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Vite sospese: sant’Anna di Isola di Capo Rizzuto

di Giovanna Canigiula

Nel pomeriggio del 15 novembre, mentre la popolazione di Cropani si preparava a manifestare contro il nuovo Cpa, i radicali calabresi hanno promosso un sit in a sostegno dei richiedenti asilo e invitato le parlamentari Rita Bernardini ed Elisabetta Zamparutti a visitare la struttura. Il diluvio ha impedito lo svolgimento della manifestazione, la visita invece si è svolta. Il giorno successivo, da infiltrata ben accolta, sono andata con la Bernardini e con Giuseppe Candido, del Direttivo nazionale, nel Cda- Cara di Sant’Anna di Isola di Capo Rizzuto, il più grande d’Europa, a vedere da vicino come stanno le cose. Già informati, ci hanno accolto la direttrice e il suo vice con i quali la parlamentare si è a lungo intrattenuta.

Il centro, che potrebbe ospitare poco più di mille persone, da metà giugno soffre di sovraffollamento e non scende mai al di sotto delle 1800 unità. Le provenienze degli ospiti sono disparate ma, attualmente, la maggioranza è costituita da nigeriani, eritrei, afghani e somali. Molti, anche, coloro che provengono dal Ghana e dalla Costa d’Avorio. Trentasette, in tutto, le nazionalità contate, il che comporta convivenze forzate tra gruppi provenienti da aree in reciproco conflitto. Appena 198 le donne e 33 i bambini.

La Prefettura di Crotone ha stipulato varie convenzioni per la gestione del centro: al comune di Isola è affidata la manutenzione –subito data in subappalto- mentre l’Asl 5 si occupa del servizio sanitario e una confederazione di Misericordie, con la Caritas diocesana di Crotone- Santa Severina,  dei pasti, dell’orientamento e dell’assistenza, compresa quella legale. Per ogni ospite è prevista un’indennità giornaliera di 30 euro. L’emergenza, fronteggiata per come si può, è sotto gli occhi. Solo da maggio è aperta una sezione con piccoli appartamenti in muratura destinati ai nuclei familiari, per un totale di 256 posti: ogni appartamento ha due stanze (una con un tavolo e quattro sedie e una con reti e materassi) più il bagno. Gli altri richiedenti asilo sono ospitati in circa 30 tende inviate dal Ministero degli Interni, in cui si dorme su materassini di gommapiuma senza lenzuola,  e in circa 160 container distribuiti nelle sezioni A, B, C e D del campo, con 10- 12 persone per container. Pochissimi i bagni, insufficienti le docce, spesso intasate le vecchie tubature con conseguente fuoriuscita dai tombini di liquame puzzolente, assente per giorni o a partire dall’una di tutti i giorni l’acqua.

La normativa prevede che il tempo di permanenza non sia superiore ai trenta giorni, dal momento della formalizzazione della richiesta d’asilo. In realtà, le cose non stanno proprio così e i tempi si allungano fino a sei mesi. Incerta, ad esempio, è la situazione dei nigeriani, poiché provengono da una regione in cui non v’è conflitto manifesto, per cui la loro domanda è automaticamente respinta. Senza contare che, chi è transitato in altri stati dell’UE, si vede bloccato l’iter della domanda d’asilo dal Regolamento Dublino II e rischia di essere spedito in Grecia, dove il riconoscimento dello status di rifugiato è bassissimo. La Commissione territoriale di Crotone, che ha sede all’interno del campo unitamente all’Ufficio immigrazione della polizia, non riesce ad accorciare i tempi della burocrazia. A complicare le cose si è aggiunta, inoltre,  la legge 25 del 2008, che ha spostato le competenze  in materia al Tribunale di Catanzaro dove, a dispetto di quanto avviene nel resto d’Italia, si rifiuta il gratuito patrocinio. I legali che fanno capo al centro, 10 o 11 in tutto, quindi chiaramente insufficienti e  con il compito delicato di mediare tra l’attività di informazione e l’assistenza, hanno scelto la via dei ricorsi per arrivare ai gradi più alti. Il rischio reale è che gli ospiti finiscano nelle mani di avvocati esterni senza scrupoli che, per pochi soldi, promettono di seguire i singoli casi. Procurarsi i soldi significa, per chi non è in regola, lavorare al nero, indebitarsi o prostituirsi: sulla statale che da Sant’Anna porta  a Crotone non è infrequente vedere giovani donne in attesa di clienti o ragazzi che, suscitando l’ira dei contadini del posto, vendono le lumache raccolte nei campi limitrofi. L’arte di arrangiarsi, del resto, è resa obbligatoria dalla lunga permanenza: il kit di primo intervento, infatti, è bastevole per un solo mese, quello previsto dalla legge e negato dall’elefantiaca burocrazia. Di questo gravissimo problema ha comunque  promesso di farsi carico la Bernardini, che ha preannunciato un’interrogazione parlamentare allo scopo di verificare se è legale rifiutare il patrocinio.

