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Questione meridionale, la storia del pane, la rivoluzione di Tommaso Campanella e uno speciale di 4 pagine sul terremoto in Calabria del 1905

Sono questi i contenuti dell’ultimo numero di Abolire la miseria della Calabria che, da oggi, uscirà solo in versione pdf e, a breve, completamente rinnovato nella grafica
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Cibo, cultura, evoluzione: la straordinaria storia del pane

di Francesco Santopolo

Premessa

La storia proposta in queste note non ha inteso seguire l’intero percorso di un cibo che ha accompagnato l’uomo nel suo cammino ma si ferma nel punto in cui la panificazione inizia a presentare una sostanziale omologazione di processo, fatta eccezione per alcune differenze che ancora resistono in varie parti del mondo, conservando specificità ascrivibili alla storia dell’uomo, dei luoghi in cui vive e delle risorse di cui dispone.

Per l’Europa, questo momento si può far coincidere con il Medioevo, quando la tecnica panificatoria è già definita nelle sue linee essenziali, pur facendo registrare adattamenti tecnologici in età moderna e contemporanea. È parere di chi scrive che la tecnologia, nel passaggio da una manifattura artigianale ad una manifattura industriale, non abbia modificato il processo ma si sia limitata ad imprimervi un’accelerazione e ad introdurre sistemi di controllo, a partire dal momento in cui le biotecnologie sono passate dall’applicazione affidata a metodi e tradizioni della cultura popolare (Pre- Pasteur Era), a quella legata alle scoperte di Pasteur sui microbi come agenti attivi della fermentazione (Pasteur Era) e alla scoperta degli antibiotici (Antibiotic Era).

In sostanza, poiché in molti passaggi il lavoro umano è stato sostituito dalle macchine, sono cambiati gli “attori” del processo ma questo è rimasto sostanzialmente invariato, salvo la perdita di alcuni caratteri organolettici che solo la manualità può conferire al prodotto.

Cibo come cultura

Sebbene si tenda a relegare l’alimentazione e il cibo nell’ambito ristretto delle esigenze fisiologiche, non v’è dubbio che essi rappresentino un punto di osservazione privilegiato, tanto per etnologi e antropologi, quanto per gli storici. Questo perché, le relazioni tra cibo, modo di procurarselo e modo di consumarlo, sono in stretta connessione con le risorse dei luoghi abitati dagli uomini, dei rapporti sociali, della cultura e degli atteggiamenti mentali di ogni popolazione e rappresentano uno dei tratti evolutivi che hanno accompagnato l’uomo nel suo cammino.

Facciamo un esempio estremo: le larve del Punteruolo rosso, che preoccupano il nord del mondo perché considerate una minaccia per la sopravvivenza delle palme, per alcuni popoli della Papua Nuova Guinea rappresentano una fonte importante di ferro e zinco e soddisfano fino al 30% del loro fabbisogno proteico (Martin et al., 2000).

Non è per caso che Claude Lévi-Strauss abbia “costruito” la sua Mitologica sul cibo e sulle connessioni tra questo e le altre funzioni vitali (espellere, fecondare, riprodursi) e che storici e antropologi abbiano fornito testimonianze importanti su queste interconnessioni e su come e perché la storia dell’alimentazione può essere “un buon punto di osservazione per ricostruire le condizioni di vita della popolazione e verificare l’incidenza concreta, quotidiana, che una certa struttura economico- sociale ebbe sulla vita degli uomini. A patto, s’intende, di non considerare il tema del consumo alimentare in modo aneddotico ma di coglierlo nella dimensione sociale- come a dire, storica- che gli è propria” (Montanari, 2004).

Res non naturalis definirono il cibo medici e filosofi antichi, a cominciare da Ippocrate, includendolo fra i fattori della vita che non appartengono all’ordine «naturale», bensì a quello «artificiale» delle cose. Ovvero, alla cultura che l’uomo stesso costruisce e gestisce” (Montanari, 2004). Il cibo è cultura quando si produce, è cultura quando si trasforma, è cultura quando si consuma e questi atti, considerati singolarmente o come insieme, riflettono i valori di riferimento di un popolo e ne tracciano la storia.

Una storia che parte da lontano

Tra 3,7 (Tobias) e 5 milioni di anni fa (Jhoanson e White), dalle prime scimmie antropomorfe, comparse verso la fine dell’Era Terziaria, emergerà il genere Homo. Punto di partenza di questa fase evolutiva era stato il Ramapithecus che si era evoluto nell’Australopithecus afarensis.

A tre milioni di anni si genera un “cespuglio” genetico: gli Australopiteci vanno ad imbucarsi in due “nicchie” senza sbocco: da una parte A. africanus e A. robustus, dall’altra A. aethiopicus e A. boisei. Sul terzo ramo si colloca l’Homo habilis, seguito dall’Homo erectus e dall’Homo sapiens e, infine, dall’Homo sapiens sapiens che dovrebbe identificarsi con il nostro stadio evolutivo, salvo, ovviamente, alcune debite eccezioni che si muovono nel segno della regressione. Le ricerche e i ritrovamenti fossili non consentono ancora di stabilire con precisione come e perché sia avvenuto il passaggio dal Ramapithecus agli Austrolopiteci e alla specie Homo.(R. Leackey et al. 1979) ma sono state trovate sufficienti tracce per seguire l’evoluzione dell’Homo erectus, tra l’altro ricostruite magistralmente da Roy Lewis (1992) nel romanzo “Il più grande uomo scimmia del Pleistocene”.

Protagonisti del romanzo di Lewis, sono Edward e la sua famiglia.

Edward è il prototipo della ricerca evolutiva. Arriverà ad “inventare” il fuoco, semplicemente trasportandolo all’accampamento con un ramo acceso alla fiamma di un vulcano in eruzione, “fonderà” il matrimonio esogamico, la politica e la retorica. Accanto ad Edward troviamo altri due prototipi: il reazionario zio Vania che rifiuta l’innovazione e sceglie di continuare a vivere sugli alberi e il fratello Ian, tornato da un viaggio in Francia, Cina, India e Arabia e in procinto di ripartire per l’America (Lewis, l. c.). L’immaginazione letteraria di Lewis si basa su un dato accertato.

