Archivi tag: Pertusola Sud

Disastro ambientale: il reato che non c’è. La norma attuale: “un’arma spuntata”

Da oltre 7 anni la Corte costituzionale, con una sentenza, ha chiesto al “legislatore” di istituire il reato di disastro ambientale. Da allora stiamo aspettando, e i processi vanno in prescrizione con buona pace delle vittime e dei territori stuprati.

di Giuseppe Candido [twitter_follow username=”ilCandido” count=”false” language=”it”] 

Martedì 23 dicembre dell’anno ormai passato, nel recensire il mio “lungo articolo e molto interessante” sulla vicenda Marlane pubblicato dal Garantista, agli ascoltatori di Stampa e Regime, la rassegna stampa di Radio Radicale, Massimo Bordin raccomandava agli ascoltatori di leggere – da il Fatto Quotidiano – “per aiutare a capire”, anche “un articolo firmato da un giudice costituzionalista che è stato”, – ha ricordato Bordin – “prima, Ministro della Giustizia e, prima ancora, un grande avvocato come il professore Flick che proprio di questo parla. Non del processo calabrese, no. Però della questione in generale del reato di disastro ambientale”.

Avendo scritto io l’articolo sulla Marlane ed essendomi occupato di vari disastri ambientali della Calabria col mio volume La peste ecologica e il caso Calabria (Non Mollare ed.), non potevo esimermi dall’andare quanto meno a leggere, giusto “per capire meglio”.

In quell’articolo – scritto sotto forma di lettera al direttore e pubblicato a pagina dieci dal quotidiano diretto da Antonio Padellaro, – l’ex ministro della Giustizia, già componente della Corte costituzionale, Giovanni Maria Flick spiegava il perché – a suo parere – sia urgente introdurre il reato specifico di disastro ambientale che, invece, viene oggi punito dall’articolo 434 del C.P., attraverso la generica previsione di “altro disastro”.

Giovanni M. Flick, giudice Costituzionale, ex ministro della Giustizia e famoso avvocato
Giovanni M. Flick, giudice Costituzionale, ex ministro della Giustizia e avvocato di chiara fama

Secondo Giovanni Maria Flick il disastro ambientale dove essere previsto da una norma penale specifica. Questo non solo perché “la Costituzione prevede che i comportamenti e i fatti di rilevo penale siano espressamente previsti dalla legge”, ma soprattuto per evitare che i processi finiscano come quello dell’Eternit, o come quei tanti processi per disastro ambientale che – anche in Calabria – si sono conclusi con un niente di fatto per intervenuta prescrizione.

La norma attuale (il generico “altro disastro” punito dall’art.434 del C.P., ndr), è comunque un arma spuntata perché, la misura (bassa) della pena minima, e la difficoltà di prolungare nel tempo il momento in cui il reato si ‘consuma’, fanno sì che la prescrizionescriveva nell’articolo il professore Flick – “scatti in tempi abbastanza brevi, perfino anteriori al verificarsi degli effetti dannosi, ed eventualmente delittuosi, sulla popolazione e l’ambiente”.

Poi, dopo aver rammentato gli epiloghi recenti del processo Eternit (in Cassazione) e quello (in primo grado) per la discarica di Valpescara, il professore Flick, per far meglio comprendere la questione, cita la sentenza n°327 del 2008 della Corte costituzionale di cui egli stesso, quando era componente della Corte, fu redattore. In particolare, con quella sentenza, – ha ricordato l’ex guardasigilli – “pur non ritenendo fondata la questione di legittimità costituzionale” (ritenendo costituzionale punire il “disastro ambientale” con il reato “altro disastro” previsto dall’articolo 434 del C.P.), la suprema Corte, definì “auspicabile che (…) il disastro ambientale (formi) oggetto di autonoma considerazione da parte del legislatore penale”.

Ferma restando la conclusione raggiunta,”scriveva la Corte nel 2008“è tuttavia auspicabile che talune delle fattispecie attualmente ricondotte, con soluzioni interpretative non sempre scevre da profili problematici, al paradigma punitivo del disastro innominato – e tra esse, segnatamente, l’ipotesi del cosiddetto disastro ambientale, – formino oggetto di autonoma considerazione da parte del legislatore penale, anche nell’ottica dell’accresciuta attenzione alla tutela ambientale ed a quella dell’integrità fisica e della salute, nella cornice di più specifiche figure criminose”.

