/ semplicità e silenzio”.

In altre parole, le sue strade e la sua gente. La poesia, in fondo, è uno dei tanti modi per guardare il mondo, con gli occhi di chi emerge dal “porto sepolto” e vede che “per le strade/della città deserta” appaiono “non più ombre di vita/ma fantasmi”.

Ci troviamo davanti a versi maturi, pervasi da una originale carica emotiva, pure in presenza di un ermetismo espressivo dominato dalla sapienza immaginifica di cui l’autrice fa uso nella scelta della parola.

Raccontare la vita, narrare la storia

Su tutt’altro piano si pongono i libri di Anna Manna (Il paiolo pieno di patate), Francesca Rizzari Gregorace (Pagine dell’Ottocento catanzarese) e Lina Furfaro (Giuditta Levato. La contadina di Calabricata), la cui lettura necessita di una premessa.

Se la narrativa è una struttura con un piano del contenuto e un piano dell’espressione, definiti, rispettivamente, storia e discorso (Chatman, l.c.), emergono alcune dicotomie.

La prima è rappresentata dal rappporto tra enunciati di processo ed enunciati di stasi, cioè tra il mondo dell’essere (esistenza) e il mondo del fare (azione). (Chatman, l. c.).

La seconda dicotomia è legata alla “rappresentazione” narrativa che può essere diretta o mediata.

Muovendosi all’interno di questi schemi, l’autore «scrivendo crea non soltanto un ideale, impersonale “uomo in generale” ma una implicita versione di “sé stesso”» o il proprio alter ego, per cui «il suo lettore si costruirà inevitabilmente l’immagine dello scrivente ufficiale, che è l’autore impicito, cioè l’autore «ricostruito dal lettore per mezzo della narrazione» (Chatman, l.c.).

Di un libro, quindi, si può scrivere in termini formalmente “tecnici” ma ci sono operazioni narratologiche che nascono da un viaggio dentro sé stessi e finiscono col coinvolgere e contaminare il lettore.

Nel caso di Francesca Rizzari Gergorace diciamo subito che ha scritto un libro che mancava e nel suo bisogno di recuperare “i ricordi della nonna”, offre, attraverso una testimone privilegiata, una ricostruzione attenta della Catanzaro ottocentesca e apre spiragli importanti per capire una città improbabile.

Nonna Giuditta era figlia di Michele Maria Manfredi, ingegnere di altissimo profilo, cui si devono la stesura del primo Piano Regolatore di Catanzaro e opere di sistemazione urbanistica e di difesa idrogeologica d’avanguardia, in una regione devastata da calamità naturali e terremoti.

Tra il 1637 e il 1689, la Calabria era stata devastata da alluvioni con cadenza ventennale (ad eccezione di quelle del 1683 e del 1689), gelate ad intervalli di 4-6 anni tra il 1600 e il 1683 e, infine, tra il 1609 e il 1635 terremoti ogni 3-5 anni fino alla scossa terribile del 1693 che produsse 12 mila morti nell’area dell’attuale Lamezia Terme.

Circa un secolo dopo, il 5 febbraio 1783, una violenta scossa di terremoto, seguita da altre nello stesso mese e in quelli successivi, sconvolge l’assetto oroidrografico della Calabria e consegna alla distruzione interi paesi e comunità, con 30.000 morti pari al 7,5% della popolazione.

Andando indietro di una generazione, il nonno di Giuditta, l’avvocato Giuseppe Maria, definito “decoro del Foro catanzarese”, era nato a Cantalupo (CB) il 9 novembre 1788.

A otto anni si trasferisce con la famiglia in una Napoli appena uscita dalla tragica esperienza della Repubblica Partenopea e in cui si preparano gli eventi del ’48 e gli uomini che ne saranno protagonisti.

Per chi manifesta nostalgia della Napoli borbonica, è il caso di ricordare che i moti del ’48 si concluderanno con la condanna a morte di Filippo Agresti, Michele Aletta, il barone Gennaro Bellelli, il barone Francesco Antonio Mazziotti, Casimiro De Lieto, Salvatore Faucitano, Luigi De Matera, Stanislao Lupinacci, Benedetto Musolino, Giuseppe Ricciardi, Filadelfo Sodano, Antonio Lopresti (Petrusewicz, 1998).

Ad altri come Silvio Spaventa, Saverio Barbarisi, Salvatore Gigliarano e Michele Calafiore, viene comminato l’ergastolo (Petrusewicz, l. c.).

Poi ci furono i condannati a pene tra i 18 e i 30 anni e molti, come Guglielmo Pepe, Santorre di Santarosa, il poeta Gabriele Rossetti, Francesco De Sanctis, Giuseppe Poerio, Terenzio Mamiani, Nicolò Tommaseo, Vincenzo Gioberti, Carlo Pepoli, Pietro Giannone, Giuseppe Sirtori, Michele Amari, Pier Silvestro Leopardi, Giuseppe Ricciardi, Piero Emilio Imbriani, Giuseppe Massari, finirono in esilio (cfr., M. Petrusewicz, l. c.).

In questo clima è del tutto naturale che il giovane Manfredi venga contaminato dalle prime esperienze politiche e culturali, mediate dalla conoscenza di Basilio Puoti (maestro di Francesco De Sanctis) e la frequentazione assidua di Pietro Colletta.