Circa un milione di anni fa, l’Homo erectus cominciò la sua lunga marcia spostandosi dall’Africa all’Asia e poi in Europa, mosso da una spinta evolutiva che lo porterà ad esplorare nuovi spazi e a sperimentare le proprie capacità di adattamento e acquisire nuovi caratteri (Leackey et al., l. c.)

Questa non è la sola eredità che ha lasciato il nostro antenato. Questo ominide aveva anche iniziato ad osservare la natura e ad utilizzarne i prodotti spontanei. Scoprì i cereali, cominciò a nutrirsene e, presumibilmente, dopo averne consumato per molto tempo i semi crudi che inumidiva nella bocca, iniziò a frantumarli fra due pietre e a bagnarli per renderne più agevole la masticazione.

Ma la fantasia dell’Homo erectus non si fermò al semplice rudimentale impasto e, casualmente, imparò che posto a riposare su una pietra esposta al sole, acquistava un sapore particolare.

Con la scoperta del fuoco imparò a cuocerlo regolarmente, come già aveva iniziato a fare con la carne degli animali abbattuti. Senza entrare nella controversia tra natura e cultura, possiamo convenire che il passaggio dal crudo al cotto rappresenta “il momento costitutivo e fondante della civiltà umana”(Montanari, l. c.). E non c’è alcuna contraddizione se con Il crudo e il cotto (1974) Lévi-Strauss fa emergere una contrapposizione tra stato di natura e stato di cultura e con Dal miele alle ceneri (1970) compie una svolta e mette in relazione un cibo già pronto (il miele) con uno che deve essere bruciato (il tabacco) perché questo “non toglie che nella rappresentazione simbolica che gli uomini hanno storicamente dato di sé, il dominio del fuoco e la cottura degli alimenti siano stati percepiti come il principale elemento di costruzione dell’identità umana e di evoluzione dallo stato «selvatico» alla «civilizzazione»”(Montanari, l. c.). L’uomo è il solo animale che “costruisce” il proprio cibo e anche quando si nutre di prodotti naturali tal quali, lo fa “preparandoli” (verdure condite con altri ingredienti) per renderli più nutrienti o appetibili o, semplicemente, per ostentare uno status (macedonie, dolci). Dalle prime esperienze dell’Homo erectus, la storia dell’uomo e del pane riparte con la scoperta e la successiva domesticazione dei cereali, processo che ha segnato il passaggio da una società di cacciatori- raccoglitori nomadi ad una società stanziale dedita all’agricoltura. Si può tentare di dare un senso a questo mistero evolutivo, ricostruendo per sommi capi la nascita dell’agricoltura che la maggior parte degli studiosi fissa a circa 8-9000 anni a. C. (Anderlini, 1981; McKibben, 1989; Leakey et al., 1979 e 1980), mentre per altri si sposta di qualche migliaio di anni (Bairoch, 1999, vol. I; Diamond, 2006). La differente datazione è legata a problemi di metodo (1) ma, in linea di massima, uno scostamento di mille- duemila anni in un tempo così lungo, non infirma la possibilità di tentare un esame comparato che ricostruisca il rapporto e il complesso di relazioni che l’uomo riesce a stabilire con l’ambiente e con gli altri organismi viventi con i quali divide spazio e risorse trofiche.

Questa ricostruzione deve necessariamente partire dalla scoperta dell’agricoltura, momento che si fa convenzionalmente coincidere con la fine della preistoria.

McCorriston e Hole (1991) sostengono che l’agricoltura sarebbe comparsa tra gli 80 e i 150 km dal Mar Morto attorno a 10.000 anni fa, ossia -8.500/-8.000 nel Medio Oriente, -6.000/-5.000 nell’Asia propriamente detta, – 5.000 in Africa, -7.000/-6.500 nelle Americhe -6000/-6500 in Europa (Bairoch, l. c.). Questo processo potrebbe aver seguito due vie: scoperta spontanea e diffusionismo.

Nonostante le discussioni che ancora affascinano alcuni ricercatori, crediamo che le due ipotesi coesistano, piuttosto che collidere. In Italia, per esempio il modello fu portato da immigrati che provenivano dall’oriente nel 5500 a. C. circa (Rossini et al., 1987) ma in zone del mondo lontane tra loro si hanno quasi contemporaneamente segni dell’inizio di un processo che doveva cambiare il modello di vita dell’uomo. Tracce sono state trovate alle foci dell’Indo, nella penisola di Shantung, tra Pechino e Nanchino, alle foci del Fiume Giallo (Leakey et al., 1979). Tuttavia, quando si dice che l’agricoltura si affermò nella Mezzaluna fertile, si intende che qui ebbe un carattere di continuità mentre in altre zone subì vicende alterne, come in Mesoamerica dove si tornò più volte all’economia di caccia e pesca e l’agricoltura, pur essendo comparsa da circa 10.000 anni, dovette aspettare 6-7.000 anni per diventare un modello stabile, con la coltivazione di mais, zucche e fagioli (Leakey et al., l. c.).

Il nuovo modello doveva determinare altri cambiamenti. Primo, fra tutti, la crescita demografica.

Si stima che, fino al 12- 10.000 a. C., nel mondo si contassero poco meno di un milione di abitanti e solo dalla rivoluzione neolitica in avanti, la popolazione mondiale comincia a crescere, sia pure lentamente, raggiungendo circa duecento milioni nel primo anno dell’era cristiana.

Con la nascita dell’agricoltura gli uomini potevano disporre di nuove risorse alimentari e si spostavano frequentemente alla ricerca di nuove specie vegetali da domesticare e di luoghi più adatti per coltivarli. La scoperta dell’allevamento ha consentito di percorrere la stessa strada, allargando gli orizzonti dell’uomo e fornendogli sufficienti risorse per riprodursi.

