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Dante nel cinema

di Maria Elisabetta Curtosi

Nell’ambito dell’approfondimento dell’analisi del sistema dell’ intertestualità dantesca nel cinema Rino Caputo,  professore ordinario di Letteratura Italiana  Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma “Tor Vergata evidenza la divulgazione prorompente di Dante nell’orizzonte multimediale, attraverso la informatizzazione multimediale.

Il fenomeno quale Digital Dante ha avuto una grande diffusione in questi anni, numerosi sono i siti on-line di qualità ad esempio Dante On Line che è un progetto della Cassa di Risparmio di Firenze che mette in linea , tra l’altro, alcuni manoscritti della Commedia.

Inoltre, l’Università di Princeton propone il Princeton Dante Project, che unisce gli approcci tradizionali allo studio della Commedia con la multimedialità. La facilità di reperire documenti oggi è semplicemente più evidente oggi rispetto a anni fa. Ricostruire e classificare un testo con criterio.

Andrea Cortellessa è un critico letterario italiano, storico della letteratura e professore associato all’Università Roma Tre presso il DAMS, dove insegna Letterature Comparate e Storia della Critica ed ha proposto una lettura critica dei canti I – VIII dell’ Inferno di Dante attraverso una video-lezione.

Il culto di dante – continua Caputo – si è trasferito dai padri fondatori che vedevano la commedia come la Bibbia ad un eccesso di ermeneutica teologia. Ad esempio Eliot (900) diceva che Dante è << easy to read >>, arriva più direttamente di Shakespeare, inoltre, senza la nostra tradizione illustre non ci sarebbe modernità di Dante. Più avanti Caputo cita anche  Foscolo (800) : << dante tenzona, Petrarca sona>>. Per sottolineare la grande energia che trasmette Dante nelle sue opere. Dal Nord America ci fu un eccesso di teologizzazione.

Amilcare Iannucci, studioso di Dante, direttore del centro di studi umanistici dell’Università di Toronto ha affrontato, in uno dei suoi ultimi volumi, il tema  di Dante e Hollywood.

<< L’influsso di Dante nel cinema risale all’inizio del Novecento e precisamente data 1911 il primo lungometraggio è un film basato sulla prima cantica della Divina Commedia cioè l’Inferno, è un film mediato dalle immagini di Gustave Dorrè. La  grandezza di Dante varca i confini che tempo e spazio riservano ai comuni mortali ce la sua arte e la sua ispirazione hanno influenzato gli animi di scrittori e poeti ma questi ritrovano vigore nel mezzo cinematografico e danno infinita e continua linfa creativa a registi e creatori di Hollywood.>>

Sono centinaia i film che in qualche modo sono stati ispirati, hanno preso spunto ed atmosfere dal lavoro di Dante alla pari di Shakespeare. Ma perche Dante attrae così tanto?

<< Dimensione visuale che è molto forte poiché crea un mondo parallelo che è molto simile al nostro, contiene tutto, storie drammatiche, personaggi appassionati dante è un testo produttivo che produce altri oggetti: film, poesia, architettura. Ed ecco rappresentate allegorie dantesche: le pene del contrappasso, figure chiave in molte sceneggiature di horror e thriller come Seven e anche comici come Bugiardo Bugiardo con Jim Carrey.

La discesa agli inferi intesa come discesa interiore e la figura di Lucifero interpretata al cinema da Al Pacino nel film L’avvocato del Diavolo. In Annibal troviamo non solo la Divina Commedia ma anche l’amore ossessivo della “Vita Nova”.