Divenuto giacobino, nel 1812 entra nel battaglione dei Véliti nella grande armata della Campagna di Russia.

Ebbe modo di distinguersi nella vittoria di Lutezet (Sassonia, maggio 1813) e guadagnò il grado di sergente, prima di tornare in Calabria con Florestano e Guglielmo Pepe (Sinopoli et al., 2004)

Da avvocato penalista difese i tre fratelli Marincola nel processo farsa del 20-24 marzo 1823 che vide la condanna a morte di Francesco Monaco (ghigliottinato), Giacinto De Jesse e Luigi Pascali (afforcati), la condanna “ai ferri” per 11 imputati e l’assoluzione di 3 imputati, i fratelli Cesare, Odoardo e Giovanni Marincola.

I fatti addebitati risalivano ai moti rivoluzionari del 1821 e nel corso del processo furono ascoltati 36 testimoni a carico sui 98 citati e nessun testimone a discarico. Gli estensori di quella sentenza infame furono, poi, processati e condannati nel 1825 (Sinopoli et al, l. c.).

Probabilmente al lettore risulterà difficile ricostruire l’autore implicito di Pagine dell’Ottocento catanzarese, perché con sapienza e umiltà Francesca Rizzari Gregorace riesce a celarsi dietro i ricordi della nonna, alla cui voce offre una narrativa fluida, curata nei toni e, solo apparentemente, neutra.

Affatto diverse sono le operazioni narratologiche di Anna Manna (Il paiolo pieno di patate) e di Lina Furfaro (Giuditta Levato. La contadina di Calabricata) che si muovono nell’ambito della letteratura diaristica, diretta nel caso della Manna, mediata nel caso della Furfaro.

Trovandoci al cospetto di narrativa diaristica, l’errore da evitare è quello di considerarlo un racconto privato e non, invece, come l’amarcord della vita di ognuno di noi per quel poco o molto che ci accomuna al narratore.

Per spiegarmi meglio farò riferimento ad alcune operazioni narrative diaristiche “indirette” citandone soltanto tre.

Autobiografia della leggera (1966) in cui Danilo Montaldi da voce a cinque personaggi della leggera, quel mondo di emarginati, dai cento mestieri e dall’esistenza precaria.

Il mondo dei vinti (1977) in cui Nuto Revelli ha raccolto ottantacinque racconti di vita contadina e L’anello forte (1985) in cui, sempre Nuto Revelli, da voce alla figura più marginale della nostra società: la donna contadina emarginata dalla propria condizione suibalterna e da una storia scritta al maschile. Questo richiama subito alla mente la figura della nonna di Anna Manna, rievocata con l’enfasi di una nipote che ha ricostruito lo spirito di tempi tragici, quando anche una donna appartenente alla classe agiata, si trova ad attraversare la storia, ed è costretta a prendere decisioni importanti, mostrando di che pasta sono fatte le donne che hanno radici nelle campagne.

Il romanzo di Lina Furfaro assume valenza emblematica nelle rievocazione di una figura come Giuditta Levato e si carica di valori epici nella ricostruzione del modello economico e del sistema di valori di cui erano espressione i subalterni nella Calabria tradizionale.

Sono passati sessantasei anni dalla morte di Giuditta Levato, questa contadina carismatica che guiderà i braccianti “senza terra” nelle occupazioni di terre incolte e malcoltivate.

Per ricostruire il clima in cui sono maturate le vicende che porteranno alla morte di Giuditta Levato va ricordato che a fine ‘700, nel Regno di Napoli, 113 famiglie possedevano il 61% della terra e 64 enti ecclesiastici ne possiedono il 37% (Woolf, 1973).

In pratica, il 98% della terra era in possesso dei nobili e della manomorta: 15 famiglie possedevano i ¾ delle terre feudali e la sola famiglia Pignatelli possedeva 72 feudi ma le le imposte sui terreni rappresentavano poco meno di 1/5 del carico tributario, mentre tassazioni indirette, gabelle, imposte di consumo e dazi doganali, raggiungevano livelli così alti che chi lavorava la terra pagava in tasse più di chi la possedeva (Woolf, 1973).

Dopo la liquidazione dell’Asse Ecclesiastico e le leggi eversive della feudalità, in Calabria almeno dieci famiglie avevano accumulato proprietà superiori ai ventimila ettari, senza considerare le terre possedute in altre aree (Berlingeri in Basilicata, Barracco in Rhodesia e Brasile).

Il latifondo era dominato dalla rotazione sessennale: maggese, grano, ringrano e tre anni di riposo pascolativo e l’anno di ringrano (quello meno produttivo) veniva dato a terraggeria.

Alla fine della seconda guerra mondiale, si ripresentava quella “fame di terra” che era stata la rivendicazione principale dei giacobini napoletani.

Il movimento contadino, partito nel 1943 con l’occupazione del fondo “Lochicello” di Andali, si concluderà con l’eccidio di Melissa, sarà uno dei momenti alti delle lotte democratiche del dopoguerra e, proprio per questo, contrassegnato da episodi di inaudita: violenza: Portella delle Ginestre, Montescaglioso, Calabricata, Melissa.

