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L’esempio di Antonino Anile per i giovani

Cittadino onesto, generoso, cattolico, colto e assai leale”

L’esempio di Antonino Anile per i giovani

Errammo in politica, perché errammo nella scuola, ed oggi noi abbiamo l’ambizione di riparare a questo errore fronteggiando la concezione esclusivamente utilitaria che domina il contrasto delle classi e spinge con livore caino l’una contro l’altra ed agendo in guisa che la vita, mediante la scuola, si consacri e l’uomo si umanizzi un’altra volta”

di Filippo Curtosi

 

Antonino Anile, scienziato, ministro della Pubblica Istruzione “Poeta di Dio” che, nonostante molteplici referenze, a distanza di 140 anni esatti dalla sua nascita, nacque a Pizzo di Calabria il20 novembre l 869, rimane misconosciuto alla sua stessa città natale che avrebbe l’obbligo civile e culturale di rivalutare l’opera di questo figlio illustre di Calabria, anche perché come scrive Nini Rotolo nel suo volume “Omaggio ad Antonino Anile” la ricognizione del suo pensiero e dei suoi molteplici interessi, della dimensione umana e spirituale e della sua sincera vocazione religiosa e poetica, possa favorire il recupero dei valori più autentici e più sani, presenti nella tradizione meridionale”. Non è semplice tracciare in poche righe il profilo della splendida figura di Antonino Anile, un sacerdote laico straordinario che ha vissuto con intensità ogni stagione della sua vita, stando sempre accanto a qualcuno assetato e bisognoso di speranza. Lo farò seguendo tre tempi della sua vita che riassumerei così: il tempo delle azioni ordinarie, il tempo della rivoluzione della cultura,il tempo della carità e del risanamento dello spirito. La prima parte della vita di Antonino Anile è stata segnata dagli studi, prima a Pizzo, poi a Napoli presso il collegio “Vittorio Emanuele II’” dove frequenta le classi ginnasiali, ma è a Monteleone che consegue la maturità presso il liceo “Gaetano Filangeri”.

Il padre, Leoluca, originario di Briatico gli impone di iscriversi alla facoltà di Medicina e Chirurgia a Napoli, lui avrebbe preferito gli studi umanistici. A 24 anni consegue la laurea, rifiuta di fare il medico condotto a Filandari, un paesino del vibonese e segue il prof. Giovanni Antonelli, una autorità internazionale negli studi di Anatomia. Nel1903 è docente in Anatomia descrittiva, qualche anno dopo consegue la cattedra di Anatomia Artistica, prima a Napoli poi a Roma.Viaggia spesso in Italia ed all’estero per tenere conferenze ed anche come inviato de “Il Giornale d’Italia”, conosce Maria Pekle e la sposa. Vivono a Napoli, non hanno figli. Benedetto Croce è tra i suoi migliori amici.

Il 28 aprile del 1908 va a Cessaniti al funerale del suo migliore discepolo, Pasqualino Cefalà per le laudationes funebres e cioè dei discorsi pronunciate alla morte di un personaggio illustre che, come è noto, affondano le loro radici nella cultura latina di età pre letteraria che celebrano coloro che hanno reso grande un paese e Cessaniti era stato uno dei villaggi della città di Briatico, paese nativo di suo padre.

Le laudationes di Cefalà che furono già pubblicati in un volumetto che è ormai da gran tempo introvabile, stampato in Montelene nel 1905 dalla Tipografia Giuseppe Raho, pronunciate davanti alla vecchia chiesa di San Basilio, al termine della processione nella quale venivano esposte pubblicamente le immagines degli antenati. Gli oratori che illustrarono la vita del defunto, ricordandone le qualità morali e intellettuali furono G. Parise, l’abate Giuseppe Gullotta, Giorgio Assisi.

Da Cicerone sappiamo che gli elogi funebri non andavano perduti “perché le famiglie stesse provvedevano a conservarli come documenti e titoli di orgoglio, sia per le memorie delle glorie familiari, sia per lustro alla propria nobiltà”. Nel caso di Pasquale Cefalà non vi è stato alcun processo di manipolazione o alterazione della verità in quanto al di là dei discorsi celebrativi vi sono documenti e testimonianze come quelle di Antonino Anile che oramai appartengono alla storia nobile di Cessaniti.