Questi eventi, solitamente indicati come spartiacque tra storia e preistoria, hanno fatto intravvedere nella nascita dell’agricoltura la fine della preistoria ma, in realtà, la storia non coincide con la produzione di beni ma con quella del surplus e degli scambi perché, quando alla “produzione di mezzi di sussistenza, di generi per l’alimentazione, di oggetti di vestiario, di abitazione e di strumenti necessari per queste cose ha corrisposto [] la riproduzione degli uomini stessi: la riproduzione della specie” (Engels, 1963) che porterà, da una parte, alla produzione di surplus da scambiare e, dall’altra, alla divisione del lavoro.

L’uomo non è più soggetto alla natura ma inizia a dominarla per i propri interessi iniziando un percorso che doveva portarlo verso le società moderne.

Il dominio dell’uomo sulla natura comincia con la domesticazione di piante e animali:

Domesticazione indipendente di piante e animali indigeni:

Località Piante Animali Data*
Vicino Oriente Grano,piselli,olivo Pecora, capra 8.500 a.C
Cina Riso, miglio Maiale, baco <7.500 a.C
Mesopotamia Mais.fagiolo,zucca Tacchino <3.500 a. C.
Ande/Amazzonia Patata,manioca lama, cavia <3.500 a.C
USA est Girasole,chenopodio Nessuno 2.500 a:c.
Sabel (?) Sorgo,riso Gallina faraona <5.000 a. C.
Africa equatoriale Igname, palma Nessuno <3.000 a. C.
Etiopia (?) Caffè, teff Nessuno Non nota
Nuova Guinea (?) Banana, canna da zucchero Nessuno 7.000 a. C. (?)

E, analogamente, l’uomo fece con specie non indigene:

Località Piante Animali Data*
Europa ovest Papavero, avena Nessuna 6-3.500 a.C
Valle dell’Indo Sesamo, melanzana Bovini asiatici <7.000 a.C
Mesopotamia Mais, fagiolo,zucca Asino, gatto <6.000 a. C.

*Data più antica

Fonte: Diamond, l. c.. Modificato.

A supporto di una società in evoluzione compariranno “in varie parti del mondo i primi villaggi, i primi insediamenti umani certi in Nordamerica. Finisce, con l’ultima glaciazione, il Pleistocene e inizia l’era geologica più moderna, chiamata Olocene o Postglaciale” (Diamond, l. c.).

Siamo ancora in una fase in cui la densità della popolazione è molto bassa, varia con le condizioni climatiche e sarà solo dopo la comparsa dei primi villaggi che, con l’economia del surplus, si creeranno le premesse per la nascita delle città databile, almeno in Mesopotamia, attorno al 6-5000 a. C. (Sjoberg, 1980), perché “L’esistenza di un vero e proprio centro urbano non presuppone semplicemente un surplus alimentare, ma anche la possibilità di immagazzinare e scambiare questo surplus” (Bairoch, l. c.).

La nascita delle città, che gli Australiani hanno definito “tirannia della distanza che si aggiunge alla tirannia dell’agricoltura” (Bairoch, l. c.), riduce il valore economico del surplus. I costi e le difficotà di trasporto, abbinati alla bassissima densità di popolazione delle società preneolitiche, spiegano perché non fosse possibile la comparsa di città vere e proprie prima di questi eventi.

Quasi contemporaneamente alle città nasceranno la scrittura (Godart, 1992) e la matematica (Kline, 1999), come strumenti indispensabili per regolare gli scambi e supportare il nuovo modello.

All’inizio l’uomo è concentrato sui prodotti essenziali per la sopravvivenza (farro, grano, mais, riso) ma, quando con il surplus di produzione, cominciano gli scambi e fanno la loro comparsa i consumi di status, legati alla maggiore disponibilità di risorse, l’interesse si sposta su altri beni.

Con gli scambi ha inizio un massiccio ricorso all’emigrazione che, sebbene in tempi storici abbia assunto caratteri peculiari, è un fenomeno antico nella storia dell’uomo, anzi è iniziato nelle società pre- umane con l’Homo erectus. I gruppi di Homo erectus che, circa un milione di anni fa, attraversando una piccola striscia di terra arida, si spostarono dall’Africa in Asia e poi raggiunsero l’Europa se, da una parte, “rappresentavano le avanguardie della definitiva conquista della terra da parte della popolazione umana” (Leakey et al.,1979), dall’altra non può essere considerata soltanto “la migrazione di un popolo alla conquista di nuovi spazi” (Leakey et al., l.c.) se consideriamo che alla vigilia della rivoluzione neolitica, si stimava una densità di 9 abitanti per km quadrato per le aree tropicali, di 0,1 per l’Europa occidentale e di 1 ogni 150-350 per le zone artiche (Bairoch, l. c.)

È lecito, piuttosto, convenire che “La diffusione di Homo erectus nei continenti settentrionali fu [] la conseguenza inevitabile di un particolare sforzo evolutivo” (Leakey et al.,l. c.).

Il pane entra nella storia

Le prime sperimentazioni di coltivazione in Medio Oriente risalgono almeno al 7.000 a. C., ma è con l’arrivo dei Sumeri che l’agricoltura farà un grande balzo in avanti, grazie alla loro abilità nell’uso dell’acqua per l’irrigazione. A partire dal periodo di Uruk, venne introdotto l’aratro a trazione animale e l’irrigazione estensiva, favorendo così una ricca produzione agricola.

Per superare i problemi di siccità, i campi erano realizzati nelle aree adiacenti ai canali e posti più in basso rispetto a questi, per permettere all’acqua di defluire naturalmente.