Hollywood ricambia il favore a Dante, testi impegnativi sui banchi di scuola e dell’università tornano infatti ad essere amati dagli studenti. L’aspetto audiovisivo è molto importante. Se loro vedono che c’è un vecchio testo che è ancora attuale che non è un testo morto ma un tsto che può essere ricreato non solo in letteratura ma anche nel cinema e nella televisione agli occhi dei giovani diventa più importante.>>

Il periodo muto annovera anche una Beatrice d’ispirazione dantesca (1919, regia Herbert Brenon) con la diva dell’epoca Francesca Bertini, e un horror americano, Dante’s Inferno del ’24, diretto da Henry Otto e scritto da Edmound Goulding, uno dei registi della Garbo, dove s’immagina che un avido e spietato uomo d’affari, giustiziato per aver spinto al suicidio una sua vittima, finisca agli inferi tormentato per l’eternità da demoni insaziabili. È solo il primo di una serie di titoli in cui lo sfondo “infernale” (il Purgatorio e il Paradiso attraggono poco, anzi per niente, la settima arte) serve da trait-d’union metafisico, metaforico e ammonitore con la contemporaneità, oppure da sfondo puramente fantasy: quest’ultimo è il caso del rutilante peplum Maciste all’inferno di Guido Brignone (1925), con il leggendario Bartolomeo Pagano.

Opera aperta, teatrale, pluringuistica, sperimentale, visionaria, realistica, dialogica, narrativa e multisemica, la Commedia sollecitò fino dalla sua apparizione metamorfosi in tutte le arti.

Il 1907 segna l’avvento del primo cortometraggio (10 min.) a soggetto dantesco “Francesca di Rimini” o “the Two Brothers” di William V. Ranous, prodotto negli USA dalla Vitagraph Company.

La nuova sensazionale tecnologia il  cinema, appunto, permise per la prima volta nella storia di narrare non più soltanto per verba o mediante la mera giustapposizione di icone statiche (si pensi all’effetto di “moviola” delle illustrazioni alla Commedia di Sandro Botticelli con la ripetizione delle posizioni multiple assunte via via dai viaggiatori Dante e Virgilio) ma con immagini finalmente in fluido movimento senza apparente soluzione di continuità.

In fondo, trasporre la Commedia di Dante in un film, passando cioè da parole scritte, immobili, disposti su una pagina ad un adattamento visivo, equivalente all’originale si può parlare di una forma di intertestualità o meglio di traduzione intersemiotica  in quanto passaggio da un dato medium espressivo ad un atro.

Agli albori della storia del cinema, che si caratterizza subito rispetto alle altre arti come prodotto industriale e di massa, ma che cerca ancora un suo specifico, alcune intraprendenti case di produzione di Milano, Torino, Roma e New York pensarono, e vinsero la scommessa che la Divina Commedia avrebbe potuto essere lo script perfetto per nobilitare la decima Musa ancora legata a forme di intrattenimento illusionistico e leggero da vaudeville e ad un pubblico popolare: Dante, con il suo indiscutibile valore letterario e civile ora elevato a ideologia patriottico e confessionale, avrebbe convinto una borghesia melomane e perbenista ad entrare in una “licenziosa” sala cinematografica Così, le vicende stesse dell’uomo Dante, le esiziali passioni di un manipolo di suoi grandi personaggi, il fantastico dei paesaggi oltremondani e la fisicità dei dannati si presentavano quali ottimi spunti cinematografici, tra l’altro già noti al pubblico per il tramite della temperie culturale romantica, preraffaellita e decadente.

Su tutto, indiscussa protagonista del cinema ad ispirazione dantesca, già celebrata da tele, sinfonie e pièces teatrali, Francesca, l’eroina romantica per eccellenza, la cui storia ha tutte le carte in regola per “funzionare” nel cinema poiché contiene in sé con il suo pathos caratteri di comedy, drama, thriller e sexy movie.

I primi approcci del cinema con Dante, certo, consistono di brevi scene in costume in cui si vedono, filmati in un interno, i più celebri personaggi “characters” danteschi che mimano con i gesti enfatici tipici del teatro dell’epoca le loro vicissitudini, con al termine una spasmodicamente lenta morte (gli abiti e gli arredi sono di gusto neogotico e dannunziano).