Come si vive nel centro? La maggior parte dei richiedenti asilo -tutti giovani perché sui giovani si investe nei paesi da cui si fugge, talvolta col dramma di scegliere quale figlio portare con sé e quale abbandonare- è sbarcata a Lampedusa, dove è stato effettuato un primo riconoscimento. Arrivati al Sant’Anna, sono accolti nell’Ufficio immigrazione in cui si prendono di nuovo le generalità –il più delle volte fasulle- quindi si riceve il kit di primo intervento e si è accompagnati dagli operatori nel luogo destinato alla residenza. Il giorno dopo è fornito un tesserino di identificazione, col quale si conquista il permesso di uscire dalle 8.00 alle 22.00. Ogni giorno vengono fornite sigarette e ogni dieci giorni una scheda telefonica. I pasti sono gratuiti e preparati, a detta dei gestori, sulla base di una dieta calorica: gli ospiti generalmente preferiscono il pollo, lasciano le verdure, amano la frutta. Abituati al riso, che non viene fornito, mangiano molto pane. Poiché la sala in cui dovrebbero consumare i pasti riesce a garantire solo 50 posti a sedere, si preferisce consegnare il cibo imbustato e lasciarlo mangiare fuori. Il centro ha cercato di attivare forme di studio e di intrattenimento, anche per evitare eventuali tensioni tra gli ospiti. E’ domenica e ci viene fatta visitare una scuola in cui si insegna a parlare l’italiano, aperta di certo per l’occasione, allo scopo di far vedere come vanno normalmente le cose. In un’aula si guarda la televisione. Esistono laboratori musicali e teatrali, una ludoteca, una sala TV, corsi per parrucchiere, una cappella e una moschea. E’ garantita la quotidiana distribuzione di tre giornali, in francese, inglese e arabo. L’ambulatorio conta sul turnover di 12- 13 medici, non più in grado di garantire un efficace servizio. Il medico di turno  spiega che, fra le patologie più frequenti, ci sono le ferite di guerra e lamenta una scarsa collaborazione degli ospiti, che si aspettano interventi miracolistici e richiedono continuamente medicinali per i problemi più disparati, dal mal di pancia ai dolori articolari alle escoriazioni che si procurano giocando a pallone, salvo poi sospendere la terapia antibiotica dopo tre giorni. E’ difficile, dice, fare educazione sanitaria a gente che mal sopporta il dolore. Non si registrano, comunque, malattie infettive tranne un caso, al mattino, di sospetta varicella. Si paventano, inoltre, giorni duri in vista di un’influenza che si prospetta terribile per la presenza di due o tre virus particolarmente violenti: chi reggerà all’aggressività degli afghani? Influenza che, del resto, sarà inevitabile, considerando il gelo della vita in tenda e nei container.  Durante il percorso, però, incontriamo un eritreo, che denuncia la mancanza di assistenza: si cala i pantaloni e ci fa vedere un’infezione alle gambe che si trascina da tre mesi e per la quale nessuno, sostiene, è intervenuto, nel campo come a Crotone. Non sono nuove le denunce esterne degli ospiti riguardo alla mancata assistenza sanitaria o ai maltrattamenti subiti o alle scarse delucidazioni ottenute circa l’iter legale da seguire per il riconoscimento dei propri diritti: non siamo in grado, tuttavia, di darne conto, giacché per tutto il tempo della visita siamo in esclusiva compagnia degli organizzatori. Andrea, un altro eritreo, fa in tempo a lamentarsi per il sovraffollamento nei container, le carenze igieniche  e la mancanza d’acqua che, giustamente, trova insopportabile.