Antonino Anile” ricorda di Cefalà molte virtù: “ebbi presto occasione di ammirare le doti rarissime dell’ingegno e del cuore. Egli andava oltre la mia lezione e, come io gli facevo intravedere i pericoli di una preparazione superiore alle esigenze degli esami e non in rapporto con le necessità pratiche della professione, egli mi rispondeva che sentiva vivissimo il bisogno di darsi ragione di tutto e di vedere in fondo alle cose. E però non risparmiava fatica e piegava il suo ingegno a sforzi titanici. L’ammirazione mia per lui, continua il Poeta di Dio” fu così viva che diventammo presto amici, ed egli mi ricambiava la stima e l’affetto che avevo per lui con una devozione fraterna. Pasquale Cefalà sentiva vivissimo il disdegno per ogni bassezza, per ogni transazione, per ogni infingimento. Egli precocemente comprese tutta la nobiltà della vita, che rifulgeva per lui del riflesso di tutti i suoi ideali. E quando sovente mi parlava delle lotte meschine che travolgono nei nostri paesi della Calabria le intelligenze migliori e tanto danno recano, egli fremeva di disdegno per la viltà dei più e per la tracotanza dei pochi. Concepiva l’esercizio della professione come un sacerdozio e mi parlava

delle sofferenze che non trovano conforto e del modo come egli avrebbe voluto comportarsi per alleviarle. Aveva il culto della famiglia ed i suoi genitori erano per lui qualche cosa di sacro. Seppi della sua infermità quando già da parecchi giorni giaceva sofferente a letto. Corsi da lui e non seppi

frenarmi dal rivolgergli un rimprovero per non avermi dato prima avviso.

Egli mi rispose: “temevo che per me aveste potuto tralasciare qualche vostra occupazione”. Questa estrema delicatezza, in quelle condizioni, non potette non commuovermi. La sua morte mi parve un sacrificio volontario. Un sacrificio eroico, conclude Antonino Anile, ch’è il trionfo delle qualità più nobili dello spirito umano, uno di quei sacrifici che la storia non registra, ma che non per questo, cessano di essere semplicemente sublimi”.

Antonino Anile testimoniava così la vita ordinaria e semplice del cristiano e del sacerdote laico”, una vita aperta e disponibile a seguire le vie che gli si aprivano davanti.In questo tempo Anile fu soprattutto un educatore dei giovani e per loro aveva elaborato da ministro della Pubblica Istruzione una particolare attenzione per la riforma della scuola che pubblicava in un volume “Lo Stato e la Scuola”. La politica dello Stato era sbagliata, scriveva Anile: “Errammo in politica, perché errammo nella scuola, ed oggi noi abbiamo l’ambizione di riparare a questo errore fronteggiando la concezione esclusivamente utilitaria che domina il contrasto delle classi e spinge con livore caino l’una contro l’altra ed agendo in guisa che la vita, mediante la scuola, si consacri e l’uomo si umanizzi un’altra volta”. Quanto risulta attuale il monito, ieri come oggi, il problema della scuola, della formazione e dell’educazione come problema di civiltà, di riscatto morale e spirituale, al di sopra dei partiti, di credenti o non credenti. Il dibattito, chiosava Anile, tra scuola laica o scuola confessionale non ha ragione di esistere, una scuola laica, che non riesca a scuotere le energie intime cede al paragone con la più restrittiva scuola confessionale; e questa assume tutto il valore di nobile laicismo se sa dire qualche parola che si ripercuota nella profondità dello spirito”.

Quando nel 1919 don Luigi Sturzo lo candida nelle file del Partito Popolare in Calabria spiega le ragioni: “Antonino Anile è cittadino onesto, generoso, cattolico, colto e assai leale”.

Nel 1920 è chiamato a svolgere il congresso nazionale del partito popolare a Napoli ed in quella occasione mette lo Stato di fronte alle sue responsabilità, di fronte al Nord egoista che fa incetta di mezzi finanziari che spettavano al Sud d’Italia, i cui rappresentanti erano asserviti alla politica che favoriva il Nord, tradendo i loro elettori”.

Bisogna conoscere la storia delle promesse mancate, la continua turlupinatura verso di noi, che si è compiuta con la piena acquiescenza dei rappresentanti che finora la Calabria ha avuto. l paesi e le città calabresi vivono in un marasma economico, in uno stato di isolamento se non di sequestro.

Noi paghiamo tributi, come se fossimo una delle province più ricche d’Italia e ci rassegniamo a constatare che il nostro danaro non serve per noi ma magari per la bonifica delle terre intorno a Ferrara. La Calabria è priva ancora di ogni forma di quelle Istituzioni civili nelle quali ormai ogni Stato misura la sua capacità. Contadini ed operai in stato di grave disagio sono costretti a lasciare la Calabria per trovare nelle lontane americhe la soluzioni dei loro problemi. Dai porti di Napoli e di Genova,sospinta nelle stive oscure dei piroscafi come gregge al macello la gente calabrese lascia la propria terra natia, le case, i familiari per iniziare una avventura senza prospettiva di ritorno. Sono emigranti che mantengono i rapporti con la madrepatria e la soccorrono coi loro risparmi.

