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La rivolta Tunisina ed il ruolo dell’Europa

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “Il Domani della Calabria” del 22 gennaio 2011

Secondo le stime ufficiali dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, le vittime degli scontri cominciati il 17 dicembre 2010 sono ormai oltre cento. Dopo un mese di dure proteste della popolazione, 14 gennaio, il presidente tunisino Zine el Abidine Ben Ali è fuggito in Arabia Saudita. Tre giorni dopo, il primo ministro Mohammed Ghannouchi ha annunciato un governo di unità nazionale, a cui partecipano anche esponenti dell’opposizione. Il 18 gennaio quattro ministri (di cui tre del potente sindacato Ugtt) si sono ritirati dal governo, mentre nel paese sono scoppiate nuove proteste. Ma la rivolta tunisina non è stata una sorpresa per nessuno, se non per una élite che pensa di aver trovato la “formula magica” per mantenere il potere per sempre rimandando i “cambiamenti in cui i tunisini speravano fin dalla caduta del presidente Habib Bourguiba nel 1987”. “Questa formula”, scrive Burhan Ghalyoun sul quotidiano tunisino Al Shuruq, (applicata da molti regimi arabi) “deriva dal modello cinese e combina due elementi: l’allontanamento della politica dalla sfera pubblica vietando ogni forma di attivismo e il totale controllo dell’economia, sia accaparrandosi gli investimenti stranieri sia accumulando ricchezze con ogni mezzo”. Di una Tunisia che “brucia” parla Sami Naïr, filosofo franco-algerino, sul quotidiano spagnolo El País. Le proteste popolari, nel frattempo, si diffondono in tutta la regione. Ma in realtà c’è il rischio che sia, a breve, l’intero mondo arabo ad andare a fuoco. Perché, se in Tunisia siamo alla rivolta, in molti paesi arabi la situazione è simile e rischia di diventare esplosiva. In Algeria come nella vicina Tunisia, fanno notare i media televisivi britannici, molti ragazzi sono scesi in piazza per manifestare contro gli aumenti del prezzo del cibo. Lì è ancora in vigore lo stato di emergenza proclamato nel 1992 e nella capitale sono vietate le manifestazioni. Ed anche nell’Egitto di Mubarak le analogie con la Tunisia sono parecchie: condizioni economiche miserevoli della popolazione e poca libertà d’espressione caratterizzano il governo in carica ormai da oltre trent’anni. Poi c’è la “polveriera giordana” dove, lo scorso 15 gennaio, è stato il “giorno della rabbia”. Migliaia di cittadini sono scesi nelle piazze di tutto il paese per protestare contro l’escalation della disoccupazione e dei prezzi dei beni di prima necessità. E pure in Marocco, come in Tunisia, il paese sta affrontando una crisi e una “corruzione dilagante”. La reputazione del Marocco, sottolinea la BBC, è stata ulteriormente danneggiata dalle rivelazioni di Wikileaks sugli “affari della famiglia reale” e sull’avidità di personaggi vicini al re Mohammed VI. I dispacci dall’ambasciata statunitense a Tunisi citavano problemi simili anche nella cerchia di Ben Ali. Ma in Marocco, come in Egitto e in Algeria, la libertà di stampa è assai limitata e le autorità riescono a contenere le proteste. Insomma, lo spettro dei cambiamenti politici che si prospettano per la Tunisia preoccupa i leader di tutta la regione. Persino nella Libia del colonnello Gheddafi si teme l’effetto domino. Non c’è nessuno meglio di Zine per governare la Tunisia, che ora vive nella paura” è la reazione, a ferro caldo, del leader libico al rovesciamento del presidente tunisino e riflettono, è evidente, il suo nervosismo per un possibile dilagare delle proteste. Il colonnello guida infatti il paese da oltre quarant’anni col pugno di ferro: tutte le proteste vengono duramente represse, ma “negli ultimi giorni ci sono state molte manifestazioni anche ad Al Bayda”. Internet e la circolazione delle informazioni sono ancora limitate. Dopo le rivolte tunisine ed algerine i capi di stato arabi si sono affettati a calmierare i prezzi dei prodotti di base per prevenire nuove manifestazioni. Una ricetta, scrive il quotidiano algerino El Watan, che “sembra aver dato buoni risultati”. “Ma quanto durerà? Lo scontento della popolazione non sparisce”. Le “cause strutturali” che l’hanno provocato non si potranno risolvere col semplice controllo dei prezzi. C’è senz’altro bisogno che i governi di quei paesi si adoperino in politiche lungimiranti ma, senz’altro, c’è bisogno che l’Europa guardi a sud del Mediterraneo allargando il suo orizzonte economico, oltreché culturale, anche a quei paesi che sono nostri stretti vicini. Se l’Europa e l’occidente in genere hanno svolto un ruolo chiave nella democratizzazione dei paesi dell’Europa dell’est, ora stanno facendo l’esatto contrario con i paesi arabi. L’occidente deve assumersi le sue responsabilità. Non soltanto sosteniamo molte delle loro dittature con “amicizia”, ma permettiamo pure il saccheggio delle ricchezze di questi popoli consentendo ai loro dittatori di aprire comodi conti bancari dove depositare quel che hanno rubato ai loro popoli ed autorizzandoli a comprare, nei nostri paesi, immobili e azioni di grandi aziende europee.

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