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Il mondo arabo e il cambiamento democratico

di Giuseppe Candido

Pubblicato su “il Domani della Calabria” del 20.02.2001

La sete di cambiamento si estende in tutto il mondo arabo. Dopo la Tunisia di Ben Ali e l’Egitto di Mubarak, ora è la volta della Libia di Muammar Gheddafi dove il colonnello è al potere da oltre 40 anni ma anche dello Yemen dove le manifestazioni reclamano la partenza del Presidente Ali Abdullah Saleh e sono proseguite per il sesto giorno consecutivo. Centinaia di studenti hanno cercato invano di marciare sul palazzo presidenziale. Anche la Libia, scrive nei giorni scorsi il quotidiano francese Le Monde, ha vissuto il suo “giorno della collera” dopo che i movimenti di rivolta hanno costretto i leader di Tunisia ed Egitto a lasciare il potere. Gli appelli a manifestare contro il regime del colonnello sono venuti principalmente da attivisti anonimi su internet che hanno lanciato inviti a manifestare sui social network. In Libia, paese ricco di petrolio, scrive ancora Le Monde, ma che soffre degli stessi mali che affliggono gli altri stati della regione le contestazioni toccano soprattutto l’Est del paese, tradizionalmente ribelle, dove negli anni ’90 avevano trovato rifugio alcuni islamisti nella città di Al Baida dove almeno quattro persone sono state uccise durante gli scontri di mercoledì. A Bengasi, seconda città libica al confine con l’Egitto, ci sono stati scontri violenti tra manifestanti da un parte e forze dell’ordine e sostenitori del regime dall’altra. Anche in Giordania si moltiplicano le manifestazioni per chiedere riforme politiche e istituzionali e in Iraq centinaia di manifestanti sono scesi in piazza saccheggiando e mettendo a fuoco i palazzi del governatorato della città di Al Kut e tre manifestanti sono stati uccisi. In Libia, Bahrein, Yemen, Giordania le rivolte si moltiplicano per rivendicare giustizia e libertà. In Bahrein la polizia ha scelto la forza per reprimere i manifestanti che chiedono un cambiamento politico. In questo piccolo regno il governo è sunnita mentre la maggioranza e sciita durante le manifestazioni ci sono stati morti e feriti.

La polveriera sta scoppiando ovunque nel mondo arabo e, in generale, in quello mussulmano. Poi c’è l’Iran che non è arabo né sunnita ma dove, lo stesso, l’opposizione al regime di Ahmadinejad è tornata in piazza dopo le contestazioni del voto presidenziale a Teheran nel giugno del 2009. In cambio ne ha ricevuto una dura repressione da parte del regime dei Mullah. Le figaro di qualche giorno addietro scrive un’editoriale dal titolo “L’Iran e la rivolta araba” nel quale si fa notare come proprio la rivolta araba possa indirizzarsi e percorrere due strade diverse: quella della repubblica islamica o l’evoluzione verso un sistema realmente democratico. La rivolta che è iniziata in Tunisia e in Egitto, scrive il quotidiano conservatore d’oltralpe, si estende a macchia d’olio: dopo lo Yemen, la Giordania e l’Algeria sono stati colpiti la Libia, l’Iraq e il Bahrein e anche l’Iran assiste ad una ripresa delle manifestazioni dopo un anno di calma delle opposizioni. Ma ciò che accadrà a Teheran, sottolinea Le figaro, è cruciale per la regione. Con trionfalismo il regime di Khamenei e Ahmadinejad dice di vedere negli eventi attuali le “primizie” di un Medio Oriente senza gli Stati Uniti e Israele. Solo che, fa notare sempre Le figaro, lo stesso regime dei Mullah è diventato il bersaglio principale delle contestazioni ispirate dall’Egitto e dalla Tunisia.