I campi erano sistemati con il lato corto vicino al canale e venivano irrigati e arati in senso longitudinale disponendo le coltivazioni a “doppio pettine”. Il ricorso alla rotazione biennale (riposo/coltivo), consentiva economia di acqua e mantenimento della fertilità. Le zone adiacenti ai canali erano destinate alla coltivazione di cipolle, aglio, legumi e palme da dattero e solo i terreni non irrigabili venivano destinati a cereali, principalmente orzo e frumento. Alcuni campi venivano abbandonati per eccessiva salinizzazione dovuta al pessimo drenaggio che portava all’accumulo di sali nello strato arabile. Questo spiega perché nei territori pianeggianti del sud mesopotamico predominava l’orzo, notoriamente più resistente alla salinità, mentre nella parte settentrionale c’era un sostanziale equilibrio fra orzo e frumento. Per la semina dei cereali che, in generale, si effettuava contemporaneamente, veniva usata una seminatrice, mentre la mietitura prevedeva l’impiego di gruppi di tre uomini: uno per falciare, uno per formare i covoni e un terzo, probabilmente, per guidare l’attività degli altri due. Dopo la mietitura passavano i carri trebbiatori per separare le spighe dal culmo e un carro per raccogliere i chicchi. Il riparto del prodotto era pari a 1/3 per il coltivatore e 2/3 come riserva da portare nel magazzino del tempio o del palazzo.

Già nel terzo millennio a. C. si consumavano focacce, come è stato possibile rilevare da una tavoletta di Nippur in cui è scritto: «Quando mi alzavo presto la mattina, mi volgevo a mia madre e le dicevo: “Dammi la colazione, devo andare a scuola!”. Mia madre mi dava due focacce e io uscivo; mia madre mi dava due focacce e io andavo a scuola».

Importanti ritrovamenti archeologi, ci dicono che, già nel 4000 a. C., in Egitto si usava panificare in diverse varietà, tra cui il pane dolce e un’antenata della pizza.

La contemporanea disponibilità di orzo, farro e avena portava gli Egizi ad utilizzarli macinandoli e impastandoli contemporaneamente. Plinio il Vecchio (1984) ricorda che in Egitto si otteneva farina anche dall’olira” (la terza specie di spelta, n. d. r.).

L’iscrizione “io coltivai il grano, venerai il dio del frumento in ogni valle del Nilo. Nessuno ha mai conosciuto fame o sete durante il mio regno”, attribuita al faraone Amenemhat I (XII dinastia, circa 2040 a.C.), rende l’idea di come l’agricoltura fosse l’attività più importante dell’antico Egitto e la coltivazione del frumento quella cui si affidava la prosperità del paese.

L’inondazione corrispondeva per gli Egizi alla fase Alchet, quella successiva, quando il Nilo si ritirava lasciando i campi generosamente fertilizzati, era la fase Peret,. La terza fase,detta Shonon, corrispondeva al periodo meno piovoso dell’anno. Gli strumenti utilizzati erano l’aratro di legno, la zappa con una larga lama di legno e la falce per mietere.

La razione dei soldati reali comprendeva circa due chili di pane a testa ma il consumo maggiore era riservato alle classi più umili, tanto che gli Egizi erano stati soprannominati dai greci artophagoi (mangiatori di pane).

L’alimentazione era integrata con cipolle, porri, meloni, cetrioli, fagioli, sedano, fave, ceci, lenticchie e lattuga. Per l’irrigazione gli Egizi non avevano attinto alla scuola sumerica e il loro sistema consisteva nel trasportare l’acqua nelle giare, anche se, dal contatto con la Siria avevano appreso lo Shaduf che era un metodo per sollevare le acque

Gli Egizi, per fare mattoni, utilizzavano anche la paglia pressata, tagliuzzata, mischiata a fango e seccata al sole.

La macina del grano era affidata alle donne e con la farina ricavata si facevano pane e focacce salate o arricchite con semi di sesamo o di papavero. Con l’aggiunta di uva o miele, si facevano i dolci.

Tornando al pane, dopo i primi passi si trattava di affinare ulteriormente la tecnica e dopo qualche secolo si scoprirono casualmente gli effetti della fermentazione (5.000 a. C.) che si avviava spontaneamente se l’impasto veniva lasciato per un giorno all’aria prima di cuocerlo, anche se una leggenda riferisce che la fermentazione si era avviata accidentalmente quando le acque del Nilo avevano inondato i magazzini in cui era conservata la farina.

Gli Egizi utilizzarono ugualmente la farina bagnata ed ebbero modo di scoprire gli effetti della fermentazione.

Poi si passò alla frantumazione dei semi di cereali in un mortaio e alla separazione al setaccio della parte nutritiva del chicco dall’involucro che lo racchiude. Più tardi la cottura cominciò ad essere fatta al chiuso, in un vaso o in una buca scavata nel terreno e riscaldati dal fuoco.

Quando la temperatura era abbastanza alta, il fuoco veniva spento e, tolta la cenere, si introduceva il pane, prima di chiudere il vaso con un coperchio o la buca con una grossa pietra.

Poi vennero i primi forni in argilla che avevano forma conica. Sulla parte esterna veniva poggiato il pane che cadeva a terra quando la cottura si era completata.

Anche la lievitazione fu una scoperta casuale.

Il primo fattore lievitante utilizzato, oltre alla pasta acida, sembra essere stata la birra che una serva egizia avrebbe versato inavvertitamente sull’impasto. La paura di essere punita, la indusse a tacere sull’accaduto ma l’incidente consentì di ottenere un pane più soffice e fragrante che portò ad adottare la lievitazione come prassi normale nella preparazione del pane e la pratica fu in seguito adottata in Mesopotamia, Creta, Grecia e Magna Grecia.

Un’altra versione vorrebbe che siano stati i cuochi alla corte dei Medici di Firenze a utilizzare il lievito di birra per migliorare la lievitazione del pane, e che questa pratica sia poi stata esportata in Francia da Maria de’ Medici, moglie di Enrico IV (Barbieri, 2006).

Successivamente si affinò la tecnica di cottura con la costruzione di forni internamente divisi in due parti: nella parte inferiore ardeva il fuoco, in quella superiore cuoceva il pane.

Dalla Mesopotamia e dall’Egitto, che erano state culla di civiltà dal Neolitico in avanti, il modello del pane cominciò a farsi strada in altre parti del mondo.