Ma se a Portella della Ginestra era stata la mafia a sparare- sia pure per conto degli agrari e con la protezione degli apparati istituzionali- a Melissa è la polizia dello Stato ad usare le armi contro bracianti inermi per difendere il “diritto” di chi aveva usurpato il fondo “Fragalà”, demanio di uso civico.

Per un paradosso della storia, Angelina Mauro, Francesco Nigro e Giovanni Zito, legittimi proprietari in qualità di “cittadini lavoratori manuali della terra”, furono uccisi per sancire il diritto degli usurpatori.

Diverso il destino di Giuditta Levato che muore per mano di Vincenzo Napoli, in circostanze che non furono chiarite durante il processo.

Napoli fu assolto per insufficienza di prove e i giudici espressero “dubbio se fu lui a sparare, dubbio se sparò volontariamente, dubbio se sparò per legittima difesa” (dalla sentenza del 3 agosto 1948. In Furfaro, l. c.)).

È veramente impagabile- se non celasse risvolti drammatici- l’ipotesi della legittima difesa che potrebbe indurci a credere che gli sputi o le minacce possano rendere legittimo l’uso delle armi.

Passando alla narrazione autobiografiche in prima persona che si muovono negli enunciati di processo, vorremmo citare alcuni esempi.

Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, per esempio, sono solo un racconto “privato” che, per quanto intrigante, sarebbe stato consegnato inevitabilmente all’oblio? O rappresentano la ricostruzione di un’epoca e di una generazione che vale fissare nella memoria?

Quale sarebbe oggi la nostra conoscenza della shoah senza il Diario di Anna Frank o le opere di Primo Levi? O, meglio, quale sarebbe oggi la nostra percezione di un etnocidio che non ha eguali nella storia dell’uomo e che meglio di ogni altro potrebbe fornire elementi per ricostruire quella Critica della ragion criminale in cui Gregory (2006) immagina coinvolto Immanuel Kant?

Più recentemente la narratologia diaristica ha acquistato una valenza storica e documentaria importante con Terra matta di Vincenzo Rabito e Ci trovammo bene nel futuro di Antonio Mele, due autori che hanno in comune il fatto di non essere “addetti ai lavori”.

Vincenzo Rabito era un bracciante semianalfabeta protagonista, a suo modo, di una storia minoritaria che ha atraversato tutto il ‘900. A un certo punto della sua vita, si chiude in casa a Chiaramonte Gulfi e, con l’ausilio della mitica “Lettera 32”, scrive 1300 pagine in spazio uno raccontando, in un misto di dialetto e qualche parola italiana appresa oralmente, una storia, la sua e quella di milioni di subalterni, che nessun altro avrebbe potuto raccontare con tanta efficacia.

Antonio Mele, ex bracciante, poi “contadino” su una quota di terra assegnata con la riforma fondiaria degli anni ’50, anche lui semianalfabeta ma “contaminato” da una cultura costruita attraverso la militanza politica nel partito socialista, o attraverso letture senza ordine che lo porteranno a scegliere un destino diverso per i suoi figli: uno avvocato, uno medico, uno agronomo e l’unica figlia libraia.

Il paiolo pieno di patate si presenta subito come opera aperta nel senso che si offre al lettore come stimolo verso atti di libertà interpretativa che rappresentano ”il peso della quota soggettiva nel rapporto di fruizione” (Eco, 1980). In altri termini, la maggior parte dei narratori guida il lettore e non lascia spazio alla sua interpretazione o, per dirla meglio, non lo contamina e non lo coinvolge.

Nel caso del “Paiolo”, leggere i ricordi di Anna Manna e sovrapporvi i nostri, obbedisce ad automatismi incosci ma profondamente contaminanti, per come l’autrice riesce a tenere in equilibrio la storia (il cosa) e il discorso (il come) (Chatman, l. c.).

Ma le due cose non sono separate perché gli eventi di una storia (cosa), quella che si chiama “intreccio” e che Aristotele chiamava mythos, acquistano senso dal discorso (come).

Il paiolo pieno di patate non è solo una operazione di recupero delle proprie radici ma acquista valore letterario per il fatto che storia e discorso si fondono armonicamente portandoci a dire che un libro su questi temi (cosa) poteva essere scritto solo in questo modo (discorso).

Ma ci sono altri aspetti del libro di Anna Manna che meritano di essere evidenziati.

Il libro è certamente un libro di ricordi o, meglio, una narrazione diaristica cui conferiscono grande dignità la storia (cosa) e il discorso (come) e il modo in cui l’autrice combina gli elementi della narrazione ma è anche un libro di antropologia o, meglio, di quella branca della disciplina definita antropologia sensoriale (Gusman, 2004) ed è anche un libro di storia.

Il paiolo pieno di patate si colloca autorevolmente nella rivoluzione culturale che ha attraversato queste due discipline. Quanto si è verificato negli ultimi 80 anni in campo storico, ne fa un libro di storia, così come raccontare i ricordi attraverso i sensi (la vista, l’olfatto, l’udito, il tatto, il gusto) lo collocano autorevolmente tra gli studi antropologici, nella branca dell’antropologia sensoriale nata a fine ‘900.