Se la rivolta araba, come pretende Teheran, fosse una riedizione della rivoluzione iraniana del 1979, la progressione dell’islamismo diventerebbe irresistibile. L repubblica islamica che ha già piazzato le sue pedine a Gaza, in Libano e in Iraq, trionferebbe in tutta la regione. Se invece la rimessa in discussione dei regimi autoritari corrotti proseguirà fuori dai canali dell’Islam estremo e si consoliderà in un autentico movimento democratico allora il modello iraniano stesso potrebbe essere mortalmente minacciato. Con la ripresa dei movimenti a Teheran i dirigenti iraniani sono sempre più nervosi. Il Parlamento, conclude Le figaro, ha evocato la condanna a morte dei capi del movimento riformista e il potere ha annunciato una contro-manifestazione per venerdì dopo che una brutale repressione aveva soffocato le rivolte seguite alle elezioni truccate di Ahmadinejad nel 2009 ma le rivolte in Tunisia ed Egitto dimostrano che non è necessario disporre di un’opposizione molto ben organizzata per rovesciare un regime. Bisogna fare tutto il possibile, conclude l’editoriale, per evitare che l’Iran approfitti dell’instabilità del mondo arabo. Ma qual’è il modo di farlo l’editoriale non lo spiega. Una situazione, quella araba, ben nota agli osservatori internazionali e che ha potuto sorprendere solo chi si è voluto distrarre. Le crepe nei muri dei regimi illiberali c’erano da tempo ed erano ben visibili a tutti gli osservatori che al mondo arabo prestano da tempo attenzione. Una situazione che però, nonostante fosse nota da tempo, non vede né l’Europa né gli Stati Uniti realmente impegnati a sostenere una via democratica al cambiamento e il rischio che nei vari paesi si instaurino nuovi regimi di stampo teocratico e illiberale è concreto. Una soluzione per evitare che ciò avvenga potrebbe essere quella di una Corte mondiale dei diritti umani. L’ipotesi è stata prospettata dal Prof. Cesare Romano intervenuto, in videoconferenza da S.ta Monica in California, lo scorso 17 febbraio alla prima giornata del 39° congresso del Partito Radicale Transnazionale riunito a Chianciano. Il professor Romano, docente di diritto alla Los Angeles Law School, ha concentrato il suo intervento tenendo a sfondo dell’intervento proprio quelle rivolte che in questi giorni stanno dilagando nel mondo arabo e dalle quali emerge palese che “la gente scende in piazza non già come avveniva una volta per protestare contro gli Stati Uniti o l’Occidente”. Ma la gente, il Popolo, scende in piazza, afferma Romano, per chiedere diritti politici e civili: “la possibilità di poter partecipare alla vita politica del proprio paese e di poter scegliere i loro governanti”. Ma poi si è visto anche che, una volta ottenuto quello che vogliono, si passa a quella che Romano chiama la richiesta di “una seconda generazione di diritti”. Diritti cioè economici e sociali. Romano ricorda un documento fondamentale, la Carta araba dei diritti umani che era stato adottato nel 2004 ed era entrata in vigore nel 2008. “Una copia, aggiornata e riveduta, della dichiarazione universale dei diritti umani che ricalca la Carta europea e la convenzione inter americana dei diritti umani”. La carta araba, ricorda ancora Romano, “è stata ratificata da paesi quali la Giordania, il Bahrein, la Libia, l’Algeria, gli Emirati arabi, la Palestina, lo Yemen e l’Arabia saudita”. Questi – sottolinea ancora Romano – sono proprio quegli Stati arabi che attualmente sono in ebollizione. Ecco perché, per sostenere le riforme democratiche c’é bisogno che le carte dei diritti vengano attuate attraverso l’istituzione, come fu per la Corte penale internazionale, una Corte mondiale dei diritti umani. Un’idea che non è nuova: già nel 1947 infatti, l’Australia in largo anticipo, forse troppo largo, ne aveva proposto l’adozione. Oggi i tempi sono senz’altro più maturi ed è per questo che, se proprio vogliamo cercare una notizia, al Partito Radicale Trasnazionale che in passato si occupò di Corte penale internazionale, di moratoria della Pena di morte e messa al bando delle mutilazioni genitali femminili oggi il professor Cesare Romano propone proprio d’intraprendere un campagna mondiale di sensibilizzazione per l’istituzione di una Corte mondiale dei diritti umani che sostenga la via democratica per il cambiamento nel mondo arabo.

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