Macché. Nel 2015, a quasi 7 anni da quella pronuncia, come notava nell’articolo lo stesso Flick, per il reato di disastro ambientale, “siamo ancora in attesa del legislatore”.

Partendo dall’inchiesta sull’inquinamento del Fiume Oliva (e il relativo disastro ambientale) per la quale indaga la procura di Paola, passando per le indagini e i processi sul Sito di Interesse Nazionale di Cassano allo Ionio, su quello di Cerchiara di Calabria, sino ad arrivare alle inchieste sui siti inquinati non inclusi nei SIN, fino alle inchieste sulle discariche disseminate sul territorio calabrese, nel volume La peste ecologica e il caso Calabria che ho recentemente pubblicato per i tipi dell’associazione Non Mollare, le parole “disastro ambientale” compaiono una marea di volte. Purtroppo, troppo spesso, tali parole sono seguite da un’altra: “prescrizione”.

Come a Crotone: una vicenda lunga, complessa, che s’intreccia inevitabilmente, dal punto di vista giudiziario, con un processo che vede, ex dirigenti del gruppo, imputati di “omicidio plurimo colposo aggravato da colpa cosciente e disastro ambientale” proprio a causa di veleni industriali utilizzati, senza adeguate precauzioni, e “dimenticati” poi, un po’ ovunque nella città di Pitagora. Prescrizione è la parola che conclude tutto. Invece che “bonifica”, come dovrebbe essere.

Stessa cosa succede leggendo la relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta (XVI Leg.) sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti. Le parole “disastro ambientale” e “prescrizione”, praticamente, vanno assieme. La prescrizione – grazie ad una giustizia lumaca e ad un reato non specificatamente adeguato alla pericolosità – è ormai diventata il sistema per farla franca dall’imputazione di disastro ambientale; lo “stratagemma” per eludere la giustizia e il pagamento sia dei danni alla salute sia quelli arrecati all’ambiente. Le bonifiche diventano così un miraggio. Il principio del “chi inquina deve pagare” se ne va a quel paese. Ringraziano a gran voce i gruppi industriali dismessi e non, assieme a chi dai traffici illeciti di rifiuti e veleni continua a ricavare profitti enormi inquinando falde, suoli, vegetali e cibi e mettendo a rischio la salute.

Alla luce dell’articolo di Flick e leggendo la sentenza della Corte, si capisce il perché.

Cosa aspetta il governo di twitter ad istituirlo? Che un altro disastro ambientale venga clamorosamente prescritto? Anche se può dar fastidio alle grosse realtà industriali, bisogna introdurre subito uno specifico reato di disastro ambientale per attuare il principio “chi inquina paga”, ed evitare che cittadini e territori restino vittime senza colpevoli. Così come del resto la suprema Corte aveva suggerito già dal 2008.

[twitter_follow username=”AlmCalabria” count=”false” language=”it” size=”large”]

Leggi anche

[related_posts limit=”3″]

 

Share

Passeggiando sui rifiuti

di Giovanna Canigiula

La vicenda è nota. Nel crotonese 70 mila m³ di materiale altamente tossico e radioattivo, pari a 350 mila tonnellate, miscelato con polveri provenienti dall’Ilva di Taranto e impastato col cemento, sono stati impiegati, come materiale edilizio, per la realizzazione dei cortili di tre scuole, di alloggi popolari, villette, centri commerciali, strade e perfino di una banchina portuale. Le indagini, avviate nove anni fa, hanno portato all’iscrizione nel registro degli indagati, con l’accusa di associazione a delinquere, di sette persone: il legale rappresentante pro tempore della Pertusola Sud, quelli di tre imprese edilizie (due di Crotone e una di Parma), tre funzionari dell’ex Presidio multizonale di prevenzione dell’ex Azienda sanitaria di Catanzaro.