Veniamo agli aspetti storici entro i quali è possiile collocare il lavoro e che si muovono all’interno di quel grande movimento conosciuto come scuola delle “Annales”, raggruppata attorno a una rivista fondata nel 1929 da Marc Bloch e Lucien Febvre.

Il titolo iniziale della rivista era “Annales d’histoire économique et sociale”, divenuto dal 1946 “Annales. Economies. Sociétés. Civilisation” che porterà, nel 1947, all’istituzione della VI sezione dell’Ecole pratique des hautes études, per cambiare ancora nome nel 1994 diventando “Annales. Histoire et sciences sociales“.

Attorno alla rivista ruotavano alcuni dei maggiori storici del ‘900: Fernand Braudel, Georges Duby, Jacques Le Goff, Emmanuel Le Roy Ladurrie e, in posizione più defilata, Ernest Labrousse, Pierre Vilar, Maurice Agulhon, Michel Voselle, Peter Burke, Roland Mousnier e Michel Focault (Burke, 2001). Vale a dire una generazione di intellettuali che hanno innescato una rivoluzione culturale paragonabile a quella provocata da Einstein con la teoria della relatività.

In Italia si sono collocati su questa scia Emilio Sereni, Massimo Montanari, Augusto Placanica, Piero Bevilacqua, Pietro Tino, Lina Scalise, Gabriella Corona e tutto il gruppo di storici che ruota attorno all’IMES e alla rivista “Meridiana”.

Senza immergersi nell’analisi approfondita di un processo che ha cambiato il modo di scrivere la storia, gli assunti fondamentali delle “Annales” sono:

  1. la sostituzione della tradizionale storia narrativa concentrata sugli avvenimenti con una storia analitica orientata ai problemi;

  2. la storia delle attività umane (alimentarsi, mangiare, vivere il territorio e il paesaggio), invece che una storia principalmente politica;

  3. la contaminazione della storia con discipline altre (economia, sociologia, psicologia).

Se partiamo da quanto scrive Braudel che “La storia forse non è condannata a studiare soltanto giardini ben chiusi da muri” (1976), dobbiamo ammettere che per uscire dal “giardino” è necessario contaminare la storia con l’economia e con la sociologia, riprendendo in chiave storica il disegno tracciato da Durkeim con la rivista ”Année sociologique”, con cui tentava di sancire l’egemonia della sociologia tra le scienze umane.

Dalla nascita della scuola delle “Annales”, la storia non è più storia di “eventi”, epopea di eroi, narrazione di vicende ma è alimentazione (Massimo Montanari), paesaggio (Bevilacqua, Sereni), economia e territorio (Placanica, Bevilacqua), cioè è “scritta” dai cambiamenti materiali di cui gli uomini sono attori e fruitori.

In questo senso, il mondo raccontato da Anna Manna, non è “Un mondo semplice che consentiva una vita pienamente vissuta”. È, semplicemente, il mondo così come lo abbiamo vissuto, reso epico da un nuovo modo di scrivere la storia.

Raccontare quanta storia c’è in “Nonna Giovanna…rimasta vedova a ventinove anni, con cinque figli da crescere”, per esempio.

E lei lo fa, senza indugio, scrivendo la propria storia che diventa il simbolo di una possibile storia che ci appartiene.

Da un punto di vista antropologico, il libro si muove su due livelli.

Il primo è relazionale, il secondo sensoriale.

I venditori ambulanti la cui presenza contribuiva a creare circuiti relazionali, la vita nei cortili, i rapporti di vicinato, la “nevicata in tazza” e, soprattutto, i sensi che usiamo per vedere i colori e i paesaggi, sentire gli odori, avvertire i rumori, capire dal tatto la forma di un oggetto, sentire il gusto delle cose che mangiamo.

Cosa dire della rappresentazione ecologica delle “galline [che] razzolavano libere nell’aia” se non che è una critica forte al mondo globalizzato in cui siamo costretti a vivere?

E l’immagine delle “galline che deponevano le uova secondo i tempi che madre natura consentiva loro, le mucche davano il latte che era possibile”?

Sono immagini potenti di ricordi che non sono solo “ricordi” ma indicano una possibile alternativa a un modello di vita “esasperato e calcolato”.

Nell’uso dei sensi, invece, c’è un marcato etnocentrismo.

Anna Manna usa tutti i cinque sensi per ricostruire i suoi ricordi: la vista, l’olfatto, l’udito, il gusto, il tatto, tutte categorie sensoriali che appartengono al mondo occidentale. La vista, per esempio, che in alcune culture tribali è considerato un senso negativo consentito solo agli sciamani, nella cultura occidentale dominata dalle immagini “ha assunto un predominio assoluto” (Gusman, l. c.). Per contro, uno sciamano, proprio perché vede, non usa l’udito (Gusman, l.c.).

Anna Manna riscatta, però, l’etnocentrismo perché gli odori che la inducono a ricordare prima che nel suo naso sono nella sua cultura.

Bibliografia

Braudel, F. (1976), Civiltà e imperi del Medierraneo nell’età di Filippo II, Torino, Einaudi.

Burke, P. (2001), Introduzione a Una rivoluzione storiografica, in Insegnare la Storia, Agrigento, Imes.

Chatman, S. (2010), Storia e discorso, Milano, Il Saggiatore.