Tra il 1907 e il 1926 si collocano svariati adattamenti diretti della storia di Paolo e Francesca (a quello di Ranous seguirono quelli di Mario Marais [1908], Ugo Folena [1909] (con la grande Francesca Bertini), Stuart Blackton [1910], Eduardo D’Accurso [1917], Ubaldo Maria Del Colle [1919], Mario Volpe [1922], Aldo De Benedetti [1926] e vari anonimi), del Conte Ugolino (Giuseppe De Liguoro [1908], Giovanni Pastrone [1909]), di Pia de’ Tolomei (Mario Case- rini [1908], Gerolamo Lo Savio [1910], Giovanni Zannini [1921]).

Sorprendentemente, a distanza di quasi cento anni, un amalgama di questi stessi ingredienti (mangiamento del cuore nel primo sonetto della “Vita Nova” suicidio di Pier delle Vigne accusato di tradimento, e tecnofagia di Ugolino) è stato riproposto da Ridley Scott nel suo Hannibal nel 2001, ambientato a Firenze sull’onda del torbido caso giudiziario del “mostro”.

Su questa produzione pionieristica degli anni Dieci spicca “L’inferno” diretto da Francesco Bertolini e Adolfo Padovan (con la collaborazione di Giuseppe de Liguoro ed Emilio Roncarolo), prodotto dalla Saffi-Comerio  nel 1911. Alla sua trionfale prima presso il Teatro Mercadante di Napoli il 2 Aprile 1911 (con ottime recensioni di Matilde Serao e di Antonio Labriola, che ne sottolineava l’utilità didattica) seguì una redditizia distribuzione anche all’estero grazie ad un nuovo sistema di Gustavo Lombardo che vendeva non le “pizze” contenenti le pellicole, ma i diritti sulle proiezioni in esclusiva per zone.

Si tratta del primo lungometraggio in Italia, e uno dei primi in assoluto (65 minuti, 1.400 metri di pellicola), che richiese ben due anni per la sua produzione, il che permise a Giuseppe Berardi e Arturo Busnengo della di plagiarlo mentre era in corso d’opera e di far uscire nelle sale il “proprio” pressoché identico ma ben più episodico Inferno (di 15 min.) nel Febbraio (con la differenza che Francesca è qui a seni nudi ma sono invece coperti i genitali degli uomini), cui tenne dietro un Purgatorio nell’anno successivo (mentre Giovanni Pettine realizzò un Paradiso).

Ma ad essere ricordato è soprattutto un nuovo Dante’s Inferno (uscito in Italia come La nave di Satana), stavolta sonoro (1935), a firma dell’americano Harry Lachman, protagonisti Spencer Tracy, Claire Trevor e la semiesordiente Rita Cansino (Hayworth), dove Tracy è l’ambizioso e privo di scrupoli gestore di una serie di attrazioni da luna-park che finiranno però immolate in un incendio purificatore e redentore.

L’Inferno di Bertolini e Padovan, diviso in 54scene (ne sopravvivono due copie leggermente diverse tra di loro, una restaurata dal British Film Institute e una conservata presso la Cineteca Nazionale di Roma) intervallate dalle didascalie con le citazioni dei versi e concluso con un’immagine del monumento di Dante a Trento (all’epoca ancora terra irredenta), è una trasposizione completa e letterale dell’Inferno di dante di Inferno di Dante di grande suggestione visiva (ispirata alle incisioni di Gustave Doré come pressoché tutti i film danteschi a venire), nella quale le scene di teatro riservate ai personaggi principali (Paolo e Francesca, Pier delle Vigne, Conte Ugolino) rivivono quali flashbacks incastonati nella diegesi complessiva.