Molte le donne che chiedono test di gravidanza o incinte e con l’idea di abortire. Tra le emergenze, spiega la direttrice, c’è quella di garantire un rapporto col consultorio e la presenza di una ginecologa, un’ostetrica e un pediatra per evitare di intasare la struttura ospedaliera di Crotone. Uno dei più gravi problemi è quello della tratta e l’attività di informazione è, evidentemente, insufficiente: sottoposte a violenza o costrette alla prostituzione già durante il viaggio che le porta in Italia, le ragazze non trovano altra scelta per sopravvivere una volta giunte qua. Convincerle a denunciare è impresa non da poco e, del resto, una volta sporta la denuncia non c’è garanzia di una seconda e sicura assistenza in altri luoghi.

Pochi, si sa, sono quelli che ottengono il riconoscimento di rifugiati o una protezione umanitaria, anche perché lo Sprar (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) è appena in grado di garantire la seconda accoglienza ai casi più delicati. Tutti gli altri finiscono con l’essere lasciati a se stessi, sfruttati in agricoltura dai caporali e nell’edilizia dagli imprenditori, costretti a vivere di espedienti, disperati al punto da chiedere di poter restare nel centro. Quale l’idea che ci si è fatti? Non abbiamo parlato con gli ospiti, ma solo con gli operatori che hanno ringraziato la Bernardini per essere giunta in visita senza preconcetti ed avere pazientemente ascoltato il racconto delle loro fatiche. Che ci sia un problema di sovraffollamento difficile da gestire è innegabile. Che le condizioni di vita siano assai poco dignitose lo è altrettanto. Ma c’è anche un senso come di impotenza, che rende normale la prostituzione immediatamente fuori dai cancelli o il vivere di espedienti: troveranno del lavoro in nero là fuori, dicono, se hanno in tasca un cellulare e riescono in qualche modo a provvedere ai beni di prima necessità. Cosa facciano di preciso, sembrano volerlo ignorare. Le porte sono aperte, chiunque è libero di disporre della propria vita. Sono previste anche sette corse al giorno fino a Crotone, dove gli ospiti trascorrono come meglio credono le loro mattinate, molti per abitudine camminano e questo disturba, ma a questo non si può porre rimedio. Punto. Ritorniamo alla domanda di prima: quale idea ci si è fatti? La mia idea è che, affrontato un costosissimo viaggio di andata dall’inferno, giunti incolumi in terra straniera, schedati ma di fatto senza vero nome e pochi con possibilità di riconoscimento, questi uomini continuino a viaggiare in un cerchio che, dall’inferno, li rimanda all’inferno. Tutto qui.

Salutiamo la gentilissima Rita Bernardini, che prosegue con altri la sua visita nelle carceri calabresi. Saliamo in macchina ed eccoli: chi cammina in fila indiana, chi sta seduto ai bordi della strada, chi agita buste con lumache rubacchiate da vendere. Giuseppe Candido si ferma: dieci euro una busta. Quindi si ferma di nuovo: cinque euro ma niente lumache. Non gli piacciono tanto. I fortunati gli sorridono grati e scompaiono. Camminano in tondo e  sanno di farlo, eppure continua lo sforzo tutto umano di trovare una via d’uscita.