Eco, U. (1980), Opera aperta, Milano, Bompiani.

Frank, A. (1993), Diario, Torino, Einaudi.

Furfaro, L. (2012), Giuditta Levato. La contadina di Calabricata, Cosenza, Falco Editore.

Gregory, M. (2006), Critica della ragion criminale, Torino, Einaudi.

Gusman, A. (2004), Antropologia dell’olfatto, Bari, Laterza.

Levi, P. (1977), Se questo è un uomo, Torino, Einaudi.

Levi, P. (1978), La chiave a stella, Torino, Einaudi.

Levi, P. (1986), I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi.

Manna, A.(2012), Il paiolo pieno di patate, Soveria M.,. Calabria Letteraria Editrice.

Mele, A. (1997), Ci trovammo bene nel futuro, Argo.

Montaldi, D. (1966), Autobiografie della leggera, Torino, Einaudi

Nievo, I. (2006), Le confessioni di un italiano, Milano, RCS.

Petrusewicz, M. (1998), Come il Meridione divenne una Questione, Soveria Mannelli, Rubbettino.

Rabito, V. (2007), Terra matta, Torino, Einaudi.

Revelli, N. (1977), Il mondo dei vinti, Torino, Einaudi.

Revelli, N. (1985), L’anello forte, Torino, Einaudi.

Rizzari Gregorace, F. (2008), Pagine dell’Ottocento catanzarese, Catanzaro, Ursini.

Sereni, E. (1987), Storia del paesaggio agrario, Bari, Laterza.

Sinopoli, C.-Pagano, S.- Frangipane, A. (2004), La Calabria. Storia, geografia, arte, Soveria M., Rubbettino.

Talarico, R.( 1998), Labirinti ed io dispersa, Soveria M., Rubbettino.

Woolf, S. J. (1973),La storia politica e sociale, sta in Storia d’Italia, vol. III, Dal primo settecento all’Unità, Torino, Einaudi.

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Dirigenti scolastici in Calabria: siamo alla frutta

Domani arriverà in Calabria il Ministro dell’Istruzione Profumo. Un comitato rappresentativo dei due terzi dei vincitori del concorso per dirigente scolastico in Calabria scrive al Ministro dell’Istruzione che domani 27 settembre sarà in Calabria, per lamentare – si legge testualmente nella lettera pubblicata oggi da il Quotidiano della Calabria – “il fatto che, a fronte di ben 108 posti messi a bando, per l’anno scolastico appena iniziato, non si sia verificata nemmeno un’immissione in ruolo”. E sottolineano pure che si tratta di “una situazione più unica che rara nel panorama nazionale”. La lettera del comitato trascura però, forse volutamente o soltanto per ingenuità, quelli che lo stesso comitato definisce nella lettera al Ministro i “giudizi pendenti”. E già: perché i giudizi pendenti sono proprio sulla legittimità stessa della intera procedura di concorso. Il Consiglio di Stato infatti ha recentemente ribaltato più d’una ordinanza del Tar Calabria che in giugno non aveva accolto la richiesta di alcuni ricorrenti, rilevando la presenza del “fumus boni iuris” proprio relativamente all’incompatibilità del presidente della Commissione con quel ruolo di selezionatore di nuova classe dirigente. Quello che il comitato dei vincitori del concorso definisce una procedura “svolta all’insegna della legalità e della legittimità” in realtà appare sempre di più, anche alla luce degli accessi agli atti che hanno evidenziato elaborati dei vincitori con vistosi errori, un procedura viziata sotto molti aspetti. Il Tar Calabria dovrà adesso discutere nel merito i tanti ricorsi di persone che sono state escluse da quella graduatoria di vincitori. E, forse, è per questo che il Ministro temporeggia ad assumere.

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Il Consiglio di Stato ribalta la decisione del Tar Calabria e, dopo quello della Lombardia, rischia ora di saltare anche il concorso per dirigenti scolastici calabrese

Lo scorso 22 giugno il Tar della Calabria, con propria ordinanza, “considerato che 1’istanza cautelare non appariva assistita dal fumus boni juris”, aveva deciso il respingimento dell’istanza cautelare richiesta da alcuni concorrenti del concorso per dirigente scolastico avverso la loro esclusione dalle prove orali. Tra le motivazioni addotte dai ricorrenti, patrocinati dall’avv. Alessandra Morcavallo di Cosenza, c’era anche la presunta incompatibilità del presidente della Commissione, professor Antonio Viscomi, a svolgere quel ruolo. Il corso presieduto dal Professor Viscomi, per il Tar Calabria, sarebbe consistito in “corso di perfezionamento per dirigenti scolastici” e non già in un “corso di preparazione al concorso per dirigenti scolastici“, ipotesi quest’ultima che, invece, sarebbe stata idonea a determinare una situazione di incompatibilità.

