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La rivoluzione di Fra Tommaso Campanella, figura curiosa che tende tranelli agli studiosi

Della tolleranza e della fraternità fra gli uomini. Campanella ci appartiene; appartiene a tutti quelli che hanno conosciuto la violazione del proprio mondo, la corruzione, il dispotismo, la violenza

di Maria Elisabetta Curtosi

Tommaso Camapanella
Tommaso Campanella

Nella prefazione al volume di Mario Moretti “La rivoluzione di Fra Tommaso Campanella”, pubblicato da Veutro Editore, nella ‘Collana della crudeltà e della violenza’ diretta da Rafael Alberti e Maria Teresa Leon, collana, precisa l’editore, “dedicata a Bertrand Russel come al simbolo più luminoso della sempre più folta schiera di filosofi, scienziati, letterati e uomini civili che lottano per un mondo pacifico e per il rispetto umano” Miguel Angel Asurias scrive: “L’anno scorso, di passaggio a Roma con mia moglie, siamo andati insieme al fraterno amico Rafael Alberti in un teatrino di Piazza Navona e il Tevere, dove rappresentavano un ‘Processo a Giordano Bruno’. La sorpresa è stata piacevole; l’occasione inaspettata. L’antitesi tirannia–libertà aveva qui la ferma e dolorosa angoscia dei grandi fatti corali, e il messaggio filtrato dai documenti autentici della vicenda di Giordano Bruno era presentato in un contesto che aveva l’impressionante, inconfondibile sapore della verità. Abbiamo voluto conoscere l’autore, Mario Moretti. Ci ha parlato della sua idea di un teatro-storia dove nulla sia affidato al caso o alla fantasia, ma dove il documento sia rivissuto e ricreato in una gamma di possibilità che va dal vero al verosimile, dal plausibile all’attendibile. Ho avuto l’impressione che il Moretti stia esplorando un terreno verminoso per estrarre dal brulichio immondo la pepita della verità”.

La lettura de ‘La rivoluzione di fra Tommaso Campanella’ me lo ha confermato.

Anche qui l’aggancio con la realtà risulta straziante: il dolore della storia si dilata, sorvola le epoche, le scavalca, arriva fino a noi. Leggi e ti accorgi di masticare e masticare la verità, come un pezzo di canna dalla polpa bianca. Alla fine hai la bocca amarognola, ti viene da sputare, perché la verità non è mai dolce.

La straordinaria esperienza di Campanella ha la vivacità, la corposità, la tropicalità della vita. Moretti espone i suoi documenti come foglie di tabacco: li allarga, li mette ad essiccare al sole, poi li “trincia” nella forma teatrale. Il risultato è immediato: Campanella ci appartiene; appartiene a tutti quelli che hanno conosciuto la violazione del proprio mondo, la corruzione, il dispotismo, la violenza”.

Mai come oggi”, chiosano Rafael Alberti e Maria Teresa Leon, “l’umanità ha avvertito il bisogno di riesaminare con occhio critico e privo di indulgenza la storia di cui è stata ed è protagonista. All’ingenua fiducia con la quale aveva creduto nella possibilità del proprio rettilineo progresso, sembra ora determinata a sostituire la ferma decisione di analizzare le cause di tante tragiche esperienze, dalle guerre ai campi di sterminio, al genocidio. L’umanità sembra aver preso atto che una gran parte della sua storia è stata scritta all’insegna della ‘violenza e della crudeltà’. Non vi è niente di fatale in tutto ciò. All’origine di entrambe vi è il cieco egoismo, l’ostinata determinazione di difendere il privilegio, l’abuso del potere contro ogni diritto, che genera reazioni di cui è spesso difficile constatare la tragica necessità”.

L’ambizione di “Abolire la Miseria della Calabria”, Rivista Nonviolenta, va nella stessa direzione della “Collana della crudeltà e della violenza” diretta da Rafael Alberti e Maria Teresa Leon, e cioè di contribuire a restaurare attraverso la conoscenza delle cause della crudeltà e della violenza, la fiducia nella capacità’ dell’uomo di scrivere la storia della tolleranza e della fraternità fra gli uomini.

Poche opere del Seicento hanno sollevato copiosi studi e appassionate discussioni come quella di fra Tommaso Campanella. Dagli scrittori e storici contemporanei a Campanella come G.Voet (Disputationese selectae,1648) che definiva “Ateo e libertino il filosofo di Silo”, o il cattolico M. Mersenne che mette il pensatore calabrese in compagnia degli atei, mentre il laico De Sanctis sostiene la tesi di un neo–guelfismo campanelliano.