Il grande successo fu dovuto anche ad un uso efficace della macchina da presa (il campo lunghissimo con i cerchi concentrici dei lussuriosi che volano e l’inquadratura dal basso di Farinata ne sono alcuni esempi) e dei primi effetti speciali (presi in prestito dal cinema fantascientifico di Georges Méliès): dai vecchi trucchi teatrali illusionistici delle funi (Beatrice che vola via), delle esplosioni fumanti (i ladri), dell’abito nero su fondo nero per simulare invisibilità (la testa tenuta in mano da Bertran de Born), fino alle tecniche di dissolvenza in entrata e in uscita (i ponti sospesi e i giganti) e di esposizione multipla (l’aureola luminescente e rotante di Beatrice, Dante e Virgilio fissi in un angolo dell’inquadratura mentre scorrono i paesaggi). Accanto a momenti di eleganza e di grazia, si riscontrano (almeno nelle copie sopravvissute) però anche errori di montaggio (la discesa su Gerione fuori posto) e omissioni (i sodomiti). Dagli anni Venti si cominciano a produrre anche mélangese e rielaborazioni: il nuovo medium ha ormai acquisito gli strumenti per raccontare (da cinema di illusione a cinema di narrazione),e non ha più bisogno di Dante per costruire interamente un film, se non per collegarlo ad altri temi, sentimentali o politici (si prenda Das Spiel mit dem Teufer dell’austriaco Paul Czinner [1920], La mirabile visionedi Luigi Sapelli [1921] (con il grande Gustavo Salvini), o Dante nella vita dei tempi suoi di Domenico Gaido [1922], che fonde riferimenti storici con la vita del poeta e la tragedia di Piccarda Donati carda Donati).  Su questa nuova linea di ibridazioni, sospeso tra superomismo e futurismo,  Maciste all’Inferno di Guido Brignone del 1926 (ripreso in chiave surrealmente comica nel Totò all’inferno di Camillo Mastrocinque [1955], ed in chiave camp – con ambientazione al tempo della caccia alle streghe – nel remake di Riccardo Freda [1962], autore anche di uno stilisticamente attardato Conte Ugolino [1949]).

In questo contesto melodrammatico (che pure stregò un giovanissimo Fellini per i suoi primi piani espressionistici e per lo charme di una formosa Proserpina in bikini) il re dell’Ade Plutone manda Barbariccia sulla terra per assoldare Maciste (il nuovo uomo fascista e virile, impersonato da Bartolomeo Pagano), ma invano; seduce allora un principe debosciato ed effemminato (il fragile ancien régime), che corrompe una ragazza. Per salvare il neonato, Maciste viene travolto all’Inferno, dove vige la regola che chi scambia un bacio con una donna viene lì trattenuto per sempre (ennesima rimodulazione del bacio fatale tra Paolo e Francesca). Maciste cede alle lusinghe di Proserpina, abbigliata come una dea egizia, e la bacia, per cui rimane incatenato come Prometeo ad una roccia, ma sarà alla fine salvato dalla preghiera in suo favore balbettata dall’infante nel giorno di Natale. Il film dispiega tutta una serie di reminiscenze dantesche (il nome Barbariccia, i diavoli crocifissi al terreno come Caifas o con la testa staccata come Bertran de Born ecc.), ma si tratta di un Inferno di soli eserciti di diavoli senza dannati, ibridato con l’Ade classico, e contrappuntato da invenzioni della modernità, quali grattacieli, aeroplani e perfino una sorta di televisore. A partire dalla fase “classica della produzione di Hollywood, i personaggi danteschi vengono disambientati in altri luoghi e tempi: così Henry Otto nel suo Dante’s Inferno nel 1924, così David Wark Griffith nel suo Drums of Love nel 1928 (che sposta in Sud America la storia di Paolo e Francesca), così Harry Lachmann nel suo Dante’s Inferno (1935, sonoro, con Spencer Tracy), che prende il nome dal theme park gestito da un avido capitalista che porta al suicidio il suo concorrente ma si pente leggendo l’episodio di Pier delle Vigne: il tipico puritanesimo americano porta questi registi ad interpretare Dante come un morality play che insegna a tornare sulla retta via (la parodia di quest’ottica, con un’allegra discesa in un Inferno fatto invece di jazz, coctkails, striptease e small talk che trasgredisce il taboo del Deconstructing Harry [Woody Allen, 1997]).