Oggi la notizia che invece riapre totalmente i giochi e rischia di far saltare l’intera procedura è che il Consiglio di Stato, cui pure si erano rivolti alcuni ricorrenti, con l’ordinanza n. 3371 del 29 agosto 2012 ha espresso proprio parere riconoscendo la presenza del “fumus boni iuris” delle motivazioni del ricorso tra cui, appunto, l’incompatibilità del presidente della Commissione esaminatrice: “Considerato che l’appello” – si legge testualmente nell’Ordinanza del CdS – “presenta apprezzabili profili di fumus boni iuris, con riferimento al motivo di ricorso concernente il ruolo del professor [omissis], presidente della commissione esaminatrice e già presidente del corso di perfezionamento per dirigenti scolastici, frequentato anche da dirigenti con funzioni vicarie poi ammessi al concorso; ritenuto che, pertanto, l’istanza cautelare merita accoglimento, ai fini della rimessione della causa al giudice di primo grado, ai sensi dell’art. 55 comma 10 cod. proc. Amm.”, il Consiglio di Stato (Sezione Sesta) in sede giurisdizionale accoglie l’istanza cautelare avanzata con l’appello ai fini della sollecita fissazione dell’udienza di merito in primo grado”.

In buona sostanza il ricorso andrà adesso discusso nel merito e non è detto che, anche in Calabria, ci voglia un nuovo concorso per dirigenti scolastici. Sicuramente, per il bene della cultura, è giusto vederci chiaro sulla legittimità di tutta la procedura.

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Patriota, educatore e meridionalista: Umberto Zanotti-Bianco

 di Maria Elisabetta Curtosi

Zanotti Bianco storico e meridionalista che concepiva il problema politico come problema morale lontano da ogni moralistico bla bla ma una ricerca della eticità del vero impegno civile per il Sud ed in particolare per la Calabria. Un esempio resta il saggio “Martirio della scuola in Calabria” dove impegno civile ed etica sono un tutt’uno ed in questo senso Zanotti Bianco raccoglieva l’esempio del suo maestro di meridionalismo Gaetano Salvemini che aveva inculcato nel giovane amico la fiducia nella storia “fatta di piccoli sforzi, che accumulandosi fanno le grandi soluzioni”.  Salvemini e Zanotti Bianco si incontravano nella fondazione etica della politica ed era comune il convincimento che “nessun popolo che non valga moralmente riesce a farsi valere”. Questo convincimento durò per tutta la loro vita.  E’ superfluo aggiungere, oggi come allora l’attualità dell’insegnamento. In un libro pubblicato nel 2009 presso Rubbettino (Umberto Zanotti Bianco. Patriota, educatore, meridionalista: il suo progetto e il nostro tempo, pp.247, Euro 16), Sergio Zoppi ha dedicato una biografia ad una personalità complessa ed emblematica del novecento italiano che ha fatto dell’impegno sociale e civile a favore del Sud una vera e propria missione.

Zanotti  Bianco e Salvemini si videro per la prima volta  a Gennaio del 1909,dopo il terribile terremoto del 1908 che sconvolse Messina e mezza Calabria. Fra quei volontari c’era Zanotti Bianco poco più che ventenne,mentre Salvemini in quel disastro aveva perduto  la moglie e i cinque figli e si aggirava tra le macerie alla disperata ricerca di Ugo, il figlio più piccolo d cui non si era trovato il corpo. Si trovava in compagnia dell’amico Giovanni Malvezzi e di Giovanni Gallarati Scotti in una esperienza drammatica che doveva segnare per sempre la sua vita consacrandolo ad un’opera di apostolato per il Sud Italia non più abbandonata. I due si incontrarono nel 1910 a Roma per fondare l’Associazione nazionale per gli interessi morali ed economici del Mezzogiorno (ANIMI) della quale facevano parte uomini come Giustino Fortunato, Pasquale Villari, Giuseppe Lombardo Radice, Tommaso Vallari Scotti e Antonio Fogazzaro. Salvemini – scriveva Zanotti a Fogazzaro “si è mostrato fautore entusiasta”, e più tardi comunicava a Giustino Fortunato che “un gruppo di giovani e di vecchi decideva di mettere su un’associazione pel mezzogiorno col fine immediato di concentrare gli sforzi intorno al problema della scuola e della istruzione e della emigrazione in provincia di Reggio Calabria. Gli uomini autorevoli danno l’ indirizzo e  i giovani sgobbano. Saremmo lieti e orgogliosi di averti tra di noi.  Oltre mezzo secolo fa lo stesso Zanotti Bianco rievocava l’incontro con la Calabria, la Magna Grecia, un incontro dettato da una precisa scelta di vita, una vera e propria missione: “Sarà tra poco mezzo secolo che percorro in tutti i  sensi le terre dell’antica Magna Grecia. Per quanto istintivamente attratto da ogni testimonianza artistica e dal fascino delle ricerche archeologiche, tuttavia la miseria ed i dolori di questa regione, ingigantiti dalla spaventosa tragedia del terremoto che prese nome da Reggio e Messina, occuparono nei primi anni di lavoro quaggiù tutta intera la mia vita (…) Fu Paolo Orsi, il grande, perseverante archeologo roveretano,che con la descrizione dello stato  miserando dei monumenti superstiti della Calabria, mi fece sentire il dovere della pietà per le creazioni d’arte del passato, silenziose educatrici degli spiriti nel futuro, e mi spinse a creare nel 1920, in quel desolato dopoguerra, la Società Magna Grecia”.   Paolo Orsi gli fece conoscere Carlo Felice Crispo, storico della civiltà magno-greca della Calabria ed in particolare di Vibo Valentia, già Hipponion. Conobbe anche il marchese Enrico Gagliardi. Diventò subito amicizia vera perché avevano in comune l’amore per il bello ed i valori della libertà e della onestà. Oltre a questi grandi vibonesi altre figure di primo piano aderirono alla Società:il prof. Eugenio Scalari, Pietro Tarallo, Mario Micalella, il conte Capialbi, Mario Cordopatri, Vincenzo Cremona, Leonardo  Donato ed altri.  Con il marchesino Gagliardi a bordo di una macchina cabrio visitarono tutti i monumenti di Monteleone, Pizzo, Mileto.   Giuliana Benzoni, stretta collaboratrice di Zanotti cosi lo descrive: “Esile, dagli occhi cerulei, con biondi capelli da agnellino che adornavano una testa da cherubino, affascinante come una visione, spirituale come un santo, concreto come un banchiere, splende per bellezza fisica, passionalità, ardore:un tombeur de femmes eccezionale”.