Tortura del palo

 

 

 

 

Dagli storici politici della fine del secolo decimo nono che videro nella ‘Civitas solis’ e negli Aforismi politici le tavole precorritrici del comunismo, agli storici della filosofia che nel ‘De Sensu Rerum’ o nel ‘De Investigatione’ videro il precursore di Cartesio e dell’idealismo, il problema campanelliano è come si vede appassionante.

In tempi romantici il saio del domenicano di Stilo prese posto accanto alla tragica ombra di Giordano Bruno e alla figura gigantesca di Galileo: martiri della loro idea, propugnatori della libertà di pensiero e della verità scientifica contro la menzogna dogmatica, essi furono i simboli, gli argomenti polemici di tutte le battaglie anticlericali. In realtà il posto del domenicano di Stilo era in quella Accademia cosentina fondata da Bernardino Telesio. Campanella quindi continuatore di Telesio, una sorta di reincarnazione. Ma come sosteneva Alberto Consiglio sulle pagine de “L’Italia Letteraria” non v’è pensiero vivo che non subisca revisioni, non c’è verità che in un secondo tempo non appaia meno pura, meno sicura.

Un saggio di B.Croce ‘Il comunismo di Tommaso Campanella in materialismo storico ed economia marxistica’ del 1895 fa giustizia del Campanella anticipatore degli scrittori politici, negando alla Città del sole ogni valore sia come documento storico sia come indizio sociale. Già l’Amabile aveva compiuto una revisione totale dei giudizi correnti e dei luoghi comuni diffusi sul frate di Stilo. Tra l’altro s’era potuto stabilire che la congiura per la quale Campanella fu arrestato e per quasi un trentennio tenuto tra il letto dei tormenti e l’oscurità della segreta, era stata effettivamente ordita. “Avevano torto i romantici ad accendersi retoricamente”, continua il Consiglio, “di sdegno per la tirannide dei viceré e la spietata giustizia dei preti: il dominio spagnolo nelle Calabrie corse in effetti un bel pericolo e una bella avventura avrebbe avuto il suo compimento se i domenicani, i vescovi, i preti, i contadini calabresi che giuravano per fra Tommaso, avessero, in alleanza coi Turchi del bassa Cicala, stabilita la Città del sole sugli Appennini di Calabria”.

Ora pare che la valutazione negativa della filosofia campanelliana deve a sua volta subire una revisione. Né è stato un segno lo studio di de Mattei che tentava di rivalutare la politica campanelliana dimostrandola di spiriti machiavellici, inserendo la figura del domenicano in quell’atmosfera del segretario fiorentino.

Nel suo studio, ‘La filosofia politica di Tommaso Campanella’ (Bari, Laterza, 1930) Paolo Treves, analizza con occhi molto sereni il pensiero politico del domenicano con uno sforzo di grande equilibrio, sobrio e chiaro: i giudizi sono dosati con cura, la documentazione è abbondante e la scelta delle citazioni sempre acuta ed opportuna.

Tortura dei cavicchi

Figura stranamente ambigua, si può giurare che sia un veggente, un’accesa anima di profeta e subito dopo dubitare che sia un impostore o un pazzo. Fu questo il caso dei rappresentanti dei viceré e del clero che istruirono il suo processo ed ebbero a concludere per la sua pazzia, a proposito della congiura calabrese, salvo a ritenerlo colpevole ed eretico in materia di fede. Fu ancora il caso di coloro che denunziarono i plagi del Campanella ed espressero dai suoi testi massime e concetti del Botero e del Gucciardini. Il Treves si sforza di dimostrare l’originalità del pensiero campanelliano, tratto di nuovo dalle ombre del medioevo e messo in a meno macchievellismo il pensiero del primo Seicento senza addirittura risalire sul piedistallo del vaticinatore. Tra coloro che vogliono ridurre a mero machiavellismo il pensieri campanelliano e coloro che fermandosi alle innumerevoli e spietate invettive fulminanti di fra Tommaso contro il segretario fiorentino, lo definiscono l’anti-macchiavelli. Il Treves elegge una felice posizione mediana: Campanella inconsapevolmente avrebbe preso dal Macchiavelli la ragione di stato, l’etica esteriore del ‘fine giustifica i mezzi’.