Gli scarti industriali tossici erano prodotti dalla Pertusola Sud, stabilimento dell’Eni nato negli anni Venti su iniziativa della compagnia tedesca Rotschild e addetto alla produzione di zinco, di cui riusciva a coprire quasi la metà del fabbisogno nazionale. La Pertusola, insieme alla Montedison, è stato l’unico vero polo industriale della Calabria. Chiuso nel 1994, dopo una crisi del settore che si trascinava da circa tre anni, aveva lasciato sul lastrico i 700 operai che vi lavoravano. Nel 1998 era scoppiato il primo scandalo che aveva portato, l’anno successivo, all’arresto dell’allora assessore regionale all’ambiente e all’apertura di un’inchiesta: la Guardia di Finanza di Trebisacce, comune del cosentino, aveva infatti sequestrato una discarica abusiva di 15 mila tonnellate di rifiuti in un terreno agricolo di Cassano Jonio. Si era così scoperto che la Pertusola, per aggirare i costi dello smaltimento, trovandosi l’unico impianto preposto in Sardegna, ne aveva affidato la gestione all’ATMC SUD, azienda che lavorava in subappalto per la IMI Chimica di Milano e per la Eco Italia di Roma. L’AMTC era riuscita ad ottenere da un funzionario regionale una deroga amministrativa alla legge e, dotatasi di uno schiacciasassi e di una pala meccanica, aveva impastato i materiali radioattivi con cemento seppellendoli, oltre che nel cosentino, in altre aree sulle quali ci si apprestava ad indagare. Secondo gli inquirenti del NISA, nucleo che indaga su sanità e ambiente, esistevano due videocassette che filmavano il modo in cui gli operai delle imprese Crotonscavi eCiampà mescolavano i rifiuti tossici che poi seppellivano nei cantieri, ma una è risultata introvabile e l’altra è giunta in Procura cancellata. Non solo: parte dei rifiuti finiva in mare, probabilmente nella riserva protetta di fronte a Crotone. La conferma è venuta da un ex caporeparto della Pertusola: ordine di servizio della fabbrica era proprio di scaricare  a mare, ogni due o tre giorni, i prodotti eccedenti.

Da anni Legambiente lanciava appelli, rimasti inascoltati, sulla presenza di depositi di rifiuti tossici e nucleari nel territorio calabrese e sulla presenza di navi affondate nei mari limitrofi, sollecitando l’intervento dei responsabili regionali perché venisse attuato un sistema di controllo e monitoraggio, allo scopo di verificare anche le incidenze sulla salute. A Reggio Calabria l’esecuzione delle indagini era stata affidata, dalla Procura della Repubblica, a un’impresa con interessi nel campo che, guarda caso, non aveva trovato nessuna delle navi accuratamente indicate sulla carta. Nel “bidone Calabria”, secondo una definizione di Legambiente, mancano discariche controllate e a norma di legge, i rifiuti vengono collocati alla bell’e meglio sfruttando norme temporanee ed eccezionali, sono pochi e mal funzionano i depuratori, nessuno interviene a frenare lo scarico abusivo nei mari, i fiumi sono fossi di scolo di acque luride. Eppure, la Regione “non è riuscita a realizzare un piano sanitario né un piano di controllo del territorio né  un piano per la realizzazione di discariche e l’individuazione delle zone in cui collocarle né un piano per il controllo degli scarichi fognanti e dei depuratori”. DalRapporto Ecomafia 2008 la Calabria risulta essere la quarta regione in Italia per gli illeciti ambientali, legati a doppio filo con le attività criminali di stampo mafioso, ma non si ipotizza al momento, nel caso di Crotone, alcun collegamento con la ‘ndrangheta, sebbene l’impresa Ciampà sia stata oggetto di indagine in tal senso negli ultimi anni e il suo rappresentante legale sia un sorvegliato speciale.

Il mondo politico stupisce. Ieri il Governatore della Calabria, A. Loiero, dai microfoni di Uno mattinaha indicato l’Eni e lo Stato  quali responsabili del disastro: il primo perché, quando ha chiuso negli anni Novanta, ha lasciato  in eredità disoccupati e veleni, ma non ha realizzato la bonifica di un’area che era stata riconosciuta sito nazionale da disinquinare; il secondo perché ha nominato dieci anni fa, senza ottenere nulla di fatto e senza chiederne conto, un Commissario per l’emergenza ambientale.  Loiero ha dichiarato di avere subito stornato 15 milioni di euro dai fondi Por, destinandoli al lavoro di indagine di una task force di ricercatori nominata dalla Regione Calabria e composta dall’ Unical, dal Politecnico delle Marche, dalle Università di Cagliari, Napoli e Siena, dallo Iamc- Cnr e dalla Stazione zoologica di Napoli. Primi campi di indagine: terreno, aria, alimenti. Quindi, costa e mare. La Regione Calabria, ha aggiunto Loiero, si costituirà in giudizio come parte civile.