 Zanotti Bianco era nato nel 1889 a Canea sull’isola di Creta, il padre console,la madre di origine scozzese, studi nel collegio Carlo Alberto di Moncalieri dai padri Barnabiti. Ammirava Mazzini e gli ideali del Risorgimento, Tolstoj e Romolo Murri.Allo scoppio della prima guerra mondiale,seguendo l’esempio di Gaetano Salvemini, si arruola volontario. Nel 1939 Achille Storace aveva protestato perché la sua associazione ANIMI era ancora in vita e quindi dimostrava che il fascismo non aveva risolto tutti i problemi del Sud. Zanotti chiede l’aiuto della principessa Maria Josè che assume l’alto patronato dell’associazione.Nel 1941 viene arrestato e inviato al confino vicino a Sorrento. Erede del cattolicesimo liberale. Partecipa in seguito alla lotta clandestina nelle file del partito liberale. Nel 44 assume la presidenza della Croce Rossa. Nel 1952 è nominato senatore a vita da Luigi Einaudi. Fonda assieme ad Elena Croce Italia Nostra. Muore a Roma nel 1963.

 

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Un’amara e fortemente indignata riflessione, da cittadina calabrese e da malata oncologica

di Enza Talarico

Sellia Marina, 10 febbraio 2012 – Con immenso dispiacere apprendiamo solo oggi che due giorni or sono che è venuta a mancare all’affetto dei suoi cari, nella sua casa di Petronà (CZ), l’insegnante Enza Talarico, docente modello presso la scuola elementare di Belcastro (CZ) e paziente oncologica che, a Settembre del 2010, ci aveva inviato una lettera aperta sulla sua esperienza personale da paziente oncologica relativamente alla situazione sanitaria calabrese. Lei stessa l’aveva definita “Un’amara e fortemente indignata riflessione, da cittadina calabrese e da malata oncologica” sulla questione della chiusura del Polo Oncologico calabrese in cui si raccontavano errori ed orrori sanitari. Una riflessione amara ma ben ragionata che però i principali quotidiani d’informazione regionale calabresi, anche quelli che percepiscono fondi pubblici per il sostegno all’editoria e si vantano di svolgere un servizio pubblico, non ritennero allora di pubblicare o di darvi grande risalto come notizia. Noi ovviamente la pubblicammo immediatamente allora, quando la lettera ci venne inviata dalla professoressa Enza Talarico, e lo rifacciamo anche oggi, a due giorni dalla sua scomparsa, perché riteniamo il suo contenuto, un grido di dolore ragionato ed ancora estremamente attuale, sperando che sia da monito per evitare il ripetere di “orrori” sanitari che umiliano la dignità umana dei cittadini calabresi.

 

Lettera aperta

L’ultimo regalo fatto dalla Giunta Loiero ai calabresi è una di quelle notizie che non hanno bisogno di commenti, si commentano da sole. Solo un’amara e fortemente indignata riflessione, da cittadina calabrese e da malata oncologica. Il polo Oncologico del Ciaccio chiude battenti tra silenzio e indifferenza. Un altro di quegli errori (io li chiamo “orrori”) di cui sicuramente la nostra già martoriata Regione avrebbe fatto a meno. Ancora una volta viene lesa la dignità della persona e particolarmente la dignità dell’ammalato. E tutto questo perseguendo una logica che sfugge ai comuni mortali e maggiormente sfugge al malato (forse per risanare uno dei tanti buchi di bilancio inspiegabilmente sempre ereditati?!). E’ facile decidere comodamente seduti su una poltrona senza aver vissuto o vivere il dramma quotidiano di chi si trova a lottare contro il cancro. E quando nella nostra Regione, dove si hanno professionalità e risorse umane, ma mancano le strutture, ne appare una che può vantarsi di essere chiamata Polo Oncologico, che ha dimostrato di essere un importante punto di riferimento per professionalità, calore umano ed esperienza e che limita fortemente i cosiddetti viaggi della speranza fuori Regione, che si fa? Non solo non la si sostiene e potenzia, ma addirittura la si chiude. Mandando i tanti, troppi malati tutti in un unico presidio: come pecore al macello! Alla faccia del rispetto della dignità umana! Forse non si coglie che l’ammalato non può e non deve essere considerato un numero e che non è solo curando la malattia che si guarisce. E non per ultimo, mi chiedo: tutti i soldi spesi per ammodernare il vecchio ospedale Ciaccio? Chi se ne frega, tanto sono soldi pubblici! Quasi sicuramente questa mia resterà “voce di uno che grida nel deserto”, qualcosa da leggere, magari condividere, ma tutto qui. Sento, però, la necessità di uscire dalla massa e dare voce alla sofferenza e all’indignazione di tutti coloro che sfortunatamente condividono il mio percorso. Resto, però, testa dura calabrese e non voglio e non posso non confidare nel buonsenso e nell’oculatezza del neo eletto governatore Scopelliti, al quale desidero rivolgere un invito: si rechi nel Presidio Ospedaliero Ciaccio così da verificare di persona quale importante punto di riferimento possa essere. Magari, potrà anche dare un volto a quelli che sono numeri su fogli scritti a tavolino. Non permetta che ancora una volta, in una società che si dice civile, vengano lesi i diritti dei più deboli e particolarmente quello inviolabile di essere curato nel migliore dei modi e soprattutto a casa propria. Non chiuda gli occhi e le orecchie, ma veda e ascolti quell’universo che può sembrare lontano da ciascuno di noi, ma le assicuro che ci si può trovare catapultati improvvisamente dentro. E’ la malattia, è il cancro.