In realtà egli risentiva i cattivi influssi del secolo e su di un medesimo piano si trovano i politici laici del genere di Macchiavelli i gesuiti e Campanella che tenacissimamente avversava ambedue le tendenze. Il frate di Stilo non aveva affatto coscienza di questo suo machiavellismo: egli credeva, in effetti, che, permutati i fini dello Stato nei fini della Chiesa, e quindi in quelli di Dio, fosse capovolto il contenuto etico della politica. Rifatta, dunque la distinzione tra Macchivelli e machiavellismo, del quale furono eccellenti campioni proprio gli scrittori della Controriforma che osteggiavano la politica laica del fiorentino, l’opposizione tra lo ‘stilese’ e il gran segretario appare evidente e sostanziale. Nel primo si elaborava un concetto teocratico universalistico dello Stato che, in gran parte era pur sempre il pensiero tradizionale dei politici formatosi nell’orbita della scolastica: supremo ed universale potere del pontefice; potere esecutivo nell’imperatore, primo suddito del pontefice, collettività ferramente sottomessa ai principi etici della verità rivelata, estrema subordinazione dell’individuo ai fini religiosi della società.

Che aveva a che fare questa concezione nella quale entravano tumultuosamente in concorso tutte le disparate letture di fra Tommaso ,la tradizione scolastica e l’esperienza monastica, col pensiero veramente innovatore e moderno di Nicolò Macchiavelli?

Perché veramente nel ‘Principe’ si svolge il concetto di Stato da quello di individuo e si libera l’attività economica dalla subordinazione religiosa.

Ed è contro questa sostanza che si eleva, pieno di rampogne il frate di Stilo: tutta la vita egli lotterà contro gli scrittori che sommettono la religione agli interessi dello Stato, in favore di un impero utopistico sottomesso ai fini religiosi.

In effetti la dottrina del ‘Principe’ e la dottrina della ‘Città del sole’ e, meglio ancora, della ‘Monarchia di Spagna’ sono divise dall’abisso medesimo che divideva Riforma e Controriforma: il calvinismo in quel secolo, trovava nella predestinazione le ragioni religiose che davano valore e vigore alla vita terrena, mentre i mistici del cattolicesimo rinnovato ribadivano il concetto della valle di lacrime, dell’esilio terrestre. Tuttavia, benché rigidamente schierato tra le file del cattolicesimo il pensiero del frate di Stilo, inconsapevolmente tratto dal maturarsi dei tempi nuovi, tradisce concetti eterodossi, vivacemente innovatori, proprio quelli che lo hanno fatto definire profeta e anticipatore. Nel suo amore per la natura, per l’osservazione diretta, per il progresso e per il miglioramento delle condizioni di vita sociale, il Treves trova i documenti probatori di un’alta e luminosa originalità.

A proposito della bibliografia campanelliana, consultando un dizionario di scienze ecclesiastiche molto ortodosso, compilato dai gesuiti Richard e Girond, dove alla voce Campanella troviamo la “biografia di un dottore della chiesa”. Se si va invece nella ‘Istoria civile’ di Giannone troviamo un Campanella diavolo.

In realtà Campanella è un uomo d’azione, un rivoluzionario che fece suo il motto: “Propter Sion non tacevo”. Si scagliò contro pontefici e contro principi e contro ogni sorta di ingiustizie, per la libertà e la giustizia sociale.

Lo stesso De Sanctis, quando parla del civile impegno della poesia di campanella definisce lo scrittore calabrese “Tutto d’un pezzo e alla naturale ,veemente, rozzo, audace di pensiero e di parola, propenso a lasciare le discussioni astratte, le sottigliezze teologiche, malattia del tempo, e volgersi alla storia, alla geografia, allo studio del reale, per migliorare le condizioni sociali”.

Campanella filosofo naturalista.

Nell’anno 1589 Campanella esordisce, sulla scia di B.Telesio come filosofo e lo fa con ‘La Philosophia sensibus demonstrata’, lavoro fortemente polemico e anticonformista.

Nel 1591 compone in latino ‘Del senso delle cose e della magia. Tutte le cose sentono’:” tanta sciocchezza è negare il senso delle cose perché non hanno né occhi né bocca né orecchie, quanto negare il moto al vento perché non ha gambe, e il mangiare al fuoco perché non ha bocca ,il vedere a chi sta in campagna perché non ha finestre d’affacciarsi, e all’aquila perché non ha occhiali”.

Ad una conoscenza sopraggiunta “addita” come la chiama il frate di Stilo c’è una conoscenza nascosta “abdita” che è innata ed immediata e costituisce la forma preventiva della esistenza delle altre.

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