Dal dopoguerra in poi, il cinema guarderà spesso a Dante, ma solo per estrapolarne elementi molto specifici e circoscritti da incorporare ed incastonare, popolarizzandoli, entro un testo filmico con una sua propria autonomia, stante l’impossibilità di realizzare in toto un equipollente della Commedia (penosi i tentativi di resuscitare nella modernità i generi del muto quali le Pia de’ Tolomei di Esodo Pratelli [1941] e di Sergio Greco [1958], i Paolo e Francesca di Riccardo Matarazzo [1949] e di Gianni Vernuccio [1971]): lo stesso Fellini non andò oltre abbozzi di sceneggiatura di un suo Inferno, e dichiarò l’inadeguatezza di qualunque regista a tale compito.

Nonostante Mario Monicelli abbia scherzosamente dichiarato che la “Commedia all’Italiana” nasce proprio con Dante, manca a tutt’oggi una trasposizione completa della Commedia , e lo stesso Peter Greenaway, che ha realizzato nel 1989 il pur splendido A TV Dante (con la collaborazione dell’artista figurativo Tom Phillips) optando per il format della serie televisiva a puntate settimanali (trasmesse nel Regno Unito da Channel 4 a partire dall’episodio-pilota di Inferno V), non è di fatto riuscito ad andare oltre il Canto VIII dell’ Inferno (modesto il tentativo di prosecuzione di Raul Ruiz [ Inferno 9-14 , 1995] ambientato a Santiago).

Pur nel fallimento del progetto generale, il Dante per il piccolo schermo di Greenaway resta un capolavoro di stile, da collocare lungo una linea di sperimentazioni off e underground quali l’animazione Thirteen Cantos of Hell dello scultore inglese Peter King [1955, memore del Principe Achmed di Lotte Reiniger], il Pokol (’Inferno’) televisivo dell’ungherese András Rajnai [1974] dove Dante diviene metafora dello scrittore dissidente e censurato, lo Skärseld (‘Purgatorio’) dello svedese Michael Meschke e del turco Orhan Oguz [1975], la Comoedia in chiave punk e morfinica dell’italiano Bruno Pischiutta [1980] dove Dante è un eroinomane, il cortometraggio pittorico (6 min.) The Dante Quartet di Stan Brakhage [1987], il Paradiso: Dante’s Dream di David Simpson [1990], o la più recente animazione Dante’s Inferno dell’americano Sean Meredith [2007].

Naturalmente nei decenni successivi il testo dantesco è sottoposto anche ad esperimenti-monologhi di varia natura, come il corto di Rosa von Praunheim Samuel Beckett o il curioso Rosso dei Kaurismäki Brothers, sino alla miniserie inglese A TV Dante dell’89, che reca la firma collettiva di Tom Phillips, Raoul Ruiz ma soprattutto di Peter Greenaway, il carismatico, contorto, labirintico, multidisciplinare e spesso insopportabile autore de “I misteri del giardino di Compton House” e “Il ventre dell’architetto”. Il lavoro di Greenaway affronta i primi otto canti dell’Inferno in un caleidoscopio stilistico dove s’intersecano parti monologanti in primo piano, allegorie, numerologie, materiali d’archivio, eleganti nudi e riferimenti pittorici: i ruoli di Dante, Virgilio e Beatrice sono affidati rispettivamente a Bob Peck, John Gielgud e Joanna Whalley-Kilmer, e l’insieme rappresenta forse il più ambizioso (ancorché puntualmente fallito) tentativo di raccordare la fascinazione simbolistica del verso dantesco con l’infinito e inestricabile intrico di “segni” che popolano il morboso immaginario dell’autore inglese.