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il difficile cammino dei senza terra

di Giovanna Canigiula

Ieri pomeriggio, con Giuseppe Candido, siamo andati a Cropani a visitare ilresidence Ale.mia, ora contestatissimo centro di prima accoglienza. Ci ha accolti, all’ingresso, un addetto alla sicurezza al quale abbiamo lasciato i nostri documenti e che ci ha consegnato un pass. Le prime cose che ci hanno colpito sono state la bellezza e la pulizia del luogo: abituati alla vista del Sant’Anna -che tra container e filo spinato dà l’idea del carcere per disperati- i sentieri immersi nel verde, la piscina attorno alla quale sedevano chiacchierando alcuni ospiti, i piccoli appartamenti con terrazze da cui altri si affacciavano, ci sono piaciuti. Ci ha ricevuto il responsabile, Domenico, col quale abbiamo avuto modo di scambiare due chiacchiere e che ci ha invitato a ritornare quando avessimo voluto. Gli abbiamo fatto, com’è ovvio viste le polemiche, qualche domanda. Il centro, che ha una capienza massima di 250 persone, ospita attualmente circa 210 richiedenti asilo, tutti africani di aree calde come il Congo, la Costa d’Avorio, la Nigeria, il Gana, la Liberia. La convenzione è stata regolarmente stipulata col Ministero degli Interni, secondo norme previste dalla legge e sulla base, desumiamo, di un calcolo che certamente consente a un residence, inattivo durante la stagione invernale, di garantirsi delle entrate, ma che, a conti fatti, va in direzione del rispetto della persona. “Siamo abituati” dice Domenico “a catalogare secondo criteri di povertà e del minimo di sussistenza e non secondo criteri di dignità. Noi proviamo a fornire un servizio che abbia dei contenuti e speriamo, pian piano, di avviare forme di collaborazione con le autorità pubbliche”. La gestione è affidata alla Cooperativa 29 giugno. Attorno al centro, che offre opportunità di lavoro alla gente del posto, ruota il mondo del volontariato. A formare il personale scendono periodicamente, da Roma, gruppi che hanno esperienza nel settore. All’interno dell’area sono stati individuati due settori, uno per l’alloggio dei maschi e l’altro per quello delle donne. Le coppie sposate sono state separate. Per ogni ospite la convenzione prevede 35 euro, cifra interamente destinata al vitto, all’alloggio, al vestiario di primo soccorso e al presidio sanitario, che garantisce un monitoraggio costante e che smentisce, di fatto, l’allarmismo della popolazione riguardo a presunte malattie che i richiedenti asilo potrebbero avere portato con loro dai luoghi di fuga. Il volontario che ci accompagnerà a fare un giro, Ghigo, confermerà quanto detto dal responsabile: tutto ciò che è acquistato, dal calzino al maglione al pantalone, è nuovo. Chi si reca al supermercato, inoltre, spende danaro proprio, inviatogli da qualche familiare o amico e ha l’obbligo di non acquistare alcolici (compresa la birra), pena sanzioni: anche l’illazione della paghetta giornaliera di venti euro, dunque, è smentita. Ghigo ci racconta storie drammatiche di giovani costretti a lasciare il proprio paese, il lavoro, lo studio, la casa, le abitudini, i parenti, gli amici, in fuga da guerre, rappresaglie, torture, uccisioni, mutilazioni, irruzioni di miliziani nelle abitazioni. Uno dei ragazzi  porta il segno di un profondo taglio sul braccio, inferto con un machete. E non è il solo.  Fra le cose che hanno sorpreso il volontario, è il grande senso della pulizia degli ospiti: appena arrivati, nonostante gli appartamenti fossero stati puliti, hanno chiesto prodotti e stracci e si sono rimessi al lavoro. Sono loro stessi a occuparsi  dei percorsi e delle zone verdi senza che nessuno glielo chieda, tanto che io e Giuseppe, d’improvviso, ci vergogniamo dei mozziconi che stiamo lasciando in giro. Mentre chiacchieriamo incontriamo Gianluca, un amico che è al suo primo giorno di lavoro nel centro, forte dell’esperienza maturata a Catanzaro con laPromidea, cooperativa che da anni si occupa di rifugiati. Gli chiedo cosa pensa dell’allarmismo fra la popolazione che io, francamente, continuo a trovare ingiustificato:  secondo lui va capito il disorientamento della comunità, che si ritrova a fronteggiare una simile novità e, comunque, bisogna  adoperarsi  per favorire l’integrazione.