La Calabria più che ogni altra provincia d’Italia, vive dolorosamente di questo contrasto: gente umile, salda ancora fisicamente, ed una borghesia corrotta e corruttrice che la tiranneggia, coi favori dello Stato, senza pietà. La classe dirigente calabrese, miope che ha ricevuto nei seminari una cultura a senso unico, autoritaria, classista, formalista, arcaicamente retorica, capace soltanto di sollevare la vanità, l’ambizione, la prepotenza, piuttosto che accendere i cuori e le coscienze a nobili ideali di umanità, di giustizia, di dignità e di libertà. Libertà, non contro lo Stato ma nello Stato; non per porre un monopolio ad un altro, ma perché ogni costruzione monopolistica scompaia; libertà di scuola perché generi la libertà nella scuola. Lo Stato liberale ha tradito la sua idea liberale con la sua illiberalità verso la scuola che ha reso alla nazione il maggior danno persistendo nell’errore di credere che esista una educazione esclusivamente razionalistica rivolta ad un determinato scopo politico. Lo Stato ha avuto così una scuola senza anima, con dei funzionari invece che dei maestri. Dobbiamo prepararci ad una scuola dell’avvenire,una scuola di lavoro senza distinzione tra il lavoro della mente, superiore, aristocratico ed il lavoro del braccio, meccanico, inferiore, rude, plebeo”. Quando nel 1926 insieme ad altri deputati popolari dichiara di accettare il manifesto degli “Aventiniani” che in un primo momento erano con don Benedetto Croce per passare poi al regime fascista, Anile lascia la politica e torna agli studi, si dedicò agli altri con il cuore colmo di pietà e di amore. La sofferenza che incontrava ad ogni passo gli affinava l’amore che gli urgeva dentro. Nel nome della Carità di Cristo fu capace di portare un po’ di luce e di speranza dove il buio del dolore e della violenza sembrano lasciare l’uomo senza fiato.

La breve esperienza del fascismo aveva posto le premesse per la terza fase della vita di Antonino Anile, quella che l’avrebbero reso simbolo della carità vissuta e dedita. Erano gli anni difficili della dittatura. Ritorna all’esercizio della medicina che svolge come apostolato impegnandosi alla restaurazione della persona umana a partire dalla sfida del dolore innocente,cioè dove più è viva la lotta tra la disperazione e la speranza, tra l’amore e la solitudine.

Egli era convinto che non bastava assistere il malato, ma che occorreva come dire “restaurarlo” fino a fargli recuperare la fiducia in se stesso. “La malattia del corpo ha la sua origine nello spirito per cui occorre risanare lo spirito mediante la buona volontà e la intelligenza illuminata per restituire all’organismo ammalato lo slancio della vita”. Scrive: “Tutta religiosa è la vita; contemplate l’ordine stellare e vi sentirete unito a quell’ordine, ma, meglio ancora, studiatelo nella struttura foggiatagli dalla scienza astronomica, e troverete, come necessaria conseguenza, che una intelligenza l’abbia creata e viva in quell’ordine. Questa sete, Signore che ho di te saccresce per ciascuna che mi prende bellezza delle cose, ed è bellezza che si rinnova al sole di ora in ora. Sei Tu che mi richiami da ogni squarcio,tra nuvole, di cielo, e quando l’alba fa del mare un roseto e delle sponde la terra guarda a riprodurlo, e quando a sera il vento del tramonto viene ad annunziarmi il comparir degli astri di che vivo sarei se non ti udissi? Il mio cuore siccome la conchiglia per il mare, ha tessuto le sue fibre a farsi un’eco della tua parola. Fa’, Signore, ch’io t’oda appieno e senta in me fluire la tua voce come d’acqua una vena per un campo asciutto”.

Muore il 26 settembre del 1943 a Raiano, vicino Aquila, i suoi resti mortali si trovano nella chiesa Matrice di San Giorgio del suo paese natio Pizzo Calabro, sul lato sinistro della navata centrale della chiesa una lastra di marmo bianco ricorda “IL POETA DI DIO”.

Il mondo che viviamo ha urgente e patente bisogno di essere partigiani per la giustizia, la pace ed il bene comune; occorre lottare senza se e senza ma per l’amore puro che cerca la gioia dell’altro e per la dignità dell’essere umano e bisogna farlo con coraggio e fiducia.

 

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