Il TV Dante di Greenaway è precorritore di Internet e dell’ ipertestualità , dove, accanto ad un uso spregiudicato e raffinato al tempo stesso del nudo, delle computer graphics, del cut-up(sono presenti vecchi spezzoni di film ed altri media ), della mera dizione poetica a riempire la scena (Virgilio è interpretato dall’attore shakespeariano Sir John Gielgud), della modalità di attualizzazione (la «selva oscura» del traffico metropolitano, il «greve truono» associato alla bomba atomica, gli scontri Guelfi-Ghibellini tradotti come scontri tra manifestanti e polizia, l’Inferno come campo di sterminio ecc.), appaiono sullo schermo dei pop-ups entro i quali esperti di specifiche aree (tra i quali il naturalista Peter Attemborough familiare agli spettatori) si avventurano per campionature nello spessore della polisemia dantesca, e dove la struttura dei collegamenti (i links appunto) non è celata, ma al contrario esibita secondo i dettami del postmoderno.

In definitiva, anche se manca una traduzione diretta dell’opera di Dante in video (se non, sorprendentemente, oggi in video-gioco, il Dante’s Inferno della Eagames – che fonde il mito di Orfeo ed Euridice ad un Dante-crociato e quantomai muscolare – ora proposto in versione cinematografica per la Universal Pictures ), quanto mai vari e diffusi sono i modi dei riusi e dei riciclaggi indiretti, soprattutto nel cinema d’autore, e centinaia sarebbero gli esempi di contatti più o meno profondi o significativi.

Si va dalla citazione di alcuni versi (la «lacrimetta» di Bonconte da Montefeltro nell’epigrafe di Accattone [Pasolini, 1961], la battuta frivola en passant «non rinnoviamo disperato dolor che il cor ci preme» del padre di Marcello che non vuole parlare della sua età ne La dolce vita [Fellini, 1960], il sarcasmo del «lasciate ogni speranza voi che entrate» rivolto ad una neoprostituta ancora in Accattone , il «vidi gente attuffata in uno sterco» recitato da un detenuto malato in Mamma Roma [Pasolini, 1962]), alla presenza di una riconoscibile effigie di Dante sulla scena ( Amarcord [Fellini, 1974]), alla paronomasia (il “Convegno dei Dentisti Dantisti” di Uccellacci e uccellini [Pasolini, 1966]), alla ripresa di specifiche e precipue strutture morali infernali (i “gironi” “delle manie” “della merda” e “del sangue” di Salò o le 120 giornate di Sodoma [Pasolini, 1975]) e purgatoriali (il serial-killer che uccide secondo la legge del contrappasso e l’ordinamento dei sette peccati capitali in Seven [capolavoro di David Fincher, 1997, con Brad Pitt e Morgan Freeman]), all’inserimento di raffigurazioni dell’aldilà ( Decameron [Pasolini, 1970]), al ricalco del rapporto attanziale Dante-Virgilio come rapporto pellegrino-guida nell’aldilà (così nel pastiche new-age cristiano-buddista What Dreams May Come [Vincent Ward, 1998]), alle libere modulazioni sul tema di Paolo e Francesca (l’ascolto della sinfonia Francesca da Rimini di Cajkovskij che fa sfiorare il delitto a un marito geloso in Unfaithfully Yours [Preston Sturges, 1948], la ri-lettura femminista della storia nel Francesca è mia di Robert Russo [1986, con Monica Vitti anche come collaboratrice alla stesura]).

Si arriva così, distanziandosi sempre più dal testo, all’astuto marketing di titoli ad effetto, “danteschi” solo in apparenza (ben 23 titoli che iniziano con Inferno sono registrati nel di Paolo Mereghetti): è il caso dei disaster-movies a effetto A Towering Inferno (di Irwin Allen [1974] dove l’inferno del grattacielo in fiamme sembra presagire l’11 Settembre) e Dante’s Peak (di Roger Donaldson [1995] dove il ‘Picco di Dante’ è in effetti un vulcano realmente esistente sul territorio americano), della farsa psicotica A Divina Comédia del portoghese Manoel de Oliveira [1991], della serie televisiva americana di gay-horror sessualmente esplicito Dante’s Cove (di Michael Costanza [2005-2009] dove la ‘Insenatura di Dante’ è il nome di un’isola di turismo di élite), infine della commedia metropolitana Dante’s dell’americano Armand Mastroianni [2009], dove il nome del poeta e della sua opera diventano puri flatus vocis .

 

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