Comincia a imbrunire, arrivano i carabinieri, è la sera in cui ha inizio  il presidio delle forze di pubblica sicurezza.  Ghigo ha ancora da montare dei letti a castello, due ragazze litigano, noi decidiamo di andare via.  Superata la diffidenza iniziale, gli ospiti ci salutano cordialmente. Sono di passaggio, il futuro è incerto, i loro volti si perderanno e le loro tracce pure, mi piace che la sosta sia dignitosa. Ce ne andiamo sapendo di poter tornare, ancora una volta senza preavviso e senza che nessuno ci allontani. La sensazione, certo, è che il centro, pur se aperto, resti un luogo chiuso. Tuttavia una piccola, spartana, linda oasi per chi non ha più una casa in cui fare rientro. Il posto giusto per riprendere fiato prima di ricominciare il cammino. Mentre saliamo in macchina, mi sforzo di capire chi teme contagi, imbrogli, crolli nel settore turistico. E, però, non ci  riesco. Sono adulti, con tanto di figlioletti magari della stessa età di chi né guardano né accettano. Fra ciechi e visibilissimi invisibili, pertanto, continuo a scegliere i secondi.

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Non vi credo

di Giovanna Canigiula

Il 20 ottobre scorso, su decisione del Ministero degli Interni, sono stati trasferiti dal CPA di Crotone in un villaggio di Cropani Marina, comune a vocazione turistica del catanzarese, circa 210 richiedenti asilo. Comune, operatori economici  e società civile protestano, con tanto di consiglio comunale straordinario, richiesta di incontro col Prefetto e raccolta di firme contro: gli ospiti, in quanto indesiderati, se ne debbono andare alla svelta e questa è la sostanza.

A sentire la versione ufficiale non si tratterebbe di razzismo: l’ente non è tra quelli che hanno aderito al progetto di protezione e integrazione socio- lavorativa che riceverebbe finanziamenti sulla base della Delibera Regionale n. 669 dell’8/10/2007; non c’è trasparenza nel modo in cui il Ministero degli Interni ha imposto le sue decisioni senza nemmeno consultare l’amministrazione locale; minore trasparenza si ravvisa nella convenzione stipulata col residence ospitante, che porterebbe (dati ipotetici) nelle casse del medesimo qualcosa come 55 euro al giorno per ospite e che starebbe per beneficiare di una proroga di tre anni rispetto alla data fissata del 31 marzo 2009. E fin qui, nulla da obiettare. Si paventa, inoltre, l’arrivo di nuovi ospiti e in due in un piccolo spazio, dice sempre la versione ufficiale, si sta stretti. Qualcuno, però, blatera pure di case sfitte, quindi di spazi recuperati, dal che si comincia a capire che parliamo di privatissimi soldi.