Secondo Strauss (2009), al tempo in cui gli storici collocano la guerra di Troia (ca. 1.200 a. C.), i Greci si nutrivano ancora di lenticchie e orzo tanto da osservare con meraviglia e invidia la piana di Troia coperta di messi di grano. Ma è solo la congettura di uno storico che tende a connotare di arretratezza la cultura alimentare e l’agricoltura greche, le cui caratteristiche generali si muovevano già attorno alle colture mediterranee: cereali, vite e olivo (Gallo, 1997) e “Per quanto riguarda i cereali, che hanno un ruolo di primo piano nel consumo alimentare (secondo una stima attendibile, forniscono il 70-75 per cento del fabbisogno calorico complessivo), ancora predominante in epoca classica […] è la coltivazione dell’orzo, che resiste meglio ai mutamenti climatici e assicura rendimenti più elevati” (Gallo, l.c.).

In realtà, la Grecia ha pochi terreni coltivabili e “La più limitata diffusione del frumento, che è il cereale più adatto alla panificazione […] è del resto sottolineata dalla marcata specializzazione regionale di tale coltivazione, che, ad eccezione della Tessaglia, appare per lo più tipica di aree situate al di fuori della madrepatria greca (la Libia, la Tracia e, soprattutto, il Ponto)” (Gallo, l. c.).

Disponiamo, però, di altre notizie che confermano che in Grecia si faceva uso di grano almeno tre secoli prima della guerra di Troia. Si tratta delle tavolette in Lineare B trovate a Pilo e Cnosso.

In “Una fondamentale tavoletta di Pilo [si] indica in quantità di semenza di grano” (Musti, 1989). Ritroviamo il pane e la focaccia in Aristofane (I Cavalieri, 424 a. C.), quando Salsicciaio dice ”E io giuro sui pugni e le coltellate che ho preso fin da ragazzo, che ti batterò invece, se no, inutilmente sarei cresciuto a tozzi di pane” e Demostene risponde“A tozzi di pane come un cane?” Poi, Paflagone dice a Salsicciaio: “Ti porto una focaccia impastata con l’orzo di Pilo” e Demostene “L’altro giorno avevo impastato a Pilo una focaccia laconia”. Per inciso, la focaccia laconia era fatta con grano comune (cfr. Plinio il Vecchio, l.c.).

Il nutrimento base della popolazione greca era costituito da cereali impastati con acqua e cotti per fare “polente” e minestre, oppure cotti direttamente sul fuoco in forme di pani e focacce.

Generalmente si accompagnavano a frattaglie cotte di animali, trippa arrostita in pentola; oppure a verdure crude o cotte condite con olio, insalata o formaggi. Da tutte le fonti (tra cui l’Odissea) risulta che nella Grecia antica si fece grande uso di frumento e di orzo.

I greci avevano ben 72 tipi di pane e il compito della panificazione era affidato alle donne, per divenire un lavoro maschile quando si cominciò a panificare di notte perché al mattino si potesse disporre di pane fresco.

Passando ad altre aree, nel Lazio, in piena età del ferro, non si coltivavano grani superiori a cariosside nuda ma orzo, il cui pappone sarà poi denominato polenta e, soprattutto, farro (far o adoreum) che in realtà era il Triticum dicoccum (Scrk.) e non il Triticum spelta (L.).come erroneamente è stato identificato da qualcuno (Pucci, l. c.).

Tuttavia, “poiché le due specie sono distinguibili con difficoltà all’analisi botanica, converrà limitarsi a dire che nei contesti più arcaici di Roma finora studiati (una ventina) farro e/o spelta assommano complessivamente al 58 per cento della produzione del Lazio tra X e VII secolo” (Pucci, l. c..) e, nonostante avessero a disposizione un territorio fertile per la coltivazione di cereali più pregiati, si dedicavano alla coltivazione del farro, da cui il termine farina per indicarne il prodotto di frantumazione. Carattere distintivo dell’agricoltura del Lazio, rispetto ad altre regioni, era la prevalenza dei cereali inferiori mentre in Etruria, per esempio,”si coltivavano le specie più nobili” (Pucci, l. c.). “Dovunque si poteva, diverse specie di cereali erano coltivate insieme [per] limitare il rischio di un cattivo raccolto [e] questo insieme di cereali, che comprendeva anche il miglio, il panico, l’avena e la segale (lo stesso che in età medioevale sarà chiamato mestura) costituiva la farrago” (Pucci, l. c.).

La farrago che, inizialmente, costituiva il cibo base dell’alimentazione umana, “col tempo decadde a foraggio per gli animali, e come tale viene trattata dagli scrittori de re rustica” (Pucci, l. c.).

Fino alla scoperta del maggese (tra VIII e VI secolo), le popolazioni del Lazio adottarono “i sistemi più elementari del «campo ad erba» ossia del campo abbandonato fino a che non ricostituisce la sua fertilità, o quello del debbio, per il quale si disbosca e poi si brucia il legno per fertilizzare la radura, coltivandola fino al suo esaurimento” (Pucci, l. c.).

Dalle focacce salate ricavate dalla farina di farro i Romani, a contatto con i greci, passarono al pane di frumento lievitato e costruirono i primi forni pubblici in cui lavoravano fornai greci portati a Roma come schiavi.

Ma “È noto tuttavia che per un lungo periodo i Romani si cibarono di puls e non di pane” (farinata ottenuta facendo bollire cereali macinati in acqua o latte, n. d. r.). e che “di tutti i cereali presso il popolo romano per 300 anni fu usato solo il farro” (Plinio il Vecchio, l. c.).

L’alimentazione antica di Roma e dei territori contermini era basata sui “cereali a cariosside vestita [che], per essere consumati, devono essere prima private delle glume. Perciò essi erano usualmente torrefatti” (Pucci l. c.) e “La preparazione della farina di farro […] presenta nella società arcaica un’importanza politico- sociale direttamente proporzionale all’importanza politico- religiosa di questo alimento” (Pucci, l. c. Si veda anche F. Toubert, 1973).

Per il suo carattere rituale, la preparazione della farina di farro era affidata alle Vestali, con un procedimento particolare: “I chicchi venivano prima torrefatti, poi battuti e infine macinati. Con la farina così ottenuta e il sale si preparava la mola salsa, indispensabile per ogni genere di sacrificio, immolare, ossia cospargere di mola salsa la vittima, divenne sinonimo di sacrificare” (Pucci, l. c.).