Enza Talarico

Petronà (Catanzaro), settembre 2010


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Francesco Barbieri, l’anarchico di Briatico

L’utopia accende una stella nel cielo della dignità umana, ma ci costringe a navigare in un mare senza porti

 

Care amiche e amici di Abolire la miseria della Calabria,

è con immensa soddisfazione che annunciamo l’uscita del volume

Francesco Barbieri, l’anarchico di Briatico

Francesco Barbieri, l'anarchico di Briatico
Link in libreria

(Non Mollare edizioni, Agosto 2011, euro 10,00 (3,50 solo pdf), Pp 117, ISBN 9788890504013).

“Una vita rivoluzionaria. Un combattente per la libertà, la democrazia e la giustizia” sono le parole scelte per caratterizzare la prima pagina rigorosamente nera con scritte rosse per tre quarti e rossa con scritta bianca nella parte alta dove si leggono i nomi dei tre autori: Giuseppe Candido, Filippo Curtosi e Francesco Santopolo. Un lavoro a “sei mani e tre teste” che ha portato, dopo adeguate ricerche, ad un’analitica ricostruzione delle vicende storiche che coinvolsero l’anarchico calabrese antifascista e libertario, Francesco Barbieri.

Se è vero che la memoria collettiva è alla base dell’identità di un popolo, è altrettanto vero che un evento, per essere ricordato, necessita di un percorso di ricostruzione che permetta di segnare le linee di demarcazione tra ciò che vale la pena ricordare e ciò che può essere rimosso e consegnato all’oblio.

La società mediatica limita il tempo della memoria: gli eventi si accavallano con tempestività e tendono ad acquistare un’apparente neutralità che ne banalizza il significato e li priva di contenuto storico. Non è stato così per i subalterni la cui rimozione è stato un esercizio costante che il potere ha esercitato da sempre.

Così è stato per l’antifascista calabrese Francesco Barbieri (Briatico, 14 dicembre 1895- Barcellona 5 maggio 1937) detto “Cicciu u’ professuri”, schedato come “sovversivo anarchico” e, per questo, da rimuovere e cancellare e con lui il grande contributo che “i dannati della terra” (F. Fanon, 1961) hanno dato per la costruzione di una società a misura d’uomo”.

È con queste parole che si presenta ai lettori il saggio storico su Francesco Barbieri, l’anarchico di Briatico. Nell’ambito del progetto di valorizzazione del patrimonio storico e culturale calabrese, l’associazione di volontariato culturale Non Mollare, con la pubblicazione del volume su Francesco Barbieri, intende continuare a promuovere la conoscenza dei calabresi meno noti o, qualche volta, perlopiù ignoti ma che alla Storia hanno dato un loro personale contributo.

Nato in Calabria a San Costantino di Briatico, la storia di Francesco Barbieri, combattente antifascista, conosciuto col nomignolo di “Cicciu u’ professuri”, ha percorso i primi quarant’anni del ‘900. Partito da S. Costantino di Briatico a 26 anni, vi tornerà casualmente dopo l’estradizione dall’Argentina per riprendere subito il suo viaggio per il mondo, legando le sue vicende a quelle di grandi intellettuali come Camillo Berneri e Carlo Rosselli. Per Francesco Barbieri, l’Internazionalismo Proletario è stata una ragione di vita, fino all’estremo sacrificio consumato davanti alla canna di un mitra imbracciato da quelli che riteneva fossero della stessa parte.

Per sopravvivere, avrebbe dovuto scegliere: tra diventare ‘ndranghetista” o sbirro; Barbieri non sceglie né l’uno né l’altro: diventa libertario, socialista rivoluzionario, radicale e anarchico, con una pronta e decisa avversione al fascismo.

Un rivoluzionario libertario, assassinato da quelli che erano con lui a Barcellona per difendere la giovane repubblica, è l’evento più tragico che si consegna alla storia.

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