Pari sgomento a Crotone, dove ieri si è tenuta una  lunga e affollata seduta del Consiglio comunale. Ho chiesto ragguagli, oggi, a uno dei consiglieri di maggioranza, il prof. F. Pesce,  che mi ha rilasciato una lunga dichiarazione: “I cittadini hanno diritto alla verità e devono essere continuamente informati sulle soluzioni che si prospettano e sulle fasi di attuazione. Abbiamo istituito un’apposita Commissione che lavorerà a stretto contatto con i comitati cittadini per monitorare assieme la difficile soluzione. Ciò che bisogna condannare è il silenzio di quella classe dirigente che, in passato, sapeva, avrebbe potuto fare e non ha fatto e la cui assenza ha, in un certo qual modo, determinato l’indifferenza della collettività che si è allontanata dalla politica”. Secondo Pesce “la politica ha una funzione vitale per una città come Crotone e il vero politico è colui che cerca di prevenire, con interventi significativi, i problemi di qualsivoglia natura, senza aspettare che gli stessi possano incancrenirsi per poi divenire irrisolvibili. Il consenso dell’elettorato va rispettato, stima e fiducia vanno contraccambiate: si rende, dunque, necessaria una svolta che consenta un diverso percorso in grado di recuperare alla politica la piena fiducia della collettività”. Alla domanda su come la sua amministrazione intenda procedere, Pesce ha risposto che “innanzitutto essa si costituirà parte civile nel procedimento in corso” e ha aggiunto che “tocca all’Eni risanare la situazione come ha fatto altrove, ma è necessario che gli enti locali possano controllare i lavori sia in fase di progettazione che di realizzazione. Per intanto si hanno i primi risultati dei controlli effettuati sull’aria e sull’acqua potabile nelle aree interessate e sono negativi. Anche le due centraline messe nelle scuole interessate, per verificare l’aria, hanno dato esito negativo”. A quanti protestano per l’assenza di un piano territoriale, il consigliere risponde che esso “non può essere approntato finché le indagini della magistratura non saranno concluse. Al vaglio è, comunque, anche l’istituzione di altre commissioni che affrontino problemi vitali per Crotone come l’aeroporto, la stazione, l’università, perché turismo, cultura e lavoro sono la via che consente di dare a questa città ciò che realmente merita, anche in virtù dei suoi trascorsi”. Pesce si è da ultimo soffermato sul diritto al lavoro e alla salute, ricordando il padre che, per 25 anni, ha lavorato nel polo industriale di Crotone dove molti, respirando i vapori, si sono ammalati di cancro o, nel migliore dei casi, hanno perso i denti: “Non si può essere indifferenti alla morte. Anche se i siti inquinati e causa di inquinamento hanno offerto lavoro a migliaia di cittadini, non va dimenticato che lo stesso lavoro è stata causa di mali incurabili. Il lavoro è un diritto, ma la vita è un bene incommensurabile”.

Difficile dire a quali risultati definitivi porterà l’indagine in corso. Altrettanto difficile è capire in che modo, in un terra dalle forti connivenze tra politica, imprenditoria e criminalità organizzata, si potrà affrontare il problema rifiuti. Occorre, però, che maturi una maggiore coscienza dei singoli e della collettività, riunita magari in comitati, come sta accadendo a Crotone. Ma non a disastro avvenuto. Mi sovviene la proposta radicale dell’anagrafe pubblica degli eletti: brutta parola ma utile, forse e non solo, in terre sinistrate, dove di rado ci si prende la briga di seguire un consiglio comunale o chiedere di poter  prendere in visione le delibere di giunta. Piccoli passi, piccolissimi, per un controllo diretto di ciò che si decide intorno a noi.

Share