In febbraio si celebravano i Fornacalia, feste dedicate alla dea Fornax per celebrare la torrefazione del farro e l’immissione al consumo del prodotto dell’anno precedente (Pucci, l. c.), nota, anche, come Festa degli sciocchi “perché nei tempi antichi i coloni erano inesperti, tostavano troppo il farro e talvolta bruciavano anche le loro capanne” (Ferrari, l. c.).

Il farro da utilizzare per la semina non doveva essere tostato.

Nel mito di Ino, moglie di Atamante, si dice che abbia fatto tostare i chicchi destinati alla semina. Naturalmente il grano non spuntò e Ino fece accusare del misfatto, per sbarazzarsene, i figli di primo letto del marito, (Ferrari, 2008)

Per la panificazione, i romani utilizzavano due tipi di lievito.

Il primo consisteva di miglio mescolato al vino dolce e lasciato a fermentare per un anno, il secondo di crusca di frumento lasciata a macero per tre giorni nel vino dolce e poi fatta essiccare al sole (Plinio il Vecchio, l. c.).

In questo periodo erano già state messe a punto le macine di pietra di lava che si facevano ruotare con la forza motrice degli schiavi o degli animali. A Vitruvio si deve l’invenzione del mulino ad acqua ma la tecnica si diffuse solo dopo che Quinto Candido Benigno fece costruire in Francia otto mulini mossi contemporaneamente dall’acqua.

In epoca feudale i contadini, in cambio del lavoro nei campi, ricevevano una parte del raccolto ma erano obbligati a cuocere il pane nel forno del padrone.

Il pane del contadino era fatto con poca farina e molta crusca. Spesso venivano utilizzati cereali minori come il miglio e il pane destinato ai poveri si chiamava “pan rozzo”, mentre ricchi, nobili e “cittadini” consumavano carne e pane bianco di cereali.

Nel Medioevo, quindi, l’agricoltura comincia ad identificarsi con i cereali e questa scelta traccerà un preciso spartiacque che delinea lo status sociale.

Il frumento viene coltivato solo per i ricchi e i cittadini, per i poveri e i contadini vengono utilizzati in misura massiccia i cereali minori.

Questo non denota “la decadenza della coltura del frumento e il predominio assunto dai grani inferiori” (Montanari, 1979) ma rappresenta una scelta determinata dal fatto che la maggior parte della popolazioni è costituita dai poveri cui sono riservati la segale, il miglio, l’orzo e l’avena che, nei dati del polittico di Santa Giulia di Brescia, rappresentano il 72% delle riserve, con la segale che, da sola, occupa il primo posto con il 40% dei “grani” conservati (Montanari, l. c.).

Il sistema più diffuso di macinazione era quello romano con i mulini ad acqua e si dovette ricorrere a regole severe per tutelare i mugnai.

Coloro che utilizzavano i mulini dovevano pagare una tassa (tassa sul macinato). Il mugnaio doveva pesare il grano prima di macinarlo, restituire al proprietario la giusta quantità di farina e veniva retribuito in natura. Per assumere la qualifica di fornaio era necessario un lungo tirocinio come garzone e, raggiunta le necessaria esperienza, si doveva giurare davanti alle autorità di cuocere pane a sufficienza e di non barare sulla qualità e quantità di pane prodotto.

Ai garzoni competeva l’onere di trasportare il pane in una gerla e consegnarlo casa per casa e il consumatore era tutelato dall’obbligo del fornaio di produrre e consegnare pane ben cotto, pena un’ammenda in denaro e il risarcimento con un’altra infornata.

In giro per il mondo

Se il processo di panificazione ha raggiunto una certa standardizzazione (frantumazione di cereali, impasto, fermentazione, cottura), permangono ancora differenze, tanto in ordine agli ingredienti da cui si ricava la farina, quanto in alcuni valori simbolici.

Partiamo dalla definizione canonica del pane come prodotto ottenuto dalla lievitazione e cottura in forno di un impasto a base di farina di cereali e acqua, per avviare una riflessione.

La definizione proposta ha il vantaggio di un impatto immediato nel nostro immaginario ma, non v’è dubbio, che è tutta dentro una spirale culturale eurocentrica che afferisce al sistema di valori del mondo occidentale e non tiene conto che forme e modo di consumare il pane, sono il risultato delle risorse disponibili, dei rapporti sociali nelle diverse aree del mondo e rappresentano l’identità dei popoli e la loro storia,

Nel sud- est asiatico (India, Cina, Giappone) si fa uso di farina di riso, in Africa e nei Paesi Arabi farina di miglio o di sesamo, in Etiopia e in Eritrea farina di Teff (Eragrostis tef), nei paesi freddi del nord Europa farina di segale, in Mesoamerica farina di mais, quinoa, patata.

Queste differenze, sebbene riconoscibili nella tradizione, sono anche il risultato delle condizioni ambientali che hanno determinato l’elaborazione di specifici modelli alimentari.

L’uso del riso nel sud-est asiatico, non è una scelta determinata dalla maggiore diffusione e disponibilità di questo cereale ma trova le proprie ragioni nelle cause stesse che hanno determinato la domesticazione di questa pianta, qualche millennio dopo che nella Mezzaluna fertile era già stato domesticato il frumento.

Nel caso specifico, ma in tutti gli altri casi, prima di indagare sul processo di domesticazione, bisognerà indagare sui processi di selezione naturale che hanno determinato la struttura ecologica in un ambiente dato.

In altri termini se, per definizione, l’ecologia studia “tutte le relazioni o i modelli di relazione tra gli organismi e il loro ambiente” (Odum, 1988), l’azione antropica è preceduta dalla selezione naturale che determina la biocenosi di un ambiente dato.

Nel caso della Cina, l’agricoltura nasce e si sviluppa in un ambiente naturale difficile che ha richiesto grandi lavori di sistemazione e di bonifica.