A sentire i cori non ufficiali, infatti, le cose stanno diversamente. Le proteste –se le mie orecchie funzionano bene e non soffro di allucinazioni- sono di altro tipo: il governo dà tutti questi soldi a degli stranieri che se ne dovrebbero stare a casa loro; chi affitterà mai le case d’estate con tutti questi neri che circolano; eccoli, questi vagabondi scansafatiche, vengono al supermercato e comprano la coca-cola coi nostri soldi. La coca-cola, ha visto, roba da pazzi! Nel supermercato incriminato questi neri- stranieri- rubasoldi io li incontro tutte le volte che ci vado: sono giovani, molti hanno facce da studenti, indossano come tutti i coetanei d’Italia jeans e felpa, sono educatissimi, si muovono in piccolissimi gruppi di due o tre persone per non disturbare l’italica vista e col passo felpato di chi si sente indesiderato in un ambiente che non si nasconde ostile. Hanno facce un po’ tristi e la chiara espressione di chi ha consapevolezza d’essere finito nel posto più sbagliato del mondo. Colpisce poi il fatto che siano silenziosi o che parlino a voce bassissima: l’impressione è che vogliano rendersi invisibili. Sono, invece, chiaro oggetto di osservazione, anche perché nessuno ha spiegato loro che la condizione impone al massimo di bere acqua, possibilmente quella erogata dalle nostre civilissimi tubature calabresi e che puzza di fogna. Qualcuno (le ragazze soprattutto) regge il tuo sguardo mentre i più abbassano gli occhi, intanto che fanno circolare, in un supermercato italiano, i maledettissimi soldi che ci hanno rubato. Vengono distrigati subito, quasi a volersi liberare di una presenza ingombrante. Che genere di contagio, mi domando, ci potrà mai colpire? Oltretutto, proprio di fronte alle casse, vigilano le facce indifferenti dei comitati cittadini con i loro banchetti: siamo certi che siamo proprio noi a dover avere paura?

La verità, allora, è un’altra: siamo razzisti e di un razzismo peggiore di quello del nord, perché lo vogliamo celare, manipolare, piegare con le parole. Siamo razzisti talmente tanto che neppure ci accorgiamo di quanto siano giovani i nostri neri nemici e neppure ci preme di sapere da quale guerra provengano, quale casa sconvolta abbiano lasciato, quali studi abbiano interrotto, quale sia stata la loro traversata, quanto grande sia la loro disperazione. Siamo talmente ottusi  e ciechi da non saper vedere e riconoscere volti puliti, sentire e riconoscere suoni educati, toccare e riconoscere la tragedia delle loro vite sconvolte. Sono tanto giovani da avere lasciato mamma e papà da qualche parte (si spera) e da sentirsi sicuramente soli, loro sì, in terra straniera. Che si diranno, che penseranno, quale futuro sogneranno? Io li guardo e mi dico che  forse è meglio se vanno via da un comune del sud che teme pericolose cadute turistiche non per le acque luride del suo mare e per i servizi  dai costi sproporzionati che offre ma solo per la loro presenza. Un comune che guarda con malcelata invidia alla speculazione di pochi a danno della propria e che, evidentemente, si ostina a considerare i suoi migranti razza bianca  e quindi migliore e sì che ne circolano, dalle nostre parti, di “moretti”: scuri bianchi doc che raccolgono firme contro gli spuri scuri neri.  La guerra è guerra. Se è guerra fra razze, poi, c’è poco da fare. E di questo si tratta, visto che nessuno dei non razzisti del posto si sogna di rivolgere la parola ad uno solo di questi ragazzi. Figuriamoci se  si sognano di chiedere scusa o fare un sorriso, come dovrebbe essere se davvero la protesta fosse di altra natura.

Perciò, non vi credo cari limitrofi corregionali, non vi credo affatto e spero –visti i tempi- che vi sbarrino le porte una volta per tutte se andate a cercare ventura al nord o anche solo a fare circolare i vostri puliti soldi di turisti meridionali, perché le grosse macchine su cui oggi salite, lassù, dove quasi nessuno vi ama, sanno di ‘ndrangheta e malaffare. Anche quando non è così.

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