La selezione è avvenuta sugli altipiani in cui predomina il loess che è “un suolo formato dall’accumulo millenario, durante il Pliocene, di sabbia e limo portati dal vento “ (Saltini, 2009)

V’è da aggiungere che “Il clima della regione del loess è quello tipico del monsone: d’estate i venti dell’Oceano portano precipitazioni copiose e continue, d’inverno spirano dalla Siberia venti freddi e asciutti” per cui si formavano “dopo le piene del monsone, isole galleggianti dalle quali dispiegavano i culmi” (Saltini, l. c.) di quelli che i paleobotanici hanno dimostrato essere i progenitori del riso, specie risultata vincente nella competizione con altre specie per l’adattamento a vivere nell’acqua.

La segale è il cereale più diffuso nel nord Europa, ma anche nell’Italia continentale, per la sua rusticità e perché adattato ai climi freddi..

Il Teff, cereale coltivato e utilizzato nell’alimentazione umana da 7.000 anni, è una pianta erbacea annuale che presenta semi di diametro inferiore a 1 mm e questo lo rende adatto alla vita seminomade delle popolazioni che ne fanno uso, dal momento che in una pugno si può trasportare un numero di semi sufficiente a seminare un intero campo.

Prima che fosse conosciuto il pane di frumento, nelle Americhe si consumava solo pane di farina di mais, cui si aggiungeva, nelle zone montane delle Ande, quello di farina di Quinoa (Chenopodium quinoa) che ha costituito un alimento base per quelle popolazioni, tanto che per gli Inca era la «chisiya mama» (madre di tutti i semi).

Dopo la conquista spagnola, la cultura andina dovette fare i conti con l’eurocentrismo cattolico che considerava sacro solo il pane di frumento, per cui la coltivazione della quinoa venne scoraggiata, se non proprio combattuta, fino a quando, anche l’ottuso fondamentalismo religioso, non dovette ammettere che l’ambiente andino è poco adatto alla coltivazione del grano, mentre la quinoa si avvantaggia dello sforzo di adattamento di migliaia di anni di storia evolutiva.

Nei momenti di crisi gli andini facevano ricorso a farina di patata, ottenuta con un procedimento singolare per ottenere quello che gli Inca chiamavano chuňu

Il procedimento consisteva nel lasciare le patate a gelare all’aperto e schiacciarle con i piedi al mattino per allontanare l’acqua. Il procedimento andava avanti per cinque giorni, finche il chuňu, completamente disidratato, poteva essere conservato integro o trasformato in farina bianca e leggera che poteva essere conservata per anni (von Hagen, l. c.), che è un bel risultato se consideriamo che “La patata fu messa al bando per tre secoli dagli europei, in quanto ritenuta causa della lebbra” (von Hagen, l. c).

Pane e conflitti

In questa rapida ricostruzione non vengono presi in considerazione i conflitti legati a momenti particolari della storia (economia di guerra) ma solo quelli che sono esplosi quando la disponibilità di pane è stata utilizzata come strumento di lotta politica e di repressione sociale.

A Roma, per esempio, l’istituzione dello schiavismo e la disponibilità di manodopera a basso costo, aveva indotto molti proprietari terrieri a trasformare i fertili territori del Lazio e di altre regioni italiane in orti e frutteti, per cui l’approvvigionamento di grano dell’impero dipendeva dalle province (Sicilia, Egitto, Africa).

Questo rendeva vulnerabile il potere centrale che, a partire dal VI secolo a. C. cominciò ad avere seri problemi di approvvigionamento e fu travagliato dallo spettro di carestie ricorrenti.

Nel 273 Firmo bloccò le forniture dall’Egitto per indebolire il potere di Aureliano.

Nel 397 in Mauretania, la ribellione capeggiata da Gildone ebbe come conseguenza immediata il blocco dei rifornimenti di grano e la conseguente carestia che mise in ginocchio l’impero.

Nel 409 Eracliano bloccò il rifornimento di grano per indebolire Prisco Attalo e nel 412 utilizzò lo stesso espediente contro Flavio Onorio.

Lo stesso farà nel 423 Bonifacio nei confronti di Primicerio.

In precedenza, quando il problema si era presentato, non erano mancate misure “illuminate” per venire incontro alle esigenze del popolo.

Nel 123 a.C. Caio Gracco aveva imposto il prezzo politico e la distribuzione gratuita ai poveri.

Augusto aveva istituito l’Annona per distribuire gratuitamente grano a circa centomila persone.

Queste misure, però, non portarono alla soluzione del problema e si rese necessario il sempre più frequente ricorso a cereali minori come orzo e segale e, qualche volta, piselli e fave.

Nei secoli successivi, la produzione di grano riprese con relativa abbondanza ma l’esplosione endemica della ruggine del grano (2) e della segale cornuta (3) riportarono di nuovo lo spettro della fame, parzialmente soddisfatta con le piante alimentari importate dalle Americhe.

Patate e mais posero fine alle carestie e furono alla base dell’esplosione demografica.

Ma altri conflitti erano in agguato.

Nel 1630 ci fu la rivolta dei milanesi che assaltarono i forni per procacciarsi grano e farina.

Nel 1748 Benedetto XIV emanò norme per la liberalizzazione del commercio, revocò alcuni privilegi delle classi egemoni ed emise un bando contro le privative.

Con l’Unità d’Italia e l’istituzione di una nuova moneta, il peso calmierato del pane fu fissato a 16 libbre e il prezzo a 20 centesimi al pezzo ma, nel 1868, l’istituzione di una nuova tassa sulla macina di 2 lire/quintale per il frumento e di 1 lira/quintale per il frumentone, vanificò la politica dei prezzi.

Tra il dicembre del 1868 e il gennaio del 1869, esplosero i “moti del macinato” finiti davanti ai fucili dei soldati che lasciarono “237 morti, 1099 feriti, 3.788 arrestati” (Foa, 1973).

Solo a S. Giovanni in Persiceto si contarono 10 morti.

A connotare, ancora, l’importanza del pane come alimento, vale ricordare il termine cumpanaticum con cui si indica ogni altro alimento che ne accompagna il consumo. Su questo binomio sono nate alcune espressioni popolari, come “mangiara pana e curteddu” (mangiare pane e coltello), usata dai braccianti meridionali per fornire un’immagine della propria povertà, sottolineata dalla mancanza di companatico, o ancora il proverbio contadino “col pane asciutto si fanno i bei bambini”, con la variante calabrese “Salute e pane asciutto”, amara consolazione dei poveri.

Conclusioni e un’appendice

Concludiamo qui la nostra storia per evitare il rischio di scivolare nell’aneddotica, ricordando che, se il cibo è linguaggio, il pane, cibo per antonomasia, si presenta con codici di comunicazione diversi, assumendo valori simbolici come il pane azzimo (Matzah) che gli Ebrei consumano per ricordare l’esodo dall’Egitto o come la complessa simbologia ancora riscontrabile nella tradizione calabrese. In Calabria si aggiungono- e questo giustifica la breve appendice proposta- oltre ai molti valori simbolici che afferiscono alla straordinaria ricchezza di capitale sociale che, attorno al pane, conserva una forte simbologia del dono attraverso lo scambio di pane o di pasta madre tra vicini, anche molti proverbi che aiutano a tracciare la storia dei subalterni.

Alcuni sono precetti come “Chi vô mangiàri pane e viviri vino simmina jermànu (segale) e chianta erbino (vite selvatica)” (Spezzano, 1992).

Altri esprimono lo stato di miseria dei poveri come “‘A casa ‘e pezzienti’un mancanu tozzi” (Caligiuri, 1999) che indicano anche l’ospitalità dei poveri e la loro capacità di adattamento perché “Chine ha pane e ‘jermanu ‘un more de fame” (Caligiuri, l. c.).

Altri ancora, sono espressioni di ribellismo sociale come “A chine te caccia llu pane, càcciacci la vita” (Caligiuri, l. c.), perché, come ebbe a scrivere Vincenzo Padula, “Il popolo calabrese è agricolo [] quando dunque gli mancano le terre irrompe violentemente nella Sila coi suoi strumenti rurali, o vi irrompe coi suoi strumenti da brigante” (Padula, 1878) e decide che è “megliu n’annu tauru ca cent’anni voe!” (è meglio un anno toro che cent’anni bue).

Il pane tradizionale in Calabria è identificato con due termini equivalenti: Pana ‘e casa o Pana casaloru. La valenza culturale del pane è evidente dalle tradizioni che si conservano e dal loro valore simbolico. Dal pane a cuddhura del periodo natalizio a quello pasquale, alla pitta ‘nchiusa, alla pitta collura per la commemorazione dei defunti, al pane di S. Antonio e a quelli che celebrano la nascita, il battesimo, il matrimonio.

Normalmente prodotto con farina di frumento tenero e duro, nei periodi di carestia si ricorreva anche a cereali minori come mais, orzo, avena, miglio, farro oppure a patate, castagne, ghiande o a prodotti ancora più poveri come il lupino e il grano saraceno, a riprova che la storia del pane in Calabria è anche storia della fame e della miseria delle popolazioni che hanno imparato a surrogare l’ingrediente principale con quanto la natura poteva offrire.

La fantasia femminile ha fatto il resto inventando il pane aromatizzato con sesamo, finocchio selvatico o peperoncino per fornire sapore e dignità al cibo dei poveri.

Dalle varie miscele di farina di cereali sono nati pani tipici come la pizzata di Nardodipace, il biscotto di grano di Reggio Calabria, il pane ai semi di finocchio di Serra S. Bruno, il pane di grano duro di Mangone, il pane con la giuggiulena (sesamo) di Reggio Calabria, il pane a cuddhura (ciambella) decorato con figurine a rilievo, la focaccia ai fiori di sambuco.

Il pane di Cutro e il pane di Donnici, pur nel passaggio dalla produzione artigianale a quella industriale, conservano caratteristiche organolettiche uniche ma il solo Pane di Cerchiara- è un nostro parere personale- conserva qualità non riproducibili, legate a tradizioni secolari sostanzialmente non modificate dalla nuova tecnologia di processo.

Per la lievitazione del pana ‘e casa si usa la pasta madre o pasta acida, conservata appositamente dalla panificazione precedente.

L’impasto consistente in farina, acqua, sale marino, pasta madre ed eventuali erbe aromatiche, si esegue in una vasca di legno detta maidda o maiddra.

Una volta formate le pagnotte, si stende la metà di una tovaglia sul timpagnu (piano di legno), si posano le pagnotte e si ricoprono con l’altra metà della tovaglia sulla quale si stende una coperta di lana per facilitare la lievitazione.

Segue un rituale religioso che consiste nell’imprimere su ogni pagnotta un segno a forma di croce e recitando: “Crisci, crisci pasta, comu nostru Signuri ‘nta la fascia”.

Finita questa operazione si imprimono tre segni di croce equidistanti sull’impasto rimasto nella maddra, si baciano una per una con la mano, facendosi ogni volta il segno della croce.

Per la cottura si usa legna di bosco del genere Quercus ma il pane più fragrante e aromatico si ottiene con rami secchi di olivo e di arancio.

 

Note

(1) Di norma, la datazione al radiocarbonio (14C), applicato a tutti i materiali trovati che lo contengono, si basa sul fatto che l’isotopo, decade molto lentamente a 14N, isotopo stabile dell’azoto. Il 14C si produce continuamente nell’atmosfera in un rapporto con il 12C pari a 1:1 milione. In 5.700 anni, il 50% del 14C diventa 12C ed è diventato troppo scarso nel reperto da analizzare. Il metodo più attendibile è quello di datarlo in base al rapporto tra 14C e 12C. Questo metodo si chiama “calibrato” e si va affermando l’uso di scrivere le date non calibrate in tondo e quelle calibrate in maiuscoletto. (Diamond, 2006).

(2) L’agente di malattia della ruggine del grano è il fungo Puccinia graminis, definito dai romani maxima segetum pest.

(3) L’agente di malattia della segale cornuta è il fungo Claviceps purpurea, responsabile dell’ergotismo. Dalle ife di questo fungo si è partiti per sintetizzare LSD.

 

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